DA GIULIO AD ALBERTO E RITORNO

La vita chiama ogni figlio a un conflitto col padre, una regolarità sociale che conosce poche eccezioni. Voglia di emergere e primeggiare, di liberarsi da una presenza inadeguata alle proprie ambizioni, o di affrancarsi dal peso di una grandezza soffocante, in ogni caso di emanciparsi da ogni forma di protezione, per correre i propri rischi, scrivere un altro capitolo, possibilmente diverso e alternativo, per proseguire a modo proprio nel solco già scavato o per tracciare percorsi nuovi e itinerari originali. Ogni figlio è figlio del suo tempo, prima che di suo padre, e il tempo lo sfida a esibire i suoi talenti nel suo tempo, nel tempo a cui appartiene.

Giulio e Alberto Bolaffi, 1971.

Il rapporto (professionale) tra Giulio Bolaffi e il figlio Alberto è segnato da opinioni divergenti e incomprensioni, da visioni difformi sul modo di "fare impresa".








Notate l'eleganza e la finezza con cui sono rappresentati questi delicati passaggi di vita, situati sul crinale tra intimità familiare e conduzione d'impresa. Le opinioni di Giulio e Alberto "non sempre [...] si sono trovate all'unisono", anche se Alberto si sentiva "molto simile" a Giulio, "pur senza avere le sue qualità". Giulio - nel ricordo ammirato di Alberto - era "un grande mercante", anche quando "non badava ai dettagli di ordine pratico". Alberto entrò in azienda con l'obiettivo esclusivo di aiutare suo padre, senza altre mire, ma le sue encomiabili intenzioni, attuate "per tutta la vita", non riuscirono a evitare "qualche incomprensione".

"Non sempre", "unisono", "qualche", "dettagli". Parole sobrie e misurate, scelte con attenzione e soppesate con cura, avrei voglia di dire calibrate per attenuare il voltaggio della narrazione del conflitto generazionale. "Simile a lui", "le sue qualità", "generosi slanci", "grande mercante". Parole di piena identificazione, di sincero elogio, per riconoscere che nessuna creatura può essere più grande del creatore.

Alberto apre solo un spiraglio sul conflitto col padre, in questa occasione istituzionale. Serviranno altri quindici anni e un contesto più light - una intervista a "La Repubblica", nel 2016 - per vedere allargarsi quello spiraglio, per scorgere appena più chiaramente, da esterni, la tensione tra padre e figlio, tra Giulio e Alberto (e un ulteriore apertura l'abbiamo in un'altra e più recente intervista, sempre a "La Repubblica").



Alberto si considerava "un ribelle" e il tentativo di imporgli "un modello di vita calvinista" riuscì "solo in parte"; voleva fare "il pilota di aerei", ma fu messo dal padre di fronte a un aut-aut, "o entri in azienda o te ne vai". Alberto decise di rimanere, scelse di vivere con la compravendita "dei desideri altrui" - i nostri, quelli dei collezionisti - e maturò la necessaria sensibilità per intuire che "c'è qualcosa di erotico nelle collezioni", come noi collezionisti ben sappiamo.

Alberto Bolaffi restituisce l'immagine di un uomo alla fine gratificato dal suo percorso professionale, di un figlio estremamente rispettoso della persona del padre, ma prima ancora del nome stesso che portava, della sua storia, della tradizione. Ha sufficiente serenità e soddisfazione per vedere "un fatto naturale" nella sua uscita di scena - nel passaggio del testimone a suo figlio - un avvicendamento che non gli dà tristezza, ma lo rende anzi "leggero e irresponsabile", stati d'animo qualificati con grande autoironia.   


La risposta all'ultima domanda del giornalista - la domanda delle domande - è un capolavoro di saggezza, che può dare solo chi, dal lento scorrere senza uno scopo, di questa cosa che chiami "vita", ha imparato a trattenere il meglio offerto da ogni occasione ricevuta in dono, senza abboccare agli orpelli, alla vanagloria.



 Alberto Bolaffi, 2016

La Bolaffi Spa è oggi amministrata da Giulio Filippo Bolaffi - figlio di Alberto, nipote di Giulio - "il 'killer' che ha studiato in America e che ha rivoluzionato l'azienda", con l'immagine e il giudizio del padre.

Chi è Giulio Filippo Bolaffi, quali sono le sue conoscenze e competenze - i suoi skill e il suo know-how, come dice chi ha studiato all'estero - ce lo racconta lui stesso, in una intervista a "Il Sole 24 Ore".



Voglio stralciare due passaggi, da questo succinto curriculum vitae.





Notate lo stile di Giulio Filippo, nel parlare di suo padre Alberto, e confrontatelo con quello di Alberto, quando parla di suo padre Giulio.

Parole piatte e dirette, quelle di Giulio Filippo, chiare sino alla soglia dell'aggressività, che mettono in piazza i "molti conflitti" con Alberto, laddove Alberto adombrava "qualche incomprensione" e opinioni "non sempre all'unisono" con suo padre Giulio. Giulio Filippo si era "illuso che fossero cambiante alcune cose in azienda", laddove Alberto era stato pacatamente portato "a fare delle considerazioni". Giulio Filippo rileva con disappunto che "purtroppo non era cambiato granché", che "dopo tre anni ci siamo trovati da punto a capo", laddove il controcanto di Alberto ci dice che "non sarei quello che sono poi diventato senza l'impronta paterna".

"Molti conflitti", "mi sono illuso", "purtroppo", "non è cambiato granché", "punto a capo". Questo è il nuovo che avanza, lo stile di chi è arruolato nell'esercito del selfie, di chi si abbronza con l'iPhone. Non dobbiamo stupirci se Giulio Filippo - nell'ambiente filatelico e forse non solo - è invariabilmente chiamato col suo secondo nome, Filippo, e non col primo, come di regola avviene per chi ne ha più d'uno. Perché Giulio è un nome evocativo, ingombrante, che può diventare opprimente, se non si possiede nemmeno un brandello della sua stoffa.

I conflitti generazionali tra i figli e i padri sono speculari ai bracci di ferro tra i padri e i figli piccoli: il papà deve lasciarsi battere dalla pur minima forza fisica del suo figlioletto, perché non ha alternativa, perché la sola alternativa è far valere la sua di forza, e di conseguenza schiacciarlo; il figlio, in età adulta, deve accettare di piegarsi alla volontà paterna, perché altrimenti avrà gioco facile nel sopraffarla, gli basterà poco ad annichilirla, ancor meno del già minimo sforzo con cui un padre può mandar giù il suo bimbo a braccio di ferro.

Nell'intervista ad Alberto Bolaffi c'è probabilmente un sottinteso, un non-detto. L'aut-aut di Giulio ad Alberto - "o entri in azienda o te ne vai" - va forse integrato con un inciso rimasto implicito nella narrazione: o entri in azienda, alle mie condizioni, o te ne vai. Alberto accettò di entrare in azienda alle condizioni di Giulio, ma giocoforza "non sempre le nostre opinioni si sono trovate all'unisono" e nel tempo, qua e là,  può esser sorta "qualche incomprensione".

Giulio Filippo - che da qui in poi possiamo chiamare solo Filippo - ha ben altro temperamento, meno conciliante e accondiscendente, anche quando suo malgrado si ritrova all'angolo. Ascoltiamo le sue parole.


Riepiloghiamo. L'esperienza newyorkese di Filippo si conclude con una liqudazione di asset, che la vecchia generazione chiamerebbe prosaicamente fallimento, ma che qui fallimento non è, perché - così dice Filippo - tutti i salmi finiscono in gloria e lui ne esce comunque con un guadagno (che nella sua percezione - immagino - è come la vittoria per la dirigenza della Juventus: non è importante, è la sola cosa che conta). Alberto, "che chiaramente ha sempre sperato nel mio ritorno" - e di nuovo che pessimo gusto - non concepisce l'azienda in mano a una persona con un cognome diverso da Bolaffi, non riesce a immaginare il nome Bolaffi speso nel mondo da qualcuno che non lo porti addosso, sentendone il peso e la responsabilità. Filippo vede così pendere sulla sua testa "una spada di Damocle" - e al suo cattivo gusto siamo ormai assuefatti - e si toglie dall'imbarazzo con la risolutezza del padre che manda giù il braccio del figlio, annoiato da quel fittizio braccio di ferro. Filippo impone la sua condizione, "avere tutte le deleghe", come a dire la Bolaffi ora è mia, e la gestisco io. "Quella che sembrava una cosa molto complicata sta funzionando", dice lui, Filippo.

Come stia funzionando ce lo racconta sempre lui, Filippo, seppur indirettamente, commentando il fallimento - questa volta possiamo chiamarlo col suo nome - del dipartimento di fotografia della Bolaffi. In quell'occasione -  numero 10 del magazine "Best Bid" - ci fornisce la sua visione sul ruolo delle case d'asta nel mercato dell'antiquariato.



La Bolaffi Spa è una casa d'aste e i banditori non sono market-maker o price-setter, non fanno e non pilotano il mercato. Le case d'asta sono coadiuvanti, per dirlo al modo dei farmacisti, che concorrono a rendere il mercato "più fluido e maturo", nel presupposto però che il mercato esista già. E il mercato nasce e si sviluppa per opera dei grandi mercanti, di "mercanti degni di questo nome, che comprino per fare stock, pur senza aver clienti a cui vendere nell'immediato". Ci vuole un Giulio Bolaffi, insomma, perciò armiamoci e partite, perché un Giulio Bolaffi, qui alla Bolaffi, non c'è più. C'è solo Filippo, che ha avocato a sé "tutte le deleghe".

I tempi sono cambiati, di eroici cavalieri non abbiamo più notizia, e non spetta a noi ricrearli. Il mondo evolve, le tendenze cambiano, e per noi è più semplice assecondarle passivamente, anche a costo di allontanarci dal nostro storico core business, piuttosto che tentare di pilotarle, per restare ben saldi alla nostra tradizionale expertise.


Dobbiamo però riconoscere a Filippo il merito di aver perfettamente interiorizzato le grandi lezioni del suo MBA americano, sui classici temi di teoria economica: la agency theory e il principal-agent problem, le economie di scala e i processi aziendali di mergers and acquisitions.



Le parole di Filippo lasciano intravedere una gestione d'impresa orientata all'american style. La Bolaffi è solo un'azienda, come ce ne sono tante. Ha un conto economico da tenere in utile, e l'economia aziendale ha i suoi precetti per far funzionare un conto economico, per molti versi indipendenti dal particolare settore di attività. Che si commerci in francobolli o in capi di abbigliamento, in articoli per la casa o prodotti per l'igiene intima, non è poi così rilevante, a un certo livello di generalità. Quei precetti valgono erga omnes, a prescindere, e a quei precetti dobbiamo attenerci. Che importa, in fondo, chi sia il proprietario della Bolaffi, se un esponente della famiglia Bolaffi o una multinazionale cinese? Che importa, in fondo, se ad amministrarla è un Bolaffi o un manager proveniente dal settore dei sanitari per bagni d'avanguardia? Queste remore sono solo sentimentalismi demodé, conta solo far funzionare il conto economico, e qual è il problema, se i conti funzionano meglio con cinesi e venditori di sanitari?

I nonni fondano, i padri amministrano, i figli sperperano, così si dice. Il ciclo di vita dura in media tre generazioni e la Bolaffi Spa, se non altro, ne ha guadagnata una, il vero problema le si è prospettato solo alla quarta generazione.


Buona fortuna, Filippo.


Giulio Filippo Bolaffi, 2018.

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