TUTTO TORNO' COME PRIMA, MA NULLA FU PIU' UGUALE A PRIMA

CONGRESSO DI VIENNA 

1 novembre 1814 - 9 giugno 1815 

"Vi sono nella storia fatti e personaggi, a dir corna dei quali non si sbaglia mai,
perché si è certi d'avere dalla parte vostra il consenso di quella maggioranza di gente,
per cui accettare un giudizio bell'e fatto e ripeterlo e adagiarvisi sopra
è, se non altro, un gran risparmio di tempo, di fatica, e di seccatura;
e a tale categoria di fatti e di personaggi
appartengono il Congresso di Vienna tra l'anno 1814 e 1815 
e gli uomini di Stato, che vi primeggiarono".
(Ernesto Masi)

Giugno 1815. Napoleone è ai titoli di coda. Due volte nella polvere, due volte sull'altare, un'altalena che distilla la storia di un personaggio amato e odiato in modo trasversale, celebrato come un eroe per gli stessi motivi che lo rendono detestato come un criminale, ai suoi tempi e da suoi tempi sino a oggi.

Rivoluzionario, giacobino, a un passo dalla ghigliottina, ma poi Imperatore di Francia con un colpo di Stato, incoronato nella Cattedrale di Notre-Dame, dopo aver conosciuto la galera ai tempi di Robespierre. Un'evoluzione sbalorditiva, in un groviglio di contraddizioni. Ma a Napoleone della stretta coerenza importava il giusto, e cioè niente. Non aveva profondità di pensiero, non era sistematico. Possedeva un pragmatismo ai limiti della spregiudicatezza e del cinismo: "Voialtri ideologi agite secondo sistemi preordinati" - dirà con disprezzo a un politico tedesco - "Io sono un uomo pratico: afferro gli eventi e li spingo lontano fin dove possono arrivare".

Napoleone ha cavalcato la Rivoluzione Francese, gli ideali di libertà, uguaglianza, laicità, repubblica, e in molti - tra il popolo - lo hanno amato per la sua intraprendenza, per la sua caparbietà; e altrettanti - tra i nobili - lo hanno odiato per lo stesso motivo, per aver incarnato uno spirito indocile, sovversivo dell'ordine, irriguardoso verso la tradizione, ribelle all'autorità. Ma Napoleone ha pure addomesticato la Rivoluzione, ne ha fissato un'argine, e se per molti è diventato un traditore, altrettanti lo hanno amato per la scelta di ripristinare un nuovo ordine, una normalità.

Se "la Rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette", Napoleone intuì la necessità di trattenere il buono delle idee e di accantonare per un attimo le baionette. Realizzò l'insofferenza dei francesi verso le incertezze e le violenze endemiche nel processo rivoluzionario. Percepì il desiderio diffuso di  smorzare il rumore di fondo della Rivoluzione, per consolidarne le faticose conquiste. Interpretò la volontà popolare di salvare le novità della Rivoluzione dall'anarchia e dalla ghigliottina. "Avremo la Repubblica, la libertà e l'eguaglianza, la sicurezza e la libertà delle persone e delle proprietà, la libertà di stampa, di commercio e di industria, la riduzione delle spese e la diminuzione delle imposte", proclamò per bocca di uno degli uomini della sua Corte. E fu ancor più diretto verso il Congresso Cispadano, la classe politica dell'epoca, nel corso della "Campagna d'Italia": "L'Italia avrà la libertà, ma senza la rivoluzione e i suoi crimini".

Napoleone mise fine agli eccessi, ricompose le fratture, piallò i dislivelli. Stop alla lotta contro la Chiesa - ché in fondo "la religione è ciò che impedisce ai poveri di assassinare i ricchi" - e vescovi e parroci si annoverarono così tra i pilastri della sua politica di governo. Stop alla contrapposizione feroce coi nobili dell'Ancien Régime, invitati a entrare nell'esercito e nell'amministrazione dello Stato. Stop a macabre ritualità, la festa del 21 gennaio a esempio, il giorno della decapitazione di Re Luigi XVI, perché ghigliottinare i Re andrà pur bene, ma perpetuare i festeggiamenti non è politicamente corretto, diremmo noi oggi. Napoleone riappacifica gli animi, o almeno questo è il suo obiettivo, sulla scia di una gloria personale che diventa la gloria di tutti. "La Francia ha bisogno di un capo che si sia reso illustre per la gloria, e non per teorie di governo, frasi, discorsi da ideologi, di cui  i francesi non comprendono nulla".

Il Napoleone politico mostra così il lato accomodante del personaggio, il suo proporsi come figura d'unità, ma il personaggio nasce come uomo di guerra, ha un'anima militare, è e rimane un soldato. "E' il soldato che fonda le Repubbliche e è il soldato che le conserva", dirà nel 1797, in Italia, nell'istituire la Repubblica Cisalpina, a richiamare il ruolo delle baionette, dei metodi militari, non solo nella fase iniziale della fondazione, ma anche in quella strutturale della conservazione. Gli stessi titoli di Napoleone - che ne giustificano il suo essere alla testa della Francia - si esauriscono nella gloria conquistata sui campi di battaglia, per di più in guerre d'attacco, non difensive ma rivoluzionarie.

Il soldato Napoleone non riuscirà mai a spingere sino alle conseguenze ultime quel bisogno di normalità - pressante, insistente - che non sfuggiva certo alla sensibilità del Napoleone politico, sempre attento agli umori dell'opinione pubblica. Il soldato Napoleone non poteva concepire la repulsione della guerra, o cogliere interamente l'avversione per un'azione armata, non riusciva ad assimilare pienamente l'idea della pace come bene supremo, cui subordinare ogni altra ambizione.

Non solo. A Napoleone non bastava essere Imperatore della Francia. Tutti i popoli d'Europa - nella sua visione - sarebbero stati un giorno un unico popolo, cosicché "ciascuno, viaggiando in ogni paese, si sarebbe sempre trovato all'interno della patria comune", di un'immensa patria comune in cui la Francia - ca va sans dire - avrebbe avuto lo status privilegiato di sorella maggiore, di Paese fondatore verso cui nutrire un doveroso rispetto e un'incondizionata gratitudine. Napoleone non capirà mai che non tutti i popoli vogliono invariabilmente le stesse cose, indipendentemente dalla loro storia e dal contesto in cui si trovano, e che gli stessi Paesi culturalmente vicini alle idee della Rivoluzione - gioiosi del cambiamento, come poteva esserlo l'Italia - faticheranno comunque ad accettare nuovi sistemi di valori e di diritti, pur vantaggiosi, se la loro affermazione implica la sistematica presenza di pattuglie straniere a battere il passo nelle strade, di funzionari stranieri a impartire ordini e riscuotere tasse, di autorità straniere a giudicare e sentenziare.

Non lo capì Napoleone all'epoca, e pare non l'afferri neanche la sedicente élite dell'odierna classe politica, o sembra colga il punto solo a intermittenza, quando da un lato sponsorizza l'Unione Europea e dall'altro ambisce ora, come la Francia di allora, a salire in cattedra per far da maestrina a tutti gli altri.

"C'è solo un passo dal sublime al ridicolo" - diceva il Generale divenuto Imperatore - e così arrivarono in sequenza la fallimentare Campagna di Russia (1812), la sconfitta di Lipsia (1813), l'invasione della Francia, gli stranieri a Parigi, l'abdicazione e il confino sull'isola d'Elba (1814).


Nel 1796 il Direttorio della Repubblica Francese 
approva un'azione militare nella penisola italiana.
Il giovane Generale Bonaparte è al comando della "Armée d'Italie"
e le sue vittorie trasformano la penisola nel più importante teatro di guerra.
La stagione è breve, dal 1796 al 1799, ma densa di entusiasmi e delusioni.
La Monarchia sabauda sopravvive in Piemonte, pur sotto il controllo francese.
L'antica Repubblica di Genova è rimpiazzata dalla Repubblica Ligure.
In Lombardia nasce la Repubblica Cisalpina
e nei territori dell'Emilia e della Romagna c'è ora la Repubblica Cispadana,
due nuove realtà politiche che saranno poi unificate.
La Repubblica Romana (1798) e la Repubblica Partenopea (1799)
occupano rispettivamente il centro e il sud della penisola.
 Papa Pio VI ripiega in Toscana, Re Ferdinando IV di Borbone in Sicilia.
Il quadro geopolitico è però ribaltato in pochi mesi.
L'esercito austro-russo scende nella Pianura Padana e sbaraglia i francesi,
approfittando dell'assenza di Napoleone, impegnato nella Campagna d'Egitto.
Le Repubbliche cadono, ma Napoleone, ora Primo Console, le ripristina in un sol colpo
La Repubblica Cisalpina risorge il 5 giugno 1800,
le viene annesso il territorio piemontese tra i fiumi Sesia e Ticino,
e nel 1801 guadagna una parte del veronese e il polesine.
Il 21 marzo 1801 nasce il Regno di Etruria, in Toscana.
Nel 1802 Parma, Piacenza e il Piemonte diventano francesi
e la Repubblica Cisalpina è trasformata in Repubblica Italiana.
Napoleone, Imperatore di Francia dal 1804, si proclama Re d'Italia nel 1805.
L'Austria cede il Veneto, l'Istria e la Dalmazia, annesse al neo-costituito Regno d'Italia.
Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, è Re di Napoli nel 1806
- titolo che cederà poi a Gioacchino Murat, quando sarà nominato Re di Spagna - 
con Ferdinando IV di Borbone che ripiega nuovamente in Sicilia. 
L'Impero Francese annette la Toscana nel 1807, il Regno d'Italia accoglie le Marche nel 1808.
Nello stesso anno la Chiesa perde il potere temporale, Lazio e Umbria sono annesse all'Impero
e Papa Pio VII è deportato prima a Savona e poi in Francia.
Trieste, la Croazia dalmatica e l'Istria formano le "province illiriche", nel 1809.
Trento entra nel Regno d'Italia nel 1810.
La penisola italiana - alla fine - è tripartita:
il settentrione - la parte più estesa e rilevante - forma il Regno d'Italia;
l'intero meridione continentale è il Regno di Napoli;
l'ultima parte - disomogenea e frazionata - è incorporata nell'Impero di Francia.

La notizia impiega quattro giorni ad arrivare a Parigi, e una settimana ancora per raggiungere a Vienna. Tutti ridono, nessuno ci crede. E' un azzardo illogico, per chi è stato sconfitto e umiliato, e pur rispettato. L'Elba eretta a principato, il titolo d'Imperatore, una rendita annua di due milioni di fiorini, e il Ducato di Parma e Piacenza in dono alla moglie. Quel regno da operetta avrebbe acquietato chiunque fosse stato ridotto all'impotenza, ma non poteva andar bene a lui, al Generale Bonaparte, all'Imperatore Napoleone.

Il Generale è salpato da Portoferraio, capitale dell'isola d'Elba, il 26 febbraio 1815, con circa seicento uomini al seguito. E' sbarcato a Cannes, a inizio marzo. Gran parte del paese e pressoché l'intero esercito lo hanno acclamato come il legittimo Sovrano della Francia. Napoleone ha rimesso in piedi fulmineamente il suo Stato, il suo governo imperiale, e ha trovato tempo e modo di far approvare una nuova Costituzione, spiccatamente liberale. Scrive a tutti i Sovrani europei, per informarli di non avere rivendicazioni, di accontentarsi di dominare su una Francia ricondotta ai suoi antichi confini, su cui vuole regnare pacificamente. Nessuno ride più, ma tutti continuano a non credergli. Molte sue lettere rimangono chiuse, i Primi Ministri non permettono ai Re di aprirle, e le rispediscono al mittente ancora sigillate.

"Che romanzo la mia vita!".
Così Napoleone riassumeva la sua esistenza,
e i suoi scritti conferiscono spessore a ciò che è noto già dai libri di scuola.
Dalle lettere di quindicenne apprendista artigliere, dove si firmava "Buonaparte",
ai dispacci da Imperatore siglati semplicemente con una "N",
dalle istruzioni militari alle civettuole missive a Giuseppina,
gli scritti di Napoleone mostrano le sfaccettature dell'uomo, del soldato, del sovrano,
la sua saggezza, l'eloquenza, l'eroismo e l'energia. 

Il rumore di stivali, a Parigi, sovrasta i passi di danza, a Vienna.

Le diplomazie europee avevano ideato una Woodstock dell'aristocrazia per ridisegnare la geopolitica del continente, dopo le scorribande napoleoniche. I tavoli negoziali erano stati aperti ufficialmente il primo novembre 1814, nella capitale austriaca. Trattative sfiancanti e mediazioni improbabili - come in "una fiera di un piccolo paese in cui ognuno dà una lucidata al dorso del proprio bestiame per venderlo e barattarlo", dirà il feldmaresciallo Blucher -, intercalate da feste e gite, da valzer e minuetti, da tresche e intrighi.

Il Congresso - convocato per ripristinare l'ordine, ma avvolto in un'atmosfera di mondanità - è all'improvviso attraversato da pensieri maligni e sospetti reciproci. E se qualcuno si alleasse con Napoleone, per strappare con le armi quel che non riesce ad avere con la diplomazia? Una raffinata argomentazione di pura logica azzera ogni incertezza, spazza via ogni tentazione, semmai ve ne fossero state. Non c'è possibilità di accordo con il diavolo: l'Austria era in guerra con la Francia, e fu annienta; la Prussia era neutrale, e fu invasa; la Spagna era alleata, e non fu risparmiata. Non è razionale aspettarsi alcun un vantaggio, pur mimino, da un qualsiasi accordo con Napoleone. Il diavolo va solo combattuto, e stavolta non più solo sconfitto, ma annientato.

Napoleone è al countdown finale: sono i suoi ultimi "cento giorni" (dal 20 marzo all'8 luglio 1815), col drammatico epilogo della Battaglia di Waterloo (18 giugno 1815), e poi l'esilio a Sant'Elena, nel mezzo dell'Oceano Atlantico (10 dicembre 1815), sino al giorno dell'abdicazione estrema (5 maggio 1821), che ispirerà l'Ode di Manzoni.

Ci si potrebbe cimentare in una ucronia, interrogarsi su cosa sarebbe successo se Napoleone avesse vinto a Waterloo, e immaginare una storia alternativa, di fantasia, ma soggetta a vincoli di logica e coerenza, perciò divertente e formativa. Tuttavia, se lo storico dovesse dire una delle tante verità scomode che spesso è obbligato a dire, e che lo rendono antipatico, direbbe spassionatamente che con ogni probabilità non sarebbe cambiato nulla. Napoleone, vinta quella battaglia, avrebbe banalmente perso la prossima. L'Inghilterra sborsava denaro da vent'anni, per finanziare coalizioni militari contro Napoleone, e non si sarebbe certo impressionata o scoraggiata per una batosta in più. Non si era spaventata dopo Austerlitz, non si era spaventata dopo Wagram, e con tutta probabilità non si sarebbe arresa neanche dopo un'ipotetica sconfitta a Waterloo. Semplicemente, se Napoleone avesse vinto a Waterloo, il magnifico libro di David Chandler, "Le Campagne di Napoleone", si sarebbe arricchito di un capitolo in più, e ci sarebbe poi stata una "Campagna del 1816" in cui il Generale sarebbe stato inevitabilmente sconfitto da austriaci, russi, prussiani, inglesi, bavaresi, piemontesi, e chissà quanti altri ancora. Perché Napoleone si era costruito da sé una trappola suicida: Napoleone è il giocatore condannato a vincere, a vincere sempre, ma ogni sua vittoria non significa nulla, perché poi ci sarà la prossima battaglia, e basterà una sola sconfitta a vanificare tutto, a segnarne la disfatta. Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza.

Napoleone aveva una statura fisica normale, e per l'epoca anche un po' più alta della media.
Le stampe satiriche inglesi lo raffiguravano oltremodo basso per denigrarlo,
e così crearono l'immagine - storicamente falsa - di un Napoleone nanerottolo.
Non vi furono mai dubbi, invece, sulla sua statura caratteriale,
sul suo carisma, il suo ascendente, la sua forza persuasiva.
Il 5 marzo, nel comune francese di Laffrey, Napoleone incontra il 5° reggimento,
la fanteria di linea inviata dal Re Luigi XVIII per arrestarne la marcia verso Parigi.
Napoleone avanza da solo verso i soldati, apre la giacca e mostra il petto:
"Soldati del 5°, potete sparare sul vostro Imperatore, se ne avete il coraggio!".
I soldati gettano i fucili, lo acclamano e si uniscono a lui.
La scena si ripeterà con tutti gli altri militari incaricati di fermarlo, 
e un manifesto satirico monopolizzerà in quei giorni i muri di Parigi:
"Da Napoleone a Luigi XVIII.
Mio buon fratello - non c'è bisogno che tu mi mandi altre truppe - ne ho abbastanza".
"Dall'Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno"
- come avrebbe poi scritto Alessandro Manzoni -
persino i suoi nemici dichiarati non potevano far a meno di ammirare
"colui al quale Dio volle dare un'impronta più vasta del suo spirito creatore",
parafrasando ancora l'Ode del Manzoni.
Molti ufficiali inglesi, a Waterloo, sembravano avere un solo pensiero:
'Riuscirò a vedere Napoleone?'.
Dalla lettera di un comandate di una brigata di Ussari:
"Credo proprio di averlo visto, prima che cominciasse l'attacco.
Ha cavalcato con un gran seguito di Ufficiali
in mezzo alle colonne che si stavano schierando davanti a noi
e guardando attraverso il cannocchiale mi è sembrato di riuscire a distinguere il piccolo eroe"
(con quel "piccolo" che gioca ancora sull'equivoco della sua altezza fisica:
perché gli inglesi erano abituati a vederlo raffigurato basso di statura,
e così finivano col vederlo, non com'era, ma come si aspettavano che fosse).
Un altro Ufficiale scrisse nel suo diario:
"Non sono riuscito a vederlo, lo avevo sperato sino all'ultimo, 
avevo la brama di vedere Napoleone, quel poderoso uomo di guerra,
quel genio stupefacente, che aveva riempito il mondo con la sua fama".

Il Congresso di Vienna è tutto in un obiettivo, due parole d'ordine e tre personaggi. L'obiettivo: la restaurazione. Le parole d'ordine: legittimità e equilibrio. I personaggi: il Cancelliere austriaco von Metternich, il Ministro degli Esteri inglese Lord Castlereagh e il poliedrico francese Talleyrand, vescovo prima della rivoluzione, poi deputato rivoluzionario, collaboratore di Napoleone, e infine Ministro degli Esteri di Re Luigi XVIII.

'Restaurare' significa restituire l'integrità originaria,
ripristinare ciò che è decaduto o è stato soppresso.
Il Congresso di Vienna voleva 'restaurare' la geopolitica europea precedente a Napoleone:
ripristinare gli antichi confini dell'Europa e riportare sul trono le antiche Case reali,
riaffermare la tradizionale scala sociale fatta di troni, scettri, galloni, divise e cortigiani.
Il riordino geopolitico si associava a un riordino morale fondato sull'autorità religiosa:
la religione - e i suoi rappresentati - come puntello dell'ordine,
la Chiesa come gendarmeria ausiliaria del dispotismo illuminato,
l'origine divina del potere a giustificazione della monarchia assoluta,
in una nuova alleanza tra Trono e Altare.



Klemens Wenzel Nepomu Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein,
prima Conte e poi Principe di Metternich-Winneburg.
Austriaco, di famiglia nobile e titolata, con un'eccellente istruzione di vecchio stampo.
E' tra i fautori del principio di 'legittimità'.
'Legittimo' significa 'conforme alla legge',
ma la parola - al Congresso - slittò su un piano più astratto,
per evocare il consenso internazionale sui modi e i fini della politica.
L'Austria estendeva il suo dominio su popoli eterogenei, per lingua, cultura e religione,
perciò la sua politica interna non poteva fondarsi su argomenti di stampo codicistico.
 Serviva un principio generale, assoluto, di origine morale: la 'legittimità', appunto;
e precisamente la legittimità del Sovrano a comandare genti diverse con la ragione,
sull'abbrivio di un diritto divino da cui seguiva la legittimazione dinastica
e l'accantonamento dell'idea di acquisire diritti attraverso la sola conquista militare.
Il principio sovrascriveva la 'legittimazione popolare del potere',
per riaffermare la 'legittimità' dei Sovrani precedenti la Rivoluzione.
Il Cancelliere von Metternich seppe tener dritta la barra sugli obiettivi del Congresso,
alla notizia della fuga di Napoleone dall'isola d'Elba:
"Napoleone sembra aver voglia di correre dei grandi rischi, ma è affare suo.
Il nostro è quello di dare al mondo la tranquillità che ha turbato per troppi anni.
Andate immediatamente a trovare l'Imperatore di Russia ed il Re di Prussia:
dite loro che sono pronto a dare l'ordine al mio esercito
di prendere ancora una volta la strada della Francia".



Robert Stewart, marchese di Londonderry,
più noto col titolo di cortesia di Visconte Castlereagh, 
conosciuto anche come Lord Castlereagh.
E' il principale sponsor del principio di 'equilibrio',
che vantava un precedente illustre nel Trattato di Utrecht-Rastadt (1713-14).
Il principio era per sé elementare: non devevano esserci Potenze egemoni,
le estensioni territoriali dovevano essere equilibrate, i rapporti di forza il più possibile paritari,
e per nessuno Stato doveva esser semplice ideare un progetto espansionistico,
ché altrimenti l'Europa sarebbe costantemente stata sotto la minaccia di nuovi conflitti.
Lord Castlereagh sarà sostituito dal Duca di Wellington nel febbraio 1815,
che a sua volta lascerà il testimone al Conte di Clancarty,
per trasferirsi dal tavolo della diplomazia al campo di battaglia di Waterloo.
Di là dei suoi rappresentati, l'Inghilterra avrà una posizione peculiare al Congresso.
E' una grande isola a nord dell'Europa, 
storicamente interessata al governo dei mari più che a questioni di terraferma,
e spesso indifferente agli eventi oltre manica, se non per le loro conseguenze indirette. 
La presenza al Congresso le consente però di riacquistare un tono politico,
di preservare i propri diritti sul mare, di estendere il dominio sulle colonie.
Tra la Francia sorvegliata speciale, e l'Austria vincitrice morale,
alla fine sarà l'Inghilterra a uscirne trionfante sul piano economico,
col controllo dei traffici sull'Oceano Indiano, sull'Atlantico, sul Mar Mediterraneo.



Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord:
il "diavolo zoppo", il "camaleonte", lo "stregone della diplomazia",
l'uomo che ingannò la terra e il cielo,
al servizio dell'Ancien Régime, della Rivoluzione e della Restaurazione. 
E' l'altro sostenitore della 'legittimità',
il solo principio suscettibile di tramutare la Francia da carnefice in vittima.
In molti lo guardarono con sospetto al riapparire di Napoleone, temendo un'altra giravolta,
ma Talleyrand intuì la posizione vincente, vuoi per lungimiranza vuoi per fortuna,
e fu proprio lui a ispirare la bellicosa dichiarazione del 13 marzo:
"Bonaparte ha rotto il solo titolo legale al quale era legata la sua esistenza",
è "fuori dalle relazioni sociali e civili", è il "perturbatore della pace del mondo",
e merita soltanto una "pubblica vendetta".
E' lo stesso Talleyrand che nel 1797 traboccava d'enfasi, nel celebrare le vittorie del Generale:
"Tutti i francesi hanno vinto con Bonaparte, quindi la sua gloria e di tutti,
non c'è repubblicano che non possa rivendicarne una parte".
Si capisce perché Napoleone lo considerasse "una calza di seta piena di merda".

Il Congresso - con un'immagine matematica - ricorda un sistema con più incognite che equazioni, assomiglia a un problema di ottimizzazione sprovvisto di una feasible region: troppa indeterminatezza nel declinare l'obiettivo della restaurazione, troppi vincoli da rispettare per tener assieme legittimità e equilibrio.

La complessità negoziale è ben sintetizzata dal "caso Polonia".

La Russia mira alla Polonia, ma la Prussia ne rivendica la restituzione, cui potrebbe rinunciare solo in cambio della Sassonia, al momento sotto il controllo dell'Austria, che non vede perciò alcun vantaggio nel sedersi al tavolo di un'ipotetica trattativa. Il Cancelliere von Metternich è geniale. Non può esporsi contro la Prussia, pena la violazione del principio di legittimità, la rinuncia alla neutralità e il rischio di aprire un nuovo fronte di guerra. Gioca allora di sponda, di carambola. Convince la Francia a prendere le parti dell'Austria nella querelle sulla Sassonia, e l'Inghilterra a spalleggiare la Russia nella contesa sulla Polonia. E' un gioco a quattro in cui ogni attore è all'oscuro della trama di von Metternich, in cui tutti i Paesi ignorano di far parte di una strategia austriaca di più ampio respiro. Il gioco di inconsapevoli pesi e contrappesi trova il suo punto di equilibrio in una Polonia per gran parte consegnata alla Russia e per il resto riconosciuta alla Prussia, con la Sassonia lasciata intatta sotto l'Austria.

L'eccezione della Polonia... non è un'eccezione. Legittimità e equilibrio a volte si abbracciano e a volte si separano, e nelle scelte prevale spesso la volontà di creare una cintura di "Stati cuscinetto" intorno alla Francia, per scoraggiarne possibili futuri pruriti espansionistici. Il Sacro Romano Impero è così surrogato dalla Confederazione Germanica, un'alleanza tra Austria e Prussia cui aderiscono una quarantina di Stati, sotto il controllo dell'Imperatore austriaco; la fusione di Belgio e Olanda dà origine al Regno dei Paesi Bassi, a separare la Francia dalla Prussia; e poi la soppressione delle antiche Repubbliche, per il sol fatto di essere repubbliche, ma anche perché obiettivamente piccole e ben adatte a rafforzare la rete di protezione tra Francia e Austria.

L'Europa dopo il Congresso di Vienna.

E l'Italia? L'Italia - con le parole di von Metternich - è "un'espressione geografica", sprovvista di istituzioni e figure di rappresentanza. L'Italia politica semplicemente non esiste e di conseguenza l'Italia geografica è terreno libero e disponibile per l'evoluzione della politica europea, merce di scambio per trattative e negoziazioni. E la stessa geografia perde in compattezza, a seguito del Congresso. Rimane la subordinazione a una Potenza straniera, non più la Francia ma l'Austria, che ne esercita un controllo pervasivo per via diretta (col possesso di pezzi di territorio) e indiretta (con legami di parentela).

Venezia è una repubblica, sebbene aristocratica, e le Repubbliche non possono invocare il principio legittimista. La localizzazione ne rende naturale l'annessione all'Austria, insieme alla Lombardia, a formare il neonato Regno del Lombardo-Veneto, autonomo di diritto, ma di fatto un'appendice dell'Impero asburgico. Genova - altra repubblica - confluisce nel Regno di Sardegna di Casa Savoia, a inspessire il "cuscinetto" sulla Francia. L'ombra austriaca si allunga sul Ducato di Modena e sul Granducato di Toscana - consegnati rispettivamente alle dinastie degli Austria-Este e degli Asburgo-Lorena - e finisce così col sovrastare una buona metà della penisola.

Non vi sono incertezze nel riconfigurare lo Stato Pontificio - riconsegnato a Papa Pio IX - sebbene tutti ne percepiscano l'intrinseca debolezza, il suo carattere ormai arcaico. D'altra parte non vi erano alternative: se il Congresso sventolava la legittimità, chi era più legittimo di un Sovrano con alle spalle mille anni storia?

I territori meridionali - i Regni di Napoli e Sicilia - tornano alla dinastia dei Borbone, cui appartenevano dal 1734. Sembra ovvio, ma non lo è. L'abilità da equilibrista di Gioacchino Murat ne aveva reso incerta l'attribuzione sino all'ultimo, in un intreccio di poteri e contro-poteri sullo sfondo di possibili liason sentimentali - tra von Metternich e la moglie di Murat - e probabili corruzioni - di von Metternich e di Talleyrand da parte di Ferdinando IV - che se pure non son vere restano verosimili.

L'Italia dopo il Congresso di Vienna (e sino al 1859).



Regno del Lombardo Veneto



Regno di Sardegna



Ducato di Modena



Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla



Granducato di Toscana



Stato Pontificio



Regno delle Due Sicilie - Napoli



Regno delle Due Sicilie - Sicilia

"L'Europa è in fiamme: dalle ceneri sorgerà un nuovo ordine di cose, o, meglio, l'antico ordine apporterà la felicità ai nuovi regni". L'auspicio del Cancelliere von Metternich avrebbe trovato l'autorevole conferma postuma del politico americano Henry Kissinger: "stupisce non quanto fosse imperfetto l'accordo raggiunto, ma quanto fosse ragionevole [...] Magari non corrispose alle speranze di una generazione di idealisti, ma diede loro qualcosa di più prezioso: un periodo di stabilità che diede alle loro speranze la possibilità di realizzarsi senza un'altra guerra e senza una rivoluzione permanente".

I giudizi di favore sul Congresso - sulla qualità della strategia politica attuata a Vienna - possono sorprendere chi abbia presente gli avvenimenti successivi. Ma il Congresso mirava a una stabilità "globale", laddove i pur numerosi moti rivoluzionari e le successive azioni belliche ebbero un carattere essenzialmente "locale". Il Congresso - da questa visuale - aveva sì raggiunto l'obiettivo di allentare le tensioni tra gli Stati, ma al prezzo di trasferire nuove tensioni negli Stati, aveva cioè regolato le macro-relazioni internazionali senza saper leggere le micro-realtà nazionali.

I successi e gli insuccessi del Congresso sono idealmente scolpiti in ciò che accadde dopo ai suoi protagonisti.

Lord Castlereagh rientrerà in Inghilterra, tra l'indifferenza generale, senza vedersi riconosciuto neanche quel minimo di onori che avrebbe meritato. Politici e opinione pubblica faticano a cogliere il senso di tutto quell'impegno in questioni internazionali, rilevanti per il continente, ma percepite marginali per il Regno. E' deluso e scoraggiato. Diventa paranoico e cade in depressione, sino a sviluppare istinti suicidi. La sua casa sarà svuotata di tutti gli oggetti potenzialmente pericolosi, con l'eccezione di un tagliacarte, con cui si taglierà la gola.  

Il Cancelliere von Metternich rimarrà invece sulla scena politica sino al 1848 - l'anno in cui i moti europei denunceranno tutta la precarietà del quadro politico costruito a Vienna -  per poi ritirarsi a vita privata, a scrivere le sue memorie. La sua attenzione si appunterà sui motivi per essere conservatori, intere pagine di filosofia politica, dal '700 all'800, sostenute dal pensiero di figure del calibro di Locke, Kant, Rousseau. Essere conservatori - per Metternich - era semplicemente un dato di fatto, l'unica conduzione possibile del gioco politico, perché solo all'interno di una politica conservatrice, di cambiamenti misurati e graduali, si poteva esercitare la razionalità necessaria a focalizzare tempi, modi e contenuti delle libertà da concedere ai popoli. Tutta la sua rielaborazione concettuale - in fondo - è una lunga coda dell'idea enunciata a Vienna: "La parola ordine è il punto di partenza. La libertà è il punto di arrivo. Il concetto di libertà può basarsi solo sul concetto di ordine".

"La libertà che guida i popoli", Eugène Delacroix, 1830.

I fatti italiani del periodo 1815-1870 sono un vespaio di contraddizioni, un torrente di domande inevase, una cascata di dubbi interpretativi, e l'assenza di una narrazione limpida è probabilmente tra le cause remote del travagliato rapporto tra il popolo italiano e la propria Nazione. Tornare indietro non si può, gloriarsene non si vuole. Tra chi preferisce dimenticare, o direttamente non sapere, e chi fantastica su un corso alternativo della storia, più allineato ai sentimenti odierni, incalza oggi un frettoloso europeismo che sembra volersi liberare degli ingombranti residui di una realtà - lo Stato nazionale - mai realmente conosciuto e spassionatamente amato dagli italiani, e che invece proprio oggi - più che in passato - è necessario riscoprire, valorizzare, difendere.

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  1. Una precisazione sulla celebre frase di Metternich, “l’Italia non è che un’espressione geografica” (“une expression géographique seulement”, nell’originaria formulazione in francese).

    La frase NON risale al Congresso di Vienna, ma è datata oltre trent’anni più tardi, anno 1847, collocata in una nota per l’ambasciatore austriaco a Londra. “La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle”; e ancora: “la penisola italica è composta di Stati sovrani, reciprocamente indipendenti”. Questa è la versione appena un po’ più estesa, che però fa già molta più chiarezza sul pensiero del Cancelliere austriaco.

    Metternich giudicava una forzatura la pretesa unitaria, ma con ogni probabilità percepiva soprattutto il pericolo di un regime repubblicano, in presenza di un sentimento unitario sprovvisto del sostegno di un passato comune (in pratica di un Re che avrebbe potuto cingere una corona per l’intera penisola). Poi, ovviamente, c’era pure un calcolo di convenienza politica – tenere divisa la penisola per perpetuare l’influenza austriaca (diretta e indiretta) sui domini italiani – ma non c’era propriamente un disprezzo verso coloro che puntavano all’unificazione, tant’è che Metternich non concepiva uno Stato unitario italiano come neppure uno Stato unitario tedesco.

    Furono i patrioti risorgimentali a estrapolare la frase dal contesto, ad appropriarsene polemicamente, a manipolarla e trasfigurarla, a caricarla di un significato denigratorio per suscitare l’astio contro Metternich, risvegliare il sentimento anti-austriaco e avviare la mobilitazione.

    Il giornale “Il Nazionale” di Napoli, durante i moti del 1848, quindi a un anno di distanza, scagliò a più riprese i suoi editoriali contro la “tenebrosa diplomazia” austriaca, colpevole di umiliare “24 milioni d’intelligenti e forti” italiani che invece l’unità della patria “l’avvertono, la riconoscono, se n’esaltano”. C’era semplicemente bisogno di un nemico, di un bersaglio contro cui indirizzare (e col quale moltiplicare) l’indignazione contro l’influenza in Italia del governo austriaco; e i liberali italiani lo trovarono con la replica all’infinito della presunta alterigia del Cancelliere viennese, della sua apparente offesa.

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