SULL' ARTE DI SCRIVERE E COLLEZIONARE

 
"Per scrivere bene imparate a nuotare" è un libro di Giuseppe Pontiggia, scrittore, aforista, critico letterario e curatore editoriale, pioniere della cosiddetta scrittura creativa.
 
Già il titolo chiarisce che scrivere - per quanto sembri naturale - non è un atto spontaneo, ma "mediato dalla acquisizione di una tecnica", proprio come nuotare.

La tecnica del nuoto - come la tecnica della scrittura - "asseconda la natura, solo lo fa in un modo che non è immediato", e solo chi ha appreso la tecnica potrà poi trasferirla nello spazio degli automatismi - "la tecnica serve a dimenticarsi della tecnica" - per esprimere la sua arte "in modo spontaneo".

Ma è una spontaneità - quella dello scrittore - invariabilmente "mediata dalla retorica", quindi "una spontaneità acquisita attraverso un duro apprendistato": è la stessa spontaneità degli attori a cui il regista teatrale Stanislavskij imponeva di reggere dei libri sulla testa per abituarli a muoversi con naturalezza, cosicché "attraverso l'innaturalezza acquisivano il contrario".
 
Scrivere - in definitiva - è un'arte pratica, come nuotare, sciare o suonare il piano: si impara con l'esercizio continuo e l'imitazione degli esempi migliori.
 
Serve esercitarsi senza sosta - nulla dies sine linea, dicevano i latini - e abituarsi a lavorare a una frase "con la stessa precisione di un orefice", consapevoli che "uno scarto minimo, un errore di millimetri, produce conseguenze decisive"; e quindi serve imparare a vivere di inquietudini più che di compiacimento.
 
E poi c'è l'imitazione, basata sul saper leggere - leggere con intensità, finezza di analisi, autonomia di giudizio e fiducia nel proprio sentire, senza sudditanza psicologica, ma piuttosto con divorante invidia o annoiato disprezzo - per poter compiere passi sempre più sicuri sulla strada della buona scrittura.
 
Siamo lontani - come si vede - dall’idea di poter scrivere bene, in senso forte, con stile, semplicemente con quel che si è imparato a scuola; e ancor più distanti dall'illusione che scrittori si nasca, che il talento e l'ispirazione contino più di un severo apprendistato. "Non ho mai conosciuto nessuno che sia 'nato' scrittore" - ammonisce Pontiggia - "Ho conosciuto alcuni che lo sono diventati dopo un tirocinio molto duro, fatto di tentativi, scacchi, fallimenti, provvisorie esultanze e ricorrenti depressioni".

Eppure sono ancora in tanti a sottovalutare l'aspetto tecnico della scrittura, laddove nessuno si azzarderebbe a mettere in sordina i tecnicismi di altre forme creative come la pittura o la musica.
 
"Il materiale a cui il musicista dà forma è il suono, il pittore parla coi colori. Perciò nessun rispettabile profano, che parla solo con le parole, azzarda giudizi sulla musica o sulla pittura" - annota Karl Kraus -  "Lo scrittore dà forma a un materiale che è accessibile a tutti: la parola. Perciò ogni lettore azzarda giudizi sull'arte della parola. Gli analfabeti del suono e del colore sono modesti. Ma la gente che sa leggere non viene compresa fra gli analfabeti".
 
La linea d'argomentazione è spinta sino al paradosso.

"Il linguaggio è il materiale dell'artista letterario; ma non appartiene a lui solo, mentre il colore appartiene esclusivamente al pittore. Perciò si dovrebbe impedire agli uomini di parlare. La musica è più che sufficiente per i pensieri che la gente ha da comunicarsi. E' forse permesso che ci imbrattiamo continuamente gli abiti con i colori a olio?.
 
La menzogna culturale ha aumentato la distanza fra il pubblico e l'arte della parola ancor più di quella con le altre arti perché il pubblico è ben convinto, non già di poter sgorbiare con i colori che usano i pittori o fischiare le note che usano i musicisti, ma in compenso di poter parlare nel linguaggio che usano gli scrittori. 

Eppure potrebbe ancor più, per le stesse ragioni, sgorbiare e fischiare. Si vive a una remota distanza dal linguaggio e si crede, semplicemente perché parlare si può, che parlare si possa. Il rispetto per il linguaggio sarebbe maggiore se ci fosse anche una pittura quotidiana e una musica quotidiana, in modo che la gente si potesse raccontare a fischi e sgorbi quello che ha mangiato oggi".
 
Queste intelligenti provocazioni richiamano un punto fondamentale, se vogliono semplice, ma proprio per ciò dimenticato: chi scrive colloca le parole nella pagina, che è un ambiente artificiale, tutto da costruire e particolarmente fragile, e occorre perciò assimilare bene gli artifici e le convenzioni della parola scritta, se si vuole produrre un testo valido.



(Italo Calvino, "Collezioni di sabbia")
 
Cosa c'entra la scrittura con il collezionismo? Tutto. E non solo per il principio generale per cui nulla è estraneo al collezionismo - perché collezionare è un convocare tutte le proprie risorse, senza sapere a priori come si riveleranno utili alla collezione - ma perché ci sono così tante affinità logiche e tecniche tra la scrittura e il collezionismo, così tanti collegamenti strutturali, che viene da pensare a due attività isomorfe, in corrispondenza biunivoca. "Scrivere è un modo, a volte straordinariamente intenso, di vivere" - dice Pontiggia - "E vivere può essere anche un modo, indiretto o preparatorio, dello scrivere".  Proprio come collezionare, se ci si riflette.
 
I nessi tra scrittura e collezionismo sono stati accennati nell'introduzione al magnifico intreccio (tra la storia dei francobolli e i francobolli nella Storia), ripresi nella Seconda Conversazione sul Collezionismo ("Raccontare") e poi di nuovo nell'addendum alla presentazione della Collezione "Al di qua del Faro".
 
Questo post vuole ora ampliare e coordinare l'insieme delle annotazioni sparse per il Blog, per darne una rappresentazione organica che sia da bussola per orientarsi con rinnovata consapevolezza nella selva collezionistica.

 

Il "sapere" è intessuto di storie


Ripropongo la bustina di Umberto Eco - "Ecco l'angolo retto" - pubblicata sulla rivista "L'Espresso" del 28 aprile 2005.
 
"Una stagionata credenza vuole che le cose si conoscano attraverso la loro definizione. In certi casi è vero, come per le formule chimiche, perché certamente il sapere che qualcosa è NaCl aiuta chi sa qualcosa di chimica a capire che deve essere un composto di cloro e sodio, e probabilmente - anche se la definizione non lo dice esplicitamente - a pensare che si tratti di sale. Ma tutto quello che del sale dovremmo sapere (che serve a conservare e insaporire i cibi, che fa alzare la pressione, che si ricava dal mare o dalle saline, e persino che nei tempi antichi era più caro e prezioso di oggi) la definizione chimica non ce lo dice.
 
Per sapere tutto quello che del sale sappiamo, ovvero tutto quello che in fondo ci serve, noi abbiamo avuto bisogno non tanto di udire delle definizioni, ma delle 'storie'. Storie che, per chi poi del sale volesse sapere davvero tutto, diventano anche meravigliosi romanzi di avventura, con le carovane che vanno lungo la via del sale per il deserto, tra l'Impero del Mali e il mare, o le vicende di medici primitivi che con acqua e sale lavavano le ferite. In altri termini, il nostro sapere (anche quello scientifico, e non solo quello mitico) è intessuto di storie.
 
Il bambino, per imparare a conoscere il mondo, ha due vie: una è quella che si chiama apprendimento per ostensione, nel senso che il piccolo chiede che cosa sia un cane e la mamma gliene mostra uno (è poi un fatto miracoloso che al bambino sia stato mostrato un bassotto e il giorno dopo sappia definire come cane anche un levriero - magari esagerando per addizione e annoverando tra i cani anche la prima pecora che vede, ma difficilmente per sottrazione, non riconoscendo un cane come un cane). Il secondo modo non è la definizione, del tipo 'il cane è un mammifero dei placentalia, carnivoro, fissipede e canide' (immaginiamoci cosa se ne fa il bambino di questa definizione peraltro tassonomicamente corretta), ma dovrebbe essere in qualche modo una storia: 'Ti ricordi quel giorno che siamo andati nel giardino della nonna e c'era una bestia così e così'.
 
In effetti il bambino non chiede cosa siano un cane o un albero. Di solito prima li vede e poi qualcuno gli spiega che si chiamano così e così. Ma è a quel punto che sorgono i perché. Capire che sia un faggio che una quercia sono un albero non è un dramma, ma la vera curiosità sorge quando si vuole sapere perché sono lì, da dove vengono, come crescono, a che cosa servono, perché perdono le foglie. Ed è lì che intervengono le storie.
 
Il sapere si propaga attraverso storie: si pianta un seme, poi il seme germoglia eccetera eccetera. Anche la vera 'cosa' che i bambini vogliono sapere, e cioè da dove vengano i bambini, non può essere detta che sotto forma di storia, vuoi che sia la storia del cavolo o della cicogna, vuoi che sia quella del babbo che dà un semino alla mamma. Sono tra coloro che ritengono che anche il sapere scientifico debba prendere la forma di storie e cito sempre ai miei studenti una bella pagina di Peirce in cui per definire il litio si descrive per una ventina di righe che cosa bisogna fare in laboratorio per ottenere del litio. La giudico una pagina molto poetica, non avevo mai visto nascere il litio, ed ecco che un giorno ho assistito a questa lieta vicenda, come se fossi nell'antro di un alchimista - eppure era chimica vera.
 
Ora l'altro giorno l'amico Franco Lo Piparo, in una conferenza su Aristotele, ha attirato la mia attenzione sul fatto che Euclide, padre della geometria, non definisce affatto un angolo retto come un angolo che ha 90 gradi. A pensarci bene, ecco una definizione certamente corretta ma inutile per chi o non sappia cos'è un angolo o non sappia cosa sono i gradi - e spero bene che nessuna mamma rovini il proprio bambino dicendogli che gli angoli sono retti se hanno 90 gradi. Ecco come si esprime invece Euclide: 'Quando una retta, innalzata su una retta, fa gli angoli adiacenti uguali tra loro, ciascuno dei due angoli uguali è retto, e la retta innalzata è chiamata perpendicolare a quella su cui è innalzata'. Capito? Vuoi sapere che cosa è un angolo retto? E io ti dico come farlo, ovvero la storia dei passi che devi fare per produrlo. Dopo lo avrai capito. Tra l'altro, la storia dei gradi puoi impararla dopo, e in ogni caso solo dopo che avrai costruito quel mirabile incontro tra due rette.
 
Questa faccenda a me pare molto istruttiva e molto poetica e rende più vicini l'universo della fantasia, dove per creare storie si immaginano mondi, e l'universo della realtà, dove per permetterci di capire il mondo si creano storie".
 
Il nostro sapere - qualunque esso sia - è intessuto di storie, si assimila e si trasmette attraverso storie, e sono storie da congegnare con stile: si può costruirle sui fatti e sul ragionamento, come avviene nella saggistica, che parla alla "testa" del lettore, oppure si può impostarle sulle emozioni, come fa la narrativa, che parla principalmente alla "pancia" del pubblico.
 
Se il collezionismo (filatelico) è studio, conoscenza e ricerca - come molti amano ripetere, per darsi un tono - allora a poco o a nulla serve studiare, ricercare e conoscere, se poi tutto questo travaglio intellettuale non prende la forma sistematizzata e coerente propria di una storia (sia essa costruita con lo stile della saggistica o della narrativa).
 
Il sapere che non si trasforma in storie - quel sapere che si limita restituirci la formula chimica del sale, o a informarci della misura di un angolo retto - è sterile e forse addirittura pericoloso, per quel senso di superiorità illusoria che può suscitare in chi lo possiede.

 

Collezioni e romanzi:

un mondo dentro il mondo


Muoviamo dalla bella e poetica conclusione di Umberto Eco - che avvicina "l'universo della fantasia, dove per creare storie si immaginano mondi, e l'universo della realtà, dove per permetterci di capire il mondo si creano storie" - e colleghiamola all'accoppiata domanda-risposta di Marco Belpoliti: "Cos'è in definitiva una collezione? Un mondo dentro il mondo".

Riecheggia ovunque una molteplicità di mondi - il mondo reale, il mondo della pagina, il mondo degli oggetti, il mondo della collezione - e serve capire in quale relazione stiano tra loro tutti questi mondi.

Guardate la vita, la vostra vita quotidiana, nel mondo reale. Gli eventi sono per lo più fuori dal vostro controllo, li subite nel loro accavallarsi, e tra un giorno e l'altro c'è sempre un punto interrogativo, quando non c'è un burrone. E voi siete lì, a regolarvi come potete, in teoria al meglio delle possibilità, in pratica per tentativi ed errori, a volte a intuito e istinto, altre con ragionamenti lucidi ma inevitabilmente approssimati, altre ancora sull'onda dell'emotività, e comunque sempre pronti a cambiare idea, a invertire direzione di marcia, senza sapere se la vostra scelta si rivelerà vincente, o se avrete a pentirvene sino all'ultimo dei vostri giorni. E nuovi eventi sono già all'orizzonte, pronti a scombinare ogni calcolo, a farsi beffa di ogni previsione. Ognuno di noi - citando Shakespeare - "non è che un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora", e la nostra vita, nel mondo reale, è solo "una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla".

E ora guardate la vita dei personaggi di una storia, nel mondo della pagina. Riesaminate tutte le storie che conoscete, da "Cenerentola" e "Biancaneve sino a "Romeo e Giulietta", "Macbeth", "I promessi sposi", "I miserabili", "Madame Bovary", "Il fu Mattia Pascal". Pensate a questi mondi immaginari, usciti fuori dalla fantasia dei loro autori, che in vario modo traggono ispirazione dal mondo reale, ma sono poi impostati su sequenze logiche e precisi nessi di causa-effetto, con l'obiettivo di restituire al lettore un messaggio ricco di significati, un insegnamento che risuoni con la sua anima. Persino i cosiddetti "colpi di scena" - se spogliati della prima impressione e analizzati col tecnicismo della narratologia - si rivelano per quel che sono: non già eventi imprevisti e imprevedibili, ma situazioni a cui l'autore ha pensato sin dal principio, e di cui ha perciò gettato le basi lungo tutta la storia, definendone le necessarie premesse, per renderli coerenti.

Gli eventi accadono e basta, nella realtà. Gli eventi hanno un significato e uno scopo, all'interno della narrazione. Si dice - in questo senso - che il Demone del Caso domina la realtà, il Principio di Necessità governa le storie, che "la vita può sbagliare, l'arte no", con l'efficace slogan di Pontiggia.

Così, se la vita nel mondo reale è "una favola raccontata da un idiota, che non significa nulla", la vita nel mondo delle storie si ispira sì alla realtà, ma poi l'oltrepassa, per definire un filo conduttore tra gli eventi, per proporre dei contenuti che stimolino nel lettore delle riflessioni su sé stesso, sulla vita, sul mondo.

Trasferiamoci ora nel mondo del collezionismo.

Visitate il portale Philasearch, e selezionate tutti i francobolli degli Antichi Stati Italiani proposti in vendita. Oggi - giovedì 2 maggio 2024 - ce ne sono oltre 9.000 e ne trovereste grosso modo altrettanti, in qualunque giorno voleste eseguire la ricerca. Che caos! E' un insieme eterogeneo e destrutturato, privo di significato. E' il mondo degli oggetti.


E ora sfogliate l'album che custodisce la vostra collezione. Se è come dovrebbe essere, se avete in mano un libro che racconta una storia attraverso degli oggetti, allora ogni pezzo ha un ruolo e un obiettivo, occupa un posto in una sequenza coerente, è interconnesso con tutti gli altri pezzi, e tutto l'insieme appare come la manifestazione di una volontà precisa. E' il mondo della collezione.


Ma da dove proviene il mondo rigoroso della collezione? Dal mondo caotico degli oggetti, proprio come le finzioni delle storie si ispirano alla vita reale.

Nell'uno come nell'altro caso, nelle collezioni come nelle storie, si propone una realtà depurata dal rumore, resa elegante e coinvolgente. La "favola raccontata da un'idiota", che "non significa niente", si trasforma in un mondo a sé, e magari in un mondo non c'è più, come le Due Sicilie a cavallo dell'unità d'Italia, che rivive nel mondo di oggi, all'interno delle pagine di un album.

Lo scrittore e il collezionista abitano così la stessa volontà, lo stesso sogno: trasformare lo scorrere della propria esistenza in una serie di righe scritte, o in una serie d'oggetti salvati dalla dispersione, da cristallizzare al di fuori del flusso continuo della vita.


Collezionare e scrivere:

qual è l'unità comunicativa?


Un testo narrativo è formato da capitoli; ogni capitolo è una sequenza di scene (segmenti della storia); ogni scena è composta da frasi e le frasi si costruiscono con le parole.

Alla base di tutto - quindi - sembrano esserci le parole: tutto sembra provenire dalla singola parola, l'unità elementare per la costruzione di ogni scrittura.
 
Ne siamo proprio sicuri? Diverse e autorevoli opinioni ci mettono in guardia contro l'ingenuità di vedere l'unità comunicativa nella singola parola.   
 
"Secondo alcuni linguisti radicali, la parola isolata non esiste. E' una pura finzione dei dizionari" - osserva Pontiggia - "Io sono d'accordo. Nella comunicazione, orale o scritta, la parola è sempre inserita in un contesto da cui prende un significato circoscritto. Il bambino apprende sempre le parole dentro il flusso di un discorso".
 
"Le parole non sono la realtà del linguaggio, le parole - sciolte - non esistono" - scrive Borges - "Croce nega le parti del discorso e asserisce che sono un’intromissione della logica, un’insolenza. Il discorso (spiega) è indivisibile e le categorie grammaticali volte a scomporlo sono astrazioni che si applicano alla realtà".

"Per quanti sforzi possa fare il vocabolarista, la raccolta di parole che offre al pubblico è sempre qualcosa di astratto dalla lingua reale" - annota Prezzolini - "La parola staccata si può dire che non esista; ed anche quando la adoperiamo staccata è l'abbreviazione di una frase, di un giudizio che afferma o nega. Quando i Greci di Senofonte dopo la lunga traversata dell'Asia Minore in ritirata fra mille una molestia giungon a vedere la striscia azzurra del mare e gridano 'Thalassa!' intendono dire mille cose: "Ecco il mare, ecco vicina la Grecia, siamo a casa etc.'. Ogni parola prende un'infinità di significati, a seconda delle altre con le quali viene unita".
 
Ancora Prezzolini: "la parola è irraggiungibile dal dizionario... la parola è come la farfalla; si può far raccolta di farfalle, e classificarle con dei cartellini, a patto di ammazzarle con uno spillo. E non si è sempre sicuri di conservarne la polverina che dà colore talora prodigioso alle ali; colore che si mostra solo quando c'è la luce; ed è diverso secondo la luce".
 
Se le parole non sono la realtà del linguaggio, se ogni parola è sempre inserita in un contesto da cui prende un significato circoscritto, e se quindi la stessa parola può avere un'infinità di significati, a seconda delle altre con le quali viene unita, dovremmo allora rimodulare l'unità comunicativa sulla frase, se non sul capoverso, o addirittura sulla scena, e allo stesso modo dovremmo ragionare con riguardo alla nostra collezione.
 
Il singolo oggetto filatelico - "in vitro", isolato dal resto - non è una realtà del collezionare, e quasi non esiste: è una pura finzione dei cataloghi. Ogni oggetto si inserisce sempre in un contesto - una pagina d'album, a sua volta inserita nella collezione - da cui prende un significato specifico e circoscritto, cosicché ha tanti significati quanti sono i contesti in cui lo si può potenzialmente collocare. Lo conferma quel singolare e ineguagliabile collezionista che è stato Saverio Imperato: "la stessa lettera vista da due persone diverse, può raccontare cose differenti. Dipende dalla cultura, dalla capacità di capire, di impostare nuovi orizzonti".

Attenzione quindi a non lasciarsi sviare, a non confondere gli apprezzamenti mirati, le valutazioni tecniche stand-alone sul singolo oggetto, con un giudizio di accettabilità sul suo ingresso in collezione, con la capacità dell'oggetto di parlare all'interno dell'album in cui va a inserirsi.

Perché la "coscienza del significato delle parole non significa poi capacità di scrivere e di pensare" così come "aver la coscienza e la scienza del nostro stomaco non vuol dire che esso digerisca bene", e talvolta persino i migliori "autori di dizionari e conoscitori di parole non furon che mediocri autori", nella lucida analisi di Prezzolini. E allo stesso modo, in filatelia, i migliori e più celebri conoscitori di francobolli, magari autori di testi eccellenti, non furono alla fine che collezionisti mediocri.

 

Collezionare e scrivere:

l'economicità dello stile

 
 
Giuseppe Pontiggia raccomandava "la economicità dello stile" nella stesura dei propri testi, "un rapporto equilibrato e funzionale tra fini e mezzi, tra l'effetto che si vuole ottenere e le parole e la costruzione che si scelgono".

La scrittura vigorosa è concisa, risponde a un principio di minimo: una frase non deve contenere parole inutili, né un capoverso frasi superflue, per la stessa ragione per cui un disegno non deve contenere linee inutili, né una macchina parti non necessarie. Non che  tutte le frasi si debbano rendere brevi, ma semplicemente - in una frase ben congegnata, in un testo ben fatto - ogni parola deve contare.

E la collezione? La collezione è una storia raccontata attraverso gli oggetti, e come accade alle storie della narrativa - e in ogni altra arte - anch'essa deve sottostare alla economicità dello stile: il messaggio - fatto salvo il contenuto - va trasmesso col minor numero di oggetti possibili, da scegliere con estrema attenzione: ogni oggetto deve pesare.

"Questi due quadretti raffiguranti sale della Reggia di Napoli al tempo di Murat, appesi in casa mia, sembrano come prolungarne magicamente l'estensione, sicché quelle stanza in miniatura in cui io non penetro che con la fantasia finiscono per essere non meno reali per me delle stanze vere e proprie. E' come se aprissi una porta segreta, nella camera dove vivo, e m'inoltrassi in un palazzo abbandonato, quasi in una mia seconda casa dagli ombrosi lacunari che non echeggiano più di voci umane".
 
Le parole di Mario Praz rendono perfettamente l'idea di un mondo dentro il mondo, e soprattutto la necessità di costruirlo con economicità, ché alla fine bastano "due quadretti" - ben scelti e presentati nel giusto ordine - a "prolungarne magicamente l'estensione", a creare un mondo che, pur incompleto e imperfetto, spalanca "una porta segreta" verso "una mia seconda casa dagli ombrosi lacunari che non echeggiano più di voci umane".

 

Collezionare e scrivere:

se non guadagno, perdo

 
Pontiggia lavorò da ragazzo in una banca, un'esperienza per lui negativa - sul piano umano ancor prima che professionale - che tuttavia gli ispirò il suo primo romanzo - emblematicamente intitolato "La morte in banca" - e gli consegnò un'intuizione decisiva in materia di scrittura.

"Se non guadagno, perdo", ripeteva il suo capo, e lui traslò quell'affermazione di fredda contabilità aziendale all'arte dello scrivere. "Se non guadagno, perdo", come a dire che non esistono parole o frasi innocenti, neutre. Ogni intervento sul testo - in aggiunta o in sottrazione - ha delle conseguenze: migliora o peggiora la narrazione, a seconda dei casi, ma non la lascia invariata, e se non si guadagna - in forza espressiva - allora si è perso qualcosa.

La stessa dinamica caratterizza l'inserimento o la rimozione di un oggetto in collezione: il potere evocativo dell'insieme viene comunque alterato, il suo l'impatto emozionale cambia, e se non aumenta, allora diminuisce.
 
La collezione è come il testo: un'ecosistema sensibile alla pur minima sollecitazione esterna. Valutate con attenzione maniacale ogni vostra azione.

 

Collezioni e romanzi:

protagonisti, luoghi e comparse


In ogni storia vi sono protagonisti, antagonisti e comparse, che agiscono in vari luoghi e situazioni per conseguire i propri obiettivi, dando origine a scene drammatiche, a momenti di flessione e a nuovi picchi emotivi, in un alternarsi di emozioni scandite dai tempi propri della narrazione. Non tutto ha la stessa importanza in una storia, ma sicuramente tutto è importante - e deve essere adeguatamente valorizzato - in una storia ben fatta.
 
Pontiggia è cristallino nel comunicarlo: "non dovrebbero esserci parti che abbiano, da un punto di vista espressivo, l'alibi della funzionalità strutturale. Uno scrittore non è mai obbligato a scrivere in modo frettoloso e generico da ragioni di struttura. E' un pregiudizio molto diffuso che lo scrittore debba fare concessioni alla struttura, ma nessuno lo può costringere a perdere di qualità, di intensità, di forza, nel suo percorso. Parti strutturali che siano esentate dall’espressività, non ne esistono. Quando esistono vuol dire che si tratta di un difetto".
 
Cosa sia "l'alibi della funzionalità strutturale" lo si vede nell'atteggiamento degli scrittori pigri verso la creazione dell'ambientazione: "uno scrittore può avere l'intenzione di ambientare l'azione in un paesaggio, in una cornice, e provare insofferenza a descrivere questa cornice. Alcuni risolvono il problema dicendo: 'Bene, io devo arrivare a un certo dialogo. Lo colloco in una cornice che tratteggio in modo approssimativo e frettoloso. È un punto di passaggio, un tessuto connettivo al quale non occorre dare importanza espressiva'. Questo è un errore. Bisogna provare per la cornice lo stesso interesse che si prova per il dialogo e quindi, se non lo si prova, bisogna pensarci, lavorarci, finché la cornice non acquisti lo stesso rilievo del dialogo. Allora, se due si incontrano in un bar, non posso non dare rilevanza espressiva all'ambiente del bar, che dovrebbe essere 'interno' all'azione".

Avere un luogo "interno all'azione" è un requisito tecnico precisabile con un esempio elementare.

Valeria sospetta che la sua amica e collega Laura abbia una storia con suo marito. Laura ha intuito i sospetti di Valeria. Non sappiamo se Laura abbia o no una storia col marito di Valeria, fatto sta che le due donne sentono entrambe la necessità di parlarsi.

Dove le facciamo incontrare per chiarirsi, in quale luogo?
 
Chi non sa scrivere la fa semplice. Che è importa del luogo? Il luogo è solo uno sfondo d'ambientazione. Possono parlarsi al telefono, per strada, in ufficio, in palestra... non ha importanza! E' solo il dialogo a essere rilevante. Godetevi il dialogo e non pensate al luogo.

Uno scrittore sa che le cose sono più complesse. Il luogo è (come se fosse) un personaggio, che interagisce con i personaggi propriamente detti, ne condiziona le possibilità espressive e crea ogni volta una scena diversa che indirizza diversamente la storia.

Le due amiche si chiariscono in ufficio, alle macchinette del caffè. Questo è un luogo a "bassa temperatura". Nessuna delle due vuol dare spettacolo, fare la figura della pazza o diventare oggetto del gossip dei colleghi nelle settimane successive. Il dialogo avrà un tono e un contenuto mediato dal luogo in cui si svolge, coerente con il luogo, e le azioni stesse delle due donne saranno limitate dal luogo in cui avvengono.

Le due amiche si chiariscono nello spogliatoio della palestra, magari dopo un duro allenamento che le ha sovraeccitate. E magari era l'ultima seduta del turno serale, per cui organizziamo le cose in modo che nello spogliatoio ci siano solo loro due. Siamo in un luogo ad "alta temperatura". Il dialogo può essere più aspro, diretto, così come - per dire - una delle due potrebbe lanciare un asciugamano in faccia all'altra in segno di rabbia. La scena è completamente diversa e condiziona in modo decisivo il seguito della storia.
 
"E' un pregiudizio molto diffuso che lo scrittore debba fare concessioni alla struttura, ma nessuno lo può costringere a perdere di qualità, di intensità, di forza, nel suo percorso", ammonisce Pontiggia, e possiamo senz'altro traslare l'osservazione alla pratica del collezionismo: è un pregiudizio diffuso che il collezionista debba o possa fare concessioni su alcuni aspetti strutturali della collezione - presentazione, scelta del logo, disposizione degli esemplari nelle pagine, selezione dei pezzi di minore importanza - ma nessuno lo può costringere a perdere di qualità, di intensità, di forza, nel suo percorso collezionistico.
 
E ancora: "Bisogna provare per la cornice lo stesso interesse che si prova per il dialogo e quindi, se non lo si prova, bisogna pensarci, lavorarci, finché la cornice non acquisti lo stesso rilievo del dialogo". Allo stesso modo bisogna provare per tutto ciò che a vario titolo concorre a formare la collezione lo stesso interesse che si prova per i pezzi più rilevanti e appariscenti che attirano subito l'attenzione, e se non lo si prova, allora si ha un chiaro segnale che le cose non stanno procedendo come dovrebbero.
 
Collezionare - come scrivere - significa aver cura di ogni singolo elemento, fosse anche la semplice cornice, affinché ogni elemento acquisti il suo ruolo nel valorizzare l'insieme e, al tempo stesso, ne sia valorizzato.

 

Collezionisti e scrittori:

solo per sé stessi?


"C'è una sola cosa che si scrive solo per se stesso, ed è la lista della spesa. Serve a ricordarti che cosa devi comperare, e quando hai comperato puoi distruggerla perché non serve a nessun altro. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno".
 
Umberto Eco è abrasivo verso quella vasta schiera di scrittori che - con falsa umiltà - affermano di scrivere solo per sé stessi.
 
"Nessuno scrive solo per sé" - conferma Pontiggia - "Lo dice qualche esordiente, mentre ti consegna il manoscritto e aggiunge di averlo scritto solo per sé. Ma si smentisce nel momento stesso in cui parla e ti dà appunto il manoscritto".
  
La letteratura ha presupposto un pubblico sin dalle origini, e per quanto il rapporto tra lo scrittore e il suo pubblico sia diventato complesso, la letteratura ha comunque preservato il suo carattere transitivo, di uno speciale mezzo espressivo per convincere attraverso le emozioni, nel presupposto che la drammatizzazione colpisce più della dimostrazione.
 
C'è sempre un pubblico, quando si scrive, anche quando ciò che si scrive resta nel cassetto, tra le carte private dell'autore. Anche quando si scrivono testi che non si faranno mai leggere a nessuno - anche in questo caso, invero estremo - si scrive comunque per qualcun altro, "per quel sé ideale che converge con gli altri", per "quel sé che si aspetta dal testo non quello che sa, ma qualcosa di più", ci dice Pontiggia.

E' un punto di vista - una prospettiva su cosa sia un testo narrativo, su come vada concepito e realizzato - che si accorda naturalmente con l'animo e il vissuto di un collezionista, col suo modo di immaginare e concretizzare la collezione.
 
Il collezionismo è un atto espressivo - uno dei modi più sicuri per capire sé stessi - e collezionare è un'operazione comunicativa (con un carattere speciale nel collezionismo filatelico, perché gli oggetti postali insistono già in origine su situazioni di per sé comunicative).  
 
Il fatto è ovvio per i collezionisti-espositori, che amano mostrare la loro opera per averne in primis il giudizio dei giurati e più in generale di un pubblico indistinto. Per loro, per i collezionisti-espositori, è ovvio collezionare in accordo con un codice comunicativo a cui si sforzano di conferire grande precisione tecnica, per veicolare i propri messaggi con la massima efficacia.
 
Ma se pure si volesse spogliare la spinta a collezionare dai camuffamenti esteriori, per dare risalto a una psicologia più sottile - all'affermazione della propria identità, come dovrebbe sempre essere - la dimensione comunicativa non verrebbe meno.
 
Anche i collezionisti che "raccolgono unicamente per sé stessi e non amano dividere con altri il godimento che ricavano dalla pagine del loro album" - per dirlo con la prefazione alla Collezione "Scilla e Cariddi" - stanno comunque collezionando "per quel sé ideale che converge con gli altri", che si aspetta dalla collezione non quello che già sa, ma qualcosa in più.

 

Collezionisti e scrittori:

come Dio nella creazione


"Lo scrittore deve essere come Dio nella creazione: invisibile e onnipotente, presente dappertutto, ma visibile in nessun luogo, bisogna percepirlo ovunque e non vederlo mai".

Gustave Flaubert è categorico nel definire l'operare artistico di uno scrittore: in una narrativa ben fatta esistono solo i personaggi e le loro storie, da esibire sulla pagina come se fossero reali, lasciando libero il lettore di intrpretare da sé quel che avviene in ogni situazione, senza imporgli o anche solo suggerirgli dall'esterno una visione prefabbricata del mondo.
 
Lo scrittore Jack London lo conferma. "Devi scordarti di te stesso. E allora il mondo si ricorderà di te. Ma se non ti danni e non ti scordi di te stesso, allora il mondo si turerà le orecchie per non sentirti. Riversati tutto nel tuo lavoro fino a che il tuo lavoro non diventi te stesso, senza però che ti si veda da nessuna parte".
 
E la stessa indicazione ce la fornisce V. S. Naipaul. "Voglio che la mia prosa sia trasparente, non voglio che il lettore mi inciampi addosso. Voglio che veda oltre quello che sto dicendo, che veda quello che sto descrivendo. Non voglio che dica mai 'Oh, buon dio, come è scritto bene!'. Sarebbe un fallimento".
 
Lo scopo della narrativa - in definitiva, con le parole di Ford Madox Ford - è "prendere il lettore, immergerlo nella vicenda così a fondo da renderlo inconsapevole sia di stare leggendo sia dell'esistenza di un autore".

L'invadenza dello scrittore nel mondo della pagina - al modo di Omero, che dice al lettore cosa pensare di ogni personaggio, o di Manzoni, che scende dal cielo per commentare la storia - è un problema grave per un'opera che ambisca a essere considerata buona narrativa moderna. "Molti romanzi sono seriamente danneggiati dalle sciatte intrusioni dell'autore", annotava già Wayne Clayson Booth, con un'evidente inclinazione polemica.
 
L'autore è sempre presente - ovvio: è lui a scrivere la storia - ma è si mostra in modi discreti e raffinati, come responsabile del tipo di personaggi a cui dare vita, del tono generale della vicenda, della selezione dei dettagli su cui impostare la scrittura, e di tutte le altre scelte stilistiche che lo caratterizzano e permettono di distinguere una sua opera da quella di un altro autore (anche se entrambi seguono gli stessi principî e applicano le stesse regole).
 
Se la narrativa è l'arte di far esclamare al lettore "io c'ero, io ero lì"; se quest'arte inizia solo quando lo scrittore smette di pensare alla storia come a degli eventi da raccontare dall'esterno, per concepirla come un flusso di vita che si racconti da solo; se la scrittura deve essere così chiara, precisa e vivida da risultare trasparente, sparire dalla percezione del lettore, per fargli dimenticare di stare solo leggendo delle parole e immergerlo nel mondo narrativo come fosse reale - la storia "deve sembrare vera, e questo è tutto", con le parole di Lubbock - se tutto ciò è indice di un testo ben scritto, non può forse dirsi lo stesso per le collezioni?
 
Se la collezione è che un mondo dentro il mondo, cos'altro deve fare il collezionista se non creare un mondo così credibile e avvolgente, un sogno così vivido, da far dimenticare che dietro c'è lui - il collezionista che lo ha creato - per lasciare l'intero spazio all'emozione di chi l'osserva? Lo spettatore deve essere così immerso nel mondo della collezione, da non accorgersi nemmeno dell'esistenza del collezionista. E questo è tutto.
 
Quando invece il collezionista non ha uno stile e un gusto, quando attira l'attenzione su di sé e la distoglie dalla storia, quando la sua mano trema nel filtrare i pezzi, eccolo apparire tra una pagina e l'altra dell'album, con la sua vita, le sue insicurezze, i suoi compromessi, i suoi colpi di genio e di fortuna, i suoi scivoloni e le sue pescate - "qui ha assecondato la sua natura", "qui l'ha violentata, pur di mettere il pezzo in collezione", "qui doveva essere in un periodo economicamente felice, perché il pezzo è al tempo stesso bello e raro" - anziché lasciare che siano gli oggetti - e solo gli oggetti - i protagonisti indiscussi delle pagine, e che lo spettatore non abbia altre emozioni e riflessioni se non quelle suscitate dagli oggetti.
 
Nel Gran Libro del Collezionismo potrà forse esserci spazio per un capitolo sulle brodaglie informi, da sfogliare nelle ore dell'indolenza o negli anni della pensione. 
 
Ma non non sarò io - non qui, non in questo Blog - a incoraggiare i collezionisti a rilassare i loro standard, ad assecondare le loro pulsioni mutevoli e incerte, a mescolare pezzi di ogni pregio e qualità, in virtù di un malinteso diritto a collezionare come gli pare.


Collezioni e romanzi:

quando la creatura ne sa più del creatore

 
C'è un dubbio persistente che paralizza gli scrittori alle prime armi: ma ormai non è già stato detto e scritto tutto?
 
Pontiggia invitava a ribaltare l'idea. "Io penso che la frase 'tutto è già stato detto' vada rovesciata nel suo contrario. Per uno scrittore 'niente è già stato detto'. Almeno di quello che vorrebbe dire lui. Il suo atteggiamento è semmai di pensare: 'Quello che io sto per scoprire attraverso il linguaggio non lo ha mai detto nessuno prima di me'. Io penso che questo sia vero. E trovo radicalmente falso che tutto sia stato detto".
 
Perché scrivere - qui è il punto capitale - non è semplicemente trascrivere ciò che già si conosce o si è pensato - e che altri, inevitabilmente, hanno conosciuto e pensato prima di noi - ma è lavorare sulle proprie conoscenze sino a scoprire sulla pagina quel che non si sapeva di pensare. "Scrivere non è mai trascrivere. E' inventare, ossia trovare, invenire, attraverso le parole. E' conoscere attraverso il linguaggio delle parole".
 
Scrivere è pensare con la penna, perché la testa sa poco di ciò che la mano scrive, e deve scoprire quel che la penna vuol dire, all'interno di un "percorso di cui si conosce il punto di partenza, ma non di arrivo; e in cui la progettazione partecipa dell'avventura", cosicché "il narratore 'scopre' alla fine quello che ignorava di sapere e che però è riuscito a raccontare, così la scrittura dovrebbe essere".
 
Scrivere vuol dire creare un testo che ne sappia più del suo autore, perché un testo fatto bene - progettato correttamente e realizzato a regola d'arte - "va oltre i programmi, le previsioni, il sapere stesso dell'autore. Altrimenti non varrebbe la pena scrivere".
 
Chi scrive si colloca ovviamente in un rapporto di continuità con la tradizione, con gli autori che lo hanno preceduto, di cui deve tener conto e a cui si è in varia misura vincolato, ma il punto rimane: la scrittura è "un filtro attraverso cui le idee trovano una nuova identità: ossia acquistano una loro insostituibile energia, vitalità, forma", e per questa via concorrono ad ampliare le prospettive.
 
Per tutto ciò, se non si ha la sensazione forte di scoprire qualcosa di nuovo grazie alla scrittura, e se di conseguenza non si prova curiosità per ciò che sta accadendo sulla pagina, "significa di solito che hai imboccato un vicolo cieco, che stai replicando te stesso, che stai ripetendo quello che sai già"; e se lo scrittore non è il primo a emozionarsi per la sua storia, non può certo illudersi che un lettore provi emozione per procura.

Non sorprende ritrovare la stessa logica nell'approccio alla gemella della scrittura, vale a dire la lettura. "Uno dei malintesi che dominano la nozione di biblioteca è che si vada in biblioteca per cercare un libro di cui si conosce il titolo" - ci stuzzica Umberto Eco - "In verità accade sovente di andare in biblioteca perché si vuole un libro di cui si conosce il titolo, ma la principale funzione della biblioteca, almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di scoprire dei libri di cui non si sospettava l'esistenza, e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza per noi".
 
Possiamo tradurre l'intera linea dell'argomentazione nei termini propri del collezionismo, e converrà muovere dalla Quinta Conversazione ("Amare") di cui riporto alcuni stralci.
 
"Sarebbe bellissimo iniziare a collezionare avendo chiaro fin dal principio l'intera storia, in tutti i suoi dettagli, in tutti i suoi risvolti" - si dice minuto del 23.35 del primo video - "Fantastico, ma impossibile. Impossibile perché la storia che vogliamo raccontare si va definendo, si va precisando, lungo il cammino, dopo aver iniziato a collezionare. Il filtro viene messo a punto, collezionando. Finché non si inizia a collezionare è impossibile - virtualmente impossibile - precisare la storia in ogni suo aspetto".
 
E poi, ancora, al minuto 25.10: "E' bene che tutto ciò che si possa precisare prima, che si possa sapere prima, venga precisato e conosciuto prima, ma bisogna pure dire che non tutto può essere conosciuto prima di iniziare a collezionare, perché è l'atto stesso del collezionare [...] che rivela dettagli sulla storia altrimenti inconoscibili, non conoscibili a priori".
 
E qui l'intreccio tra scrivere narrativa e creare una collezione si fa particolarmente evidente, forte e interessante.
 
Se scrivere è inventare - dal latino invenire, trovare - qualcosa che non si sapeva e che il testo svela, attraverso il linguaggio della parola scritta, allo stesso modo collezionare è conoscere attraverso il linguaggio degli oggetti, è creare un insieme di oggetti che ne sappia più del collezionista, che trasmetta più messaggi di quanti se ne potevano immaginare nel momento in cui si è iniziato a collezionare.
 
La parziale ignoranza sulla storia da raccontare - l'ignoranza che rimane dopo aver eliminato la avoidable ignorance - è esattamente ciò che giustifica e dà senso all'atto del collezionare, perché sarà proprio l'effettiva creazione della collezione a colmarla e a rivelare cose che altrimenti non si sarebbero mai conosciute.

 

Collezionare e scrivere:

la forza del buon artigiano


"Alla base di ogni scrittura c'è un paziente, scrupoloso, estenuante lavoro di rifinitura, di correzione, di messa a fuoco, di puntualizzazione, di calibratura che costituisce la qualità e la forza del buon artigiano".
 
Andrea Camilleri ricorda che nello scrivere c'è una fatica sorda. Richiama l'importanza del lavoro, della concentrazione, della continuità, se si vuole pure della tecnica, nella costruzione a regola d'arte di un testo. Non nega lo stato d'animo vagamente chiamato ispirazione, ma sposta l'accento su quella parte dell'operare artistico che può essere avvicinata e programmata (anche per predisporre lo spazio più adeguato per la cosiddetta ispirazione, quando si manifesta).
 
Pontiggia è sulla stessa lunghezza d'onda. "Molta parte del lavoro artistico è costituita da correzioni, rifacimenti, tentativi che rientrano solo in minima parte in ciò che si suole definire ispirazione".
 
Lo scrittore fa esperienza continua di varianti del testo, attraverso cancellature, aggiunte e rifacimenti che toccano tutti i livelli - personaggi, ambientazione, dialoghi - in un processo che - per i perfezionisti - sembra non avere mai fine, neppure nel caso di un romanzo già pubblicato.
 
Si dice - in questo senso - che scrivere è soprattutto riscrivere. "Riscrivere come si sarebbe scritto prima, se il proprio sguardo fosse stato più lucido" - precisa Pontiggia - "se non fosse stato distratto da tentazioni che il tempo ha decantato e si fosse interamente concentrato sull'oggetto della propria visione".

Viene voglia di appropriarsi della frase e modificarla quel minimo che serve per riadattarla al collezionismo.
 
Collezionare come si sarebbe collezionato prima, se il proprio sguardo fosse stato più lucido; se non fosse stato distratto da tentazioni che il tempo ha decantato e si fosse interamente concentrato sull'oggetto della propria visione.
 
Sì, viene voglia di appropriarsi delle parole di Pontiggia, se non fosse che il collezionista è legato ai suoi oggetti da catene più grosse e pesanti di quelle che legano uno scrittore alle sue frasi.
 
Il testo è un oggetto astratto, malleabile, che può  sempre essere modificato, e al limite distrutto e ricostruito. Il testo - materialmente parlando - è una collezione di parole sulla pagina, e le parole sono quanto di più versatile e flessibile possa esistere.

"Disposte per ogni servizio, pronte ad ogni viaggio, mercenarie per ogni guerra, saltellanti, fugaci, imprecise, sono schiave eccellenti, e capaci maestri di casa" - nella suggestiva immagine di Prezzolini - "Economizzano le nostre facoltà, perché spesso ci servono a pagare gli altri, senza contar che noi stessi ci contentiamo di parole. Sono instancabili, inconsumabili, numerosissime. Fan da paciere e ci evitano le liti. Versano l'olio degli eufemismi negli ingranaggi sociali, perché stridano meno. Ci procacciano femmine ed onori. Ci risparmiano spesso di pensare e ci fan passare per pensatori. Prosseneti, medici, mercanti, economi - cosa mirabile - non ci derubano mai. Non vogliono stipendio e si danno a chi meglio le adopra, per qualunque causa, come se fossero di là dal bene e dal male. Non ci gravano la memoria coi loro benefici, non ci presentano il conto delle loro forniture. Se sparliamo di loro ci servono egualmente, non ci rimproverano di ingratitudine e non ci rinfacciano nemmeno la nostra contradizione d'aver detto male delle parole con le parole stesse".

La faccenda è ben più complessa, nell'artigianato delle collezioni. Il francobollo, la lettera, il giornale sono oggetti fisici. Il loro possesso impone una spesa economica e il denaro usato per un francobollo non lo si può più usare per un altro. Un errore (aver acquistato il pezzo sbagliato) ne genera spesso un altro (non aver risorse sufficienti per acquistare il pezzo giusto).
 
Gli errori - di selezione e valutazione - si cumulano, si ammassano, e nell'immaginaria tastiera di un collezionista non c'è nessun tasto "CANC" con cui porre istantaneamente rimedio a un'azione scomposta o impulsiva, come avviene invece con l'ordinaria tastiera del personal computer di uno scrittore.
 
Gli errori - nel collezionismo - rimangono nell'album, permangono nel tempo. Anche quando fisicamente rimossi dalla collezione - confinati in quel piccolo album nero che accoglie i figli zoppicanti dei propri eccessi di entusiasmo - sono comunque lì, accanto a noi, a ricordarci la distanza tra il collezionista ideale che si vorrebbe essere e il collezionista che effettivamente si è.
 
"Non rammaricatevi di un acquisto sbagliato, la lezione che ne avete tratto vale molto di più", sembra dicesse il perito filatelico Enzo Diena. Vero. Ma l'esperienza - nel collezionismo - rimane una scuola particolarmente costosa, e neanche a dire che sia riservata solo agli sciocchi - a chi non riesce proprio a imparare se non così: sbagliando, sbagliando e sbagliando ancora - perché non c'è collezionista che non abbia il suo cimitero di acquisti sbagliati.
 
Collezionare come si sarebbe collezionato prima, se il proprio sguardo fosse stato più lucido - se non fosse stato distratto da tentazioni che il tempo ha decantato e si fosse interamente concentrato sull'oggetto della propria visione - sarebbe un precetto meraviglioso, se non suonasse provocatorio e beffardo, come quell'insegna appesa nell'ufficio di un operatore petrolifero: "POZZI CHE RISULTEREBBERO ASCIUTTI NON DEVONO VENIR PERFORATI". E questa sarebbe davvero una regola aurea, semmai un'impresa petrolifera potesse seguirla. Peccato che nessuna può farlo, nemmeno quello stesso operatore che la sponsorizzava, e che in trenta perforazioni consecutive non trovò altro che pozzi asciutti.
 
Nel collezionismo non si può tornare indietro, o meglio, il grado di reversibilità delle scelte è basso, prossimo a zero, l'inerzia prevale e le correzioni in corsa sono lente, problematiche e costose, e possono sabotare l'intero progetto. Se si volesse mantenere il parallelo tra scrittura e collezionismo, si potrebbe dire che il collezionismo è una scrittura realizzata sulla pietra: difficile realizzare - a cose ormai fatte - quel lavoro "di rifinitura, di correzione, di messa a fuoco, di puntualizzazione, di calibratura" di cui parla Andrea Camilleri.
  
L'oggetto della propria visione, se per definizione non può mai essere perfettamente chiaro sin dal principio - e in fondo non deve neppure esserlo, se la collezione vuol essere una autentica esperienza conoscitiva - non può nemmeno essere avvolto nella fitta nebbia dell'incertezza.
 
La qualità e la forza del buon artigiano - nell'arte del collezionismo - è nell'evitare tutta l'ignoranza evitabile. Perché se collezionare - come scrivere - è un viaggio che non si lascia pianificare del tutto, può ancora essere - e anzi deve essere - un viaggio condotto con il più alto livello di attenzione possibile.
 

Molti collezionisti sono disattenti, e bisognerebbe rimproverarli negli stessi termini con cui Tabori riporta all'ordine il suo allievo, nel romanzo "La variante di Lüneburg" di Paolo Maurensig.

Anch'io - come Tabori - "quando parlo di attenzione, intendo qualcosa di molto più grande di quanto comunemente si pensi".

E anche voi - mutuando l'esempio dei sacerdoti maya - dovreste cesellare la collezione come se un solo sbaglio potesse far precipitare l'astro del sole, come se la posta in gioco fosse la vostra stessa vita, o peggio, quella delle persone che vi sono più care.

 

Collezioni e romanzi:

tra ordine e disordine

 
 
Dopo tante similitudini, e alcuni distinguo, voglio portare all'attenzione una fondamentale differenza tra lo scrivere e il collezionare, tra le storie della narrativa scritta e le storie raccontate attraverso le collezioni.

Lo spunto proviene da un'acuta annotazione di Walter Benjamin: cos'è in fondo l'ordine della collezione "se non un disordine in cui l'abitudine si è talmente ambientata da farlo apparire ordine?".

Il mondo della pagina - in scrittura - è la versione elegante del mondo reale. Lo scrittore prende i suoi spunti dalla realtà e li cesella per trasformarli in una storia, per creare il mondo fittizio del racconto, che supera la realtà, anche quando finge di rappresentarla con precisione. Lo scrittore può sempre aggiungere una scena, una sotto-trama, un dialogo, un personaggio, o qualunque altro elemento necessario a rifinire la narrazione e migliorarne l'aderenza agli schemi della narratologia. In fondo - sul piano formale - deve solo "aggiungere parole", sotto il vincolo che ogni parola deve contare, che ogni parola si seleziona con senso critico e abilità tecnica, ma anche con la certezza che il serbatoio delle parole è di fatto inesauribile e sempre a disposizione.

La collezione - al contrario - è una storia raccontata attraverso oggetti, e gli oggetti da collezione, a differenza delle parole, sono sempre pochi - se non pochissimi, una volta messi all'opera gli ineludibili filtri selettivi - e comunque mai disponibili on demand, su semplice richiesta. Il collezionista racconta la sua storia - attraverso gli oggetti della sua collezione - nella misura in cui può farlo, in funzione degli oggetti effettivamente esistenti, dei momenti - aleatori - in cui si rendono disponibili e delle possibilità - economiche - di entrarne in possesso.

Perciò le storie raccontate con le collezioni non potranno mai raggiungere la perfezione stilistica propria delle storie raccontate con le parole. Il passaggio dal disordine (del mondo reale) all'ordine (del mondo della storia) non potrà mai essere completo. In questo senso - citando ancora Walter Benjamin - "l'esistenza del collezionista si colloca nella costante tensione dialettica tra i poli del disordine e dell'ordine".

La collezione, più che un mondo ordinato tout-court, sarà un mondo tanto più ordinato quanto più il collezionista sarà abile nell'individuare gli oggetti funzionali alla sua storia e risoluto nell'entrarne in possesso quando gliene sarà offerta la possibilità. Ma sarà anche un mondo tanto più ordinato quanto più l'assuefazione alle pagine del proprio album farà percepire una regolarità in un insieme che non potrà mai essere perfettamente regolare, perché sempre gli mancherà un pezzo suscettibile di avvicinarlo a quell'asintoto di completezza, di per sé irraggiungibile.

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