GLI ANNI D'ORO (?) DELLA FILATELIA

 
"Se uno prende tutti i nati nell'anno 2010,
è chiaro che la percentuale di furfanti e di brave persone
d'imbecilli e intelligenti, sarà assolutamente la stessa dei nati nel 1959.
Ma è intrinseco nel modo con cui noi esseri umani stiamo al mondo
pensare sempre, in qualunque epoca, che 'ora non ci sono più valori',
'una volta non era così', 'un tempo era diverso'.
Lo diceva già Platone, magnificando i bei tempi andati di Socrate"
(Alessandro Barbero)

"Il mondo in cui viviamo è degenerato, in questi ultimi tempi: la concussione e la corruzione dilagano; i ragazzi non obbediscono più ai loro genitori; ogni uomo ha la velleità di scrivere un libro e la fine del mondo - con ogni evidenza - si sta avvicinando".

Sembra la reprimenda di un boomer di oggi contro la "generazione Z" di oggi, anno 2025; e invece è la trascrizione di un'incisione su una tavoletta assira, databile intorno al 400 avanti Cristo.
 
Il mondo è un disastro permanente, da quando Adamo ed Eva hanno mangiato la mela. Ma la rilevanza sta tutta nel fatto che ognuno di noi si rapporta a un mondo invariabilmente disastroso attraverso la propria sensibilità, perciò la cosiddetta "realtà" non è la semplice sequenza di fatti oggettivi, ma la sua complessa percezione soggettiva filtrata dal proprio stato d'animo, variabile nel tempo e nello spazio.
 
Non sono i tempi a cambiare. Siamo noi a trasformarci, di continuo, sulla scia delle esperienze che viviamo e del modo con cui ne veniamo segnati. Dopodiché, però, tendiamo a trasferire l'incanto o il disincanto della nostra anima alla realtà esterna, a proiettare ciò che sta dentro di noi su situazioni al di fuori di noi, cosicché - anche a parità di dati di fatto - una stessa realtà oggettiva genera ricordi radicalmente diversi.

          

Quali erano gli "anni d'oro"? Quelli del Real Madrid o quelli del Milan? Quelli di "Happy Days" o quelli di Van Damme? Quelli del motorino o quelli del booster? Dei Roy Rogers o dei jeans con gli spacchi? Chi ha ragione, Max Pezzali o Jack La Furia?
 
Entrambi, ovviamente, perché l'atto del ricordare non è un accesso automatico e meccanico a una pura registrazione, bensì un'intera ricostruzione, traduzione e interpretazione della scena, con cui le si consegna una forma regolare, una dinamica coerente, se occorre riempendo gli spazi vuoti con creazioni proprie; e ogni nuova rievocazione determina una nuova scena che sostituisce la precedente, cosicché il passato che crediamo di portare con noi - come un blocco immutabile - è in larga misura fabbricato di volta in volta nel presente.
 
Sin qui nulla di nuovo, niente che non sia già diffusamente conosciuto.
 
Le cose si complicano quando s'indugia sull'errore percettivo, quando ci si crogiola nella malinconia, nella nostalgia, quando ci si convince dell'intrinseca superiorità di uno stato fattuale sull'altro, laddove era il nostro stato d'animo a trovarsi su un livello astrale differente; è allora che si indeboliscono anche le più elementari capacità di ragionamento e le nostre sensazioni si ritrovano avvolte in una nebbia in cui si confondono tra loro i fatti e le opinioni, ciò che cade sotto le immediate percezioni sensoriali (e deve essere solo registrato, senza affezione o giudizio) e ciò che rappresenta l'analisi e la sintesi dell'evidenza (che impongono valutazioni personali e di merito).
 
Prendiamo ad esempio l'affermazione "la filatelia è in declino", spesso presentata come fatto oggettivo, quando il suo disentangle rivela la micidiale confusione tra premesse, svolgimento e conclusioni. 
 
Si ha in testa un elenco di fatti del tipo:
  • fatto 1: quando andavamo alle scuole medie, tutti i nostri compagni di classe collezionavano francobolli; oggi, invece, nessun ragazzino delle medie colleziona francobolli;
  • fatto 2: una volta trovavamo in edicola le uscite settimanali "Il piccolo filatelico"; oggi, invece, la filatelia è scomparsa dalla distribuzione di massa;
  • fatto 3: ...
  • ...
  • fatto n: ...

e da questi fatti parziali si trae sbrigativamente la conclusione generale che il collezionismo filatelico è in declino, presentando questa inferenza euristica essa stessa come... fatto oggettivo (!).

La pseudo-argomentazione tradisce un'inversione metodologica imbarazzante: si è sposata aprioristicamente una tesi (il collezionismo filatelico è in declino) e ci si affanna a trovare evidenze che possano sostenerla.

Ma siamo tutti capaci a giocare a questo gioco, se vogliamo. Guardate qui:

  • fatto 1: gli Antichi Stati dell'Ingegner Provera hanno fatto sold-out alla Corinphila, con incrementi notevoli rispetto alle basi, talvolta portando a realizzi prossimi e persino superiori alle quotazioni di catalogo;
 

  


  • fatto 2: il portale Philasearch dà conto di una frequenza giornaliera di aste filateliche, 7 giorni su 7, 365 l'anno; le grandi case d'asta internazionali registrano sistematicamente notevoli risposta commerciale, e di recente persino della case italiane di nicchia hanno intermediato collezioni significative, con realizzi di tutto rispetto; e neanche a dire che il fenomeno riguardi solo la filatelia d'élite, quella fino a Vittorio Emanuele II, ché anche settori moderni hanno registrato acquisizioni in blocco (probabilmente per una rivendita al dettaglio) di apprezzabile controvalore economico.






  • fatto 3: ...
  • ...
  • fatto n: ...

Quindi la filatelia va alla grande, e questo è un fatto obiettivo.


 Senza speranza di premio

Le neuroscienze hanno da tempo fatto chiarezza su una distorsione (bias) della mente umana: quando un'idea ci si è piantata in testa - non importa se per motivi logici e fondati, o capricciosi e irrazionali - tendiamo a cercare conferme ovunque della sua validità e a sottovalutare, se non addirittura a ignorare o rifiutare, tutto ciò che la può, non dico smentire, ma anche solo renderla dubbia o metterla in discussione.

La giustificazione è in fondo piuttosto semplice: (credere di) aver ragione è una sensazione troppo bella e inebriante, per potervi rinunciare a cuor leggero.

Ci sono casi fortunati in cui è la bruta realtà a rimetterci in carreggiata, seppur con un processo graduale e sofferto - si rimane della propria idea finché il piacere di credere di aver ragione supera il dolore inflitto da eventi di segno contrario, sin quando piacere e dolore non s'invertono - ma nel caso in discussione non vi sono stimoli esterni in grado di sollecitarci su parti sensibili, e per di più la ricerca stessa di informazioni aggiuntive è lunga e penosa, e il nostro cervello ci diffida perciò da intraprenderla, tanto più che si trova già a meraviglia nella sua idea attuale.

L'impresa è dunque disperata, una missione impossibile, perché nessuno si farà mai cavare un dente che ritiene sano e non gli dà fastidio.

Solo un disinteressato desiderio per una visione ampia e nitida delle cose ci può indirizzare su un percorso che alla sua conclusione non restituirà alcun premio materiale, nessun beneficio tangibile, se non una comprensione più profonda del mondo circostante.

Ci avventureremo in un cammino "senza speranza di premio, senza calcoli di utilità" - per riprende il più classico dei cliché mazziniani - giustificato solo dall'obbligo morale di "mettere al centro della propria vita il dovere".

 

Bonificare il linguaggio

Il primo passo, o meglio, il passo preliminare, ancorché parziale, è la bonifica del linguaggio: serve estrema attenzione nella scelta delle parole e nella messa a punto delle costruzioni frasali, consapevoli che la prima formulazione che ci viene in mente è invariabilmente approssimativa e grossolana, se non del tutto sbagliata, sebbene suoni appropriata, giacché al pronti-su-via il nostro cervello ci è nemico, gioca contro di noi, non vuole farci uscire dalla zona di conforto e perciò ci spedisce enunciati "a basso consumo di energia", per non affaticarci.

Bonificare il linguaggio, dunque. Che qui significa smetterla di parlare del "boom filatelico", degli "anni d'oro della filatelia", di una "Filatelia con la 'F' maiuscola". Iniziamo a chiamare le cose col loro nome, a battezzarle per quel che sono: speculazione.

Fin dai suoi albori la filatelia è stata esposta a micidiali fenomeni speculativi, che venivano colti in tempo reale, già all’epoca, ma che si finiva col sottopesare visto che, banalmente, tutti ne traevano un vantaggio materiale, un guadagno.

Vi darò ampia evidenza di questa enorme bolla speculativa - straordinariamente persistente, al punto da non sembrare neppure una bolla - ma a titolo introduttivo, per acclimatarci all'argomento, mi appoggio a un ricordo di gioventù di un filatelico di lungo corso.

Non dubito che per Antonello Cerruti fossero "tempi d'oro": un quindicenne che compra francobolli il lunedì, li rivende la domenica, e col guadagno se ne va a spasso in motorino per una settimana intera,  non può che avere la sensazione di vivere in un Eden filatelico.

Ma in che modo - in che senso, secondo quale logica - finanziare la miscela del motorino con un trading in francobolli è pertinente con la passione filatelica, con l'amore per il collezionismo? E poi, di là di tutto, come si poteva pensare che una situazione simile fosse strutturale? Si credeva davvero di poter fare per sempre il pieno di benzina grazie al Pier Lombardo?

Lo stesso Antonello Cerruti, non a caso, si premura di collocare l'episodio su uno sfondo concettuale, per non ridurlo ad aneddotica spicciola.


 
"Il vero collezionista".

La qualificazione è del Cerruti, non mia, e però mi piace riprenderla ed enfatizzarla: il vero collezionista.

Perché - diciamolo, a costo di urtare gli ipersensibili - il collezionismo non è diverso da tutte le altre cose della vita: ci sono i collezionisti - i veri collezionisti - e poi ci sono i mezzi collezionisti, i collezionucoli, i raccoglioni e i quaquaraquà.

I "veri collezionisti" sono una base tendenzialmente stabile, nel tempo e nello spazio, senza alterazioni percepibili nell'ordine di grandezza.

E' tutto il resto ad andare incontro a oscillazioni pronunciate, ma un "vero collezionista" - l'espressione non è mia ma di Cerruti - non si è mai preoccupato troppo di ciò che avviene al di fuori del "vero collezionismo", così come nessuno scacchista si è mai interessato a quel che avviene tra i giocatori di dama, solo perché entrambi muovono i rispettivi pezzi su una stessa scacchiera.

A ognuno ciò che spetta, secondo la sua natura.

 

Alcuni fatti, per introduzione

Rimaniamo ancora a un livello alto e generale, di fatti introduttivi, per restituire la fragranza delle cose, per far acclimatare all'argomento.


E' questo il "boom filatelico"? Sono questi gli "anni d'oro" della filatelia? E questa "la Filatelia con la 'F' maiuscola"?

Non dubito che fossero anni d'oro, di boom, per un qualsiasi commerciante, ché qualsiasi commerciante - persino il più infimo - è capace di rifornire facilmente chiunque, di qualunque francobollo a qualunque prezzo, di convertire 750.000 lire in francobolli, "non importa quali, purché siano francobolli".

Ma è questa la Filatelia con la "F" maiuscola, che in tanti rimpiangono? La filatelia dei "rubicondi fattori"? Sul serio c'era chi pensava di basare le prospettive future su di loro, sui rubicondi fattori? E davvero c'è qualcuno dispiaciuto - di là del mancato guadagno che può aver sofferto - che i rubicondi fattori siano ora spariti dall’orizzonte visibile?

Non io.

Anzi - a costo di apparire snob - io sono contento che in filatelia non vi siano più persone che si tolgono "dalla tasca destra dei calzoni un rotolo di banconote sotto un'enorme pezzuola tricolore", a cui potrei essere impropriamente assimilato da un osservatore esterno distratto, superficiale e approssimativo.

 

Ancora intorno al linguaggio

E ora - sperando aver creato un minimo di contesto - avviciniamoci al nucleo del problema.

Non appena ha preso forma un principio di collezionismo filatelico, in quello stesso istante, la filatelia si è trovata strutturalmente esposta a fenomeni speculativi più o meno pronunciati, ma comunque presenti, e per ciò stesso suscettibili di inquinare la componente genuina del collezionismo.

Non dico che tutti, o la maggioranza, si avvicinassero al collezionismo filatelico con la sola idea di speculare, di guadagnare e trarre facili profitti. Dico che la più autentica passione per la filatelia è stata storicamente infettata - in una misura senz'altro da qualificare - dal retropensiero di potersi divertire "a costo zero" (e magari, chissà, di poterci pure ricavare qualche spicciolo).

Il linguaggio - ancora una volta - è paradigmatico degli stati d'animo, ché il linguaggio, contrariamente a quel che si crede, non serve per comunicare - figurarsi: per una cosa così semplice non occorre certo un apparato così elaborato - bensì a verbalizzare il pensiero, e quindi si rimodula di continuo in funzione dei nostri stati mentali.

"Rientrare del pagato" è una di quelle espressioni abominevoli entrate di prepotenza nel gergo filatelico, e di cui solo l'abitudine a sentirla ripetere non ci fa più avvertire la volgarità.

Questa storiella - "rientrare del pagato" - andatela a raccontare ad Achillito Chiesa, a Ercole Lanfranchi, ad Alberto Barcella, a Nino Aquila, a Saverio Imperato, a Ottavio Masi - non sono forse loro i grandi collezionisti dei "bei tempi di una volta"? - e poi ditemi pure cosa vi risponderanno.

 
Mario e Alberto Diena, in ricordo di Achillito Chiesa.

E visto che abbiamo iniziato a parlare di linguaggio, tanto varrà allungarci un minimo.

"La filatelia è come il maiale: non si butta via niente" è un'altra espressione entrata nel frasario standard dei collezionisti.

Sul serio? Perché - sapete - i Bolaffi "di una volta", quelli che in tanti rimpiangono, si presentavano sul mercato come antiquari filatelici, antiquari per l'amor del cielo, e non macellai pronti a far carne di porco di qualunque cosa passasse sotto i loro coltellacci.

 
La bottega di un antiquario e la bottega di un macellaio: trova le differenze.

Questa assurdità - "in filatelia non si butta niente" - andatela a raccontare a Bernardo Naddei, a Luigi Garosci, a Francesco Melone, e poi, di nuovo, sappiatemi dire cosa vi risponderanno.

Non solo in filatelia si butta, ma si butta pure tanto, e si potrebbe anzi dire che la gran parte delle cose finiscono nel cestino dell’indifferenziata: com'è esperienza diretta di ogni "vero collezionista" (cit.) che deve filtrare centinaia se non migliaia di proposte, prima di trovarne una sola che fa al caso suo, che ben si adatta alla sua collezione, che concorre a migliorarla.

Per converso, è proprio il fatto di non aver voluto buttar via nulla - l'ostinazione a tenere a bordo ogni cosa, sino a sovraccaricare il giocattolo con oggetti creati bell'apposta per soddisfare degli accumulatori bulimici - che ha falsato la forma mentis e il modus operandi della maggioranza, e alterato artificiosamente la scala del business, conferendo alla filatelia una deprecabile dimensione speculativa (oggi finalmente in dissolvenza).

 

La filatelia: un antro di speculatori

 
Convegno di Firenze, 1966:
un operatore acquista la rivista "Il Collezionista" solo per stracciarla platealmente,
in segno di protesta contro la sforbiciata alle quotazioni dei francobolli di Repubblica, operata da Bolaffi.

La filatelia è (stata a lungo) un antro di speculatori.
 
Questo è il dato di realtà - insopportabilmente sgradevole - che il vostro cervello rifiuterà di accettare, per quanta evidenza potrete mostrargli, e contro cui opporrà immagini di segno contrario - di ricchi gentleman spassionati nei loro acquisti, di cultori della materia intenti a discutere intorno a un pezzo particolare, di studiosi meticolosi e imponenti biblioteche, di ragazzini sorridenti in giro per i mercatini, e di nonni che sfogliano l'album accanto ai nipoti - così da preservarvi in uno stato di comfort, secondo un processo ormai ben codificato nelle neuroscienze, e sostanzialmente basato sul rovesciamento delle proporzioni (detto semplice: si confonde l'1% con il 99%).
 
La giustificazione - ancora una volta - è piuttosto intuitiva.
 
A nessuno piace percepirsi - e presentarsi agli altri - come uno speculatore, a nessuno piace pensare di appartenere a un mondo speculativo.
 
A tutti - per contro - piace percepirsi e presentarsi come persone raffinate, di cultura, e credere di far parte di un mondo esso stesso raffinato ed evoluto.
 
Ma il vero collezionismo come fenomeno diffuso - se mai è esistito - fa parte di un'epoca così remota che nessuno, qui, può dire di averlo visto o vissuto, senza suscitare sorrisetti ironici.
 
Il vero collezionismo - come ne abbiamo esperienza - è un fenomeno di nicchia, di estrema nicchia, lasciatemi dire: siamo pochi, lo siamo oggi come lo eravamo ieri, come lo saremo domani.
 
Siamo sempre stati pochi, e continueremo a esserlo sempre, e se oggi vi sembriamo ancor meno è solo perché - viva Iddio - l'antro si è finalmente svuotato.

 

Speculuazione filatelica: le fonti

Negli anni '30 del secolo scorso uno degli scrittori più in voga ironizzava sul collezionismo di francobolli, attraverso le avventure dell'immaginaria Duchessa di Glottenburg, che per coprire i suoi lussi personali non aveva che da emettere una serie di commemorativi, sicura di incontrare i desiderata dei filatelici di tutto il mondo.
 
 
E' solo una spiritosaggine, si dirà, una facile ironia.
 
E invece no.
 
Lo spunto - come avviene per tutti gli scrittori - arrivava dalla realtà, che già all'epoca, e da lì a seguire, veniva denunciata come "speculativa".
 

 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
 
 







 
 

 
 









 
Se dovessi fare una scommessa - e arriverei a puntare sino a 50 euro - direi che la più parte di voi ha saltato a piè pari questa rassegna-stampa dell'epoca, o l'ha letta a mozzichi e bocconi, svogliatamente.
 
Nulla di sorprendente. E' il primo espediente - il più economico - messo in atto dal vostro cervello per proteggervi (a modo suo) da una realtà che rifiutate, con la scusa che gli articoli sono troppi e troppo lunghi, che il carattere è troppo piccolo, che alcune stampe sono sbavate, che si fatica a leggere, e via così, ché di motivi per girarsi dall'altra parte ce ne saranno sempre how many you want. E' un processo ben conosciuto anche ai semplici curiosi di neuroscienze: il primo passo per rimanere della propria opinione è ignorare tutte le evidenze contrarie.
 
Perciò, amici miei, cari lettori del Blog, ora dovete ingaggiare una lotta col vostro cervello, e obbligarvi, forzarvi, a leggere tutto - articolo per articolo, riga per riga, parola per parola - possibilmente più volte.
 
Solo così potrete realizzare che generazioni e generazioni di filatelici hanno respirato un'aria contaminata, infetta, impura, e quando l'aria si fa inquinata non c'è più un posto dove nascondersi (ché tutti devono respirare, e tutti saranno intossicati).
 
Non ha più allora grande rilevanza lo specifico settore in cui ci si muove - se "antico" o "moderno" - quando l'intero ecosistema si è ormai settato su una mentalità speculativa, quando si è diffusa la mentalità per cui tutti possono guadagnare con la compravendita di francobolli, e che alle brutte sia comunque sempre possibile rientrare delle somme spese.
 
Perfino figure come Giulio Bolaffi e Renato Mondolfo hanno alimentato l'equivoco - per certi versi comprensibilmente: è più facile vendere un bene voluttuario, se si lascia intravedere la possibilità di un rientro economico - e serviva il physique du rôle di un Burrus o di un Capasry, la caratura di un Lanfranchi, la stazza di un Aquila, per gettare cuore e portafoglio oltre l'ostacolo e farsi strada tra i fumi nocivi di un ambiente dove i più si raccontavano favole di continuo, sino a crederle vere.
 
 


La bolla - alfine - è esplosa, com'era nel suo destino, com'è nella natura di tutte le bolle.
 
Non rileva - non qui, non ora - individuare la causa proxima dello scoppio, se un evento inatteso come l'impetuoso sviluppo tecnologico, o il fisiologico esaurimento del fenomeno.
 
Più interessante è capire la causa remota, come, dove e quando la bolla si sia formata (e perché sia perdurata così a lungo).

 

Speculuazione filatelica: la causa remota

Vi siete mai chiesti come mai sia così complicato mettersi a dieta, iniziare un ciclo di allenamento, imparare una lingua straniera, e più in generale rompere qualsiasi routine per posizionarsi su un livello alternativo, anche quando - in astratto - lo riconosciamo nettamente migliore rispetto alla situazione attuale?

Lo è perché il nostro cervello, non solo non collabora, ma si oppone con tutte le sue forze, e si oppone opposizione perché (a modo suo) ci vuole bene e (a modo suo) tenta di proteggerci da ciò che (a modo suo) reputa pericoloso.

L'argomento ha le sue complessità, ma a volerne rendere il senso si può dire che il cervello - di base - ci invia continuamente uno stesso messaggio: sinora siamo sopravvissuti alla grande - senza metterci a dieta, senza allenarci, senza conoscere l'inglese - e non c'è alcun motivo per cui dobbiamo spezzare uno stato di cose che sinora ci ha garantito la sopravvivenza.

Può sembrare strano - lo ammetto - ma è come se il nostro cervello tenesse ancora memoria delle esperienze preistoriche dell'uomo di Neanderthal, quando l'unico problema - pressante, drammatico - era arrivare vivi al giorno dopo, e qualsiasi consumo di energia diverso dalla sopravvivenza veniva interpretato come unp sperpero imperdonabile.

Per ottenere la collaborazione del nostro cervello si deve prima combatterlo, ingaggiarvi un violento corpo a corpo, secondo meccanismi ormai ben codificati dalla neuroscienze, ma su cui qui non importa diffondersi. Conta solo - per quel che ci interessa - che al pronti-su-via il nostro cervello non collabora, e anzi si oppone, e il suo ostruzionismo si manifesta a ogni livello, anche di semplici opinioni.

Quando dobbiamo formarci un'idea su una data situazione, ecco che il cervello ci invia subito una prima soluzione - una chiave interpretativa pronta all'uso, che suona più che ragionevole - per acquietarci e toglierci il pensiero. Sono i cosiddetti einstellung - modo di vedere, disposizione - per recuperare l'espressione di Barbara Oakley in "Learning How to Learn", il più famoso corso gratuito sull'arte dell'imparare: la prima idea, e persino la prima soluzione a un problema, ci appare una risposta già perfettamente spendibile, o al più da ritoccare in aspetti marginali e di puro dettaglio, cosicché diventa straordinariamente complesso ricercare risposte alternative, più solide e affidabili, perché nella percezione complessiva (distorta) la spesa non vale l'impresa.

Bisogna diffidare per principio degli einstellung, delle prime soluzioni progettate dal cervello per impedirci di consumare energie. Non gli si deve dar tempo e modo di radicarsi, e men che mai caricarle di investimenti emotivi. Perché se per avventura queste soluzioni iniziali fossero sbagliate - come spesso accade - allora saremo irrimediabilmente fottuti.

Torniamo allora da dove siamo partiti e rileggiamo il tutto sotto questa nuova luce: si muove spesso dall'inferenza euristica di una filatelia in declino - per colmo d'impostura spacciandola come fatto osservabile - e quando se ne vuole capire la ragione, ecco che il cervello spedisce subito la risposta più economica, per molti versi razionale e ottimizzante, secondo cui c'è di mezzo l'uscita del francobollo dalla vita quotidiana, il fatto - questo sì - che le conquiste tecnologiche hanno azzarato tempo e spazio, e reso immediata la comunicazione a distanza.

Tutto sembra tenersi a meraviglia, e in effetti tutto si tiene, sul piano della pura logica. Peccato che "ciò che è logico è esatto, ma non dice nulla" - ammonisce il matematico Bruno de Finetti. "La logica è come un palo, utile in quanto può impedire alla pianta del pensiero di crescere storta. Ma, come un palo non è una pianta né il possibile surrogato di una pianta, così come la logica non è il pensiero né una specie di surrogato del pensiero".

Per chiarirsi: il trittico di affermazioni "Socrate è un uomo", "gli uomini sono mortali", "Socrate è mortale" ha lo stesso valore logico del trittico "gli alberi sono serpenti", "i serpenti sono sassi", "i sassi sono alberi". I due blocchi sono entrambi coerenti, e non se ne può stabilire la verità solo in base alla logica. Serve altro. Serve il pensiero, serve ragionare.

Proviamoci allora a ragionare, per quanta opposizione voglia fare il nostro cervello.

"Il collezionista si assume il compito di trasfigurare le cose", di "togliere alle cose il loro carattere di merce", per consegnargli "solo un valore d'amatore invece del valore d'uso" - è la netta posizione di Walter Benjamin (che sul collezionismo ha scritt pagine definitive).

Il collezionista è sovranamente disinteressato al valore d'uso degli oggetti e attratto solo dal valore sentimentale. Ma affinché questo suo stato d'animo possa esprimersi al più alto livello, affinché la sua più genuina manifestazione non subisca alcuna interferenza, è necessario che l'oggetto del desiderio sia stato preliminarmente privato di ogni funzione pratica, che già in origine sia stata operata una scissione tra i valori d'uso e d'amatore. Perché altrimenti, non solo subentrerà uno strabismo valutativo - posso amare l'oggetto, però, volendo, anche utilizzarlo - ma soprattutto ci si troverà esposti a fenomeni manipolativi variamente concepiti, visto che la produzione è ancora in essere e la si potrà strumentalizzare per fini speculativi. 

Che è esattamente quel che è accaduto in filatelia: da un lato i francobolli si collezionavano nel proprio album, per gusto e piacere, ma dall'altro si tenevano nel cassetto, pronti a usarli per spedire la corrispondenza, e rimaneva perciò in funzione l'apparato di Stato deputato a produrli, che vista l'ambivalenza dell'oggetto - da collezione da un lato, per il pratico uso dall'altro - poteva giostrare una pratica lucrativa, latente o palese, in cui finivano attratti anche i singoli collezionisti (i quali non agivano più sulla base di moventi spontanei e autonomi, ma seguivano le mode e il cosiddetto "mercato", assecondando l'atavica pulsione umana per la fata morgana dei facili guadagni).

Non sorprende che la situazione -  per sua natura traballante - potesse generare turbativa sociale, come effettivamente accadde a metà degli anni '60 con la gestione del cosiddetto "stock ministeriale", capace di provocare parecchi batticuori persino a Giulio Bolaffi.
 

L'Amministrazione postale del Regno d'Italia ereditò uomini, strutture e mezzi
delle Poste dei decaduti Stati pre-unitari, insieme ai loro francobolli. 
Le scorte venivano accantonate, man mano che un'emissione andava fuori corso,
e le Poste italiane si trovarono così in possesso di un discreto numero di francobolli 
- degli Antichi Stati e in seguito delle Colonie - non più utili ad affrancare la corrispondenza,
 ma di sicuro interesse per i collezionisti filatelici, già all'epoca numerosi.
Da fine Ottocento, e sino agli anni successivi al secondo dopoguerra,
 il Ministero pubblicò un listino periodico di "carte-valori vendibili per collezione",
 operando a tutti gli effetti come un commerciate filatelico, dotato di un proprio stock.
Nel 1948, col mutato clima politico, l'attività fu ritenuta quanto meno inopportuna,
 e nel 1952 l'ufficio filatelico presso il Ministero chiuse i battenti.
Rimanevano però significative giacenze di francobolli
- astrattamente di notevole valore, a prestar fede ai cataloghi -
cosicché nel 1954 il Ministro ne dispose la vendita all'asta,
stimando un incasso di 3 miliari di lire (47 milioni di euro di oggi)
 da impiegare per la costruzione di case a favore dei postelegrafonici.
La decisione gettò nel panico il mercato filatelico (operatori e collezionisti)
 bloccando gli scambi di quei francobolli verosimilmente presenti nello stock,
la cui prospettata disponibilità massiva ne avrebbe fatto crollare le quotazioni.
Da ogni angolo si levarono voci per chiedere la distruzione delle giacenze,
ché altrimenti si sarebbe potuto innescare un effetto domino dirompente.
 L'iniziativa andò in stand-by, ma nel luglio del 1960 riprese quota, 
a opera del Ministro Spallino, che fissò la prima asta per il 12 dicembre 1961.
Giulio Bolaffi capeggiò il nuovo movimento di protesta,
pubblicando degli editoriali infuocati sulla rivista "Il Collezionista":
parlò di "teatrino" e "sincero sdegno", di "abissale incompetenza filatelica",
di "paurosa ignoranza delle più elementari leggi economiche" (da parte del Ministro)
 e pur non avendo "ancora perduta la speranza che il buonsenso possa infine prevalere
e che di tutto lo stock rimanga solo un mucchio di cenere",
invitava il mondo filatelico a boicottare l'asta, a mandarla deserta.
(come poi avvenne, con una sola offerta al di sotto della base:
1,05 milioni di dollari, cira 650 milioni di lire di allora,
da parte di un grossista statunitense, che se la vide rifiutata).
Il Ministro non indietreggiò di un passo, e anzi avanzò:
nuove tornate andarono in scena il 13 febbraio e il 19 aprile1962,
con un esito sostanzialmente analogo alla prima
(un'asta andò deserta, l'altra aggiudicò un solo lotto,
5000 "Repubbliche romane" a 4,05 milioni, contro una quotazione di 45 milioni).



La battaglia contro l'Onorevole Spallino fu combatutta con ogni mezzo possibile:
attività di lobby politica, editoriali abrasivi e persino vignette satiriche.
Bastarono comunque i miseri risultati delle tornate d'asta a tranquillizzare il mercato,
e per di più, rendendogli pure nota la consistenza dello stock - per numero e tipo di pezzi -
spinsero all'acquisto dei francobolli che vi erano presenti, con relativo balzo nelle quotazioni.
Nel 1966 - tuttavia - la bolla filatelica iniziò fatalmente a sgonfiarsi:
i francobolli moderni dell'area italiana persero valore, 
come naturale correttivo alle precedenti ondate speculative,
e il fatto divenne così evidente da non poter più essere ignorato.
Il numero di fine anno della rivista "Il Collezionista - Italia Filatelica"
veniva così incentrato su una "Tavola rotonda sulla speculazione filatelica",
 prodromica a una svalutazione delle quotazioni dei francobolli di Repubblica.
La decisione provocò la più plateale protesta dei collezionisti:
l'acquisto della rivista, solo per poterla strappare.
Proprio sul finire dello stesso anno, tuttavia, il nuovo Ministro Giovanni Spagnolli
autorizzò la distruzione dello stock ministeriale, dando nuovo respiro al commercio.
Si poteva ripartire con un nuovo giro, per arrivare sino ai giorni nostri...
 
 
 
 
"Anche il 2019 si è aperto filatelicamente con l'uscita del Libro dei francobolli,
il volume in cui Poste italiane raccoglie le emissioni dell'anno appena concluso.
Nell'edizione 2018 la dovrebbe far da padrona la tradizione;
infatti la veste editoriale strizza l'occhio al passato in controtendenza
con i volumi graficamente più moderni degli anni precedenti.
In realtà il contenuto rivela una sorpresa rivoluzionaria.
Infatti, insieme a tutti i valori del 2018, che il collezionista (a torto o a ragione)
si trova costretto ad acquistare per completare l'annata, come bonus
- ma obbligatorio e ovviamente a pagamento -
si trovano anche cinque esemplari della serie Alti valori
con facciali di 1.500, 2.000, 3.000, 4.000 e 5.000 lire (oggi equivalenti a otto euro),
che non si sa bene perché siano finiti nelle caselle del 2018 ben quarant'anni dopo.
E' la prima volta che Poste obbliga i collezionisti a 'ingoiare' vecchie emissioni.
Pensare di far cassa sulle spalle dei collezionisti è però molto pericoloso...
Se comunque ciò avvenisse, non credo che sarebbe necessariamente un male.
Infatti questa nuova realtà commerciale riuscirebbe ad avere un impatto forte sul mercato,
creando nuovi collezionisti grazie anche all'ingente quantità di francobolli a disposizione.
Temo però che se invece l’obiettivo fosse 'spolpare' i collezionisti attuali,
imponendo vecchie emissioni in aggiunta a quelle nuove,
allora il de profundis dei francobolli di Repubblica verrebbe scritto lapidariamente
proprio da chi invece dovrebbe essere il principale difensore
degli interessi dei collezionisti di quei francobolli"



 
"La filatelia italiana si lascia alle spalle mesi complicati.
Negli ultimi tempi le nuove emissioni hanno pesantemente risentito 
degli attriti fra le forze politiche espressione dell'alleanza di governo...
La diversità di vedute è emersa, per esempio, dalla singolare vicenda  del francobollo
'Lampedusa, Porta d’Europa', prima annunciato, poi cancellato e infine reintegrato.
Intanto, complice anche l'eliminazione del valore facciale, 
i francobolli assomigliano sempre più a etichette erinnofile"
 
 
 
"Oggi è imprescindibile considerare la velocità con cui le informazioni passano (e si dimenticano);
d'altra parte, difficilmente si fanno acquisti voluttuari senza una speranza di rivalutazione economica,
come sempre è stato per la filatelia. Penso, per esempio, agli anni Sessanta,
quelli del boom della filatelia e della relativa speculazione
che, sebbene abbia anche lasciato molte persone con il cerino in mano, 
innegabilmente ne ha avvicinate moltissime alla filatelia"




"Non c’è nessun oggetto di collezione
che sia nato già a fini collezionistici,
e in tal caso è una patacca"
(Alberto Bolaffi)

"In particolari momenti, una quantità di gente stupida dispone di stupido danaro in quantità. Di tanto in tanto il danaro di queste persone - noi lo chiamiamo il capitale cieco del paese - è particolarmente ampio e affamato; cerca qualcuno da divorare ed è la pletora; ne trova alcuni, ed è la speculazione; viene divorato, ed è il panico".

La celebre sequenza proposta da Bagehot in "Lombard Street" - usata come esergo da Kindleberger in "Manias, Panics and Crashes: A History of Financial Crises" - preserva ancora il suo vivace colore, la capacità di ritmare in modo accattivante e preciso la dinamica dei processi speculativi, filatelia inclusa.

"Il capitale cieco" dei collezionisti fu a lungo "ampio e affamato", in caccia della "pletora" (come quando una folla premette contro un bancone in Vaticano, tanto da rovesciarlo, mettendo in fuga le terrorizzate suorine addette alla vendita); ne trovò alcuni, e fu "la speculazione" (Giulio Bolaffi parlava di una "speculazione filatelica nazionale" - per dire delle sue dimensioni - e riferiva di un "mercato filatelico moderno [che] consente, a chiunque disponga di una anche limitata somma di denaro, di operare nello stesso in modo speculativo"); si è infine polverizzato, dopo aver oscillato a lungo tra picchi e valli, e ora son tutti lì a parlare di crisi della filatelia (con la lagna dei Bolaffi di ultima generazione per "i francobolli [che] assomigliano sempre più a etichette erinnofile").

"Gli speculatori possono non causare alcun male, come bolle d'aria in un flusso continuo di intraprendenza" - scriveva Keynes nel capitolo XII della sua "Teoria Generale" - "ma la situazione è seria quando l'intraprendenza diviene una bolla d'aria in un vortice di speculazione", che è esattamente quel è avvenuto in filatelia. "Quando lo sviluppo del capitale di un paese" - o se preferite del collezionismo filatelico - "diventa un sottoprodotto delle attività di una casa da gioco, è probabile che vi sia qualcosa che non va bene".

Era inevitabile che accadesse quel che poi è accaduto - per date premesse - e già all'epoca peraltro la soluzione era stata individuata con precisione chirurgica, dagli spiriti più accorti e avveduti.

 
Il cortocircuito delle nuove emissioni
era riconosciuto già negli anni '50 del secolo scorso:
già allora si avvertiva la necessità di "ritornare alla filatelia",
alla vera filatelia, e non già quel simulacro che ne aveva fatto la speculazione.

Il francobollo assume dignità collezionistica - sale al rango di oggetto meritorio di essere conservato e preservato - nella misura in cui rappresenta una realtà visibile di un mondo invisibile, una presenza ancora tra noi di un mondo ormai scomparso.

Ben venga, dunque, il suo ecclissarsi nella vita di ogni giorno, perché viene così rimossa - era ora! - la radice di tanti equivoci (e speculazioni) che ne limitavano e ne frustravano le potenzialità collezionistiche, e lo impoverivano agli occhi degli spettatori esterni (col risultato di bloccare l'arrivo di nuovi, veri collezionisti).

Col francobollo finalmente sottratto alla pratica d'uso se ne potranno adesso riscoprire le valenze istituzionali e politiche, culturali e propagandistiche - a volte palesi, altre sottese e da decifrare - che lo rendono un oggetto di peculiare interesse storico (e quindi collezionabile) rivelatore del contesto sociale e politico, artistico e di costume, di cui è spesso la più completa, vivida e sintetica espressione.
 

 
Estratto da "Il Monitore della Toscana", anno XVI, n. 31, maggio 2020.

La filatelia sta finalmente tornando a casa, ai filatelisti veri, a quei pochi, felici, manipolo di fratelli, a cui implicitamente si rivolgeva Giulio Bolaffi negli anni convulsi della più acuta speculazione: "completate le vostre raccolte, iniziatene di nuove, non lasciatevi turbare e fuorviare da illazioni, manovre, chiacchiere. Ragionate con la vostra testa, chiedete magari consiglio se volete, ma fatevi una vostra convinzione. Non seguite la corrente né in un senso né nell'altro. Ed abbiate fiducia: la vostra collezione di francobolli non vi tradirà mai".

 

Gli anni d'oro

 
 ♫Ma chissà poi se erano quelli davvero tempi tanto belli...
(Francesco Guccini)
 
"Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente".
 
Avete capito, sì? Non dovete conformarvi alla mentalità di questo secolo.  Già, ma... qual è "questo secolo"? Quello appena iniziato, di cui ne abbiamo vissuto un quarto sino a oggi? No. E' l'ultimo dello scorso millennio? Neppure. Sarà forse il primo dell'800? Neanche. Sapete qual è "questo secolo"  a cui non bisogna conformarsi? E' il secolo dell'apostolo San Paolo (e dalla sua lettera ai Romani - 12, 2 - è ripresa la citazione).
 
Perché per quanto si possa tornare indietro, per quanto si voglia risalire a un immaginifico Eden, sempre si troverà qualcuno lagnoso del presente e nostalgico dei bei tempi andati.
 
Smettiamola perciò di rimpiangere "la filatelia di una volta", "i mercanti di una volta", "gli studiosi di una volta", "i collezionisti di una volta", "le case d'asta di una volta", "i periti di una volta", perché l'unica cosa bella "di una volta" - amici miei - era solo la nostra capacità di stare in sintonia con l'universo, di vibrare alle frequenze più alte, di fare la cosa giusta anche quando nessuno guardava, tutte situazioni favorite dalla più giovane età - è vero - quando eravamo più buoni e belli, con energie ed entusiasmi che rendevano tutto magnifico, ma che a un'analisi lucida e spassionata non sono mai precluse a nessuno, in nessun tempo e in nessun luogo, e che si possono sempre riscoprire e rinnovare, se solo lo si vuole.

Ché alla fine non si smette di giocare perché s'invecchia, ma s'invecchia perché si smette di giocare.
 
 ♫Ma quaand gh'eri tredes'ann curevi biutt cum'è un cavall,
fiadavi l'universo cunt el coer in mezz ai ball...
quand seri püssee scemu s'eri multu püssee bon,
in brasc all'universo e mea ne la sua presonn...
(Davide Van De Sfroos)

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