LE DUE SICILIE - Normanni e Svevi
Normanni: Nordmanni o Nordmaenner, Uomini del Nord.
Popolo dell'Alto Medioevo dell'Europa settentrionale, Svezia, Danimarca e Norvegia,
migrato a ondate successive, per portarsi in Francia, in Inghilterra e nell'Italia meridionale.
Svevi: Suebi o Suevi, "liberi", secondo l'interpretazione prevalente,
ma è proposto anche il significato di "vaganti" o, come nomignolo, "neghittosi".
Antico popolo germanico di origini plurime:
"i Suebi non costituiscono un unico popolo"
- scrive Publio Cornelio Tacito -
"occupano infatti la maggior parte della Germania,
per di più distinti in tribù con nomi diversi,
pur chiamandosi, nel loro complesso, Svevi".
La storia del Regno di Sicilia - di un luogo al centro del Mediterraneo, ponte tra oriente ed occidente, tra Africa ed Europa, cuore pulsante del mondo civilizzato e crocevia di civiltà e crogiolo di culture - ha le sue origini remote laddove non ci si aspetterebbe mai di trovarle: nelle fredde regioni del nord Europa, nelle scorrerie dei popoli vichinghi.
Questi nomadi del mare - al principio - non vogliono neppure occupare nuovi territori; organizzano spedizioni in cui si portano dietro anche delle merci - ché una volta sul posto si scopre magari la convenienza del commercio, rispetto alle aggressioni e alla razzie - e solo la prospettiva di facili bottini fa tirar fuori la spada ai mercanti, per trasformarli in guerrieri; e a ogni modo - alla fine - tutti ritornano da dove son venuti, a godersi i loro successi, mercantili o bellici che siano.


Le scorrerie vichinghe per l'Europa.
Nel tempo le spedizioni aumentano in numero e in adesioni - sempre più uomini partono, sempre più di frequente, con ogni probabilità a causa di cambiamenti climatici avversi - e si caratterizzano per ambizioni di conquista maggiormente evidenti.
Tornare a casa - d'altra parte - non è più comodo e favorevole, e i vichinghi iniziano così a svernare nei luoghi in cui mettono piede. I cronisti franchi e anglosassoni lo notano: "per la prima volta l'esercito" - li identificano cosi, come eserciti - "si è fermato a svernare"; e a forza di svernare, i capi iniziano a riflettere sulla convenienza a fermarsi stabilmente.
All'inizio del IX secolo una colonia vichinga mette piede nel nord-ovest dell'odierna Francia. Vi incontrano la resistenza della popolazione locale - i Franchi di Carlo Magno - con cui alla fine scendono a patti, sino a mescolarli con loro, ad adottarne usi e costumi, leggi e religioni, ma affermandosi come padroni, con la fondazione di un Ducato a cui assegnano un nome evocativo: Normandia, terra dei Normanni, degli uomini del nord.
"Questo popolo è dotato di una particolare ingegnosità" - scriverà il monaco benedettino Goffredo Malaterra, esso stesso normanno - "Sa vendicare le ingiustizie, lasciare la propria patria nella speranza di trovare altrove opportunità più vantaggiose. Avido di ricchezza e di potere, è in grado di simulare e di dissimulare qualunque cosa. Se non fosse fermamente trattenuto dal giogo della giustizia, sarebbe incline a ogni genere di trasgressione".


Gli spostamenti dei Normanni in Europa e oltre.
E poi c'è la Sicilia, un territorio strategico, geograficamente aperto a ogni punto cardinale, in entrata e uscita, a due passi dal continente europeo e ponte naturale verso il Mediterraneo orientale, per sua natura esposto all'influenze di una varietà di popoli: i greci vi avevano fondato colonie fiorenti e costruito splendidi templi, nelle epoche avanti Cristo; i romani la consideravano il granaio dell'Impero, e le riconobbero lo status di "provincia" (che in termini moderni definiremmo "nazione"); nel IX secolo erano infine arrivati gli arabi, un popolo all'avanguardia nelle scienze e nella tecnica, che l'avevano abbellita con opere architettoniche di notevole pregio.
Nel 1098 - addirittura - Papa Urbano II gli concede l'Apostolica Legazìa, un istituto religioso e politico per cui era il Legato - di fatto Ruggero - a proporre i vescovi e gli arcivescovi siciliani (poi consacrati dal Pontefice) cosicché il Sovrano di Sicilia era anche a capo di una Chiesa autocefala, un caso unico nell'Occidente cattolico, che perdurerà sino al 1864.

Il successore di Ruggero - a seguito della prematura morte del primo figlio Simone - è Ruggero II, anch'esso infante e perciò sotto la reggenza della madre Adelasia del Vasto, che lo sensibilizza sin dal principio a vivere in una realtà cosmopolita, a ricercare un equilibrio tra culture, a far sì che tutte le civiltà a caratterizzare la vita di corte.

Il Regno normanno di Sicilia un esempio ante litteram del moderno Stato europeo, per assetto istituzionale, estensione territoriale, peso politico e potenza militare.
I Normanni impongono un sistema feudale centralizzato, che lascia autonomie locali, ma toglie spazio al particolarismo giuridico. Il Re governa tramite i suoi funzionari - burocrati dello Stato, non potenti signorotti - nella misura in cui riesce a fondere i rapporti aristocratici feudali con l'idea di un capo non più un primus inter pares, ma autorità superiore. Il potere regio continua a confrontarsi con i poteri locali, ma la loro subordinazione al potere centrale e l'organizzazione verticistica e piramidale della società - un inedito, in un panorama politico dominato dalla proliferazione di centri di potere - inibiscono lo sviluppo dei movimenti comunali, che in quegli anni iniziano invece a diffondersi nel settentrione.
Si può parlare - in particolare - della prima forma di Parlamento in senso moderno: non era ancora un organo deliberativo, e i deputati erano scelti fra i nobili e gli ecclesiasti più potenti (identiche caratteristiche, del resto, avrebbero avuto i parlamenti inglesi a partire dal 1215); ma la sua funzione consultiva e di ratifica dell'attività del Sovrano, gli consegnava un ruolo si sorveglianza nelle scelte di tassazione e nella gestione dei rapporti con le Potenze straniere; lo stesso Ruggero II riceve la dignità regia da una deliberazione parlamentare (e l'evento imporrà il canone - pur non codificato - per cui tutti i successivi sovrani del Regno di Sicilia dovessero conseguire l'assenso del Parlamento).
Questa forma di controllo politico e sociale si modulerà nel tempo in armonia con le diverse situazioni di fatto. E' un esempio mirabile del "genio normanno", della rara capacità d'interpretare, contemperandole, le molteplici manifestazioni della realtà da governare. Il Regno prospera sulla tolleranza tra culture, la lungimiranza dei governanti, la varietà degli esponenti di corte, che accolgono sapienti di ogni fede. A quel tempo si diceva: devi andare a Roma, se vuoi imparare il latino; a Bisanzio, per il greco; a Damasco, per l'arabo; a Palermo, per imparare latino, greco e arabo tutti assieme, in una sola volta.
Anche la sorte arride alla dinastia, collocandola in un'epoca di ricchezza materiale, di fluidità nei commerci e crescita economica: la Sicilia è una terra ad alta produttività, in termini sia quantitativi che qualitativi, che permette ai normanni di avviare e gestire fiorenti commerci con l'Europa, l'Oriente e il nord Africa.
Da Ruggero I (il conquistatore della Sicilia dagli Arabi) a suo figlio Ruggero II (che la rese grande) e poi ai discendenti Guglielmo I "il Malo" (quartogenito di Ruggero II) e suo figlio Guglielmo II "il Buono" (mecenate e uomo di cultura) la dinastia normanna segna il momento di concepimento e di gloria del Regno, racconta l'epopea di una schiera di capitani di ventura, che iniziarono l'intrapresa con la nomea di mercenari e la conclusero con lo status di Re, potendo ogni Altavilla vantarsi di esser nato e cresciuto in Sicilia, di non conoscere altri luoghi - altre patrie - oltre il Regno di Sicilia.

La scomparsa prematura e senza eredi di Guglielmo "il Buono" prospetta il problema della successione.
Tre figure reclamano il trono: Tancredi di Lecce, primo cugino del Re defunto, figlio illegittimo di Ruggero III, esiliato sotto Guglielmo "il Malo" e rimpatriato con Guglielmo "il Buono"; Riccardo Cuor di Leone, fratello della Regina rimasta vedova; Enrico di Svevia, figlio dell'Imperatore Federico Barbarossa, che nel 1186 - a 20 anni, grazie a una geniale azione diplomatica del padre - aveva sposato Costanza d'Altavilla, figlia di Re Ruggero II ed erede designata da Guglielmo.
La politica indica Tancredi, in un intreccio di spinte e veti: da un lato la pressione della corte normanna, per favorire l'ultimo maschio degli Altavilla, dall'altro l'insofferenza del Papato per gli Svevi, per il timore di ritrovarsi schiacciato tra territori retti da una stessa dinastia - Impero a nord, il Regno di Sicilia a sud - una preoccupazione di sicuro superiore al fastidio di vedere un figlio illegittimo sul trono (che peraltro non ne avrebbe neppure avuto diritto, secondo la legge normanna del maggiorascato).
Messo a tacere Riccardo Cuor di Leone, con una bella somma di denaro, Tancredi si prepara allo scontro militare con Enrico Svevia, e lo fa con raffinata intelligenza. Gli serve la fedeltà dei baroni e la partecipazione delle città, perciò è largo di concessioni e privilegi sia con gli uni che con le altre. Lui, poi, è un soldato di valore, coraggioso e audace, e così tutto concorre alla sua vittoria: respinge le velleità di Enrico VI, in una battaglia rocambolesca, in cui gli è amica una pestilenza che decima l'esercito avversario; consolida la posizione della dinastia, le conferisce un respiro più ampio; incorona il figlio Ruggero III, un modo affatto subliminale per blindare la successione, e ne combina il matrimonio con la figlia dell'Imperatore d'Oriente, in una logica di pacificazione con i bizantini.
In quello stesso periodo i tre più grandi Sovrani d'Occidente - l'Imperatore germanico Federico I, il Re di Francia Filippo Augusto e il Re d'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone - compartecipano alla Terza Crociata. Riccardo muove per via di mare, attraversa il Mediterraneo e fa scalo in Sicilia. Lo sbarco non è solo un fatto logistico. Il Re vuol manifestare il suo disappunto per la sorte della sorella Giovanna, privata dell'eredità promessa nel matrimonio con Guglielmo II, e manifestare il disappunto - all'epoca - significa invadere, devastare, saccheggiare. Solo l'intervento diplomatico di Re Filippo - anch'egli approdato sull'Isola - consente di ricomporre la situazione. L'episodio è marginale, e tuttavia rappresenta un presagio, il segno dell'imminente precipitare degli eventi.
Ruggero III muore improvvisamente, a soli 19 anni, e poco dopo viene meno anche Tancredi, in una spedizione nella parte peninsulare del Regno, per ridurre all'obbedienza i vassalli di fede imperiale.
Sul trono sale formalmente Guglielmo III, un bambino di 9 anni, sotto la reggenza della madre, la Regina Sibilla di Medania.
L'epoca degli Altavilla è alla fine, il sipario aperto nel 1130 inizia a chiudersi nel 1194.
Enrico VI non scorge ora più ostacoli, non ha più nemici a tenergli testa, e un inaspettato strascico della Terza Crociata gli fornisce pure le risorse per l'intervento militare.
Riccardo Cuor di Leone, sulla via di ritorno, attraversa le terre del Duca d'Austria, pubblicamente sbeffeggiato durante la spedizione. Il Re inglese è riconosciuto, arrestato e consegnato proprio a Enrico, neo Imperatore di Germania, che reclama un colossale riscatto, pagato dalla Regina consorte e subito impiegato per finanziarie la discesa nel Regno di Sicilia.
Tancredi non c'è più e Guglielmo III è solo un bambino. I baroni normanni, scoraggiati, si sottomettono.
Enrico VI è incoronato il giorno di Natale, il 25 dicembre 1194, e sarà proprio il piccolo Guglielmo a depositare simbolicamente la corona ai piedi dell'Imperatore, in segno di rinuncia solenne a ogni rivendicazione.
La moglie Costanza è intanto in viaggio verso la Sicilia e mette al mondo l'erede il giorno dopo l'incoronazione. Più il folklore e le pittoresche tradizioni postume, che non le fonti coeve, raccontano di un parto avvenuto sulla pubblica piazza di Jesi, per fugare le dicerie sull'effettivo stato di gravidanza della Regina, suscitate da un'età anagrafica - 40 anni - all'epoca inusuale per una maternità. Tutti devono assistere alla nascita del futuro Re, nessuno può covare sospetti sulla sua origine regale, sul suo diritto al trono. "Nacque Federigo secondo imperadore, che fece tante persecuzioni a la Chiesa, come innanzi nel suo trattato diremo" - scrive il cronista Giovanni Villani, documentando i continui conflitti col Papato - "E non sanza cagione e giudicio di Dio dovea riuscire sì fatto ereda, essendo nato di monaca sacra, e in età di lei di più di LII anni, ch'è quasi impossibile a natura di femmina a portare figliuolo, sicché nacque di due contrarii, allo spirituale, e quasi contra ragione al temporale".
Il neonato passerà alla storia come Federico II - secondo il numerale del Sacro Romano Impero, che gli rimarrà anche per il Regno di Sicilia - ma è battezzato Federico Ruggero, in omaggio a Federico Barbarossa di Hohenstaufen, da un lato, e a Ruggero II d'Altavilla dall'altro, per contemperare le tradizioni sveva e normanna, e Federico finirà con l'assorbire le peculiarità dell'una e dell'altra ascendenza, la durezza e l'alterigia tipiche tedesche, lo spirito audace e avventuroso dei normanni.
Costanza lo affida alla duchessa di Spoleto, e prosegue il suo viaggio verso la Sicilia, più per vigilare sulle maestranze tedesche, che per amore del marito.
E' iniziata la dinastia sveva, in un clima tetro, di repressioni sanguinose ed esecuzioni di massa.
Enrico VI vede nemici ovunque, tra i vivi e i morti, tra i forti e i deboli. Profana le spoglie di Tancredi, per togliergli la corona e le insegne reali con cui era stato sepolto. Spedisce il piccolo Guglielmo in Germania, non prima di averlo mutilato, per eliminare il rischio residuo di future pretese, non pago dell'umiliazione inflittagli nel cerimoniale dell'incoronazione. Attua una spoliazione dei baroni normanni - cui aveva lasciato intravedere la possibilità di un atto di clemenza - a vantaggio dei suoi favoriti. Risponde a ogni protesa con repressioni sproporzionate, spesso inutili. Dubita persino della moglie Costanza, la obbliga ad assistere alle torture inflitte a chi, devoto alla Regina, aveva complottato contro il Re, per poi confinarla nel Palazzo Reale di Palermo, sotto stretta sorveglianza.
Al potere di Enrico VI non corrisponde dunque la coesione e l'armonia dei popoli su cui lo esercita - che non possono né apprezzarlo né amarlo - e soltanto la sua improvvisa dipartita restituisce al Regno una parvenza di normalità.
Le ultime volontà di Enrico consegnano la Sicilia al Papa, ma il testamento è occultato da Marcovaldo di Anweiler, siniscalco, amministratore e vassallo delle regioni prossime a esser cedute, in accordo con altri nobili tedeschi intenzionati a perpetuare il governo del Regno in nome dell'Impero.
Le trame di potere però si sfaldano davanti a un'arguzia e a una risolutezza tutta al femminile.
Costanza è la protagonista di una fase breve, intensa e decisiva. Trasferisce il piccolo Federico a Palermo, proclamandolo Re di Sicilia, ancora infante, nella pentecoste del 1198, con un fastoso rito bizantino officiato nel Duomo. Riporta in auge la tradizione normanna e procede contro i tedeschi, ormai libera dal vincolo del matrimonio svevo. Accetta il vassallaggio verso il Papa - rifiutato da Enrico - per beneficiare della protezione della Chiesa, per farne spada e usbergo del figlio Federico. Morirà poco dopo, nel 1198, ultima discendente degli Altavilla, consegnando alla storia una vita costellata di leggende e imprese poderose.
"Quest'è la luce de la gran Costanza" - ricamerà Dante nel "Paradiso" (III, 118-120) - "che del secondo vento di Soave, generò il terzo e l'ultima possanza".



Intorno a Costanza d'Altavilla girano tante favole,
molte raccontate dal Fazzello, nella sua "Le Due Deche dell'Historia di Sicilia",
tante altre dalla storiografia anti-sveva dei secoli XIII e XIV,
che nelle lotte tra Papato e Impero, tra guelfi e ghibellini,
s'impadronì delle leggende sorte intorno alla figura di Costanza,
le ampliò e perfezionò, sino a trasformarle in uno strumento di propaganda.
Non era ancora trascorso un secolo dalla nascita di Costanza,
e già si credeva che fosse cresciuta nella solitudine di un monastero,
e che il Papa in persona l'avesse sciolta dai voti, per permetterne il matrimonio con Enrico VI.
La cosiddetta "leggenda del monacato" fu immortalata da Dante nel "Paradiso"
("sorella fu, e così le fu tolta - di capo l'ombra de le sacre bende. - Ma poi che pur al mondo fu rivolta - contra suo grado e contra buona usanza, - non fu dal vel del cor già mai disciolta"),
e in seguito ulteriormente elaborata dalla fantasia popolare,
al punto che dal secolo XIV vari monasteri si contesero l'onore di aver ospitato l'Imperatrice.
Tante favole, sì, ma anche molti fatti reali e tanti altri sul crinale dell'immaginazione.
E' prigioniera nientemeno che di suo nipote Tancredi, durante la battaglia con Enrico VI,
per farne un mezzo di scambio in vista di una possibile tregua.
Tancredi accetta di consegnarla a Papa Celestino III, che si è proposto come mediatore,
ma gli Svevi attaccano il convoglio normanno nel suo viaggio verso Roma e la liberano,
cosicché Tancredi perde il suo prezioso ostaggio e con esso la prospettiva di un armistizio.
Costanza aleggia anche introno alla morte improvvisa di Enrico VI:
forse una febbre maligna, per la malaria presa durante una caccia nelle paludi;
forse il riacutizzarsi di un'infezione intestinale;
o forse... un avvelenamento per mano della Regina, stanca dei soprusi del marito.
Costanza promana però un fascino che va oltre le leggende e le avventure.
E' solo "zia Costanza", una figura sfocata, un ramo secco della dinastia,
agli occhi e nel giudizio della variegata platea di pretendenti al Regno.
Dietro quella pallida zitella c'è però la "Gran Costanza",
che abbagliò Dante in Paradiso, nel primo cielo della Luna.
Gran Costanza, a iniziare dalla tempra fisica:
perché in un'epoca di epidemie, d'igiene precaria e virus mortali,
la "banale" resistenza fisica val più d'ogni altra qualità.
Costanza sopravvive a fratelli e nipoti, li vede scendere nella tomba uno dopo l'altro,
tutti quei bei maschi della dinastia li vede trasformarsi in cibo per i vermi.
Costanza sopravvive e sviluppa sottili doti intellettuali e ferrei valori morali:
la capacità di afferrare l'essenza di un problema, il pragmatismo nel risolverlo,
il rigirare le situazioni a proprio vantaggio, il dono di presentarsi al meglio e persuadere.
Costanza non è solo un erede: è un personaggio, una fusione di mondi,
è l'anello di congiunzione tra Normanni e Svevi.

Federico ha 26 anni, nel 1220. Le fonti dicono che ha i capelli rossi, non è alto né bello, ma è seducente. Di sicuro il suo stile di vita è spettacolare, beneficiando di un'educazione cavalleresca, esposta e recettiva a tutti gli stimoli dell'ambiente cosmopolita siciliano.
La Germania l'ha affidata al figlio Enrico, ché lui preferisce dicarsi all'organizzazione amministrativa dei dominî della penisola italiana, dividendosi tra la vita di corte e la visita ai suoi numerosi castelli (che fa costruire o abbellire, per affermare il suo controllo su tutto il territorio meridionale); ha un harem multietnico di concubine, tanto cristiane quanto saracene, oggetto di fantasiosa curiosità, ma anche di stigma ("E fue dissoluto in lussuria in più guise, e tenea molte concubine e mammoluchi a guisa de' Saracini" - scrive ancora il Villani - "in tutti diletti corporali volle abbondare, e quasi vita epicuria tenne, non faccendo conto che mai fosse altra vita"; e anche Dante lo collocherà nel girono infernale degli epicurei); la sua corte - oltre a Palermo - sosta nei palazzi di Melfi, Foggia e Lucera, e rappresenta la proiezione visibile della magnificenza del Sovrano, che quando si sposta porta con sé non solo gli emblemi del potere (corona, sigillo e tesoro), ma anche servi di varia origine (eunuchi, danzatori e giocolieri) e persino il suo zoo personale (con tanto di giraffe, elefanti e ghepardi), in uno spettacolo esclusivo e coinvolgente per il suo esporsi, nell’attraversamento delle città, a cavallo del suo preferito Dragone; s'interessa di filosofia, di matematica, di scienza, la sua corte accoglie talenti di tutte le discipline e religioni (sapienti musulmani, maestri cristiani ed ebrei portatori delle più avanzate teorie del tempo) con cui ha confronti frequenti, serrati e vivaci; di numerose città aveva fatto un centro culturale e scientifiche, con biblioteche plurilingue e aperte alla possibilità di nuove acquisizioni; lui stesso parla arabo, latino, greco, tedesco, francese.
Il suo atteggiamento aperto mal si concilia con lo spirito conservatore della Chiesa.
Tra i numerosi punti di discordia vi è la titolarità della Sardegna, che Federico assegna a suo figlio naturale Enzo, tacitando le proteste del Papato: "Tutta l'Italia è mio patrimonio e la cosa è nota al mondo intero". Il Pontefice - mutuando niente meno che i versi dell'Apocalisse - lo definisce "la bestia che esce dal mare con la bocca piena di bestemmie", e arriva una scomunica, piazzata ad arte nella Domenica delle Palme del 1239. Federico risponde con un lettera aperta ai Re d'Europa, per fare causa comune: "va sostenuta la causa del più grande Sovrano cristiano, non perché egli non abbia la forza di respingere le offese del papa, ma perché è in gioco l'onore di tutti i Re, quando è colpito l'onore di uno di loro".
Nel 1240, per ristabilire il collegamento territoriale tra il Regno e le zone settentrionali della penisola appena riorganizzate, e dopo un formale preavviso, entra nella Marca di Ancona e nel Ducato di Spoleto, territori del Patrimonium Sancti Petri. Si presenta come un liberatore e la propaganda imperiale lo celebra dalla con paragoni cristologici. Personalità alte del Regno (con un seguito di funzionari siciliani) sostituiscono i rettori pontifici.
Papa Gregorio organizza una contromossa impressionante: porta in processione le teste dei Santi Pietro e Paolo, mette le mani sui teschi e li implora che siano gli apostoli a difendere la città. Piange, digiuna, prega. Il popolo è con lui: "per la quale devozione e miracolo de' detti santi appostoli il popolo di Roma fu tutto rivocato a la difensione del papa e della Chiesa, e quasi tutti si crucciaro contra Federigo, dando il detto papa indulgenza e perdono di colpa e di pena" - narra il Villani - "Per la qual cosa Federigo, che di queto si credeva intrare in Roma e prendere il detto papa, sentita la detta novitade, temette del popolo di Roma e si ritrasse in Puglia, e il detto papa fu liberato, con tutto che molto fosse afflitto dal detto imperadore, però ch'egli tenea tutto il Regno e Cicilia, e avea preso il ducato di Spuleto, e Campagna, e il Patrimonio Santo Piero, e la Marca, e Benevento, come detto è di sopra, e distruggea in Toscana e in Lombardia tutti i fedeli di santa Chiesa".
Di là degli esiti dei singoli episodi, ora favorevoli ora no, Federico preserverà sempre la piena consapevolezza delle potenzialità del suo Regno e mostrerà una lungimiranza politica capace di oltrepassare i grandi contrasti come i piccoli interessi.
Il Re svevo rafforza il ruolo dello Stato centralizzatore, teocratico e autocratico, culturalmente distante dalle monarchie feudali, animato da finalità culturali idealistiche, libere dalla subordinazione al potere ecclesiastico.
Restaura un modello di ordine regio, così da accentuare la sottomissione del il sistema feudale all'autorità sovrana e la subalternità dell'aristocrazia baronale e prelatizia.
Al rientro dalla Terrasanta, nel 1230, la situazione in Sicilia impone un intervento per rinsaldare l'autorità regia. Federico convoca le Assise di Melfi (1231) per promulgare un corpo di leggi - la Constitutiones Augustales, un codice in cui si ritrova il meglio delle disposizioni normanne e sveve, in cui domina il senso dell’assolutismo fondato sulle norme del "Corpus Juris" di Giustiniano, e giudicato ancor oggi una pietra miliare della Storia del diritto - con cui accentra i poteri legislativo, giudiziario e esecutivo, esercitati in prima persona o per mezzo di uomini di legge di sua fiducia, e abolisce con una sola legge - De Regnantis Privilegis - il complesso delle rendite di posizione cristallizzate negli ultimi trent'anni. Il messaggio politico dell'iniziativa va oltre il suo ambito di applicazione: le Costituzioni di Melfi tolgono arbitrio ai singoli potentati, ai feudatari, ai baroni, e rafforzano il potere centrale, indicano una volontà che non può essere superiore a quelle dell'Imperatore, ma stabilizzano anche il Parlamento siciliano, con una cruciale funzione non più soltanto politica ma anche legislativa.
Il Papa si sente ancora una volta minacciato: "Abbiamo appreso che tu, di tua iniziativa o sedotto da cattivi consiglieri, ti proponi di emanare nuove leggi, donde segue necessariamente che ti si chiami persecutore della Chiesa e sovvertitore della libertà pubblica [...]. Chi potrà con cuore indurito ascoltare le prevedibili grida di dolore, dei tanti che patiranno? [...] Affinché dunque non vada avanti ciò che in qualunque modo non deve essere assolutamente iniziato, chiediamo all'altezza imperiale [...] perché, saggiamente avvertendo che simili novità sono suscitatrici di grandi scandali, non consenta che tu ti faccia indurre ad andare avanti verso ciò che può essere imputato come biasimevole sia a te che a noi, dal momento che a te non è lecito farlo e a noi non lo è tollerarlo".
L'ambizione di formare direttamente funzionari, dirigenti e giudici da utilizzare nel suo Regno - in contrapposizione all'ateneo di Bologna, sotto il controllo papale - lo porta a istituire l'Università di Napoli (che ancor oggi porta il suo nome), la prima a carattere pubblico, faro di una cultura non condizionata dai dogmi, portata avanti dai più dotti maestri del tempo; sostiene poi la Scuola Medica Salernitana, la più rinomata struttura sanitaria del Medioevo; promuove la città di Palermo a crocevia culturale di attività scientifiche, artistiche e sociali.
Si fa notare anche sul versante architettonico. Dispone l'edificazione di diversi castelli - l'Ursino a Catania e il Maniace a Siracusa, ma anche ad Augusta e Salemi - e poi le Torri di Enna e la Colombaia di Trapani; a Foggia prende forma una fastosa residenza, splendente di marmi statue e colonne, con parco recintato ed animali in libertà, per emulare la sontuosità dei sollazzi siciliani, luogo di feste memorabili. L'architettura residenziale presenterà invece una varietà d'impianti e scelte estetico, oscillando dalla villa rustica in collegamento con una fattoria (Rignano Garganico, Lucera) al padiglione di caccia (Sant'Agatino di Foggia), alla dimora urbana fortificata (Lucera), al castello di caccia isolato in prossimità di foreste e riviere (Gravina).

Il nonno paterno era Federico Barbarossa, a capo del Sacro Romano Impero;
il nonno materno Ruggero II, fondatore del Regno di Sicilia;
il padre Enrico IV e la madre Costanza d'Altavilla.
Da questa genealogia venne fuori Federico II di Svevia, lo "Stupor Mundi",
una delle figure più esaltate nella storia del Regno di Sicilia,
precursore del Rinascimento e dell'assolutismo illuminato,
un mattatore capace di imporsi ai contemporanei, di diventare un'icona nei secoli successivi.
"Nella monarchia di Federico noi ravvisiamo un modello di reggimento politico
che, primo in Europa, fece sentire i benefici frutti derivanti da una forte potestà statale
associata al senso vivo d'una più alta giustizia sociale"
- scrive lo storico Ernesto Pontieri -
"Cotesto modello, creazione in terra nostra, è rimasto, attraverso i tempi,
la più schietta caratteristica del popolo meridionale".
La morte di Federico, sul finire del 1250, segna inevitabilmente un punto di svolta.
Il testimone passa sul momento a Manfredi di Sicilia - figlio di Federico e del suo unico amore autentico, Bianca Lancia - che governa come vicario del fratellastro Corrado IV - l'erede legittimo, nato dal matrimonio di Federico con Jolanda di Brienne - in quel frangente impegnato in Germania per farsi riconoscere il titolo d'Imperatore.
Nel Regno si sono intanto riaccesi dissapori e malcontenti tra monarchia e poteri baronali, anche per l'azione fomentatrice del Papato, specialmente in Puglia e Campania, e Manfredi ha il suo da fare per tenere sotto controllo Foggia, Barletta, Avellino e Nola, e soprattutto Capua e Napoli.
Corrado arriva in Italia nel 1252 e con Manfredi promuove un processo di pacificazione, non senza reciproci sospetti, che inducono Manfredi a rinunciare ai feudi minori e all'autorità sul Principato di Taranto, pur conferitogli direttamente dal padre Federico II. Pure, Manfredi suggerisce al fratellastro di sottomettersi all'autorità della Chiesa, trovandolo ben disposto, ma senza avere riscontri dal Papa, già impegnato a cercare altrove un nuovo Principe capace di impossessarsi del Regno di Sicilia, in qualità di suo vassallo.
Il tempo corre però più veloce degli umani progetti: Corrado muore nel 1254 e vi succede il figlio Corradino (Corrado V) d appena 2 anni, nominalmente sotto la tutela papale, ma nei fatti dello zio Manfredi, dopo che il Marchese Bertoldo di Hohenburg - da sempre inviso e responsabile di un crescente malcontento tra i sudditi - aveva rinunciato alla reggenza.
E' un periodo di ripetuti conflitti col Papato - sia ideologici che materiali, a colpi di scomuniche e battaglie sul campo - vuoi per la riluttanza di Manfredi ad assecondare i desiderata della Chiesa, vuoi per la storica insofferenza della Chiesa verso la dominazione sveva, per quella tenaglia geografica in cui si vede stretta, per la costante minaccia dell'unificazione delle corone.
Manfredi ne esce invariabilmente vincitore. Con un colpo di mano, incurante dei diritti del nipote, sale al trono il 10 agosto 1258 e negli anni successivi consolida il suo potere, pur sotto le incessanti scomuniche che ne contestano la legittimità, e la violenta campagna diffamatoria della pubblicista guelfa.
I successi di Manfredi ne estendono l'influenza all'intera penisola, lo rendono il riferimento della fazione ghibellina, e il suo governo - dopo anni di disordini - restituisce stabilità e benessere alla Sicilia, che torna a essere un centro d'attività: rifioriscono i commerci (grazie a trattati con Venezia e Genova) e si susseguono le più svariate iniziative (la costruzione del molo di Salerno, il rilancio delle università di Salerno e di Napoli, la fondazione di una città nel Gargano che prende il suo nome, Manfredonia). La Corte di Palermo rivive gli splendori e la vivacità del tempo di Federico.
Il Papato inizia a temere l'affermazione del partito ghibellino e cambia registro. Chiama i Francesi in Italia in un'autentica crociata contro gli Svevi, giustificata da una fantomatica combutta con i saraceni, e spalleggiata da una nobiltà locale desiderosa di riappropriarsi dei propri privilegi.
Papa Urbano IV offre la Corona a Carlo I d'Angiò - dopo esser andati a vuoto i tentativi di coinvolgere Riccardo di Cornovaglia, di discendenza normanna, e suo nipote Edmondo di Lancaster - e la stessa linea è sostenuta dal suo successore Clemente IV.
Carlo è il fratello giovane di Luigi IX, ne ha ricevuto il Maine e l'Angiò, da cui il nome di Angioini assegnato alla dinastia. I suoi appetiti lo hanno portato rapidamente nello spazio del Mediterraneo. E' il Signore della Provenza e di Forcalquier, e da quella posizione si ritaglia il dominio di Asti, una posizione favorevole per prender le parti della Santa Sede nel conflitto con la Casa Imperiale di Svevia.
Gli accordi tra il Papato e gli Angioini muovono da una visione del Regno alla stregua di un feudo della Santa Sede, quindi il vassallaggio verso la Chiesa, il rispetto dei diritti del Pontefice, l'abrogazione delle leggi contrarie ai privilegi ecclesiastici. Le trattative sono però bruscamente interrotte dalla morte del Papa, in fuga da Orvieto per sottrarsi all'assedio di Manfredi, venuto a conoscenza delle trame della Corte papale.
Sul soglio pontificio arriva il francese Clemente IV, che fa sue tutte le condizioni del predecessore, a cui aggiunge il divieto per la casata degli Angiò di puntare al ruolo di Imperatore o Re di Germania e la rinuncia al dominio delle signorie toscane o lombarde, al solito fine di eludere l'accerchiamento del proprio territorio.
Carlo - avido di potere, sollecitato dall'ambiziosa consorte e smanioso di calarsi nell’impresa - accetta di limitare le sue mire di conquista, s'impegna a non brigare per la Corona imperiale, accetta la corresponsione di un tributo al Papa, pari a un multiplo di quello stabilito per gli Svevi.
Ricevuta l'investitura papale, Carlo D'Angiò arriva nella penisola italiana col suo esercito francese e prevale sulle milizie di Manfredi, che pure oppone una fiera, eroica e sfortunata resistenza. Aveva organizzato puntigliosamente il suo esercito, spalleggiato da truppe con una significativa presenza saracena, tedesca e lombarda. Ma nei pressi di Ceprano - al comando del Conte di Caserta, cognato di Manfredi - le truppe si ritirano per diserzione o per accordi segreti intavolati col Papa e Carlo, favorendo la caduta del forte di San Germano. Manfredi smania per una rivincita, non aspetta i rinforzi e chiama a raccolta le truppe rimaste, che forse sarebbero pure state sufficienti, se non si fossero verificate nuove defezioni da parte dei baroni meridionali, determinanti l’esito della battaglia. Con i soldati rimaste fedeli, tra cui saraceni e tedeschi, combatte nei pressi di Benevento, anche contro la slealtà degli avversari.
Morirà prima di arrendersi - preferirà combattere con coraggio, esaurire tutto il suo immenso valore piuttosto che consegnarsi - e i suoi stessi nemici non potranno che omaggiarlo, lasciando un sasso ciascuno sul tumulo scavato nel terreno su cui ha abbandonato la vita. Il tributo militare avrà il suo contrappeso nella vendetta ecclesiastica, la violazione della tomba da parte dell'arcivescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, con l'assenso del Papa Clemente IV, ché un scomunicato non poteva riposare in un territorio - Benevento - sotto il dominio della Chiesa.
Dante ricostruirà l'evento e il personaggio, nel Canto III del "Purgatorio".
Siamo al crepuscolo degli Svevi, la dominazione sorta nel 1194 e tramontata nel 1266.

La Normandia del popolo vichingo.
Nel cuore di questo aspro, verde e freddo paesaggio,
sopravvive ancor oggi il piccolo centro di Hauteville.
La Normandia è solo un punto di partenza.
Nel cuore di questo aspro, verde e freddo paesaggio,
sopravvive ancor oggi il piccolo centro di Hauteville.
La Normandia è solo un punto di partenza.
Da lì i Normanni mirano ai territori oltre manica - all'Inghilterra, dove fondano un loro Regno - e si muovono anche verso il sud Europa, per occupare le regioni dell'est nell'attuale Spagna, del Mar Mediterraneo e ancora oltre, sino a Gerusalemme.

Gli spostamenti dei Normanni in Europa e oltre.
Tra una scorribanda e l'altra gli arriva voce di un luogo - Monte Sant'Angelo, sul Gargano - dedicato all'Arcangelo San Michele, una figura religiosa a cui i Normanni sono devoti: i guerrieri del nord metteranno così piede per la prima volta nella penisola italiana, trasformano il colle in luogo di culto e pellegrinaggio, e sarà proprio uno di questi viaggi a reindirizzare il corso della storia.
All'inizio del XI secolo un gruppetto di normanni visita Monte Sant'Angelo, di ritorno dalla Terra Santa. Il posto li affascina, li attrae, e signori locali hanno gioco facile nel persuaderli a fermarsi, per mettere il loro valore militare a protezione della città. Lo fanno così bene da ritagliarsi la fama di eccellenti mercenari: che si tratti di Longobardi o Bizantini, oppure del Papa, i Normanni sono a disposizione di qualsiasi formazione politica, ché la guerra - per loro - è un commercio redditizio, in un'area geografica segnata da una conflittualità endemica.
Le formazioni normanne sono molteplici e tra loro indipendenti, ma al loro interno spiccano figure come Rainulfo Drengot, che si vede riconoscere la qualifica di Conte del primo feudo normanno - ad Aversa, ne 1029 - a titolo di ricompensa del Duca bizantino di Napoli per il sostegno contro il Principe longobardo di Capua.
La notizia arriva negli angoli più remoti della Normandia: nel sud della penisola italiana si possono conquistare non solo ricchezze, ma anche fama, onori e gloria, c'è la concreta possibilità di mettere massimamente a frutto tutta la propria intraprendenza militare e politica.
Tancredi d'Altavilla - un cavaliere di basso rango, della piccola aristocrazia nel villaggio di Hauteville -vi scorge la possibilità di sistemare gran parte della sua discendenza. Ha dodici figli, e non può lasciare a ciascuno abbastanza terra per vivere, giacché la legge di successione normanna consegna l'intero feudo al primogenito, a prescindere dalla sua estensione. I maschi cadetti hanno tutte le ragioni per partire, per cercare fortuna altrove, ché le loro terre non hanno nulla da offrirgli, laddove al di fuori c'è ora poco da perdere e tutto da sperare.
Otto dei dodici figli di Tancredi lasciano la Normandia.
L'ultimo a partire è il più piccolo - Ruggero - che si dirige verso il sud della penisola italiana, per raggiungere il fratello Roberto soprannominato "il Guiscardo" (l'Astuto). Combatteranno dapprima nelle odierne Puglia e Calabria, e unificheranno poi sotto il loro dominio le terre in cui vivono bizantini e longobardi: Melfi, Salerno e Mileto saranno i loro centri di potere - Ruggero sarà vassallo di Roberto a Reggio Calabria e
Mileto - e superando i trascorsi burrascosi con l'autorità ecclesiastica, avranno pure la benedizione del Papa affinché le gestiscano e le proteggano.


Una raffigurazione dei normanni Roberto e Ruggero.
E poi c'è la Sicilia, un territorio strategico, geograficamente aperto a ogni punto cardinale, in entrata e uscita, a due passi dal continente europeo e ponte naturale verso il Mediterraneo orientale, per sua natura esposto all'influenze di una varietà di popoli: i greci vi avevano fondato colonie fiorenti e costruito splendidi templi, nelle epoche avanti Cristo; i romani la consideravano il granaio dell'Impero, e le riconobbero lo status di "provincia" (che in termini moderni definiremmo "nazione"); nel IX secolo erano infine arrivati gli arabi, un popolo all'avanguardia nelle scienze e nella tecnica, che l'avevano abbellita con opere architettoniche di notevole pregio.
Ma il Pontefice mal sopportava una presenza così invadente di musulmani in un luogo percepito sotto la sua tutela (sebbene non ne avesse mai avuto alcuna signoria e la stessa popolazione si divideva tra ebrei, musulmani e greco-ortodossi). Ne bramava ora la conquista e l'assoggettamento a un dominio a lui devoto, e i Normanni erano i candidati naturali a ricevere l'investitura di un "piccola Crociata", al punto che l'Isola gli venne riconosciuta come feudo ancor prima di esser liberata dagli infedeli.
Nel 1069 Ruggero sbarca a Messina, il naturale punto d'ingresso in Sicilia, arrivando dal continente. Trova l'alleanza dei greci, che gli permettono di usare i loro conventi come basi militari, ma il conflitto arabo-normanno si trascina nel tempo, e i mezzi si fanno progressivamente più brutali, perché gli arabi si rivelano avversari formidabili e le battaglie non sono così rapide come le si immaginavano. Anche se i normanni ne escono spesso vincitori - grazie a più evolute e innovative tecniche di combattimento - i prezzi da pagare si fanno ogni volta più esorbitanti, e lo scontro si trasforma in una guerra di logoramento, con cui si indebolisce il nemico tagliando le comunicazioni, distruggendo le sue risorse agricole. Ruggero affida ogni zona conquistata a dei signorotti - spesso suoi fedeli cavalieri - avocando a sé solo un ruolo di primus inter pares.
Palermo diventa ben la città simbolo del conflitto. I musulmani l'hanno resa una metropoli ricca e rinomata; vi convivono le due anime dell'Islam - Sciita e Sunnita - insieme a ebrei e cristiani d'ogni confessione; le contrapposizioni sono sono sporadiche e il sistema amministrativo garantisce il benessere alle varie classi sociali. La sua conquista è quindi un passaggio obbligato, per marcare la supremazia.
Nell'estate del 1071 i normanni arrivano alle porte della città e danno il via a un assedio che si protrae per oltre sei mesi, senza particolari successi. Nel gennaio del 1072 Ruggero ordina l'attacco finale, il più violento, che stavolta va a buon fine e senza gravi ripercussioni sulla popolazione (nessun saccheggio, nessun massacro, nessuno stupro).
E' una conquista "di svolta": i normanni - una minoranza cristiana - si sono presi pezzo a pezzo una terra musulmana, sono i nuovi padroni di un'isola dove i rapporti numerici della popolazione rimangono sbilanciati favore degli arabi, e perciò seve comunque trattare con l'Emiro e mostrarsi tolleranti, perché non ci si può illudere di regnare pacificamente soltanto con le spade di un centinaio di soldati.
Ruggero ha la classica prontezza vichinga nell'adattarsi a ogni situazione, anche perché libero da pregiudizi; e poi deve riconoscerlo: i normanni possono imparare molto dagli arabi, dai musulmani. Lui e il suo popolo - Ruggero e i Normanni - sono valorosi , maestri nell'arte della guerra, ma sprovvisti della finezza di governo. E la Sicilia - che adesso è in mano loro - può vantare un'amministrazione efficiente grazie agli arabi, a un insieme di leggi e le istituzioni a cui conviene adattarsi e preservare, non fosse altro perché non si dispone di un analogo bagaglio d'esperienza da contrapporgli.
La vita degli isolani continua dunque come sempre: l'organizzazione del territorio - la divisione in Valli, ad esempio - rimane sostanzialmente inalterata, anche se i sovrani normanni vi ritagliano sopra una mappa di diocesi vescovili, per sovrapporre l'autorità religiosa a quella politica; le cariche istituzionali più rilevanti sono poi riservate ai cristiani, e i musulmani devono pagare una tassa per praticare la propria fede; ma per tutto lo sterminato resto le fonti dell'epoca documentano una pacifica convivenza tra culture; con lo stesso Emiro - che mantiene il suo titolo, latinizzato in "Ammiratus" - Ruggero cercherà una sistematica collaborazione (pur pretendendo un'obbedienza assoluta).
Nel 1090 la conquista normanna della Sicilia può dirsi ultimata, da ogni punto di vista: Ruggero era arrivato che non aveva neppure trent'anni e adesso ne conta più di sessanta; è stato un indomito guerriero per tutta la vita, ma nel tempo è diventato anche un abile stratega e un buon politico; per molti versi, anzi, l'impresa politica appare più grande conquista militare - proprio perché sprovvista di una retroterra culturale - e ne giustifica l'autoproclamazione di Gran Conte di Calabria e Sicilia.
Nel 1098 - addirittura - Papa Urbano II gli concede l'Apostolica Legazìa, un istituto religioso e politico per cui era il Legato - di fatto Ruggero - a proporre i vescovi e gli arcivescovi siciliani (poi consacrati dal Pontefice) cosicché il Sovrano di Sicilia era anche a capo di una Chiesa autocefala, un caso unico nell'Occidente cattolico, che perdurerà sino al 1864.

Ruggero I di Sicilia, conosciuto anche come il Gran Conte Ruggero
(Hauteville-la-Guichard, 1031 circa - Mileto, 22 giugno 1101).
(Hauteville-la-Guichard, 1031 circa - Mileto, 22 giugno 1101).
Il successore di Ruggero - a seguito della prematura morte del primo figlio Simone - è Ruggero II, anch'esso infante e perciò sotto la reggenza della madre Adelasia del Vasto, che lo sensibilizza sin dal principio a vivere in una realtà cosmopolita, a ricercare un equilibrio tra culture, a far sì che tutte le civiltà a caratterizzare la vita di corte.
Spetta poi a lei - ad Adelasia - la decisione di trasferire la sede degli Altavilla da Mileto (in Calabria) a Palermo (da allora capitale della Sicilia) per marcare il ruolo della dinastia in una terra pur sempre segnata da una comunità araba in forte espansione.
Adelasia rimane reggente di Sicilia per dodici anni, sin quando Ruggero II - nel 1112, a 17 anni - prende possesso dei suoi dominî.
Sul versante continentale, la morte di Roberto "il Guiscardo" - nel 1085 - aveva rivelato tutta la problematica realtà feudale dei suoi possedimenti: una costruzione politica instabile, lacerata da continue ostilità tra nobili e tra città, per ritagliarsi spazi d'autonomia sempre più ampi, senza che l'autorità normanna - ora rappresentata da Ruggero Borsa e poi da Guglielmo II - riuscisse a preservare l'unitarietà politica e sociale.
La morte senza eredi di Guglielmo II - nel 1127 - rompe ogni indugio di Ruggero II: è il momento di impadronirsi dell'intero sud della penisola italiana, di recuperare il retaggio dei Principi di Capua, di elevarsi a Re.
Il progetto è ambizioso e complesso. Numerosi sovrani lo contrastano - non accettano che un normanno della piccola aristocrazia, un mercenario, possa fondare un Regno e riunire sotto di sé la metà della penisola italiana - e poi serve un'approvazione papale che invece non arriva.
Ma la confusione istituzionale della contingenza non potrebbe essere più favorevole.
Alla morte di Papa Onorio II - nel febbraio del 1130 - la Chiesa subisce una lacerazione interna a causa delle divergenze sul nuovo Pontefice: ufficialmente viene eletto Innocenzo II (il Papa) a cui però si contrappone Anacleto II (l'anti-Papa), e sarà il primo a doversi rifugiare in Francia, sotto la pressione popolare, laddove il secondo resterà a Roma con il pressante bisogno di conquistare il maggior consenso possibile, all'interno del clero e non solo. E cosa c'è di meglio che incoronare un nuovo Re, per legittimarsi come autorità papale agli occhi del mondo?
Ruggero - per parte sua - convoca a Palermo non solo nobili e prelati, ma anche numerose altre figure dotte, rappresentanti delle città, per discutere (o simulare una discussione) e approvare (plebiscitariamente) l'incoronazione.
A poco vale la scomunica di Innocenzo II - più politico che spirituale - per suggestione i sudditi. Nel 1139 - dopo un'altalena della sorte - sarà fatto prigioniero e si troverà costretto a riconoscere un fatto ormai compiuto (fingendo peraltro di rifarsi a un'inesistente investitura di Onorio II, per evitare di ricollegarsi ad Anacleto II, e con l'affermazione della sua qualità di supremo signore feudale).
Siamo sulla soglia del Regno di Sicilia, una realtà che si lascerà alle spalle una storia plurisecolare, il mito fondante di una nazione siciliana.

L'incoronazione di Ruggero II, in un mosaico della Chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio, a Palermo.
Cristo impugna il rotolo della Legge, che Ruggero incarnerà per trasmetterla al suo popolo.
La regalità normanna aspirava a una legittimazione divina, poneva il Re su un piano trascendente,
ne faceva un "imitatore di Cristo in Terra", come evocato dalla somiglianza tra i due volti.
La cerimonia d'incoronazione è peraltro intrisa di elementi arabi e bizantini:
il Re ascolta la litania dei Santi, sdraiato a terra, con le braccia a croce,
per poi giurare fedeltà alla Chiesa, ricevere la sacra unzione e le insegne del potere.
Cammina con corona, spada, scettro e globo sotto un ombrello donato dal Califfo d'Egitto,
che simboleggia il suo dominio sui sudditi musulmani.
E' un'esibizione sfarzosa, che meraviglia e intimorisce,
con una valenza politica per suscitare emozioni che coagulino il consenso.
Il fasto dell'evento è nelle parole dell'abate di S. Salvatore di Telese:
"fu tale la pompa che parve che tutte le magnificenze del mondo si fossero riunite a Palermo.
Le sale della reggia erano ricoperte di preziose tappezzerie, i pavimenti di tappeti di squisita fattura.
Il nuove re uscì preceduto da tutti i baroni e cavalieri del regno
che incedevano a coppie, montati su cavalli di finimenti d'oro e d'argento;
seguivano il monarca, i più autorevoli personaggi
anch'essi riccamente vestiti, e su cavalli magnificamente bardati.
Giunto al duomo, Ruggero fu consacrato
dagli arcivescovi di Benevento, di Capua, di Salerno e di Palermo
e ricevette la corona dalle mani del principe di Capua.
Alla cerimonia seguirono sontuosi banchetti in cui non fu usato altro vasellame che d'oro e d'argento.
Gli scalchi, i paggi, i donzelli e perfino i valletti che servivano le mense
erano vestiti di tuniche di seta".

L'incoronazione di Ruggero II, in un mosaico della Chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio, a Palermo.
Cristo impugna il rotolo della Legge, che Ruggero incarnerà per trasmetterla al suo popolo.
La regalità normanna aspirava a una legittimazione divina, poneva il Re su un piano trascendente,
ne faceva un "imitatore di Cristo in Terra", come evocato dalla somiglianza tra i due volti.
La cerimonia d'incoronazione è peraltro intrisa di elementi arabi e bizantini:
il Re ascolta la litania dei Santi, sdraiato a terra, con le braccia a croce,
per poi giurare fedeltà alla Chiesa, ricevere la sacra unzione e le insegne del potere.
Cammina con corona, spada, scettro e globo sotto un ombrello donato dal Califfo d'Egitto,
che simboleggia il suo dominio sui sudditi musulmani.
E' un'esibizione sfarzosa, che meraviglia e intimorisce,
con una valenza politica per suscitare emozioni che coagulino il consenso.
Il fasto dell'evento è nelle parole dell'abate di S. Salvatore di Telese:
"fu tale la pompa che parve che tutte le magnificenze del mondo si fossero riunite a Palermo.
Le sale della reggia erano ricoperte di preziose tappezzerie, i pavimenti di tappeti di squisita fattura.
Il nuove re uscì preceduto da tutti i baroni e cavalieri del regno
che incedevano a coppie, montati su cavalli di finimenti d'oro e d'argento;
seguivano il monarca, i più autorevoli personaggi
anch'essi riccamente vestiti, e su cavalli magnificamente bardati.
Giunto al duomo, Ruggero fu consacrato
dagli arcivescovi di Benevento, di Capua, di Salerno e di Palermo
e ricevette la corona dalle mani del principe di Capua.
Alla cerimonia seguirono sontuosi banchetti in cui non fu usato altro vasellame che d'oro e d'argento.
Gli scalchi, i paggi, i donzelli e perfino i valletti che servivano le mense
erano vestiti di tuniche di seta".

Il mantello di Ruggero II, un oggetto sontuoso:
in seta rossa, ricamato con fili d'oro, smalto e perle,
146 centimetri di altezza, con una apertura di 345 centimetri di diametro.
La palma al centro rappresenta l'albero della vita e divide in due il mantello.
Su ogni lato sono simmetricamente raffigurati due leoni che sovrastano due cammelli,
a rappresentare la supremazia normanna sugli arabi.
Una scritta sull'orlo innalza lodi al Re, alla Regina e alla fiorente officina reale,
"dove hanno sede fortuna, gloria, agiatezza, perfezione, merito e onore".
Nella ricercatezza del mantello riecheggia la poliedrica figura di Ruggero II:
condottiero, statista, fondatore di un Regno,
sovrano crudele e illuminato, eccezionale politico, legislatore,
poliglotta, protettore di del sapere, costruttore di cattedrali.
in seta rossa, ricamato con fili d'oro, smalto e perle,
146 centimetri di altezza, con una apertura di 345 centimetri di diametro.
La palma al centro rappresenta l'albero della vita e divide in due il mantello.
Su ogni lato sono simmetricamente raffigurati due leoni che sovrastano due cammelli,
a rappresentare la supremazia normanna sugli arabi.
Una scritta sull'orlo innalza lodi al Re, alla Regina e alla fiorente officina reale,
"dove hanno sede fortuna, gloria, agiatezza, perfezione, merito e onore".
Nella ricercatezza del mantello riecheggia la poliedrica figura di Ruggero II:
condottiero, statista, fondatore di un Regno,
sovrano crudele e illuminato, eccezionale politico, legislatore,
poliglotta, protettore di del sapere, costruttore di cattedrali.

Il Regno di Sicilia nella notte di Natale del 1130, a opera di Ruggero II di Altavilla.
e riunisce via via la Contea di Sicilia, il Ducato di Puglia e Calabria,
i Ducati di Napoli, Amalfi, Gaeta, Sorrento, Spoleto e il Principato di Capua.
(arriveranno poi anche dei possedimenti balcanici e africani,
che però non sopravvivranno a Ruggero II).
L'elevazione della Contea a Regno fu presentata come restaurazione dello status naturale dell'Isola:
poiché nell'antichità era esistito un Regno siceliota (di Agatocle e dei successori)
e siccome la Sicilia romana era una provincia a sé (in termini moderni "una nazione")
si era indiscutibilmente alla presenza di un Regno da restaurare, da rifondare.
e riunisce via via la Contea di Sicilia, il Ducato di Puglia e Calabria,
i Ducati di Napoli, Amalfi, Gaeta, Sorrento, Spoleto e il Principato di Capua.
(arriveranno poi anche dei possedimenti balcanici e africani,
che però non sopravvivranno a Ruggero II).
L'elevazione della Contea a Regno fu presentata come restaurazione dello status naturale dell'Isola:
poiché nell'antichità era esistito un Regno siceliota (di Agatocle e dei successori)
e siccome la Sicilia romana era una provincia a sé (in termini moderni "una nazione")
si era indiscutibilmente alla presenza di un Regno da restaurare, da rifondare.
Il Regno normanno di Sicilia un esempio ante litteram del moderno Stato europeo, per assetto istituzionale, estensione territoriale, peso politico e potenza militare.
I Normanni impongono un sistema feudale centralizzato, che lascia autonomie locali, ma toglie spazio al particolarismo giuridico. Il Re governa tramite i suoi funzionari - burocrati dello Stato, non potenti signorotti - nella misura in cui riesce a fondere i rapporti aristocratici feudali con l'idea di un capo non più un primus inter pares, ma autorità superiore. Il potere regio continua a confrontarsi con i poteri locali, ma la loro subordinazione al potere centrale e l'organizzazione verticistica e piramidale della società - un inedito, in un panorama politico dominato dalla proliferazione di centri di potere - inibiscono lo sviluppo dei movimenti comunali, che in quegli anni iniziano invece a diffondersi nel settentrione.
Si può parlare - in particolare - della prima forma di Parlamento in senso moderno: non era ancora un organo deliberativo, e i deputati erano scelti fra i nobili e gli ecclesiasti più potenti (identiche caratteristiche, del resto, avrebbero avuto i parlamenti inglesi a partire dal 1215); ma la sua funzione consultiva e di ratifica dell'attività del Sovrano, gli consegnava un ruolo si sorveglianza nelle scelte di tassazione e nella gestione dei rapporti con le Potenze straniere; lo stesso Ruggero II riceve la dignità regia da una deliberazione parlamentare (e l'evento imporrà il canone - pur non codificato - per cui tutti i successivi sovrani del Regno di Sicilia dovessero conseguire l'assenso del Parlamento).
Questa forma di controllo politico e sociale si modulerà nel tempo in armonia con le diverse situazioni di fatto. E' un esempio mirabile del "genio normanno", della rara capacità d'interpretare, contemperandole, le molteplici manifestazioni della realtà da governare. Il Regno prospera sulla tolleranza tra culture, la lungimiranza dei governanti, la varietà degli esponenti di corte, che accolgono sapienti di ogni fede. A quel tempo si diceva: devi andare a Roma, se vuoi imparare il latino; a Bisanzio, per il greco; a Damasco, per l'arabo; a Palermo, per imparare latino, greco e arabo tutti assieme, in una sola volta.
Anche la sorte arride alla dinastia, collocandola in un'epoca di ricchezza materiale, di fluidità nei commerci e crescita economica: la Sicilia è una terra ad alta produttività, in termini sia quantitativi che qualitativi, che permette ai normanni di avviare e gestire fiorenti commerci con l'Europa, l'Oriente e il nord Africa.
Da Ruggero I (il conquistatore della Sicilia dagli Arabi) a suo figlio Ruggero II (che la rese grande) e poi ai discendenti Guglielmo I "il Malo" (quartogenito di Ruggero II) e suo figlio Guglielmo II "il Buono" (mecenate e uomo di cultura) la dinastia normanna segna il momento di concepimento e di gloria del Regno, racconta l'epopea di una schiera di capitani di ventura, che iniziarono l'intrapresa con la nomea di mercenari e la conclusero con lo status di Re, potendo ogni Altavilla vantarsi di esser nato e cresciuto in Sicilia, di non conoscere altri luoghi - altre patrie - oltre il Regno di Sicilia.

"Avanti mille anni da che Cristo nostro Signore prese carne nella Vergine Maria,
comparvero nel mondo quaranta valenti pellegrini.
Venivano dal Santo Sepolcro di Gerusalemme per adorare Gesù Cristo e giunsero a Salerno,
che era assediata dai saraceni e tanto mal ridotta che voleva arrendersi [...].
I pellegrini di Normandia giunsero là. Non potevano sopportare l'ingiuria della signoria dei saraceni.
Questi pellegrini andarono da Guaimario, serenissimo principe,
il quale governava Salerno con retta giustizia,
e pregarono che gli fossero dati armi e cavalli, che volevano combattere contro i saraceni;
e non per prezzo di denaro, ma perché non potevano tollerare la grande superbia dei saraceni"
(Narrazione databile tra 1076 e il 1078, del monaco Amato di Montecassino,
sull'arrivo de normanni nella penisola italiana)
comparvero nel mondo quaranta valenti pellegrini.
Venivano dal Santo Sepolcro di Gerusalemme per adorare Gesù Cristo e giunsero a Salerno,
che era assediata dai saraceni e tanto mal ridotta che voleva arrendersi [...].
I pellegrini di Normandia giunsero là. Non potevano sopportare l'ingiuria della signoria dei saraceni.
Questi pellegrini andarono da Guaimario, serenissimo principe,
il quale governava Salerno con retta giustizia,
e pregarono che gli fossero dati armi e cavalli, che volevano combattere contro i saraceni;
e non per prezzo di denaro, ma perché non potevano tollerare la grande superbia dei saraceni"
(Narrazione databile tra 1076 e il 1078, del monaco Amato di Montecassino,
sull'arrivo de normanni nella penisola italiana)
La scomparsa prematura e senza eredi di Guglielmo "il Buono" prospetta il problema della successione.
Tre figure reclamano il trono: Tancredi di Lecce, primo cugino del Re defunto, figlio illegittimo di Ruggero III, esiliato sotto Guglielmo "il Malo" e rimpatriato con Guglielmo "il Buono"; Riccardo Cuor di Leone, fratello della Regina rimasta vedova; Enrico di Svevia, figlio dell'Imperatore Federico Barbarossa, che nel 1186 - a 20 anni, grazie a una geniale azione diplomatica del padre - aveva sposato Costanza d'Altavilla, figlia di Re Ruggero II ed erede designata da Guglielmo.
La politica indica Tancredi, in un intreccio di spinte e veti: da un lato la pressione della corte normanna, per favorire l'ultimo maschio degli Altavilla, dall'altro l'insofferenza del Papato per gli Svevi, per il timore di ritrovarsi schiacciato tra territori retti da una stessa dinastia - Impero a nord, il Regno di Sicilia a sud - una preoccupazione di sicuro superiore al fastidio di vedere un figlio illegittimo sul trono (che peraltro non ne avrebbe neppure avuto diritto, secondo la legge normanna del maggiorascato).
Messo a tacere Riccardo Cuor di Leone, con una bella somma di denaro, Tancredi si prepara allo scontro militare con Enrico Svevia, e lo fa con raffinata intelligenza. Gli serve la fedeltà dei baroni e la partecipazione delle città, perciò è largo di concessioni e privilegi sia con gli uni che con le altre. Lui, poi, è un soldato di valore, coraggioso e audace, e così tutto concorre alla sua vittoria: respinge le velleità di Enrico VI, in una battaglia rocambolesca, in cui gli è amica una pestilenza che decima l'esercito avversario; consolida la posizione della dinastia, le conferisce un respiro più ampio; incorona il figlio Ruggero III, un modo affatto subliminale per blindare la successione, e ne combina il matrimonio con la figlia dell'Imperatore d'Oriente, in una logica di pacificazione con i bizantini.
In quello stesso periodo i tre più grandi Sovrani d'Occidente - l'Imperatore germanico Federico I, il Re di Francia Filippo Augusto e il Re d'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone - compartecipano alla Terza Crociata. Riccardo muove per via di mare, attraversa il Mediterraneo e fa scalo in Sicilia. Lo sbarco non è solo un fatto logistico. Il Re vuol manifestare il suo disappunto per la sorte della sorella Giovanna, privata dell'eredità promessa nel matrimonio con Guglielmo II, e manifestare il disappunto - all'epoca - significa invadere, devastare, saccheggiare. Solo l'intervento diplomatico di Re Filippo - anch'egli approdato sull'Isola - consente di ricomporre la situazione. L'episodio è marginale, e tuttavia rappresenta un presagio, il segno dell'imminente precipitare degli eventi.
Ruggero III muore improvvisamente, a soli 19 anni, e poco dopo viene meno anche Tancredi, in una spedizione nella parte peninsulare del Regno, per ridurre all'obbedienza i vassalli di fede imperiale.
Sul trono sale formalmente Guglielmo III, un bambino di 9 anni, sotto la reggenza della madre, la Regina Sibilla di Medania.
L'epoca degli Altavilla è alla fine, il sipario aperto nel 1130 inizia a chiudersi nel 1194.
Normanni

Ruggero II (1130-1154)
Guglielmo I (1154-1166)
Guglielmo II (1166-1189)
Tancredi (1189-1194)
Guglielmo III (1194-1194)

Ruggero II (1130-1154)
Guglielmo I (1154-1166)
Guglielmo II (1166-1189)
Tancredi (1189-1194)
Guglielmo III (1194-1194)
Enrico VI non scorge ora più ostacoli, non ha più nemici a tenergli testa, e un inaspettato strascico della Terza Crociata gli fornisce pure le risorse per l'intervento militare.
Riccardo Cuor di Leone, sulla via di ritorno, attraversa le terre del Duca d'Austria, pubblicamente sbeffeggiato durante la spedizione. Il Re inglese è riconosciuto, arrestato e consegnato proprio a Enrico, neo Imperatore di Germania, che reclama un colossale riscatto, pagato dalla Regina consorte e subito impiegato per finanziarie la discesa nel Regno di Sicilia.
Tancredi non c'è più e Guglielmo III è solo un bambino. I baroni normanni, scoraggiati, si sottomettono.
Enrico VI è incoronato il giorno di Natale, il 25 dicembre 1194, e sarà proprio il piccolo Guglielmo a depositare simbolicamente la corona ai piedi dell'Imperatore, in segno di rinuncia solenne a ogni rivendicazione.
La moglie Costanza è intanto in viaggio verso la Sicilia e mette al mondo l'erede il giorno dopo l'incoronazione. Più il folklore e le pittoresche tradizioni postume, che non le fonti coeve, raccontano di un parto avvenuto sulla pubblica piazza di Jesi, per fugare le dicerie sull'effettivo stato di gravidanza della Regina, suscitate da un'età anagrafica - 40 anni - all'epoca inusuale per una maternità. Tutti devono assistere alla nascita del futuro Re, nessuno può covare sospetti sulla sua origine regale, sul suo diritto al trono. "Nacque Federigo secondo imperadore, che fece tante persecuzioni a la Chiesa, come innanzi nel suo trattato diremo" - scrive il cronista Giovanni Villani, documentando i continui conflitti col Papato - "E non sanza cagione e giudicio di Dio dovea riuscire sì fatto ereda, essendo nato di monaca sacra, e in età di lei di più di LII anni, ch'è quasi impossibile a natura di femmina a portare figliuolo, sicché nacque di due contrarii, allo spirituale, e quasi contra ragione al temporale".
Il neonato passerà alla storia come Federico II - secondo il numerale del Sacro Romano Impero, che gli rimarrà anche per il Regno di Sicilia - ma è battezzato Federico Ruggero, in omaggio a Federico Barbarossa di Hohenstaufen, da un lato, e a Ruggero II d'Altavilla dall'altro, per contemperare le tradizioni sveva e normanna, e Federico finirà con l'assorbire le peculiarità dell'una e dell'altra ascendenza, la durezza e l'alterigia tipiche tedesche, lo spirito audace e avventuroso dei normanni.
Costanza lo affida alla duchessa di Spoleto, e prosegue il suo viaggio verso la Sicilia, più per vigilare sulle maestranze tedesche, che per amore del marito.
E' iniziata la dinastia sveva, in un clima tetro, di repressioni sanguinose ed esecuzioni di massa.
Enrico VI vede nemici ovunque, tra i vivi e i morti, tra i forti e i deboli. Profana le spoglie di Tancredi, per togliergli la corona e le insegne reali con cui era stato sepolto. Spedisce il piccolo Guglielmo in Germania, non prima di averlo mutilato, per eliminare il rischio residuo di future pretese, non pago dell'umiliazione inflittagli nel cerimoniale dell'incoronazione. Attua una spoliazione dei baroni normanni - cui aveva lasciato intravedere la possibilità di un atto di clemenza - a vantaggio dei suoi favoriti. Risponde a ogni protesa con repressioni sproporzionate, spesso inutili. Dubita persino della moglie Costanza, la obbliga ad assistere alle torture inflitte a chi, devoto alla Regina, aveva complottato contro il Re, per poi confinarla nel Palazzo Reale di Palermo, sotto stretta sorveglianza.
Al potere di Enrico VI non corrisponde dunque la coesione e l'armonia dei popoli su cui lo esercita - che non possono né apprezzarlo né amarlo - e soltanto la sua improvvisa dipartita restituisce al Regno una parvenza di normalità.
Le ultime volontà di Enrico consegnano la Sicilia al Papa, ma il testamento è occultato da Marcovaldo di Anweiler, siniscalco, amministratore e vassallo delle regioni prossime a esser cedute, in accordo con altri nobili tedeschi intenzionati a perpetuare il governo del Regno in nome dell'Impero.
Le trame di potere però si sfaldano davanti a un'arguzia e a una risolutezza tutta al femminile.
Costanza è la protagonista di una fase breve, intensa e decisiva. Trasferisce il piccolo Federico a Palermo, proclamandolo Re di Sicilia, ancora infante, nella pentecoste del 1198, con un fastoso rito bizantino officiato nel Duomo. Riporta in auge la tradizione normanna e procede contro i tedeschi, ormai libera dal vincolo del matrimonio svevo. Accetta il vassallaggio verso il Papa - rifiutato da Enrico - per beneficiare della protezione della Chiesa, per farne spada e usbergo del figlio Federico. Morirà poco dopo, nel 1198, ultima discendente degli Altavilla, consegnando alla storia una vita costellata di leggende e imprese poderose.
"Quest'è la luce de la gran Costanza" - ricamerà Dante nel "Paradiso" (III, 118-120) - "che del secondo vento di Soave, generò il terzo e l'ultima possanza".



Intorno a Costanza d'Altavilla girano tante favole,
molte raccontate dal Fazzello, nella sua "Le Due Deche dell'Historia di Sicilia",
tante altre dalla storiografia anti-sveva dei secoli XIII e XIV,
che nelle lotte tra Papato e Impero, tra guelfi e ghibellini,
s'impadronì delle leggende sorte intorno alla figura di Costanza,
le ampliò e perfezionò, sino a trasformarle in uno strumento di propaganda.
Non era ancora trascorso un secolo dalla nascita di Costanza,
e già si credeva che fosse cresciuta nella solitudine di un monastero,
e che il Papa in persona l'avesse sciolta dai voti, per permetterne il matrimonio con Enrico VI.
La cosiddetta "leggenda del monacato" fu immortalata da Dante nel "Paradiso"
("sorella fu, e così le fu tolta - di capo l'ombra de le sacre bende. - Ma poi che pur al mondo fu rivolta - contra suo grado e contra buona usanza, - non fu dal vel del cor già mai disciolta"),
e in seguito ulteriormente elaborata dalla fantasia popolare,
al punto che dal secolo XIV vari monasteri si contesero l'onore di aver ospitato l'Imperatrice.
Tante favole, sì, ma anche molti fatti reali e tanti altri sul crinale dell'immaginazione.
E' prigioniera nientemeno che di suo nipote Tancredi, durante la battaglia con Enrico VI,
per farne un mezzo di scambio in vista di una possibile tregua.
Tancredi accetta di consegnarla a Papa Celestino III, che si è proposto come mediatore,
ma gli Svevi attaccano il convoglio normanno nel suo viaggio verso Roma e la liberano,
cosicché Tancredi perde il suo prezioso ostaggio e con esso la prospettiva di un armistizio.
Costanza aleggia anche introno alla morte improvvisa di Enrico VI:
forse una febbre maligna, per la malaria presa durante una caccia nelle paludi;
forse il riacutizzarsi di un'infezione intestinale;
o forse... un avvelenamento per mano della Regina, stanca dei soprusi del marito.
Costanza promana però un fascino che va oltre le leggende e le avventure.
E' solo "zia Costanza", una figura sfocata, un ramo secco della dinastia,
agli occhi e nel giudizio della variegata platea di pretendenti al Regno.
Dietro quella pallida zitella c'è però la "Gran Costanza",
che abbagliò Dante in Paradiso, nel primo cielo della Luna.
Gran Costanza, a iniziare dalla tempra fisica:
perché in un'epoca di epidemie, d'igiene precaria e virus mortali,
la "banale" resistenza fisica val più d'ogni altra qualità.
Costanza sopravvive a fratelli e nipoti, li vede scendere nella tomba uno dopo l'altro,
tutti quei bei maschi della dinastia li vede trasformarsi in cibo per i vermi.
Costanza sopravvive e sviluppa sottili doti intellettuali e ferrei valori morali:
la capacità di afferrare l'essenza di un problema, il pragmatismo nel risolverlo,
il rigirare le situazioni a proprio vantaggio, il dono di presentarsi al meglio e persuadere.
Costanza non è solo un erede: è un personaggio, una fusione di mondi,
è l'anello di congiunzione tra Normanni e Svevi.
Costanza è riuscita a districarsi nel labirinto di un corte infida, a portare in salvo il piccolo erede. La sua breve reggenza ha condotto alla restaurazione e al rafforzamento dell'influenza papale sul Regno, dopo un periodo di temporaneo affrancamento, una scelta imposta dall'incalzare degli eventi, ma risolutiva per assicurare il futuro dominio del figlio.
Federico II ha perciò un debito immenso verso il Papa, che ne ha rappresentato il padre adottivo, il protettore della causa del Re fanciullo - da un lato trascurato dalla fazione normanna, riluttante ad applicare il principio della successione dinastica, ritenendolo di stirpe tedesca, e dall'altro avversato dalla fazione tedesca, diffidente della sua ascendenza normanna - il punto d'equilibrio di una vita in bilico tra la morte e la fuga (già all'eta di 7 anni - per dire - Federico si ritrova nelle mire di Marcovaldo von Anweiler, che avendo ricevuto da Enrico VI la Marca di Ancona e di Romagna, sottratte al Papato, sosteneva di esser pure stato nominato amministratore del Regno dallo stesso Imperatore, e nel 1201 s'impossessa di Palermo,
con l’aiuto dei musulmani di Sicilia; se Federico sarà risparmiato sarà solo per il timore di Marcovaldo di subire la ritorsione de Pontefice).
Il Regno di Federico sarà marcato da una continua rottura e ricomposizione dei delicati equilibri con lo Stato della Chiesa, in un confuso inseguirsi e sovrapporsi di reciproci vantaggi materiali e obblighi morali.
Federico è un infante, quando si ritrova sotto la tutela di Papa Innocenzo III,
che viene a giocare un ruolo centrale nel cammino di vita del piccolo svevo.
Nel 1206 - a 12 anni - Federico si autoproclama maggiorenne e reclama i suoi diritti.Nel 1208 il Papa dà il suo assenso, e nel 1209 ne combina il matrimonio con Costanza d'Aragona,
- già Regina d'Ungheria, di dieci anni più grande -
che porta in dote cinquecento cavalieri, vivacizza la corte di Palermo,
e assumerà per lunghi periodi la reggenza del Regno di Sicilia.
Ma il destino di Federico è pilotato da eventi di più grande portata.
La morte di Enrico VI ha riaperto la partita tra i guelfi e i ghibellini,
tra la casata di Baviera di Ottone Brunswick e la dinastia Sveva.
Ottone è eletto Re di Germania e dei Romani dai Principi guelfi del basso Reno,
con l'appoggio della Corona inglese di Giovanni Senzaterra,
in opposizione a Filippo di Svevia di parte ghibellina, fratello di Enrico VI,
sostenuto dalla Francia di Filippo II d'Augusto.
Papa Innocenzo III lo riconosce, avendo conferma degli impegni a favore dei domini pontifici,
ma la promessa è disattesa e il nuovo Imperatore rivendica una serie di diritti in Italia,
e addirittura la Corona di Sicilia e alcuni possedimenti della stessa Chiesa.
La scomunica, nel 1210, e poi la deposizione, nel 1211, sono inevitabili.
Il Papa gli contrappone proprio Federico, che nel 1212 è nominato Re dei Romani,
sulla scia dell'iniziativa di un gruppo di principi tedeschi, con l'appoggio del Re di Francia.
La reazione di Ottone è frustrata nella Battaglia di Bouvines, nel 1214,
ancora una volta per merito dei francesi, manovrati dalla Chiesa.
Federico ne prende il posto, riceve una seconda incoronazione nella carolingia Aquisgrana, nel 1215,
e poi una terza, a Roma, nel 1220, subordinatamente a una serie di obblighi verso il Papato:
tenere divise le due Corone, Imperiale e di Sicilia,
riconoscere la Sicilia come feudo dello Stato della Chiesa,
promuovere una Crociata anti-islamica e anti-bizantina.
"Giurò il detto imperador di difendere il detto papa e la Chiesa da' malvagi mani"
- scrive il cronista Giovanni Villani -
"e poi d'andare oltremare con tutta sua forza al passaggio ordinato per lo detto papa".
Rimasato nel vedevo, nel 1225 sposa Iolanda di Brienne,
la figlia di appena 13 anni del Re di Gerusalemme -
una nuova mossa del Papa per stabilire un legame di potere in Medioriente
e rendere cogente l'impegno alla liberazone della Terra Santa.
che viene a giocare un ruolo centrale nel cammino di vita del piccolo svevo.
Nel 1206 - a 12 anni - Federico si autoproclama maggiorenne e reclama i suoi diritti.Nel 1208 il Papa dà il suo assenso, e nel 1209 ne combina il matrimonio con Costanza d'Aragona,
- già Regina d'Ungheria, di dieci anni più grande -
che porta in dote cinquecento cavalieri, vivacizza la corte di Palermo,
e assumerà per lunghi periodi la reggenza del Regno di Sicilia.
Ma il destino di Federico è pilotato da eventi di più grande portata.
La morte di Enrico VI ha riaperto la partita tra i guelfi e i ghibellini,
tra la casata di Baviera di Ottone Brunswick e la dinastia Sveva.
Ottone è eletto Re di Germania e dei Romani dai Principi guelfi del basso Reno,
con l'appoggio della Corona inglese di Giovanni Senzaterra,
in opposizione a Filippo di Svevia di parte ghibellina, fratello di Enrico VI,
sostenuto dalla Francia di Filippo II d'Augusto.
Papa Innocenzo III lo riconosce, avendo conferma degli impegni a favore dei domini pontifici,
ma la promessa è disattesa e il nuovo Imperatore rivendica una serie di diritti in Italia,
e addirittura la Corona di Sicilia e alcuni possedimenti della stessa Chiesa.
La scomunica, nel 1210, e poi la deposizione, nel 1211, sono inevitabili.
Il Papa gli contrappone proprio Federico, che nel 1212 è nominato Re dei Romani,
sulla scia dell'iniziativa di un gruppo di principi tedeschi, con l'appoggio del Re di Francia.
La reazione di Ottone è frustrata nella Battaglia di Bouvines, nel 1214,
ancora una volta per merito dei francesi, manovrati dalla Chiesa.
Federico ne prende il posto, riceve una seconda incoronazione nella carolingia Aquisgrana, nel 1215,
e poi una terza, a Roma, nel 1220, subordinatamente a una serie di obblighi verso il Papato:
tenere divise le due Corone, Imperiale e di Sicilia,
riconoscere la Sicilia come feudo dello Stato della Chiesa,
promuovere una Crociata anti-islamica e anti-bizantina.
"Giurò il detto imperador di difendere il detto papa e la Chiesa da' malvagi mani"
- scrive il cronista Giovanni Villani -
"e poi d'andare oltremare con tutta sua forza al passaggio ordinato per lo detto papa".
Rimasato nel vedevo, nel 1225 sposa Iolanda di Brienne,
la figlia di appena 13 anni del Re di Gerusalemme -
una nuova mossa del Papa per stabilire un legame di potere in Medioriente
e rendere cogente l'impegno alla liberazone della Terra Santa.

L'impegno nelle Crociate era stata una costante, nella dinastia sveva:
Federico Barbarossa era morto nel corso di una di queste Campagne,
ed Enrico VI era deceduto prima di cimentarsi in progetto che aveva pianificato con cura.
Gli esempi del nonno e del padre sono un ammonimento per Federico,
che però sembra viverlo più come una promessa personale a Papa Innocenzo,
e non come un impegno istituzionale di un Regno verso un altro Stato.
A Innocenzo succede Onorio III, che pur più mite e arrendevole,
cova l'ambizione della conquista della Terrasanta,
in un periodo in cui l'esercito dei cristiani è pressato nelle sue roccaforti,
assediato e sconfitto dopo l'insuccesso della Quinta Crociata (1217-21).
Da più parti si sollecita una riscossa, e Federico, pur impegnato negli affari di Sicilia,
mette a punto il piano per condurre una Campagna Orientale.
Ma Onorio muore prima della partenza e gli succede il vescovo di Ostia
- battagliero e tenace malgrado i sui 82 anni,
e soprattutto insofferente alla politica dei tentennamenti -
che significativamente assume il nome di Gregorio IX ,
per riprendere il disegno originario di Gregorio VII
volto a stabilire l’assoluta superiorità del Papato sull'Imperatore.
Gregorio IX mostra un atteggiamento fermo e risoluto,
e sulle prima riconosce a Ferderico il ruolo di campione della cristianità:
"Dio vi ha messo al mondo come un cherubino armato di spada fiammeggiante
per mostrare la via dell'albero della vita".
Ma in estate scoppia un epidemia, l'esercito è decimato, Federico vuol rinviare l'impresa,
ma subisce un aut-aut: organizzare la Crociata o andare incontro alla scomunica.
Si parte, dunque, ma durante il viaggio molti nobili muoiono,
Federico stesso si ammala, e decide pertanto di tornare.
Il Papa reagisce malamente, con una campagna denigratoria:
lo accusa di aver provocato apposta la pestilenza,
di aver abbandonato Cristo, di usare la malattia per violare il giuramento,
e per logica conseguenza ne segue la scomunica.
Federico risponde con una lettera ai tutti i Principi:
"Questa ingorda sanguisuga usa parole dolci come il miele, fluide come l'olio;
ma, mentre si dichiara madre e nutrice mia, agisce da matrigna ed è causa e radice di ogni male.
Sono ovunque mandati legati che legano, sciolgono, condannano ad arbitrio loro;
essi hanno cura non di spargere e far germogliare il buon seme della divina parola,
ma d'impinguirsi d'oro, di mietere dove non hanno seminato, veri lupi vestiti da agnelli.
Pieni di inutile sapere, degeneri, spregevoli, essi osano aspirare al possesso dei regni e degli imperi,
mentre la Chiesa primitiva contava ogni giorno qualche nuovo Santo
e risplendeva per la semplicità dei costumi e il disprezzo delle grandezze.
Nel vedere oggi l'inguaribile avarizia dei sacerdoti romani
chi non temerà che non rovinino le mura del tempio,
cui sono date basi tanto diverse da quelle che pose il nostro Signore Gesù Cristo?".
Il cherubino dalla spada fiammeggiante diventa il nemico dell'umanità,
la scomunica viene rinnovata, in uno scambio continuo di colpi bassi:
i sostenitori di Federico obbligano il Papa a fuggire da Roma,
il Papa - per parte sua - quando Iolanda di Brienne muore a 16 anni dopo aver partorito,
accusa Federico di averla tradita con la cugina, picchiata, imprigionata e uccisa.
Federico, però, scompagina ogni cosa:
riunisce la truppe a Barletta, e dall'alto del trono annuncia che partirà per la Terrasanta,
anche contro il volere del Papa, anche se scomunicato, e stavolta parte davvero.
Il 28 giugno 1228 prende il via la Sesta Crociata, la Crociata dello Scomunicato.
Prima di partire ha peraltro preso accordi col Sultano del Cairo:
Federico appoggerà le su mire su Damasco, il Sultano lo aiuterà a prendere Gerusalemme.
Durante il viaggio si ferma Cipro, per affermare il suo dominio sull'isola,
e a settembre arriva a San Giovanni d'Acri, ricevendo reazioni opposte dai cavalieri cristiani
(i soldati teutonici sono con lui, i Templari e gli Ospitalieri contro).
Nel 1229 - dopo mesi di trattative senza combattere - Federico raggiunge un'accordo:
Gerusalemme, Betlemme e Nazareth tornano sotto il dominio cristiano,
i musulmani conservano la moschea e la Cupola della Roccia (con libertà di culto),
e viene firmata una tregua della durata di 10 anni.
Il 18 marzo 1229 Federico entra a Gerusalemme
e nella Chiesa del Santo Sepolcro si cinge da sé stesso si della quarta corona
- Re di Gerusalemme, forte dell'eredità della moglie Iolanda, figlia dello spodestato Giovanni -
un gesto simbolico e singolare, forse neppure progettato, ma dal significato cristallino:
è l'affermazione inequivocabile he il suo potere regale gli deriva direttamente da Dio
ed Enrico VI era deceduto prima di cimentarsi in progetto che aveva pianificato con cura.
Gli esempi del nonno e del padre sono un ammonimento per Federico,
che però sembra viverlo più come una promessa personale a Papa Innocenzo,
e non come un impegno istituzionale di un Regno verso un altro Stato.
A Innocenzo succede Onorio III, che pur più mite e arrendevole,
cova l'ambizione della conquista della Terrasanta,
in un periodo in cui l'esercito dei cristiani è pressato nelle sue roccaforti,
assediato e sconfitto dopo l'insuccesso della Quinta Crociata (1217-21).
Da più parti si sollecita una riscossa, e Federico, pur impegnato negli affari di Sicilia,
mette a punto il piano per condurre una Campagna Orientale.
Ma Onorio muore prima della partenza e gli succede il vescovo di Ostia
- battagliero e tenace malgrado i sui 82 anni,
e soprattutto insofferente alla politica dei tentennamenti -
che significativamente assume il nome di Gregorio IX ,
per riprendere il disegno originario di Gregorio VII
volto a stabilire l’assoluta superiorità del Papato sull'Imperatore.
Gregorio IX mostra un atteggiamento fermo e risoluto,
e sulle prima riconosce a Ferderico il ruolo di campione della cristianità:
"Dio vi ha messo al mondo come un cherubino armato di spada fiammeggiante
per mostrare la via dell'albero della vita".
Ma in estate scoppia un epidemia, l'esercito è decimato, Federico vuol rinviare l'impresa,
ma subisce un aut-aut: organizzare la Crociata o andare incontro alla scomunica.
Si parte, dunque, ma durante il viaggio molti nobili muoiono,
Federico stesso si ammala, e decide pertanto di tornare.
Il Papa reagisce malamente, con una campagna denigratoria:
lo accusa di aver provocato apposta la pestilenza,
di aver abbandonato Cristo, di usare la malattia per violare il giuramento,
e per logica conseguenza ne segue la scomunica.
Federico risponde con una lettera ai tutti i Principi:
"Questa ingorda sanguisuga usa parole dolci come il miele, fluide come l'olio;
ma, mentre si dichiara madre e nutrice mia, agisce da matrigna ed è causa e radice di ogni male.
Sono ovunque mandati legati che legano, sciolgono, condannano ad arbitrio loro;
essi hanno cura non di spargere e far germogliare il buon seme della divina parola,
ma d'impinguirsi d'oro, di mietere dove non hanno seminato, veri lupi vestiti da agnelli.
Pieni di inutile sapere, degeneri, spregevoli, essi osano aspirare al possesso dei regni e degli imperi,
mentre la Chiesa primitiva contava ogni giorno qualche nuovo Santo
e risplendeva per la semplicità dei costumi e il disprezzo delle grandezze.
Nel vedere oggi l'inguaribile avarizia dei sacerdoti romani
chi non temerà che non rovinino le mura del tempio,
cui sono date basi tanto diverse da quelle che pose il nostro Signore Gesù Cristo?".
Il cherubino dalla spada fiammeggiante diventa il nemico dell'umanità,
la scomunica viene rinnovata, in uno scambio continuo di colpi bassi:
i sostenitori di Federico obbligano il Papa a fuggire da Roma,
il Papa - per parte sua - quando Iolanda di Brienne muore a 16 anni dopo aver partorito,
accusa Federico di averla tradita con la cugina, picchiata, imprigionata e uccisa.
Federico, però, scompagina ogni cosa:
riunisce la truppe a Barletta, e dall'alto del trono annuncia che partirà per la Terrasanta,
anche contro il volere del Papa, anche se scomunicato, e stavolta parte davvero.
Il 28 giugno 1228 prende il via la Sesta Crociata, la Crociata dello Scomunicato.
Prima di partire ha peraltro preso accordi col Sultano del Cairo:
Federico appoggerà le su mire su Damasco, il Sultano lo aiuterà a prendere Gerusalemme.
Durante il viaggio si ferma Cipro, per affermare il suo dominio sull'isola,
e a settembre arriva a San Giovanni d'Acri, ricevendo reazioni opposte dai cavalieri cristiani
(i soldati teutonici sono con lui, i Templari e gli Ospitalieri contro).
Nel 1229 - dopo mesi di trattative senza combattere - Federico raggiunge un'accordo:
Gerusalemme, Betlemme e Nazareth tornano sotto il dominio cristiano,
i musulmani conservano la moschea e la Cupola della Roccia (con libertà di culto),
e viene firmata una tregua della durata di 10 anni.
Il 18 marzo 1229 Federico entra a Gerusalemme
e nella Chiesa del Santo Sepolcro si cinge da sé stesso si della quarta corona
- Re di Gerusalemme, forte dell'eredità della moglie Iolanda, figlia dello spodestato Giovanni -
un gesto simbolico e singolare, forse neppure progettato, ma dal significato cristallino:
è l'affermazione inequivocabile he il suo potere regale gli deriva direttamente da Dio
(e tutti i successivi Re di Sicilia e Napoli avrebbero infatti rivendicato questa singolare corona).
Suscita il rancore del suocero - che lo ritenne un usurpatore della sua corona -
e solleva - per la sua condizione di scomunicato - ulteriori elementi di difficoltà
negli intricati rapporti con il Patriarcato di Gerusalemme e con i vassalli cristiani del regno,
eredi della storica nobiltà che aveva partecipato alla Prima Crociata.
Il Papato ha gioco facile nell'avversare l'attivismo dipolomatico di Federico:
lo accusa di essere è un monarca empio, spergiuro, discepolo di Maometto,
nemico della vera religione, perché crea tensioni all'interno della cristianità,
perché negozia con i saraceni, perché gli porta la pace anziché la guerra.
La Chiesa fa di tutto per sminuire il successo diplomatico di Federico:
estende la scomunica a tutti i suoi seguaci, non riconosce la Crociata,
stabilisce l'interdetto dei luoghi santi, il divieto di visitarli.
E non si limita alla sanzioni religiose.
Mette insieme un esercito e attacca il Regno di Sicilia,
sostenuto dalle truppe di Giovanni di Brienne, giunto in Puglia dalla Terra Santa.
"Come papa Gregorio seppe la falsa pace fatta per lo 'mperadore Federigo e col soldano,
a vergogna e danno de' Cristiani, incontanente ordinò col re Giovanni, il quale era in Lombardia, che colla forza della Chiesa entrasse con gente d'arme nel regno di Puglia
a rubellare il paese a Federigo imperadore, e così fece,
e gran parte del Regno ebbe a' suoi comandamenti e della Chiesa"
- documenta il solito Villani, che però, da storico guelfo, filopapale, altera i fatti.
Il Papa non agisce solo dopo aver ricevuto notizie da Gerusalemme.
Tesse da tempo una sua trama che mette assieme tutti i nemici di Federico
(nobili scontenti, comuni del nord storicamente ostili, e chiunque altro riesca a convincere)
e nel suo accanimento arriva persino a diffondere la notizia falsa che sia morto.
La rabbia di Federico è ben espressa in una lettera a un amico arabo,
conosciuto quand'era ambasciatore del Sultano in Sicilia:
"il Papa con il tradimento ha preso una delle nostre fortezze,
ha diffuso false notizie della nostra morte,
ha obbligato i cardinali a giurarlo ad affermare che il nostro ritorno era impossibile
e questi si misero d'impegno per imbrogliare il popolo".
Gregorio IX ha fatto male i conti:
Federico torna salvo, sano e vittorioso,
e L'opposizione si squaglia in fretta, quando rimette piede nel Regno:
passa al contrattacco e caccia gli invasori, con l'aiuto dei saraceni di Lucera
(una riserva musulmana in Puglia, deportata dalla Sicilia, ma fedele all'Imperatore);
perdona i nemici, fa concessioni, restituisce dei territori alla Chiesa;
il Papato indietreggia, con la Pace di San Germano nel 1230, e ritira la scomunica.
Il vincitore è lui, Federico, non è più l'empio discepolo di Maometto,
ma di nuovo l'amato figlio di Santa Madre Chiesa.
Gli scontri, peraltro, continueranno negli anni a venire,
alimentati dalle spaccature tra guelfi e ghibellini, dentro i comuni, città contro città.
Nel 1243 la tiara papale va ad Innocenzo IV,
ch dua anni dopo, da Lione, emana una nuova scomunica, la terza, la più dura
con cui a Federico viene strappata la dignità d'Imperatore e viene sciolto il giuramento di fedeltà:
noi, insieme con i cardinali nostri fratelli e con il sacro Concilio, abbiamo deliberato
intorno a questo principe che si è reso indegno dell'impero, dei suoi regni e di ogni onore e dignità.
Per i suoi delitti e per le sue iniquità Dio lo respinge e più non tollera che sia re o imperatore.
Tutti quelli che sono legati a lui da giuramento di fedeltà
sono da noi in perpetuo sciolti e resi liberi da tale giuramento;
e noi vietiamo loro espressamente ed assolutamente con la nostra apostolica autorità
di prestargli obbedienza come imperatore o re o per qualunque altro titolo da lui preteso".
Le accuse sono le solite - spergiuro, blasfermo, amico dei saraceni -
mala radice dello scontro diventa ora manifesta:
il Papa deve dare istruzioni, l'Imperatore deve seguirle.
Ne approfitterà la fazione tedesca anti-sveva, per togliere ogni appoggio all'Imperatore.
Attaccato più volte con successo dai guelfi italiani, e abbandonato dai feudatari tedeschi,
Federico sarà definitivamente sconfitto a Fossalta, presso Modena, nel 1249.
Nel 1250, durante una battuta di caccia in Puglia, Federico avverte un malore,
e viene trasportato in un vicino palazzo nobiliare a Castel Fiorentino.
Realizza di fronteggiare la morte, che arriverà nella notte del 13 dicembre;
Suscita il rancore del suocero - che lo ritenne un usurpatore della sua corona -
e solleva - per la sua condizione di scomunicato - ulteriori elementi di difficoltà
negli intricati rapporti con il Patriarcato di Gerusalemme e con i vassalli cristiani del regno,
eredi della storica nobiltà che aveva partecipato alla Prima Crociata.
Il Papato ha gioco facile nell'avversare l'attivismo dipolomatico di Federico:
lo accusa di essere è un monarca empio, spergiuro, discepolo di Maometto,
nemico della vera religione, perché crea tensioni all'interno della cristianità,
perché negozia con i saraceni, perché gli porta la pace anziché la guerra.
La Chiesa fa di tutto per sminuire il successo diplomatico di Federico:
estende la scomunica a tutti i suoi seguaci, non riconosce la Crociata,
stabilisce l'interdetto dei luoghi santi, il divieto di visitarli.
E non si limita alla sanzioni religiose.
Mette insieme un esercito e attacca il Regno di Sicilia,
sostenuto dalle truppe di Giovanni di Brienne, giunto in Puglia dalla Terra Santa.
"Come papa Gregorio seppe la falsa pace fatta per lo 'mperadore Federigo e col soldano,
a vergogna e danno de' Cristiani, incontanente ordinò col re Giovanni, il quale era in Lombardia, che colla forza della Chiesa entrasse con gente d'arme nel regno di Puglia
a rubellare il paese a Federigo imperadore, e così fece,
e gran parte del Regno ebbe a' suoi comandamenti e della Chiesa"
- documenta il solito Villani, che però, da storico guelfo, filopapale, altera i fatti.
Il Papa non agisce solo dopo aver ricevuto notizie da Gerusalemme.
Tesse da tempo una sua trama che mette assieme tutti i nemici di Federico
(nobili scontenti, comuni del nord storicamente ostili, e chiunque altro riesca a convincere)
e nel suo accanimento arriva persino a diffondere la notizia falsa che sia morto.
La rabbia di Federico è ben espressa in una lettera a un amico arabo,
conosciuto quand'era ambasciatore del Sultano in Sicilia:
"il Papa con il tradimento ha preso una delle nostre fortezze,
ha diffuso false notizie della nostra morte,
ha obbligato i cardinali a giurarlo ad affermare che il nostro ritorno era impossibile
e questi si misero d'impegno per imbrogliare il popolo".
Gregorio IX ha fatto male i conti:
Federico torna salvo, sano e vittorioso,
e L'opposizione si squaglia in fretta, quando rimette piede nel Regno:
passa al contrattacco e caccia gli invasori, con l'aiuto dei saraceni di Lucera
(una riserva musulmana in Puglia, deportata dalla Sicilia, ma fedele all'Imperatore);
perdona i nemici, fa concessioni, restituisce dei territori alla Chiesa;
il Papato indietreggia, con la Pace di San Germano nel 1230, e ritira la scomunica.
Il vincitore è lui, Federico, non è più l'empio discepolo di Maometto,
ma di nuovo l'amato figlio di Santa Madre Chiesa.
Gli scontri, peraltro, continueranno negli anni a venire,
alimentati dalle spaccature tra guelfi e ghibellini, dentro i comuni, città contro città.
Nel 1243 la tiara papale va ad Innocenzo IV,
ch dua anni dopo, da Lione, emana una nuova scomunica, la terza, la più dura
con cui a Federico viene strappata la dignità d'Imperatore e viene sciolto il giuramento di fedeltà:
noi, insieme con i cardinali nostri fratelli e con il sacro Concilio, abbiamo deliberato
intorno a questo principe che si è reso indegno dell'impero, dei suoi regni e di ogni onore e dignità.
Per i suoi delitti e per le sue iniquità Dio lo respinge e più non tollera che sia re o imperatore.
Tutti quelli che sono legati a lui da giuramento di fedeltà
sono da noi in perpetuo sciolti e resi liberi da tale giuramento;
e noi vietiamo loro espressamente ed assolutamente con la nostra apostolica autorità
di prestargli obbedienza come imperatore o re o per qualunque altro titolo da lui preteso".
Le accuse sono le solite - spergiuro, blasfermo, amico dei saraceni -
mala radice dello scontro diventa ora manifesta:
il Papa deve dare istruzioni, l'Imperatore deve seguirle.
Ne approfitterà la fazione tedesca anti-sveva, per togliere ogni appoggio all'Imperatore.
Attaccato più volte con successo dai guelfi italiani, e abbandonato dai feudatari tedeschi,
Federico sarà definitivamente sconfitto a Fossalta, presso Modena, nel 1249.
Nel 1250, durante una battuta di caccia in Puglia, Federico avverte un malore,
e viene trasportato in un vicino palazzo nobiliare a Castel Fiorentino.
Realizza di fronteggiare la morte, che arriverà nella notte del 13 dicembre;
indossa il saio cistercense e detta le ultime volontà.
Lascia i suoi possedimenti al figlio Corrado IV e ai suoi eredi,
Lascia i suoi possedimenti al figlio Corrado IV e ai suoi eredi,
il Regno di Gerusalemme al figlio Enrico Carlo,
il Principato di Taranto al figlio naturale Manfredi
(oltre alla luogotenenza di Sicilia, in assenza di Corrado).
Le sue spoglie saranno portate a Palermo
dove riposano ancora oggi in un sarcofago di porfido
accanto alla prima moglie, ai suoi genitori e a Ruggero II,
emanando un'aura di mistero e leggenda,
di esecrazione e venerazione, di odio e compianto.
(oltre alla luogotenenza di Sicilia, in assenza di Corrado).
Le sue spoglie saranno portate a Palermo
dove riposano ancora oggi in un sarcofago di porfido
accanto alla prima moglie, ai suoi genitori e a Ruggero II,
emanando un'aura di mistero e leggenda,
di esecrazione e venerazione, di odio e compianto.
Federico ha 26 anni, nel 1220. Le fonti dicono che ha i capelli rossi, non è alto né bello, ma è seducente. Di sicuro il suo stile di vita è spettacolare, beneficiando di un'educazione cavalleresca, esposta e recettiva a tutti gli stimoli dell'ambiente cosmopolita siciliano.
La Germania l'ha affidata al figlio Enrico, ché lui preferisce dicarsi all'organizzazione amministrativa dei dominî della penisola italiana, dividendosi tra la vita di corte e la visita ai suoi numerosi castelli (che fa costruire o abbellire, per affermare il suo controllo su tutto il territorio meridionale); ha un harem multietnico di concubine, tanto cristiane quanto saracene, oggetto di fantasiosa curiosità, ma anche di stigma ("E fue dissoluto in lussuria in più guise, e tenea molte concubine e mammoluchi a guisa de' Saracini" - scrive ancora il Villani - "in tutti diletti corporali volle abbondare, e quasi vita epicuria tenne, non faccendo conto che mai fosse altra vita"; e anche Dante lo collocherà nel girono infernale degli epicurei); la sua corte - oltre a Palermo - sosta nei palazzi di Melfi, Foggia e Lucera, e rappresenta la proiezione visibile della magnificenza del Sovrano, che quando si sposta porta con sé non solo gli emblemi del potere (corona, sigillo e tesoro), ma anche servi di varia origine (eunuchi, danzatori e giocolieri) e persino il suo zoo personale (con tanto di giraffe, elefanti e ghepardi), in uno spettacolo esclusivo e coinvolgente per il suo esporsi, nell’attraversamento delle città, a cavallo del suo preferito Dragone; s'interessa di filosofia, di matematica, di scienza, la sua corte accoglie talenti di tutte le discipline e religioni (sapienti musulmani, maestri cristiani ed ebrei portatori delle più avanzate teorie del tempo) con cui ha confronti frequenti, serrati e vivaci; di numerose città aveva fatto un centro culturale e scientifiche, con biblioteche plurilingue e aperte alla possibilità di nuove acquisizioni; lui stesso parla arabo, latino, greco, tedesco, francese.
Il suo atteggiamento aperto mal si concilia con lo spirito conservatore della Chiesa.
Tra i numerosi punti di discordia vi è la titolarità della Sardegna, che Federico assegna a suo figlio naturale Enzo, tacitando le proteste del Papato: "Tutta l'Italia è mio patrimonio e la cosa è nota al mondo intero". Il Pontefice - mutuando niente meno che i versi dell'Apocalisse - lo definisce "la bestia che esce dal mare con la bocca piena di bestemmie", e arriva una scomunica, piazzata ad arte nella Domenica delle Palme del 1239. Federico risponde con un lettera aperta ai Re d'Europa, per fare causa comune: "va sostenuta la causa del più grande Sovrano cristiano, non perché egli non abbia la forza di respingere le offese del papa, ma perché è in gioco l'onore di tutti i Re, quando è colpito l'onore di uno di loro".
Nel 1240, per ristabilire il collegamento territoriale tra il Regno e le zone settentrionali della penisola appena riorganizzate, e dopo un formale preavviso, entra nella Marca di Ancona e nel Ducato di Spoleto, territori del Patrimonium Sancti Petri. Si presenta come un liberatore e la propaganda imperiale lo celebra dalla con paragoni cristologici. Personalità alte del Regno (con un seguito di funzionari siciliani) sostituiscono i rettori pontifici.
Papa Gregorio organizza una contromossa impressionante: porta in processione le teste dei Santi Pietro e Paolo, mette le mani sui teschi e li implora che siano gli apostoli a difendere la città. Piange, digiuna, prega. Il popolo è con lui: "per la quale devozione e miracolo de' detti santi appostoli il popolo di Roma fu tutto rivocato a la difensione del papa e della Chiesa, e quasi tutti si crucciaro contra Federigo, dando il detto papa indulgenza e perdono di colpa e di pena" - narra il Villani - "Per la qual cosa Federigo, che di queto si credeva intrare in Roma e prendere il detto papa, sentita la detta novitade, temette del popolo di Roma e si ritrasse in Puglia, e il detto papa fu liberato, con tutto che molto fosse afflitto dal detto imperadore, però ch'egli tenea tutto il Regno e Cicilia, e avea preso il ducato di Spuleto, e Campagna, e il Patrimonio Santo Piero, e la Marca, e Benevento, come detto è di sopra, e distruggea in Toscana e in Lombardia tutti i fedeli di santa Chiesa".
Di là degli esiti dei singoli episodi, ora favorevoli ora no, Federico preserverà sempre la piena consapevolezza delle potenzialità del suo Regno e mostrerà una lungimiranza politica capace di oltrepassare i grandi contrasti come i piccoli interessi.
Il Re svevo rafforza il ruolo dello Stato centralizzatore, teocratico e autocratico, culturalmente distante dalle monarchie feudali, animato da finalità culturali idealistiche, libere dalla subordinazione al potere ecclesiastico.
Restaura un modello di ordine regio, così da accentuare la sottomissione del il sistema feudale all'autorità sovrana e la subalternità dell'aristocrazia baronale e prelatizia.
Al rientro dalla Terrasanta, nel 1230, la situazione in Sicilia impone un intervento per rinsaldare l'autorità regia. Federico convoca le Assise di Melfi (1231) per promulgare un corpo di leggi - la Constitutiones Augustales, un codice in cui si ritrova il meglio delle disposizioni normanne e sveve, in cui domina il senso dell’assolutismo fondato sulle norme del "Corpus Juris" di Giustiniano, e giudicato ancor oggi una pietra miliare della Storia del diritto - con cui accentra i poteri legislativo, giudiziario e esecutivo, esercitati in prima persona o per mezzo di uomini di legge di sua fiducia, e abolisce con una sola legge - De Regnantis Privilegis - il complesso delle rendite di posizione cristallizzate negli ultimi trent'anni. Il messaggio politico dell'iniziativa va oltre il suo ambito di applicazione: le Costituzioni di Melfi tolgono arbitrio ai singoli potentati, ai feudatari, ai baroni, e rafforzano il potere centrale, indicano una volontà che non può essere superiore a quelle dell'Imperatore, ma stabilizzano anche il Parlamento siciliano, con una cruciale funzione non più soltanto politica ma anche legislativa.
Il Papa si sente ancora una volta minacciato: "Abbiamo appreso che tu, di tua iniziativa o sedotto da cattivi consiglieri, ti proponi di emanare nuove leggi, donde segue necessariamente che ti si chiami persecutore della Chiesa e sovvertitore della libertà pubblica [...]. Chi potrà con cuore indurito ascoltare le prevedibili grida di dolore, dei tanti che patiranno? [...] Affinché dunque non vada avanti ciò che in qualunque modo non deve essere assolutamente iniziato, chiediamo all'altezza imperiale [...] perché, saggiamente avvertendo che simili novità sono suscitatrici di grandi scandali, non consenta che tu ti faccia indurre ad andare avanti verso ciò che può essere imputato come biasimevole sia a te che a noi, dal momento che a te non è lecito farlo e a noi non lo è tollerarlo".
L'ambizione di formare direttamente funzionari, dirigenti e giudici da utilizzare nel suo Regno - in contrapposizione all'ateneo di Bologna, sotto il controllo papale - lo porta a istituire l'Università di Napoli (che ancor oggi porta il suo nome), la prima a carattere pubblico, faro di una cultura non condizionata dai dogmi, portata avanti dai più dotti maestri del tempo; sostiene poi la Scuola Medica Salernitana, la più rinomata struttura sanitaria del Medioevo; promuove la città di Palermo a crocevia culturale di attività scientifiche, artistiche e sociali.
Si fa notare anche sul versante architettonico. Dispone l'edificazione di diversi castelli - l'Ursino a Catania e il Maniace a Siracusa, ma anche ad Augusta e Salemi - e poi le Torri di Enna e la Colombaia di Trapani; a Foggia prende forma una fastosa residenza, splendente di marmi statue e colonne, con parco recintato ed animali in libertà, per emulare la sontuosità dei sollazzi siciliani, luogo di feste memorabili. L'architettura residenziale presenterà invece una varietà d'impianti e scelte estetico, oscillando dalla villa rustica in collegamento con una fattoria (Rignano Garganico, Lucera) al padiglione di caccia (Sant'Agatino di Foggia), alla dimora urbana fortificata (Lucera), al castello di caccia isolato in prossimità di foreste e riviere (Gravina).

Il nonno paterno era Federico Barbarossa, a capo del Sacro Romano Impero;
il nonno materno Ruggero II, fondatore del Regno di Sicilia;
il padre Enrico IV e la madre Costanza d'Altavilla.
Da questa genealogia venne fuori Federico II di Svevia, lo "Stupor Mundi",
una delle figure più esaltate nella storia del Regno di Sicilia,
precursore del Rinascimento e dell'assolutismo illuminato,
un mattatore capace di imporsi ai contemporanei, di diventare un'icona nei secoli successivi.
"Nella monarchia di Federico noi ravvisiamo un modello di reggimento politico
che, primo in Europa, fece sentire i benefici frutti derivanti da una forte potestà statale
associata al senso vivo d'una più alta giustizia sociale"
- scrive lo storico Ernesto Pontieri -
"Cotesto modello, creazione in terra nostra, è rimasto, attraverso i tempi,
la più schietta caratteristica del popolo meridionale".
La morte di Federico, sul finire del 1250, segna inevitabilmente un punto di svolta.
Il testimone passa sul momento a Manfredi di Sicilia - figlio di Federico e del suo unico amore autentico, Bianca Lancia - che governa come vicario del fratellastro Corrado IV - l'erede legittimo, nato dal matrimonio di Federico con Jolanda di Brienne - in quel frangente impegnato in Germania per farsi riconoscere il titolo d'Imperatore.
Nel Regno si sono intanto riaccesi dissapori e malcontenti tra monarchia e poteri baronali, anche per l'azione fomentatrice del Papato, specialmente in Puglia e Campania, e Manfredi ha il suo da fare per tenere sotto controllo Foggia, Barletta, Avellino e Nola, e soprattutto Capua e Napoli.
Corrado arriva in Italia nel 1252 e con Manfredi promuove un processo di pacificazione, non senza reciproci sospetti, che inducono Manfredi a rinunciare ai feudi minori e all'autorità sul Principato di Taranto, pur conferitogli direttamente dal padre Federico II. Pure, Manfredi suggerisce al fratellastro di sottomettersi all'autorità della Chiesa, trovandolo ben disposto, ma senza avere riscontri dal Papa, già impegnato a cercare altrove un nuovo Principe capace di impossessarsi del Regno di Sicilia, in qualità di suo vassallo.
Il tempo corre però più veloce degli umani progetti: Corrado muore nel 1254 e vi succede il figlio Corradino (Corrado V) d appena 2 anni, nominalmente sotto la tutela papale, ma nei fatti dello zio Manfredi, dopo che il Marchese Bertoldo di Hohenburg - da sempre inviso e responsabile di un crescente malcontento tra i sudditi - aveva rinunciato alla reggenza.
E' un periodo di ripetuti conflitti col Papato - sia ideologici che materiali, a colpi di scomuniche e battaglie sul campo - vuoi per la riluttanza di Manfredi ad assecondare i desiderata della Chiesa, vuoi per la storica insofferenza della Chiesa verso la dominazione sveva, per quella tenaglia geografica in cui si vede stretta, per la costante minaccia dell'unificazione delle corone.
Manfredi ne esce invariabilmente vincitore. Con un colpo di mano, incurante dei diritti del nipote, sale al trono il 10 agosto 1258 e negli anni successivi consolida il suo potere, pur sotto le incessanti scomuniche che ne contestano la legittimità, e la violenta campagna diffamatoria della pubblicista guelfa.
I successi di Manfredi ne estendono l'influenza all'intera penisola, lo rendono il riferimento della fazione ghibellina, e il suo governo - dopo anni di disordini - restituisce stabilità e benessere alla Sicilia, che torna a essere un centro d'attività: rifioriscono i commerci (grazie a trattati con Venezia e Genova) e si susseguono le più svariate iniziative (la costruzione del molo di Salerno, il rilancio delle università di Salerno e di Napoli, la fondazione di una città nel Gargano che prende il suo nome, Manfredonia). La Corte di Palermo rivive gli splendori e la vivacità del tempo di Federico.
Il Papato inizia a temere l'affermazione del partito ghibellino e cambia registro. Chiama i Francesi in Italia in un'autentica crociata contro gli Svevi, giustificata da una fantomatica combutta con i saraceni, e spalleggiata da una nobiltà locale desiderosa di riappropriarsi dei propri privilegi.
Papa Urbano IV offre la Corona a Carlo I d'Angiò - dopo esser andati a vuoto i tentativi di coinvolgere Riccardo di Cornovaglia, di discendenza normanna, e suo nipote Edmondo di Lancaster - e la stessa linea è sostenuta dal suo successore Clemente IV.
Carlo è il fratello giovane di Luigi IX, ne ha ricevuto il Maine e l'Angiò, da cui il nome di Angioini assegnato alla dinastia. I suoi appetiti lo hanno portato rapidamente nello spazio del Mediterraneo. E' il Signore della Provenza e di Forcalquier, e da quella posizione si ritaglia il dominio di Asti, una posizione favorevole per prender le parti della Santa Sede nel conflitto con la Casa Imperiale di Svevia.
Gli accordi tra il Papato e gli Angioini muovono da una visione del Regno alla stregua di un feudo della Santa Sede, quindi il vassallaggio verso la Chiesa, il rispetto dei diritti del Pontefice, l'abrogazione delle leggi contrarie ai privilegi ecclesiastici. Le trattative sono però bruscamente interrotte dalla morte del Papa, in fuga da Orvieto per sottrarsi all'assedio di Manfredi, venuto a conoscenza delle trame della Corte papale.
Sul soglio pontificio arriva il francese Clemente IV, che fa sue tutte le condizioni del predecessore, a cui aggiunge il divieto per la casata degli Angiò di puntare al ruolo di Imperatore o Re di Germania e la rinuncia al dominio delle signorie toscane o lombarde, al solito fine di eludere l'accerchiamento del proprio territorio.
Carlo - avido di potere, sollecitato dall'ambiziosa consorte e smanioso di calarsi nell’impresa - accetta di limitare le sue mire di conquista, s'impegna a non brigare per la Corona imperiale, accetta la corresponsione di un tributo al Papa, pari a un multiplo di quello stabilito per gli Svevi.
Ricevuta l'investitura papale, Carlo D'Angiò arriva nella penisola italiana col suo esercito francese e prevale sulle milizie di Manfredi, che pure oppone una fiera, eroica e sfortunata resistenza. Aveva organizzato puntigliosamente il suo esercito, spalleggiato da truppe con una significativa presenza saracena, tedesca e lombarda. Ma nei pressi di Ceprano - al comando del Conte di Caserta, cognato di Manfredi - le truppe si ritirano per diserzione o per accordi segreti intavolati col Papa e Carlo, favorendo la caduta del forte di San Germano. Manfredi smania per una rivincita, non aspetta i rinforzi e chiama a raccolta le truppe rimaste, che forse sarebbero pure state sufficienti, se non si fossero verificate nuove defezioni da parte dei baroni meridionali, determinanti l’esito della battaglia. Con i soldati rimaste fedeli, tra cui saraceni e tedeschi, combatte nei pressi di Benevento, anche contro la slealtà degli avversari.
Morirà prima di arrendersi - preferirà combattere con coraggio, esaurire tutto il suo immenso valore piuttosto che consegnarsi - e i suoi stessi nemici non potranno che omaggiarlo, lasciando un sasso ciascuno sul tumulo scavato nel terreno su cui ha abbandonato la vita. Il tributo militare avrà il suo contrappeso nella vendetta ecclesiastica, la violazione della tomba da parte dell'arcivescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, con l'assenso del Papa Clemente IV, ché un scomunicato non poteva riposare in un territorio - Benevento - sotto il dominio della Chiesa.
Dante ricostruirà l'evento e il personaggio, nel Canto III del "Purgatorio".

Dante colloca Manfredi tra i contumaci dell'Antipurgatorio, tra gli scomunicati.
"Biondo era e bello e di gentile aspetto", evocando Re Davide nell'Antico Testamento,
"ma l'un de' cigli un colpo avea diviso", ha cioè il volto deturpato da un taglio.
Chiede a Dante se lo riconosce, con l'orgoglio proprio di un'anima ancora impura,
e alla risposta negativa gli mostra una piaga sul petto, la ferita mortale in battaglia,
presentandosi come Manfredi, figlio di Federico II e nipote dell'Imperatrice Costanza d'Altavilla.
Confessa le sue colpe - "orribil furon li peccati miei" - e parla delle sue scomuniche,
ma mostra anche il suo sincero pentimento, in punto di morte, nella Battaglia di Benevento.
"Poscia ch'io ebbi rotta la persona, di due punte mortali,
io mi rendei, piangendo, a quei che volentier perdona".
Il Signore Iddio alleviò le pene della sua anima,
"bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei",
non così il Papato, giacché il Vescovo di Cosenza ne fece dissotterrare le ossa,
che "or le bagna la pioggia e move il vento".
Morire da scomunicati, anche se pentiti, obbliga a sostare nell'Antipurgatorio,
"per ognun tempo ch'elli è stato, trenta, in sua presunzion",
cioè trenta volte tanto il tempo trascorso in contumacia,
a meno che i vivi non abbrevino l'attesa con le loro preghiere.
Manfredi chiede così a Dante di riferire alla figlia Costanza della sua sosta in Purgatorio,
semmai ella lo creda tra i dannati, per l'atteggiamento avuto in vita verso la Chiesa.
La poesia dantesca ricostruisce quanto la storia non ha raccontato,
contrappone la bassezza degli odi umani all'infinita misericordia divina:
che segue vie imperscrutabili e concede la salvezza anche a personaggi "scandalosi",
purché sinceramente pentiti, anche se solo in fin di vita.
"Biondo era e bello e di gentile aspetto", evocando Re Davide nell'Antico Testamento,
"ma l'un de' cigli un colpo avea diviso", ha cioè il volto deturpato da un taglio.
Chiede a Dante se lo riconosce, con l'orgoglio proprio di un'anima ancora impura,
e alla risposta negativa gli mostra una piaga sul petto, la ferita mortale in battaglia,
presentandosi come Manfredi, figlio di Federico II e nipote dell'Imperatrice Costanza d'Altavilla.
Confessa le sue colpe - "orribil furon li peccati miei" - e parla delle sue scomuniche,
ma mostra anche il suo sincero pentimento, in punto di morte, nella Battaglia di Benevento.
"Poscia ch'io ebbi rotta la persona, di due punte mortali,
io mi rendei, piangendo, a quei che volentier perdona".
Il Signore Iddio alleviò le pene della sua anima,
"bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei",
non così il Papato, giacché il Vescovo di Cosenza ne fece dissotterrare le ossa,
che "or le bagna la pioggia e move il vento".
Morire da scomunicati, anche se pentiti, obbliga a sostare nell'Antipurgatorio,
"per ognun tempo ch'elli è stato, trenta, in sua presunzion",
cioè trenta volte tanto il tempo trascorso in contumacia,
a meno che i vivi non abbrevino l'attesa con le loro preghiere.
Manfredi chiede così a Dante di riferire alla figlia Costanza della sua sosta in Purgatorio,
semmai ella lo creda tra i dannati, per l'atteggiamento avuto in vita verso la Chiesa.
La poesia dantesca ricostruisce quanto la storia non ha raccontato,
contrappone la bassezza degli odi umani all'infinita misericordia divina:
che segue vie imperscrutabili e concede la salvezza anche a personaggi "scandalosi",
purché sinceramente pentiti, anche se solo in fin di vita.
Svevi

Enrico IV (1194-1197)
Federico II (1198-1250)
Corrado I (1250-1254)
Corrado II (1254-1258)
Manfredi (1258-1266, reggente dal 1250)

Enrico IV (1194-1197)
Federico II (1198-1250)
Corrado I (1250-1254)
Corrado II (1254-1258)
Manfredi (1258-1266, reggente dal 1250)
Una nota a margine.
RispondiEliminaIl mantello di Ruggero II - cosiddetto "dell'incoronazione" - è attualmente esposto al Museo Imperiale di Vienna. Enrico VI di Svevia lo trafugò quando giunse in Sicilia, insieme ad altre gemme - le chiroteche, i tibiali, i sandali e la cintura di Guglielmo -, trasferite in Germania. Il tramonto del Regno Normanno eclissò la memoria del collegamento tra la Sicilia e il prezioso mantello, sino a far dubitare della sua provenienza, peraltro inequivocabilmente desumibile delle scritte che vi sono ricamate.
L'Impero Austro-Ungarico capitola definitivamente nel 1918. Il trattato di pace prevedeva, tra le richieste di risarcimento, la restituzione di "tutte quelle opere d'arte sottratte nel corso dei secoli e attraverso svariate vicende storiche a talune regioni d'Italia". La Sicilia, in forza della clausola, avanzò la pretesa di riconsegna di tutti i suoi reperti. La Commissione - appositamente nominata per valutare le istanze - non accolse però la richiesta, adducendo una discutibile prescrizione del diritto, e le autorità italiane non riuscirono a replicare a tono.
I reperti rimasero a Vienna, sino all'annessione dell'Austria al Reich nazista, che li riportò a Norimberga, laddove li aveva originariamente depositati Enrico VI. Finita la guerra, con la sconfitta della Germania, l'Austria chiese la restituzione del manto e degli altri reperti, che tornarono al Museo Imperiale, dove con la loro bellezza continuano ad affascinare i visitatori.