LO STRANO CASO DI BENEVENTO E PONTECORVO

"Enclave" è una parola d'origine latina (inclavare, chiudere con una chiave)
poi ripresa dalla lingua francese col termine "enclaver",
(per indicare un luogo interamente racchiuso nei confini di una proprietà di terzi)
e infine entrata nel gergo della diplomazia e della geografia politica,
per definire uno spazio assoggettato al potere di uno Stato,
pur interamente circondato dai territori di una diversa entità sovrana.

Che buffa l'enclave! Uno Stato dentro un altro Stato, uno Stato circondato da un altro Stato, uno Stato di minima estensione avvolto in uno Stato molto più grande, che trasmette la sensazione di un assedio perenne, già solo osservando la carta geografica. Ogni enclave, non a caso, fa storia a sé, ogni enclave ha una sua storia, unica e irripetibile.

Il Congresso di Vienna aveva restituito Benevento e Pontecorvo allo Stato Pontificio, aveva ripristinato due storiche enclavi della Chiesa nel territorio del Regno di Napoli. Di dirimpetto alle istituzioni formali di uno Stato, però, vi sono le sue istituzioni reali. Uno Stato non lo si riconosce solo dalla mappa geografica, dal sistema di governo, dal corpo politico e dall'apparato burocratico. Lo si identifica anche - a esempio - nella lingua parlata correntemente e nella moneta usata per regolare gli scambi. La Repubblica di San Marino e la Città del Vaticano sono due enclavi sul territorio italiano - due delle tre enclavi sovrane al mondo - e sicuramente vantano notevoli spazi di autonomia amministrativa; ma il fatto di aver in comune con l'Italia sia la lingua sia la moneta ce le fa percepire molto più "italiane" di quanto ci suggerirebbero norme, statuti, leggi e costituzioni.

Lo abbiamo già osservato - nel presentare la Crocetta e l'emissione delle Province Napoletane - e vale la pena ribadirlo, perché il punto è decisivo per una lettura consapevole e una corretta interpretazione della storia che stiamo raccontando: l'emissione dei francobolli era - è stata per lungo tempo - una manifestazione di sovranità, un modo per dire "qui comando io". Suona buffo sentirlo oggi, che il francobollo non esiste più, spazzato via da una tecnologia che ha dilatato gli spazi e azzerato i tempi della comunicazione. Lascia perplessi, oggi, pensare al francobollo come a uno strumento di potere, come forse fatichiamo a persuaderci della forza di una scomunica papale, un tempo capace di stravolgere gli equilibri politici, scatenare guerre, ridurre al silenzio, obbligare alla resa.

Oggi, d'altra parte, abbiamo smarrito anche il collegamento tra lo Stato e la sua moneta. Diciannove Stati - diversi per storia, cultura e tradizioni - tutti racchiusi in un'unica area monetaria, tutti assoggettati alla stessa moneta. Persino la lingua madre - l'italiano - la percepiamo meno rilevante rispetto alla padronanza di una o più lingue straniere, indispensabili per sopravvivere nel mondo del lavoro e non solo, non più un plus, ma un prerequisito. Anche la parola sovranista ha preso una chiara connotazione dispregiativa, è diventata la versione moderna di ciò che una volta - con intonazione di condanna - si sarebbe detto borbonico. Se "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione" - come recita già l'articolo 1 del testo al vertice della gerarchia delle fonti del diritto - allora è doloroso ma onesto riconoscere che quelle forme sono state de-formate, e quei limiti resi oltremodo limitanti, da un processo di globalizzazione politica non saprei dire quanto controllato o controllabile nei suoi numerosi e complessi risvolti. Tutti i segni di espressione del potere di uno Stato - anche i più antichi e caratteristici - sono ormai sbiaditi, tutti i legami tra lo Stato e i suoi poteri - che a lungo lo hanno identificato e definito - si allentano inesorabilmente. C'è rimasta giusto la nazionale di calcio - più che altro nella piacevole novità della compagine femminile -  a tener vivo il sentimento di appartenenza.

Questa è la storia di oggi, ma la storia di ieri ci racconta di due enclavi pontificie - Benevento e Pontecorvo - custodite dentro il Regno di Napoli. Benevento e Pontecorvo appartenevano formalmente allo Stato della Chiesa, ma come si svolgeva realmente la vita in questi luoghi? Chi comandava sul serio? I francobolli ci rivelano aspetti sociali e politici del tutto inattesi e permettono - ancora una volta - di cogliere e apprezzare tutta una serie di sfumature e finezze altrimenti irraggiungibili.

BENEVENTO


Sanniti fondarono l'attuale città di Benevento col nome di Maloenton, che significa "gregge", poi mutato in Maleventum, "zona battuta dai venti", per l'assonanza fonetica tra il nome originario e la parola italica. Quando i Sanniti si allearono con i Romani, dopo averli combattuti, la città diventò il simbolo di un "buon evento", da cui il nome definitivo.

Con la caduta dell'Impero, i Longobardi conquistarono il territorio e lo dominarono tra i secoli VIII e XI, lo eressero prima a Ducato e poi a Principato.

Al dominio longobardo subentrò lo Stato Pontificio, per l'esigenza di razionalizzare il proprio assetto geopolitico. Nel Natale del 1052, a Worms,  l'Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico IIIPapa Leone IX stilarono un accordo di scambio: la Santa Sede cedeva i propri diritti sui vescovati tedeschi di Bamberga (in Baviera) e Fulda (in Assia) - possedimenti lontani, difficili da gestire - per ricevere la città di Benevento territorialmente più prossima (l'accordo avrebbe poi avuto corso effettivo solo nel 1077, alla morte del Principe Landolfo VI, ultimo dei longobardi).

Prende così il via una dominazione plurisecolare - con una travagliata parentesi napoleonica, tra il 1798 e il 1815 - che vedrà la sua conclusione sul finire del 1860, col successo dell'impresa garibaldina. Emilio Diena - nella sua celebre monografia - ci offre una fine ricostruzione del passaggio di poteri: "il 3 settembre 1860, un modesto e ardente cittadino beneventano, Salvatore Rampone, si presentò, indossando la camicia rossa, all'ufficiale comandante la Piazza di Benevento, cui manifestò, come delegato di Garibaldi, la decisione di proclamarvi un Governo provvisorio, in seguito alle vittorie delle truppe garibaldine. Ad onta che l'ufficiale avesse chiesto due ore onde accordarsi col Delegato pontificio, prima di far note le decisioni, la folla che aspettava impaziente di conoscere l'esito dei colloqui, vedendo il Rampone agitare dalla finestra del palazzo delegatizio il cappello in segno di consenso, proruppe in applausi ed in grida patriottiche. Vennero tosto abbassati gli stemmi pontifici e sostituiti con quelli sabaudi. Il Delegato apostolico abbandonò la città il giorno seguente. Ma l'annessione non fu decretata che alcune settimane dopo" (il 2 ottobre 1860 sorge un governo provvisorio e il 25 ottobre Benevento diventa una provincia del Regno di Vittorio Emanuele II).

Questi sono i fatti stilizzati. Ma a guardare i fatti sotto la lente del collezionista, si scoprono realtà intricate e contraddittorie.

La moneta pontificia - lo scudo, suddiviso in cento bajocchi - aveva un impiego estremamente limitato nel beneventano, anche a causa di uno "scomodo" tasso di cambio con la moneta napoletana - articolata in ducati, carlini, grana e tornesi - che dava sistematicamente origine a resti e frazioni difficili se non impossibili da regolare. Quando le Poste Pontificie, nel dicembre del 1851, spedirono a Benevento una prima provvista di francobolli, insieme ad alcune copie del Regolamento Postale, assolsero più a un obbligo formale, che non a un impegno a cui dare un seguito pratico. "Nelle collezioni filateliche a me note non vi sono francobolli pontifici usati a Benevento", scriveva Emilio Diena nel 1936 (e solo più tardi saltò fuori una lettera - a oggi unica - affrancata con un 2 bajocchi, diretta a Napoli). D'altra parte, se non si usavano francobolli pontifici, a più forte ragione era inibito l'uso di valori postali di Stati stranieri. "L'esame delle corrispondenze da Benevento mostra che nel periodo 1852-1859 non si fece uso di francobolli dello Stato Pontificio né di quelli del Regno di Napoli" e solo su "corrispondenze del 1860 si cominciano a vedere francobolli con la valuta in grana" - il 9 aprile e il 5 maggio - che rimangono comunque utilizzi "in via eccezionale".

In definitiva - con sporadiche eccezioni, in nessun modo rappresentative - l'assenza di francobolli e il trasporto della corrispondenza  pagato in contanti sembrano fare di Benevento una terra di nessuno.

Il fatto curioso e singolare accadde dopo l'impresa garibaldina. Sul finire del 1860 - col governo borbonico ormai destituito - la Direzione delle Poste Napoletane rifornì Benevento di francobolli borbonici (!). Dai primi mesi del 1861 arrivarono poi, in sequenza, un bollo a date a doppio circolo, un annullato "in cartella" e infine, a cavallo tra febbraio e marzo, un peculiare annullatore "a svolazzo" (!). La situazione si regolarizzò col passare dei mesi, quando prese piede l'emissione delle Province Napoletane (e con essa anche i nuovi bolli annullatori, circolari, di piccola foggia) ma agli atti rimane una situazione enigmatica, indecifrabile: la comparsa di un segno di potere - il francobollo - solo quando quel potere non c'era più.

Questa bizzarria ci prospetta ancora una volta l'abisso tra la storia realmente vissuta e la storia ufficialmente raccontata; ci ricorda - in modo costruttivo - l'impossibilità di "fare storia" con la meccanica trascrizione di ogni singolo evento, in ossequio a una malintesa posizione di neutralità; ci invia a realizzare un'opera di ragionata semplificazione, per avere una narrazione scorrevole e intellegibile, perciò assimilabile, e tuttavia ci ammonisce di tenere in fondo alle nostre teste le riserve e le qualificazioni necessarie e gli adattamenti da effettuare in seguito, per non illudersi, dopo averla semplificata, che la storia sia semplice sul serio.

Per chiosare - con l'efficace sintesi di Emilio Diena - "prima della liberazione dal Governo Pontificio, non si usarono che occasionalmente e soltanto negli ultimi mesi francobolli napoletani, che non vennero annullati a Benevento. Dopo la liberazione, in attesa di un miglior assetto di quel servizio, Benevento seguitò a servirsi di uno speciale pedone per inoltrare le corrispondenze a Napoli. Alla fine del 1860 viene istituito un regolare ufficio postale, e si cominciano a vedere corrispondenze affrancate con francobolli borbonici, ed in seguito con esemplari della serie per le Province Napoletane. [...]. E' però curioso il fatto che una località che non era alle dipendenze del Governo borbonico abbia usato normalmente francobolli di quello Stato, soltanto quando detto Governo era stato da qualche tempo spodestato".

Lettera da Benevento a Napoli, del 1859, non affrancata.





 Un campionario di lettere spedite da Benevento verso il Regno di Napoli.
Benevento non annullò i francobolli borbonici, finché non fu dotato dei timbri ufficiali.
Erano le Officine delle località di destinazione, semmai, a marcare i francobolli,
anche se ciò non sempre accadde, come si vede nella prima lettera.
Le regole per "invalidare" un francobollo erano del resto rigide e precise, e non tolleravano deroghe.
Nondimeno, Benevento disponeva al principio dei suoi timbri, piuttosto caratteristici.
"Benevento fece uso di due bolli circolari, la foggia dei quali non è punto conforme
a quella di alcun altro bollo postale dello Stato Pontifico e neppure del Napoletano"
- scrive Emilio Diena -
"La parte centrale di quei bolli era forse destinata a contenere i pezzi mobili
con le indicazioni del giorno, mese ed anno; ma non mi sono noti che privi di essi".



Lettera da Benevento a Napoli, con il bollo "E' Franca" in rosso.



Lettera da Benevento a Napoli, insufficientemente affrancata con un esemplare da 1 grano.
Il francobollo - non timbrato a Benevento, come d'uso - fu obliterato in arrivo a Napoli,
usando inusualmente il bollo "Tassa per insofficiente affrancatura" come annullatore.



Lettera da Benevento a Napoli, affrancata con un esemplare da 2 grana.
Il francobollo - non timbrato a Benevento - fu obliterato a Napoli con l'annullo a griglia.



Coppia dell'esemplare da 1 grano, con l'annullo "a svolazzo" di Benevento (n. 37).



Lettera da Benevento a Roma, del 9 maggio 1861,
affrancata con un esemplare da 5 grana del Regno di Napoli, annullato "a svolazzo",
e tassata in arrivo per cinque bajocchi (segno "5" a penna, al centro).
La tassa riconosceva la perdita del territorioora parte di uno Stato straniero,
perciò da assoggettare al pertinente regime tariffario.
C'è da chiedersi, del resto, se Benevento sia mai realmente appartenuta allo Stato Pontificio

o se non abbia piuttosto fatto parte del Regno di Napoli, di là degli aspetti di forma.
Non solo per la decisione di rifornirla a un tratto di francobolli borbonici,
e per di più nel periodo di decadenza della dinastia,
ma anche per la scelta, intrapresa in tempo di pace,
di prevedere per le stesse tariffe del Regno di Napoli per la corrispondenza verso Benevento
(anche se poi, nei fatti, sono note solo due lettere dirette nell'enclave).




Una delle due lettere conosciute da Napoli a Benevento.



Un esemplare del 5 grana del Regno di Napoli,
usato a Benevento il 5 settembre 1861, in pieno Regno di Italia.


PONTECORVO

 
Il nome Pontecorvo deriva da Pons-curvus, il ponte ad arco situato al centro della città, sul fiume Liri, anche se per lungo tempo quel corvo lo si è fatto discendere da corvus, il simbolo dei Benedettini (che giocarono un ruolo centrale nella storia della cittadina). Lo stemma della città - per non sbagliare - è un corvo su un ponte curvo.

Dalla sua fondazione, intorno all'anno 860, e sino al 980, Pontecorvo appartenne alla Contea di Capua. I Normanni conquistarono quei luoghi nel 1065, smembrarono la Contea, e Pontecorvo si ritrovò sotto il controllo di Gaeta. I monaci di Montecassino se ne appropriarono nel 1105, realizzando un antico desiderio, e ne rimasero a capo per quattro secoli, seppur tra ripetuti e inevitabili sommovimenti e tentativi di occupazione. Tra il 1422 e il 1463 la città passò prima al Papa, poi agli Angioini e quindi agli Aragonesi, per tornare infine sotto il dominio pontificio - per unanime scelta dei suoi amministratori - cui rimase assoggettata sino al 1860 (anche qui con la parentesi napoleonica, tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo). Sulla scia dei successi della Spedizione dei Mille, prima dell'entrata a Napoli di Garibaldi, prese il via una rivolta contro il potere papale. Pontecorvo si proclamò parte del Regno d'Italia il 2 settembre, subì il ritorno delle autorità pontificie, supportate dalle truppe borboniche, per essere infine definitivamente riconquistata dai soldati di Re Vittorio Emanuele, il 7 dicembre.

Pontecorvo - se filtrata attraverso i francobolli - è un caso diverso da Benevento, registra una situazione più ortodossa, se così vogliamo dire, sia sotto lo Stato Pontificio sia a seguito dell'annessione al Regno di Vittorio Emanuele II. I francobolli pontifici circolarono regolarmente dal 1852 sino al settembre 1860 - circostanza favorita dalla maggior prossimità territoriale con lo Stato di appartenenza - per poi cedere il testimone ai valori delle Province Napoletane, dall'agosto del 1861. Non si conoscono utilizzi di francobolli borbonici, in coerenza con la natura di enclave del territorio.

Ci sono però almeno tre "chicche" da segnalare, che ripropongono nuovamente la contrapposizione tra la storia dei libri di testo e la storia di tutti i giorni, che ci mostrano come vecchio e nuovo, passato e futuro, sono spesso inseparabili compagni di viaggio.
 
La prima: esiste una lettera dell'11 settembre 1860 affrancata con valori pontifici, quando il Papato aveva perso il possesso del territorio, come se la realtà quotidiana rimanesse indifferente di fronte alla rivoluzione.
 
La seconda: l'uso dei francobolli delle Province Napoletane si accompagnò in alcuni casi all'antica usanza del "frazionamento" tipica dei valori pontifici, come a voler dare a ogni costo un tocco di ancien régime al nuovo corso.
 
La terza: il ritardo nell'emancipazione di Pontecorvo ne condizionò il riconoscimento ufficiale nel sistema postale italiano (non la si cita nel Decreto del 6 gennaio 1861, che elencava le città in cui istituire gli uffici secondari, e non figura neanche nell'elenco degli uffici postali d'Italia pubblicato a giugno) come se l'effettiva unità nazionale fosse un processo di integrazione progressivo, non istantaneo, in cui l'aggiunta di ogni pezzo sconta tutte le inerzie proprie della sua storia. 

Ma è nella stessa ortodossia d'impiego dei francobolli, nel regolare utilizzo di valori pontifici all'interno di un territorio dello Stato Pontificio, che possiamo apprezzare nitidamente la singolarità - l'esclusività, la specialità - dell'istituto politico dell'enclave, ancora una volta con le parole di Emilio Diena: "in un territorio compreso entro un altro, ove non era stato ancora adottato l'uso dei francobolli, se ne usarono ben sei anni prima; fatto singolare anche questo".


"L'uso invalso nello Stato Pontificio di frazionare i francobolli,
per sopperire alla mancanza di dati valori,
ebbe una rarissima applicazione a Pontecorvo,
ove il francobollo da 2 grana delle Province Napoletane
fu usato dimezzato in unione a due esemplari interi del medesimo valore,
per formare il porto di 5 grana"
(Emilio Diena)

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