GLI ANNI D'ORO (?) DELLA FILATELIA

è chiaro che la percentuale di furfanti e di brave persone
d'imbecilli e intelligenti, sarà assolutamente la stessa dei nati nel 1959.
Ma è intrinseco nel modo con cui noi esseri umani stiamo al mondo
pensare sempre, in qualunque epoca, che 'ora non ci sono più valori',
'una volta non era così', 'un tempo era diverso'.
Lo diceva già Platone, magnificando i bei tempi andati di Socrate"
- fatto 1: quando andavamo alle scuole medie, tutti i nostri compagni di classe collezionavano francobolli; oggi, invece, nessun ragazzino delle medie colleziona francobolli;
- fatto 2: una volta trovavamo in edicola le uscite settimanali "Il piccolo filatelico"; oggi, invece, la filatelia è scomparsa dalla distribuzione di massa;
- fatto 3: ...
- ...
- fatto n: ...
e da questi fatti parziali si trae sbrigativamente la conclusione generale che il collezionismo filatelico è in declino, presentando questa inferenza euristica essa stessa come... fatto oggettivo (!).
La pseudo-argomentazione tradisce un'inversione metodologica imbarazzante: si è sposata aprioristicamente una tesi (il collezionismo filatelico è in declino) e ci si affanna a trovare evidenze che possano sostenerla.
Ma siamo tutti capaci a giocare a questo gioco, se vogliamo. Guardate qui:
- fatto 1: gli Antichi Stati dell'Ingegner Provera hanno fatto sold-out alla Corinphila, con incrementi notevoli rispetto alle basi, talvolta portando a realizzi prossimi e persino superiori alle quotazioni di catalogo;




- fatto 2: il portale Philasearch dà conto di una frequenza giornaliera di aste filateliche, 7 giorni su 7, 365 l'anno; le grandi case d'asta internazionali registrano sistematicamente notevoli risposta commerciale, e di recente persino della case italiane di nicchia hanno intermediato collezioni significative, con realizzi di tutto rispetto; e neanche a dire che il fenomeno riguardi solo la filatelia d'élite, quella fino a Vittorio Emanuele II, ché anche settori moderni hanno registrato acquisizioni in blocco (probabilmente per una rivendita al dettaglio) di apprezzabile controvalore economico.




- fatto 3: ...
- ...
- fatto n: ...
Quindi la filatelia va alla grande, e questo è un fatto obiettivo.
Senza speranza di premio
Le neuroscienze hanno da tempo fatto chiarezza su una distorsione (bias) della mente umana: quando un'idea ci si è piantata in testa - non importa se per motivi logici e fondati, o capricciosi e irrazionali - tendiamo a cercare conferme ovunque della sua validità e a sottovalutare, se non addirittura a ignorare o rifiutare, tutto ciò che la può, non dico smentire, ma anche solo renderla dubbia o metterla in discussione.
La giustificazione è in fondo piuttosto semplice: (credere di) aver
ragione è una sensazione troppo bella e inebriante, per potervi rinunciare a cuor leggero.
Ci sono casi fortunati in cui è la bruta realtà a rimetterci in
carreggiata, seppur con un processo graduale e sofferto - si rimane della propria
idea finché il piacere di credere di aver ragione supera il dolore
inflitto da eventi di segno contrario, sin quando piacere e dolore non s'invertono - ma nel caso in discussione non
vi sono stimoli esterni in grado di sollecitarci su parti sensibili, e
per di più la ricerca stessa di informazioni aggiuntive è lunga e penosa, e il nostro
cervello ci diffida perciò da intraprenderla, tanto più che si trova già a
meraviglia nella sua idea attuale.
L'impresa è dunque disperata, una missione impossibile, perché nessuno si farà mai cavare un dente che ritiene sano e non gli dà fastidio.
Solo un disinteressato desiderio per una visione ampia e nitida delle cose ci può indirizzare su un percorso che alla sua conclusione non restituirà alcun premio materiale, nessun beneficio tangibile, se non una comprensione più profonda del mondo circostante.
Ci avventureremo in un cammino "senza speranza di premio, senza calcoli di utilità" - per riprende il più classico dei cliché mazziniani - giustificato solo dall'obbligo morale di "mettere al centro della propria vita il dovere".
Bonificare il linguaggio
Il primo passo, o meglio, il passo preliminare, ancorché parziale, è la bonifica del linguaggio: serve estrema attenzione nella scelta delle parole e nella messa a punto delle costruzioni frasali, consapevoli che la prima formulazione che ci viene in mente è invariabilmente approssimativa e grossolana, se non del tutto sbagliata, sebbene suoni appropriata, giacché al pronti-su-via il nostro cervello ci è nemico, gioca contro di noi, non vuole farci uscire dalla zona di conforto e perciò ci spedisce enunciati "a basso consumo di energia", per non affaticarci.
Bonificare il linguaggio, dunque. Che qui significa smetterla di parlare del "boom filatelico", degli "anni d'oro della filatelia", di una "Filatelia con la 'F' maiuscola". Iniziamo a chiamare le cose col loro nome, a battezzarle per quel che sono: speculazione.
Fin dai suoi albori la filatelia è stata esposta a micidiali fenomeni speculativi, che venivano colti in tempo reale, già all’epoca, ma che si finiva col sottopesare visto che, banalmente, tutti ne traevano un vantaggio materiale, un guadagno.
Vi darò ampia evidenza di questa enorme bolla speculativa - straordinariamente persistente, al punto da non sembrare neppure una bolla - ma a titolo introduttivo, per acclimatarci all'argomento, mi appoggio a un ricordo di gioventù di un filatelico di lungo corso.

Ma in che modo - in che senso, secondo quale logica - finanziare la
miscela del motorino con un trading in francobolli è pertinente con la
passione filatelica, con l'amore per il collezionismo? E poi, di là di
tutto, come si poteva pensare che una situazione simile fosse
strutturale? Si credeva davvero di poter fare per sempre il pieno di
benzina grazie al Pier Lombardo?
Lo stesso Antonello Cerruti, non a caso, si premura di collocare l'episodio su
uno sfondo concettuale, per non ridurlo ad aneddotica spicciola.

La qualificazione è del Cerruti, non mia, e però mi piace riprenderla ed enfatizzarla: il vero collezionista.
Perché - diciamolo, a costo di urtare gli ipersensibili - il
collezionismo non è diverso da tutte le altre cose della vita: ci sono i
collezionisti - i veri collezionisti - e poi ci sono i mezzi
collezionisti, i collezionucoli, i raccoglioni e i quaquaraquà.
I "veri collezionisti" sono una base tendenzialmente stabile, nel tempo e nello spazio, senza alterazioni percepibili nell'ordine di grandezza.
E' tutto il resto ad andare incontro a oscillazioni pronunciate, ma un "vero collezionista" - l'espressione non è mia ma di Cerruti - non si è mai preoccupato troppo di ciò che avviene al di
fuori del "vero collezionismo", così come nessuno scacchista si è mai interessato a quel che avviene tra i giocatori di
dama, solo perché entrambi muovono i rispettivi pezzi su una stessa scacchiera.
A ognuno ciò che spetta, secondo la sua natura.
Alcuni fatti, per introduzione
Rimaniamo ancora a un livello alto e generale, di fatti introduttivi, per restituire la fragranza delle cose, per far acclimatare all'argomento.

E' questo il "boom filatelico"? Sono questi gli "anni d'oro" della filatelia? E questa "la Filatelia con la 'F' maiuscola"?
Non dubito che fossero anni d'oro, di boom, per un qualsiasi commerciante, ché qualsiasi commerciante - persino il più infimo - è capace di rifornire facilmente chiunque, di qualunque francobollo a qualunque prezzo, di convertire 750.000 lire in francobolli, "non importa quali, purché siano francobolli".
Ma è questa la Filatelia con la "F" maiuscola, che in tanti rimpiangono? La filatelia dei "rubicondi fattori"?
Sul serio c'era chi pensava di basare le prospettive future su di loro, sui rubicondi fattori? E davvero c'è qualcuno dispiaciuto - di là del mancato guadagno che può aver sofferto - che i rubicondi fattori
siano ora spariti dall’orizzonte visibile?
Non io.
Anzi - a costo di apparire snob - io sono contento che in filatelia non vi siano più persone che si tolgono "dalla tasca destra dei calzoni un rotolo di banconote sotto un'enorme pezzuola tricolore", a cui potrei essere impropriamente assimilato da un osservatore esterno distratto, superficiale e approssimativo.
Ancora intorno al linguaggio
E ora - sperando aver creato un minimo di contesto - avviciniamoci al nucleo del problema.
Non appena ha preso forma un principio di collezionismo filatelico, in quello stesso istante, la filatelia si è trovata strutturalmente esposta a fenomeni speculativi più o meno pronunciati, ma comunque presenti, e per ciò stesso suscettibili di inquinare la componente genuina del collezionismo.
Non dico che tutti, o la maggioranza, si avvicinassero al collezionismo filatelico con la sola idea di speculare, di guadagnare e trarre facili profitti. Dico che la più autentica passione per la filatelia è stata storicamente infettata - in una misura senz'altro da qualificare - dal retropensiero di potersi divertire "a costo zero" (e magari, chissà, di poterci pure ricavare qualche spicciolo).
Il linguaggio - ancora una volta - è paradigmatico degli stati d'animo, ché il linguaggio, contrariamente a quel che si crede, non serve per comunicare - figurarsi: per una cosa così semplice non occorre certo un apparato così elaborato - bensì a verbalizzare il pensiero, e quindi si rimodula di continuo in funzione dei nostri stati mentali.
"Rientrare del pagato" è una di quelle espressioni abominevoli entrate di prepotenza nel gergo filatelico, e di cui solo l'abitudine a sentirla ripetere non ci fa più avvertire la volgarità.
Questa storiella - "rientrare del pagato" - andatela a raccontare ad Achillito Chiesa, a Ercole Lanfranchi, ad Alberto Barcella, a Nino Aquila, a Saverio Imperato, a Ottavio Masi - non sono forse loro i grandi collezionisti dei "bei tempi di una volta"? - e poi ditemi pure cosa vi risponderanno.

E visto che abbiamo iniziato a parlare di linguaggio, tanto varrà allungarci un minimo.
"La filatelia è come il maiale: non si butta via niente" è un'altra espressione entrata nel frasario standard dei collezionisti.
Sul serio? Perché - sapete - i Bolaffi "di una volta", quelli che in tanti rimpiangono, si presentavano sul mercato come antiquari filatelici, antiquari per l'amor del cielo, e non macellai pronti a far carne di porco di qualunque cosa passasse sotto i loro coltellacci.

Questa assurdità - "in filatelia non si butta niente" - andatela a raccontare
a Bernardo Naddei, a Luigi Garosci, a Francesco Melone, e poi, di
nuovo, sappiatemi dire cosa vi risponderanno.
Non solo in filatelia si butta, ma si butta pure tanto, e si potrebbe anzi dire che la gran parte delle cose finiscono nel cestino dell’indifferenziata: com'è esperienza diretta di ogni "vero collezionista" (cit.) che deve filtrare centinaia se non migliaia di proposte, prima di trovarne una sola che fa al caso suo, che ben si adatta alla sua collezione, che concorre a migliorarla.
Per converso, è proprio il fatto di non aver voluto buttar via nulla - l'ostinazione a tenere a bordo ogni cosa, sino a sovraccaricare il giocattolo con oggetti creati bell'apposta per soddisfare degli accumulatori bulimici - che ha falsato la forma mentis e il modus operandi della maggioranza, e alterato artificiosamente la scala del business, conferendo alla filatelia una deprecabile dimensione speculativa (oggi finalmente in dissolvenza).
La filatelia: un antro di speculatori

Speculuazione filatelica: le fonti
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Speculuazione filatelica: la causa remota
Vi siete mai chiesti come mai sia così complicato mettersi a dieta, iniziare un ciclo di allenamento, imparare una lingua straniera, e più in generale rompere qualsiasi routine per posizionarsi su un livello alternativo, anche quando - in astratto - lo riconosciamo nettamente migliore rispetto alla situazione attuale?
Lo è perché il nostro cervello, non solo non collabora, ma si oppone con tutte le sue forze, e si oppone opposizione perché (a modo suo) ci vuole bene e (a modo suo) tenta di proteggerci da ciò che (a modo suo) reputa pericoloso.
L'argomento ha le sue complessità, ma a volerne rendere il senso si può dire che il cervello - di base - ci invia continuamente uno stesso messaggio: sinora siamo sopravvissuti alla grande - senza metterci a dieta, senza allenarci, senza conoscere l'inglese - e non c'è alcun motivo per cui dobbiamo spezzare uno stato di cose che sinora ci ha garantito la sopravvivenza.
Può sembrare strano - lo ammetto - ma è come se il nostro cervello tenesse ancora memoria delle esperienze preistoriche dell'uomo di Neanderthal, quando l'unico problema - pressante, drammatico - era arrivare vivi al giorno dopo, e qualsiasi consumo di energia diverso dalla sopravvivenza veniva interpretato come unp sperpero imperdonabile.
Per ottenere la collaborazione del nostro cervello si deve prima combatterlo, ingaggiarvi un violento corpo a corpo, secondo meccanismi ormai ben codificati dalla neuroscienze, ma su cui qui non importa diffondersi. Conta solo - per quel che ci interessa - che al pronti-su-via il nostro cervello non collabora, e anzi si oppone, e il suo ostruzionismo si manifesta a ogni livello, anche di semplici opinioni.
Quando dobbiamo formarci un'idea su una data situazione, ecco che il cervello ci invia subito una prima soluzione - una chiave interpretativa pronta all'uso, che suona più che ragionevole - per acquietarci e toglierci il pensiero. Sono i cosiddetti einstellung - modo di vedere, disposizione - per recuperare l'espressione di Barbara Oakley in "Learning How to Learn", il più famoso corso gratuito sull'arte dell'imparare: la prima idea, e persino la prima soluzione a un problema, ci appare una risposta già perfettamente spendibile, o al più da ritoccare in aspetti marginali e di puro dettaglio, cosicché diventa straordinariamente complesso ricercare risposte alternative, più solide e affidabili, perché nella percezione complessiva (distorta) la spesa non vale l'impresa.
Bisogna diffidare per principio degli einstellung, delle prime soluzioni progettate dal cervello per impedirci di consumare energie. Non gli si deve dar tempo e modo di radicarsi, e men che mai caricarle di investimenti emotivi. Perché se per avventura queste soluzioni iniziali fossero sbagliate - come spesso accade - allora saremo irrimediabilmente fottuti.
Torniamo allora da dove siamo partiti e rileggiamo il tutto sotto questa nuova luce: si muove spesso dall'inferenza euristica di una filatelia in declino - per colmo d'impostura spacciandola come fatto osservabile - e quando se ne vuole capire la ragione, ecco che il cervello spedisce subito la risposta più economica, per molti versi razionale e ottimizzante, secondo cui c'è di mezzo l'uscita del francobollo dalla vita quotidiana, il fatto - questo sì - che le conquiste tecnologiche hanno azzarato tempo e spazio, e reso immediata la comunicazione a distanza.
Tutto sembra tenersi a meraviglia, e in effetti tutto si tiene, sul piano della pura logica. Peccato che "ciò che è logico è esatto, ma non dice nulla" - ammonisce il matematico Bruno de Finetti. "La logica è come un palo, utile in quanto può impedire alla pianta del pensiero di crescere storta. Ma, come un palo non è una pianta né il possibile surrogato di una pianta, così come la logica non è il pensiero né una specie di surrogato del pensiero".
Per chiarirsi: il trittico di affermazioni "Socrate è un uomo", "gli uomini sono mortali", "Socrate è mortale" ha lo stesso valore logico del trittico "gli alberi sono serpenti", "i serpenti sono sassi", "i sassi sono alberi". I due blocchi sono entrambi coerenti, e non se ne può stabilire la verità solo in base alla logica. Serve altro. Serve il pensiero, serve ragionare.
Proviamoci allora a ragionare, per quanta opposizione voglia fare il nostro cervello.
"Il collezionista si assume il compito di trasfigurare le cose", di "togliere alle cose il loro carattere di merce", per consegnargli "solo un valore d'amatore invece del valore d'uso" - è la netta posizione di Walter Benjamin (che sul collezionismo ha scritt pagine definitive).
Il collezionista è sovranamente disinteressato al valore d'uso degli oggetti e attratto solo dal valore sentimentale. Ma affinché questo suo stato d'animo possa esprimersi al più alto livello, affinché la sua più genuina manifestazione non subisca alcuna interferenza, è necessario che l'oggetto del desiderio sia stato preliminarmente privato di ogni funzione pratica, che già in origine sia stata operata una scissione tra i valori d'uso e d'amatore. Perché altrimenti, non solo subentrerà uno strabismo valutativo - posso amare l'oggetto, però, volendo, anche utilizzarlo - ma soprattutto ci si troverà esposti a fenomeni manipolativi variamente concepiti, visto che la produzione è ancora in essere e la si potrà strumentalizzare per fini speculativi.
Che è esattamente quel che è accaduto in filatelia: da un lato i francobolli si collezionavano nel proprio album, per gusto e piacere, ma dall'altro si tenevano nel cassetto, pronti a usarli per spedire la corrispondenza, e rimaneva perciò in funzione l'apparato di Stato deputato a produrli, che vista l'ambivalenza dell'oggetto - da collezione da un lato, per il pratico uso dall'altro - poteva giostrare una pratica lucrativa, latente o palese, in cui finivano attratti anche i singoli collezionisti (i quali non agivano più sulla base di moventi spontanei e autonomi, ma seguivano le mode e il cosiddetto "mercato", assecondando l'atavica pulsione umana per la fata morgana dei facili guadagni).





il volume in cui Poste italiane raccoglie le emissioni dell'anno appena concluso.
Nell'edizione 2018 la dovrebbe far da padrona la tradizione;
infatti la veste editoriale strizza l'occhio al passato in controtendenza
con i volumi graficamente più moderni degli anni precedenti.
In realtà il contenuto rivela una sorpresa rivoluzionaria.
Infatti, insieme a tutti i valori del 2018, che il collezionista (a torto o a ragione)
si trova costretto ad acquistare per completare l'annata, come bonus
- ma obbligatorio e ovviamente a pagamento -
si trovano anche cinque esemplari della serie Alti valori
con facciali di 1.500, 2.000, 3.000, 4.000 e 5.000 lire (oggi equivalenti a otto euro),
che non si sa bene perché siano finiti nelle caselle del 2018 ben quarant'anni dopo.
E' la prima volta che Poste obbliga i collezionisti a 'ingoiare' vecchie emissioni.
Pensare di far cassa sulle spalle dei collezionisti è però molto pericoloso...
Se comunque ciò avvenisse, non credo che sarebbe necessariamente un male.


che, sebbene abbia anche lasciato molte persone con il cerino in mano,

che sia nato già a fini collezionistici,
"In particolari momenti, una quantità di gente stupida dispone di stupido danaro in quantità. Di tanto in tanto il danaro di queste persone - noi lo chiamiamo il capitale cieco del paese - è particolarmente ampio e affamato; cerca qualcuno da divorare ed è la pletora; ne trova alcuni, ed è la speculazione; viene divorato, ed è il panico".
La celebre sequenza proposta da Bagehot in "Lombard Street" - usata come esergo da Kindleberger in "Manias, Panics and Crashes: A History of Financial Crises" - preserva ancora il suo vivace colore, la capacità di ritmare in modo accattivante e preciso la dinamica dei processi speculativi, filatelia inclusa.
"Il capitale cieco" dei collezionisti fu a lungo "ampio e affamato", in caccia della "pletora" (come quando una folla premette contro un bancone in Vaticano, tanto da rovesciarlo, mettendo in fuga le terrorizzate suorine addette alla vendita); ne trovò alcuni, e fu "la speculazione" (Giulio Bolaffi parlava di una "speculazione filatelica nazionale" - per dire delle sue dimensioni - e riferiva di un "mercato filatelico moderno [che] consente, a chiunque disponga di una anche limitata somma di denaro, di operare nello stesso in modo speculativo"); si è infine polverizzato, dopo aver oscillato a lungo tra picchi e valli, e ora son tutti lì a parlare di crisi della filatelia (con la lagna dei Bolaffi di ultima generazione per "i francobolli [che] assomigliano sempre più a etichette erinnofile").
"Gli speculatori possono non causare alcun male, come bolle d'aria in un flusso continuo di intraprendenza" - scriveva Keynes nel capitolo XII della sua "Teoria Generale" - "ma la situazione è seria quando l'intraprendenza diviene una bolla d'aria in un vortice di speculazione", che è esattamente quel è avvenuto in filatelia. "Quando lo sviluppo del capitale di un paese" - o se preferite del collezionismo filatelico - "diventa un sottoprodotto delle attività di una casa da gioco, è probabile che vi sia qualcosa che non va bene".
Era inevitabile che accadesse quel che poi è accaduto - per date premesse - e già all'epoca peraltro la soluzione era stata individuata con precisione chirurgica, dagli spiriti più accorti e avveduti.

Il francobollo assume dignità collezionistica - sale al rango di oggetto meritorio di essere conservato e preservato - nella misura in cui rappresenta una realtà visibile di un mondo invisibile, una presenza ancora tra noi di un mondo ormai scomparso.
Ben venga, dunque, il suo ecclissarsi nella vita di ogni giorno, perché viene così rimossa - era ora! - la radice di tanti equivoci (e speculazioni) che ne limitavano e ne frustravano le potenzialità collezionistiche, e lo impoverivano agli occhi degli spettatori esterni (col risultato di bloccare l'arrivo di nuovi, veri collezionisti).



Gli anni d'oro

Smettiamola perciò di rimpiangere "la filatelia di una volta", "i mercanti di una volta", "gli studiosi di una volta", "i collezionisti di una volta", "le case d'asta di una volta", "i periti di una volta", perché l'unica cosa bella "di una volta" - amici miei - era solo la nostra capacità di stare in sintonia con l'universo, di vibrare alle frequenze più alte, di fare la cosa giusta anche quando nessuno guardava, tutte situazioni favorite dalla più giovane età - è vero - quando eravamo più buoni e belli, con energie ed entusiasmi che rendevano tutto magnifico, ma che a un'analisi lucida e spassionata non sono mai precluse a nessuno, in nessun tempo e in nessun luogo, e che si possono sempre riscoprire e rinnovare, se solo lo si vuole.

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