SCILLA E CARIDDI - Il mito

"I miti sono storie che esprimono un senso, una morale e una causa.
Se sono vere o no, è irrilevante"

"Mito" è un termine d'origine greca - mythos: parola, narrazione racconto, dai connotati spesso favolosi - e la "mitologia" è il mythos congiunto al logos, al discorso, all'argomento razionale implicito nella narrazione fantastica.

I miti - e la mitologia che li raccoglie e li ordina - giocano un ruolo centrale nel processo di conoscenza. I miti non sono (non devono esser declassati a) semplici racconti di eroi, dèi e discese dall'aldilà, per quanto avvincenti. I miti esprimono verità attraverso simboli, invitano a osservare la realtà con occhi meditativi.

I miti codificano i fondamenti della struttura dei popoli che li hanno prodotti, ci restituiscono la loro visione del mondo attraverso un deposito di narrazioni fantastiche, impostate su archetipi di situazioni e personaggi ad alta densità di riferimenti religiosi, morali, etici e sociali. L'insieme dei miti dà forma al patrimonio di credenze di un popolo, in termini di ideali, principi, norme di comportamento e di ogni altro aspetto rilevante per la sopravvivenza e la continuità della comunità. I popoli dell'antichità costruivano sui miti la loro identità culturale e con i miti ne tramandavano la memoria.
 
 
La mitologia è pure una proto-scienza, che tiene cattedra in assenza di strumenti interpretativi di altro genere. Il mito risponde - a suo modo - agli interrogativi sul perché delle cose, spiega - a suo modo - gli stati della realtà percepiti con le facoltà sensoriali e gli stati d'animo avvertiti tramite i sentimenti. Anche quando la cultura evolve, anche quando si diventa più esigenti e desiderosi di spiegazioni "scientifiche", il mito preserva intatto il suo valore paradigmatico, conserva tutta la sua potenza nel rappresentare l'essenza delle cose, nell'innescare la curiosità di conoscerle. Il mito, per quanto scientificamente insoddisfacente, ha il pregio di resuscitare una realtà sotto forma di narrazione, di conferire alla realtà quel senso di completezza - pur provvisoria - che ci dà la ragione delle cose e permette di riconoscere in esse frammenti della nostra esistenza.

La mitologia arricchisce - per numero, profondità e sfumature - il nostro repertorio di esperienze strutturate, di mondi organizzati, di mappe ben disegnate, di cui possiamo servirci per dare un senso compiuto a una realtà spesso piccola e contraddittoria, rumorosa, confusa e penosa. E' un modo suggestivo e accattivante di riconoscere in una situazione, in una persona o in un evento della vita reale, un'incarnazione dei modelli incontrati nella finzione. Questo riconoscimento di un "già visto" dà senso alla nostra esperienza, altrimenti d'incerta decifrazione, la inquadra in precedenti illustri e ben definiti. "Vuoi forse finire come Prometeo?". "Sei stato beffato come Polifemo". "Avrà anche lui il suo tallone di Achille". "Sarà il nostro Cavallo di Troia".

L'etichetta mitologica, l'immedesimazione con un personaggio fantastico, o la rappresentazione di una situazione fiabesca, danno di colpo una struttura a ciò che prima non lo aveva, fanno chiarezza nella confusione emotiva e cognitiva della contingenza. Tutta una storia ci si para all'istante davanti, e ci induce a considerazioni che altrimenti non avremmo saputo sviluppare, o almeno non con altrettanta rapidità e precisione.

Conoscere i miti, parlare dei miti, non è un'inutile sfoggio di erudizione. E' un modo di capire - per allusioni e simboli - il senso della vita, uno dei tanti modi possibili, sicuramente non esclusivo e per molti versi superato, ma di incomparabile potenza simbolica, è un autentico ponte verso la trascendenza. Quei mondi fantastici ci permettono di capire meglio cosa vogliamo e cosa no, di rappresentarci con vivacità, nei dettagli, conseguenze possibili, impossibili e inevitabili. Ci risulta più facile, meno penoso, affrontare l'ineluttabilità del dover decidere.

Chi insiste a rimanere con "i piedi in terra", spesso si condanna a subire una realtà incomprensibile, perché restare con "i piedi in terra", e rifiutare il mito, significa smarrire il proprio posto nell'universo. A ostinarsi a rimanere con "i piedi sulla terra", si rischia di perderla per sempre, questa terra.

"... nella scienza non vi è più verità che nei miti tribali;
la scienza, in altri termini, sarebbe solo la mitologia
generata dalla nostra moderna tribù occidentale.
Una volta, provocato da un antropologo, decisi di formulare il mio pensiero nel modo più radicale.
Supponiamo che vi sia una tribù, dissi, in cui si crede che la luna sia una zucca
lanciata nel cielo da tempi immemorabili,
e sospesa fuori portata appena al di sopra delle cime degli alberi.
Affermereste seriamente che la nostra verità scientifica 
- che la luna è lontana un quarto di milione di miglia
e che il suo diametro è un quarto di quello della Terra -
vale quanto la zucca tribale?
'Sì', rispose l'antropologo.
'Noi crediamo in una cultura che vede il mondo scientificamente.
Altri crescono in una cultura che vede il mondo diversamente.
E nessuno dei due mondi ha in sé più verità dell'altro' "

Siete mai stati tra Scilla e Cariddi? Oggi lo chiamiamo Stretto di Messina, e lo attraversiamo in una mezzora di traghetto, ma un tempo era un tratto di mare inquieto e turbolento, così misterioso e affascinante da offrirsi spontaneamente alla creazione di miti e leggende sulle creature che lo popolavano.

Navigare lo Stretto era complesso, rischioso, per le correnti marine forti e irregolari, per i venti violenti e in contrasto tra loro. Ovidio lo definiva navifragum, distruttore di navi, Sallustio parlava di mare vorticosum. Oggi ne conosciamo il motivo: l'incontro-scontro tra il Tirreno e lo Ionio - mari con diverse caratteristiche chimico-fisiche - in una zona "a imbuto" -  la parte stretta a Nord, tra Capo Peloro e Torre Cavallo, che si allarga a Sud, sino all'ideale linea di confine tra Capo Taormina e Capo d'Armi - genera fenomeni natuarli caotici con nomi tecnici ben precisi (Garofali, Macchie d'Olio, Bastardi).

Ma un tempo, nella fantasia degli antichi, quella striscia d'azzurro era il dominio di due mostri, Scilla e Cariddi, la mitica umanizzazione dei pericoli geofisici, la personificazione al femminile delle forze avverse di Madre Natura, di due azioni del mare in tempesta: Scilla, il mare che "strappa e lacera", Cariddi, il mare che "inghiotte e risucchia".
 
Il racconto di Scilla e Cariddi risale nel tempo, prima della "Odissea" di Omero. Se ne trovano tracce in vari scritti apocrifi e nella narrazione della saga epica degli Argonauti, databile intorno al III secolo a.C. La versione popolare le identifica entrambe come creature al principio privilegiate - due ninfe, fanciulle  dall'eterna giovinezza, in una posizione di mediazione ed equilibrio tra i mortali e le divinità - poi mutate in esseri mostruosi per il peccato di hybris, di tracotanza, di empietà verso gli dèi, per scelte proprie o per l'azione vendicativa di esseri gelosi.
Lo Stretto di Messina è un luogo mitico, 
luogo geografico e luogo dell'anima,
in cui le paure più profonde prendono corpo e allo stesso tempo si esorcizzano.
Lo Stretto recepisce e amplifica l'ambivalente valore del mare,
una forza di generazione e nascita, dotata però di un potenza distruttiva terrificante.
Lo Stretto è una realtà a un tempo favolosa e terribile,
tormentato passaggio in cui si può perdere la ragione o la vita, oppure salvarsi,
  nel mettersi alla prova contro i pericoli del mare e dell'ignoto,
La traversata dello Stretto è un'esperienza fisica e spirituale,
una proiezione in una dimensione in cui "vicino" e "lontano" si confondono,
perché c'è un momento in cui si sente di poter abbracciare contemporaneamente
ciò che si sta lasciando e ciò che si sta per raggiungere,
quando ciò che si abbandona non sembra perso irrimediabilmente,
perché si può ancora comprendere con lo sguardo,
e ciò verso cui ci si dirige sembra esser lì, già raggiunto,
pur non ancora posseduto del tutto.
La dicotomia "acqua-terra" svanisce pian piano, sino ad annullarsi,
perché nello Stretto si solca il mare con lo sguardo fisso sulla costa,
sì da aver la sensazione di imprigionare una totalità.
Lo Stretto è mito, storia, simbolo, divinità, memoria, 
morte, rinascita, grembo materno, addio, sepoltura.
Lo Stretto parla sempre con voci diverse, con parole antiche e nuove,
esercita un fascino a cui nessuno può né vuole sottrarsi,
perché tutti quelli che lo hanno attraversato almeno una volta
sentono ormai di appartenergli per sempre.

La storia di Scilla parte da lontano, dalla storia di Glauco, un pescatore della Beozia.

Glauco trascorreva le sue giornate in solitudine, assorbito dal suo mestiere. Tornava un giorno da una pesca fortunata, quando vide un insolito isolotto, ricco di alberi e fiori. Accostò la barca e tirò a secco le reti. Le stese sull'erbetta soffice e argentata intorno alla spiaggia, per asciugarle al sole, e accanto vi allineò i pesci, per contarli. Il contatto tra i pesci e l'erba produsse però un fatto straordinario: i pesci iniziarono ad agitarsi, ripresero vigore sino a disporsi in banco, come fossero ancora in acqua, e a piccoli balzi se ne ritornarono nel mare.

Glauco era sbalordito. Cos'era? L'opera di un dio o la magia dell'isola? Un dio non avrebbe mai sperperato il suo tempo nel farsi beffe di un umile pescatore - immaginò - quindi il prodigio proveniva sicuramente dall'isola. Assaggiò allora quell'erba e, non appena l'ebbe ingoiata, sentì anch'egli l'impulso a conquistare le onde del mare, un silenzioso e lacerante conflitto interiore tra la sua natura umana e l'improvvisa attrazione verso l'acqua. Il richiamo del mare era prepotente, violento e irresistibile, e il pescatore non poté che dir addio alla terra e alla sua originaria condizione di uomo, per tramutarsi in una creatura acquatica.

Gli dèi del mare lo accolsero benevolmente, e pregarono OceanoTeti di liberarlo dalle ultime sembianze terrene. Glauco divenne così un semidio, un tritone dal mare, immortale e profetico. 

"Era un bel prato lì presso la spiaggia, cui parte copriva
L'onda del mare, cingevano parte le tenere erbette,
Che le giovenche cornute non morsero lè quiete
Pecore mai non brucarono né mai l'irsute caprette
... Per primo
Sopra quel cespo sedetti seccando le madide nasse;
E per contarli, sul prato disposi con ordine i pesci...
Tutti quei pesci cominciarono a muoversi al tocco dell'erba,
Guizzano e saltano in terra così come fossero in mare.
Mentre mi indugio e stupisco, lo stuolo di tutti quei pesci
Gittasi dentro nell'onde native e me lascia e la spiaggia...
Mi meraviglio, rimango perplesso, ne cerco la causa,
se qualche nume abbia fatto il miracolo o il succo dell'erba.
Ma qual'è l'erba così portentosa? Ne velsi un pugnetto
Con una mano e la morsi coi denti. Ma come la gola
Ebbe inghiottito l'incognito succo, sentii trepidarmi
Tosto i precordi e nel petto l'amore di un altro elemento.
Poco potei rimanere sul lido e sclami: - Vale, terra,
Dove non ritornerò! - e m'immersi col corpo nell'onde.
Gli dei marini degnarsi d'accogliermi come compagno;
Pregar l'Oceano e Teti di tormi la parte mortale...
Quando rinvenni trovai che del tutto non ero più quello
c'ero già stato pel corpo e che l'animo aveno diverso.
Di verde cupo mi vidi la barba allor tinta la prima
Volta ed il lunghi capelli che strascico sul vasto mare;
Vidi le braccia cerulee e gli omeri fatti stragrandi.
E, come cosa di pesce, ricurve le gambe all'estremo"
(Ovidio, "Metamorfosi")  

Scilla - una ninfa di rara bellezza, per alcuni figlia di Forco e Ceto, per altri di TifoneEchidna - amava passeggiare sulle spiagge di Zancle, l'odierna Messina, bagnarsi nelle sue limpide acque e allietare quei lidi col suono della sua cetra.

Una sera d'afa opprimente, la ninfa andò in spiaggia a cercar sollievo. Passeggiava scalza, quando si fermò sulla caletta preferita. Si bagnò in mare e poi si distese sulla sabbia, lasciandosi cullare dai suoni della notte. Le sembrò a un tratto di udire un forte rumore d'acqua sbattuta. Balzò in piedi per lo spavento e aguzzò la vista. Percepì qualcosa tra le onde, appena sotto il pelo dell'acqua, che si avvicinava alla riva a gran velocità. Rimase impietrita, nel veder emergere un essere metà uomo e metà pesce, col corpo di color azzurro, il volto incorniciato da una fitta barba verde e una lunga chioma scura, piena di frammenti d'alghe, che cadeva selvaggia sulle spalle.

Era Glauco, il semidio marino, il pescatore di un tempo. La bellezza di Scilla lo sconvolse. Se ne innamorò all'istante e le gridò il suo amore, ma la ninfa, spaventata, fuggi via. Glauco la inseguiva e Scilla scappava, e più lui si tormentava per convincerla più lei s'intimoriva. La supplicò di ascoltare almeno la sua storia, con cui le svelò la sua natura divina, sperando di persuaderla.

Glauco e Scilla.

Ma una sola cosa superava la bellezza di Scilla: la sua vanità. La ninfa non si era mai concessa a nessun corteggiatore, meno che mai avrebbe potuto cedere a un essere dalle sembianze ripugnanti. Fu allora che Glauco, disperato, invocò l'aiuto della maga Circe. Voleva una stregoneria, un filtro, un elisir d'amore, per far cedere il cuore di Scilla e incatenarlo al suo. La Circe rimase perplessa. Un semidio che langue dietro a una mortale? Che umiliazione! Un semidio avvilito per l'amore non corrisposto di una stupida ninfa? Patetico! Ci son qui io - disse la Circe - ella stessa innamorata di Glauco, e lieta di assecondarne i sentimenti, per provargli quanto si sbagliasse nel sentirsi infelice e sfortunato.

Però l'amore ha le sue leggi, inviolabili e invarianti, per dèi, semidei e umani. Glauco restò sordo agli ammiccamenti della Circe. Era innamorato di Scilla, voleva solo Scilla, e nessun altra, e implorò nuovamente, con ardore crescente, un filtro d'amore. La maga non lo tollerò oltre. Glauco l'aveva offesa una prima volta, chiedendo a lei, una donna, un'alchimia per suscitare l'amore di un'altra donna, e aveva poi avuto la sfacciataggine di insistere in quell'assurda pretesa, incurante delle sue spiegazioni e soprattutto insensibile alle sue avance.

La furia della Circe prese la classica forma femminile - cieca e irrazionale - e anziché indirizzarsi sulla sfrontatezza di Glauco, si scaricò sull'inconsapevole Scilla, percepita suo malgrado come una rivale da eliminare. La maga preparò sì il filtro, ma un filtro malefico, e versò la pozione nelle acque della spiaggia preferita di Scilla, avvelenandole.

La maga Circe tramuta la ninfa Scilla in un mostro marino.

Quando Scilla vi s'immerse, vide sorgere intorno a lei delle mostruose teste di cani rabbiosi. Provò prima a scacciarli, poi a fuggirne, in entrambi i casi senza successo. Finché realizzò la tremenda ragione dell'inutilità di quei suoi tentativi. I musi dei cani erano attaccati alle sue gambe!

Aveva ancora un corpo da donna, Scilla, ma solo fino al ventre. Da sotto spuntavano sette colli serpentini, che reggevano altrettante teste di cane. Ogni cane mostrava fauci immense, con tre file di denti aguzzi. E poi la sua pelle, prima morbida e liscia, si ricoprì di squame ruvide e lucenti, e la sua voce, prima melodiosa, divenne rauca e cupa. 

"Scilla dentro a le sue buie caverne
Stassene insidiando; e con le bocche
De' suoi mostri voraci, che distese
Tien mai sempre ed aperte, i naviganti
Entro al suo speco a se tragge e trangugna
Dal mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto
Ha di donna e di vergine; il restante
D'una pistrice, immane, che simili
A' delfino ha le code, ai lupi il ventre"
(Virgilio, "Eneide")

Travolta dalla paura e sconvolta dal dolore, piena di vergogna e disperazione, Scilla si gettò in mare alla ricerca di un nascondiglio, che trovò in un antro della costa calabra proteso verso la Sicilia, inaccessibile ai mortali. Di lì meditò la sua vendetta contro la Circe. Assalì la nave di Ulisse - personaggio caro alla maga - gli uccise ben sei compagni e attentò alla sua stessa vita. Tutto il suo cuore era ormai un macigno di crudeltà, che compiva stragi a ogni occasione e non risparmiava nessuno degli sventurati naviganti di passaggio.

La stessa Circe sembrò sorpresa di ciò che aveva creato, quando presentò Scilla a Ulisse come un "prodigio immortale, uno spavento, un orrore selvaggio con cui non si lotta: contro di le non c'è riparo, bisogna fuggire".

Glauco pianse in eterno l'ingiustizia toccata alla ninfa, senza mai smettere di adorarne l'originaria immagine di grazia e bellezza.

E Scilla, colei che dilania, continuò a strappare i marinai alle loro navi, ogni volta che le avvistava accanto al suo nascondiglio...
 
"Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino a un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo,
Dodici ha piedi, anteriori tutti,
Sei lunghissimi colli e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara di ogni dente".

Di fronte a Scilla - di là dello Stretto, sul versante siciliano - il mito colloca un altro mostro, Cariddi, con una storia decisamente più semplice.

Cariddi era anch'ella una ninfa, figlia di Poseidone e Gea, del Mare e della Terra. Era ghiotta e golosa, vorace e insaziabile, oltre ad avere una spiccata inclinazione al furto.
 
La sua intima natura la spinse a rubare degli splendidi buoi rossi che Eracle stava conducendo attraverso lo Stretto, dopo averli a sua volta rubati a Gerione, nella decima delle sue dodici fatiche. E' perciò uno scontro tra pari, entrambi esseri semi-divini, entrambi ladri.
 
A differenza di Eracle, però, Cariddi consumò subito il bottino, scatenando l'ira di Zeus, sovrano degli dèi dell'Olimpo, che - invocato da Eracle - scagliò la ninfa in mare con uno dei suoi fulmini, restituendola all'elemento a cui originariamente apparteneva.
 
Qui, suo padre Poseidone la trasformò in un gigantesco pesce serpentiforme, simile a una lampreda, grande quasi quanto lo stesso Stretto in cui giaceva, al punto da sembrare un tutt'uno col mare.
 
La sua infinità voracità diventò la sua condanna. Restava appostata, invisibile, sotto un alto albero di fico e ingoiava e risputava l'acqua del mare, sino a tre volte al giorno, con così tanta violenza da creare vortici in superficie, che risucchiavano nelle profondità marine le navi e i loro equipaggi, per poi far tornare a galla soltanto i resti.

"L'altro scoglio più in basso tu lo vedrai, Odisseo,
vicini uno all'altro,
dall'uno potresti colpir l'altro di freccia.
Su questo c'è un fico grande, ricco di foglie;
e sotto Cariddi gloriosa l'acqua livida assorbe.
Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe
paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe"
(Omero, "Odissea")

"Come fa l'onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
così convien che qui la gente riddi".
Siamo nell'inferno dantesco, nel Canto VII,
nel singolare girone dei prodighi e degli avari,
dove un peccato (l'avarizia) abbraccia il suo opposto (lo sperpero).
Come tra Scilla e Cariddi, un luogo in cui le onde cozzano tra loro,
così i peccatori s'incontrano e si scontrano, insultandosi a vicenda.
"Perché ammucchi beni?", "E tu perché li disperdi?".
E via così, voltandosi da un lato e dall'altro "qui la gente riddi",
da "riddare", ballare la ridda, un ballo in cui si gira con molte persone in cerchio.

Il libro XXI dell' "Odissea" narra la traversata dello Stretto di Messina, il passaggio di Ulisse tra Scilla e Cariddi. Bisognava posizionarsi nel mezzo, calibrare bene la rotta di navigazione, per non avvicinarsi troppo né all'una né all'altra, né a colei che dilania né a colei che risucchia. La situazione mitologica è entrata nel comune sentire, negli usuali modi di dire: essere tra Scilla e Cariddi - nel linguaggio ordinario - esprime una situazione problematica, in cui è richiesta l'abilità di ponderare i rischi, di soppesare le valutazioni d'opportunità, di destreggiarsi tra elementi contrastanti. Il mito delle sentinelle dello Stretto - due ninfe divenute mostri, una per la vendetta di una donna, l'altra per la propria ingordigia - prende così il valore simbolico del superamento del confine tra il familiare e l'ignoto, indica la necessità - in varie situazioni - di costeggiare il confine con l'ambiguità.

Ulisse era stato allertato dalla Circe: meglio sbilanciarsi verso destra, verso Scilla, se proprio non si riusciva a tagliare il percorso nel mezzo. Perché contro Scilla si poteva forse battagliare con relativo successo, perdere cioè alcuni marinai, ma riuscire a condurre la nave sull'altra sponda, col resto dell'equipaggio. Pendere a sinistra, verso Cariddi, avrebbe invece significato giocarsi tutto in un colpo di fortuna, morire o sopravvivere in blocco, senza soluzioni intermedie, a seconda che in quel frangente Cariddi stesse o no risucchiando l'acqua. La Circe, a ogni modo, invitava alla cautela, scoraggiava azioni temerarie o battagliere contro Scilla - "terribile, atroce, selvaggia, imbattibile" - e invocava piuttosto l'arte persuasiva. "Molto meglio fuggire e aiuto chiedere a Cratais, la madre di Scilla, che la generò sciagura ai mortali; lei può fermarla, che non s’avventi di nuovo".

Scilla e Cariddi ci esortano così a coltivare l'arte del saper dare un valore alle cose, in situazioni di incertezza, ci stimolano a tener in equilibrio il pensiero logico e il calcolo razionale, da un lato, e le intuizioni e le emozioni dall'altro. Sbagliamo a cadere nella Scilla di un raziocinio esasperato, di una razionalità arida, che strappa l'anima a ogni ragionamento e rende spoglio, sterile e insensibile - in una parola opprimente - il pensiero, le parole e le azioni. La prospettiva è tragica, ma le pulsioni emotive di Cariddi sono forse peggiori. La loro forza ci risucchia in vortici da cui è impossibile risalire, ci condanna a sprofondare negli abissi del capriccio, dell'incoerenza, dell'incostanza, ci fa girare tra le spirali dell'esaltazione e della depressione.

Ulisse e i suoi uomini procedevano piuttosto bene. Erano pronti ad affrontare Scilla, se si fosse manifestata. Poi, però, furono distratti dai vortici di Cariddi, ne rimasero quasi ipnotizzati, e così Scilla li colse di sorpresa, si avventò sulla nave e divorò i migliori sei rematori: "la cosa più miserevole che vidi con questi miei occhi fra tutte le disavventure che soffersi, esplorando le vie di mare". Esperienza comune, se ci si riflette: quando la logica diventa un totem da adorare acriticamente, quando s'indossa il collare della razionalità con un malinteso senso di protezione e sicurezza, allora può bastare la violenza di una singola passione improvvisa a far smarrire tutta la compostezza, a far implodere un sistema in cui si sono cumulate pressioni crescenti, in assenza di una pur piccola valvola di sfogo.

Il passaggio su Scilla e Cariddi, nella versione in prosa dell'Odissea.

Scilla e Cariddi - la Collezione "Scilla e Cariddi", di Napoli e Sicilia - mette in guardia contro i pericoli del collezionismo degli Antichi Stati, in generale, e del collezionismo dei francobolli del Regno di Napoli.

Scilla e Cariddi - la Collezione "Scilla e Cariddi", di Napoli e Sicilia - educa e disciplina il desiderio, insegna a inibirlo e a lasciarlo correre, a separare l'uno dall'altro caso, col richiamo al mito di Scilla e Cariddi che sublima le conseguenze nefaste di un desiderio indomabile, di un desiderio negato (per Scilla che rifiuta Glauco) e di un desiderio selvaggio (per Cariddi che sottrae e consuma voracemente i buoi di Gerione).

Scilla e Cariddi  - la Collezione "Scilla e Cariddi", di Napoli e Sicilia - assolve il ruolo della maga Circe per noi collezionisti, novelli Ulisse, perché passare tra Scilla e Cariddi - la scelta di collezionare "Napoli" - è un esercizio che quasi non fa presa sulle capacità umane, che richiede perciò una guida sovrumana, ultraterrena.  

Scilla e Cariddi - la Collezione "Scilla e Cariddi", di Napoli e Sicilia - è un modello, un ideale, un'icona, una musa ispiratrice che ha rivoluzionato il modo di selezionare i singoli pezzi, di comporli nelle pagine, di strutturarli in una collezione.

Quando Philippe Ferrari de la Renotiere  e Alphonse de Rothschild saranno dimenticati, quando Alfred Caspary e Maurice Burrus passeranno agli archivi, Scilla e Cariddi - la Collezione "Scilla e Cariddi", di Napoli e Sicilia - sarà ancora ricordata, perché gli uomini nascono e muoiono, laddove i miti sono fuori dal tempo e vivono in eterno.

"Scilla e Cariddi", tavola 48, lotto 151.

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