LE DUE SICILIE - Borbone

Dinastia sorta ne 1279, dal matrimonio tra Roberto di Clermont, sesto figlio di Luigi IX il santo,
 e Beatrice di Borgogna-Dampierre, titolare del feudo di Bourbon-l'Archambault, portato in dote,
che vale al figlio della coppia il titolo ducale concesso da Re Carlo IV nel 1327.
La discendenza da Luigi IX ne determina l'appartenenza all'antica dinastia dei Capetigni.
Erede del trono di Francia, nel 1589, per estinzione degli altri rami.
Diversi rami della famiglia si stabilirono poi sui troni stranieri, a partire dal XVIII secolo.
I Borbone di Napoli - o delle Due Sicilie - è una delle diramazioni italiane della dinastia.



 Carlo.



Ritratto della famiglia di Ferdinando IV.



La famiglia di Francesco I.




La morte di Augusto II di Polonia - nel 1733 - apre una nuova diatriba successoria. Ne segue ancora una guerra - la Guerra di Successione Polacca - che sul fronte italiano vede alleate Francia e Spagna, in un patto di famiglia borbonico, in contrapposizione all'Austria, spalleggiata dai Savoia. Gli spagnoli giocano apparentemente solo un ruolo gregario nel settentrione, ma l'obiettivo è di ben altra caratura: l'occupazione di territori più estesi rispetto alle previsioni del Trattato di Utrecht, la riconquista di Napoli e della Sicilia.

La campagna militare spagnola - condotta nel biennio 1734-1735 - non incontra particolari resistenze. La vittoria nella Battaglia di Bitonto, il 25 maggio 1734, segna la riappropriazione della parte peninsulare del Regno. L'occupazione della Sicilia, l'anno successivo, chiude con successo l'azione bellica.

L'avvento di Carlo Sebastiano di Borbone - già Carlo III di Spagna e Carlo I nel Ducato di Parma e Piacenza, senza numerali per Napoli e Sicilia - mette fine al regime di vicereame e il Regno torna a essere uno Stato indipendente.

 
Carlo Sebastiano di Borbone, Madrid 20 gennaio 1716 - Madrid 14 dicembre 1788.
Primogenito delle seconde nozze di Filippo V di Spagna con Elisabetta Farnese.
Fu incoronato come Carlo III di Sicilia a Palermo,
ma è pure Carlo VII nella bolla di investitura per il Regno di Napoli.
Tutte denominazioni puramente formali, che di fatto non furono mai utilizzate.
  Carlo rinunciò al numerale, per enfatizzare la discontinuità con i precedenti sovrani,
e qual era d'altra parte il numerale appropriato?
Il VIII, a seguire rigidamente la cronotassi dei Re di Napoli.
Ma se si fosse escluso il brevissimo e contrastato dominio di Re Carlo VIII di Francia,
allora il suo nome sarebbe stato accompagnato dal VII,
che avrebbe inopportunamente legittimato Carlo IV, Imperatore del Sacro Romano Impero,
le cui mire sul Regno non erano ancora venute meno.
I siciliani non avvertivano invece alcun vincolo con i Re Angioini,
e scelsero il III, collocando il sovrano dietro i due Asburgo di Spagna.
Carlo decise saggiamente di affrancarsi da questioni nominalistiche,
per evitare inutili malumori e prevenire possibili incidenti diplomatici.
   
Quando don Carlos mette piede nel Regno, è evidente che la sua conquista non prelude a una nuova dominazione. Re Carlo non appartiene alla dinastia accusata di aver trasformato il Regno in provincia, non discende dai monarchi colpevoli - con i loro Viceré - di aver schiacciato il Regno sotto il peso di imposte e donativi, di averne annichilito i commerci, di averlo dissanguato con guerre continue e sottomesso alla Papato. Con Carlo di Borbone si è al cospetto di uno Stato sovrano, una nuova entità politicamente indipendente, pronta a riacquistare quella dignità cancellata da secoli di vicereame.

All'inizio la Corte di Madrid esercita un'energica influenza attraverso due nobili spagnoli - il Conte Santisteban, Primo Ministro e tutore del Re, e il Marchese di Montealegre, Segretario di Stato - cui Elisabetta Farnese ha affidato il figlio (dopo essersi parecchio adoperata, affinché gli venisse conferita una Corona in Italia, vista la sua posizione subalterna nella linea successoria spagnola). La dipartita di Filippo V di Spagna, l'ascesa al trono del figlio di primo letto Ferdinando IV, e il conseguente azzeramento del potere di Elisabetta, pongono le premesse alla completa emancipazione delle Due Sicilie dalla Corona spagnola. Da quel momento Carlo regnerà con effettiva autonomia, e diventerà un paradigma di sovrano illuminato.

Realizza una profonda revisione dell'ordinamento giuridico, con la soppressione di numerosi istituti propri del periodo vicereale, inadatti a uno Stato indipendente. Riordina una legislazione caotica, che aveva stratificato norme romane, longobarde, normanne, sveve, angioine, spagnole, austriache, feudali e ecclesiastiche, sino all'ambizioso progetto di una codificazione unica, il cosiddetto Codice Carolino. Tassa i numerosi beni ecclesiastici, triplicando le entrate del Regno. La polemica verso la Chiesa - per sovvertire le situazioni in cui il Re era condizionato o addirittura soccombente di fronte al potere papale - indica metodi e strumenti per raggiungere anche obiettivi di altra natura. Re Carlo intraprende un generale programma riformatore - amministrativo, fiscale e finanziario - per togliere autorità a nuclei di potere improduttivi, segnatamente la classe dei baroni. I lasciti archeologici, edilizi e artistici sono eccezionali: l'apertura degli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia; la realizzazione del Real Teatro di San Carlo, delle Regge dei Portici e di Capodimonte e poi la maestosa Reggia di Caserta; l'Acquedotto e il Foro Carolino; l'Albergo dei Poveri e l'Accademia di Belle Arti.

L'amore di Re Carlo per Napoli è racchiuso tra due parentesi che danno la cifra della sua sensibilità: il desiderio di imparare la lingua napoletana al suo arrivo, per entrare in sintonia col suo popolo, per sentirsi egli stesso napoletano, e la decisione - non importa se a metà tra storia e leggenda - di sfilarsi un prezioso anello al rientro in Spagna, perché rinvenuto tra gli scavi di Pompei, perciò patrimonio della città di Napoli e non di sua proprietà personale.

 La Prammatica Reale del 25 febbraio 1751 fonda il General Albergo dei Poveri,
una costruzione per ospitare e dar conforto a mendicanti e orfani,
riabilitarli con la terapia del lavoro, assicurargli il possesso di un mestiere e un'istruzione.
La realizzazione non mantenne l'ambizione delle premesse, ma rimase comunque imponente.
L'impegno fu encomiabile, a testimoniare le più nobili intenzioni.
Alle spese contribuirono Re Carlo e la Regina Maria Amalia, che donò i suoi gioielli;
e poi il popolo napoletano e gli enti religiosi, con somme in denaro e donazioni di proprietà,
per un ammontare complessivo di un milione di ducati.

Re Carlo ha coraggio e spirito innovativo, è un uomo dalle azioni energiche ma raffinate. Porterà con sé "pace permanente, grande saggezza, e volontà ferma di ristorare la novella patria" e altrettanto farà per "obbliare alla nazione i disastri de' quali era stata vittima per più secoli", nel giudizio di Del Re, nella sua opera sulle Due Sicilie del 1830. Indicherà un esempio da seguire, un modello, ma come tutti i miti sarà pure un fardello ingombrante, un imbarazzante pietra di paragone per i suoi successori, sfruttata dai detrattori della monarchia. Re Carlo - annoterà Benedetto Croce - sarà "a gara esaltato dagli scrittori di entrambi i partiti politici: dai borbonici, in omaggio al fondatore della dinastia, e dai liberali, che, facendo loro pro degli encomi fatti al governo di re Carlo, si piacevano nel contrapporre il primo Borbone di Napoli, non borbonico, ai sui degeneri successori".

Avversato da clero e nobiltà, ma amato dal popolo, che lo proclama "Re in perpetuo", Carlo diventa Re di Spagna nel 1759, alla morte del fratello. L'impegno a non unire le Corone, a tener separata la Spagna dai territori di Napoli e Sicilia, ripropone il problema della successione. La scelta cade sul terzogenito Ferdinando, per l'handicap mentale dell'erede designato Filippo e la decisione del secondogenito di seguire il padre in Spagna.

"Raccomando umilmente a Dio l'Infante Ferdinando, che in questo medesimo istante diventa mio successore. A lui lascio il regno di Napoli con la mia paterna benedizione, affidandogli il compito di difendere la religione cattolica e raccomandandogli la giustizia, la clemenza, la cura, l'amore per i popoli, che avendomi fedelmente servito e obbedito, hanno diritto alla benevolenza della mia famiglia".

Antonio Joli, "Partenza di Carlo di Borbone per la Spagna vista da terra", 1761.


Gennaro Maldarelli, "Abdicazione di Carlo III in favore del figlio Ferdinando", secolo XIX.

Ferdinando ha solo otto anni, al momento della nomina. Un Consiglio di Reggenza - guidato da Bernardo Tanucci, storico uomo di fiducia di Re Carlo - lo prende sotto tutela e amministrerà il Regno sino al 1766.
 
La complessità del governo di Ferdinando è sintetizzata - ancora una volta - nei numerali del Re: Ferdinando I di Borbone è Re di Napoli dal 1759 al 1799, dal 1799 al 1806 e dal 1815 al 1816, col nome di Ferdinando IV; ma è anche Re di Sicilia dal 1759 al 1816 come Ferdinando III; è infine Re delle Due Sicilie, dal 1816 al 1825, con l'appellativo di Ferdinando I.

Ferdinando è il primo Borbone a nascere nel Regno.
Le contingenze lo esonerano a lungo dalle incombenze di governo, 
gli offrono una giovinezza spensierata, lontana dal rigore educativo di una famiglia reale.
I compiti istituzionali gravano sul Consiglio di Reggenza, Ferdinando se ne disinteressa,
al punto da ignorare persino le più elementari differenze tra i territori di Napoli e Sicilia.
La storia racconta di un Ferdinando refrattario allo studio e agli impegni di corte,
che ama mescolarsi ai popolani, con cui si intrattiene con gran naturalezza,
esprimendosi in dialetto, senza alcuna preoccupazione per l'etichetta,
"ansioso di raggiungere la maggiore età... 
più per seguire i suoi piaceri, che per governare i suoi regni",
scriverà Hamilton nel marzo del 1767, in un rapporto al suo Re.
Lo stile grezzo gli vale l'appellativo affettuoso di "Re Lazzarone",
ma Ferdinando è anche "Re Nasone",
per un naso che "via via che si stacca dalla fronte si gonfia in una palla",
come annotò spregiativamente il cognato Giuseppe II, in occasione di una visita a Napoli.
La Corte di Napoli aveva mutuato una consuetudine dalla Casa reale di Spagna: 
affiancare al principino il cosiddetto "menino",
un popolano da sgridare al suo posto, quando il futuro Re avesse compiuto uno sbaglio,
per non offendere direttamente la sua sacra persona,
ma anche per far capire che gli errori di un Re sono pagati dal popolo tutto.
Il "menino" di Ferdinando è Gennaro, il figlio della sua nutrice,
e i rapporti tra Ferdinando e Gennaro sono un bell'esempio di storia nella Storia.
Forse una educazione diversa e un'istruzione più profonda
avrebbero fatto di Ferdinando uno dei migliori sovrani d'Europa,
e forse senza l'ingombrante presenza della moglie Maria Carolina
avrebbe goduto di maggiori simpatie negli ambienti politici europei;
ma Re Ferdinando rimane un mirabile esempio di grande buon senso,
di rara capacità di comprendere in profondità il popolo sotto il suo governo.



Maria Carolina Luisa Giuseppa Giovanna Antonio d'Asburgo-Lorena,
o più semplicemente Maria Carolina d'Austria, Vienna 13 agosto 1752, Vienna 8 settembre 1814,
Regina consorte di Napoli e Sicilia, come moglie di Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia.
Donna ambiziosa e intelligente, consapevole del proprio rango,
capricciosa e lunatica con i membri della Corte, vendicativa con i suoi nemici.
Vicina al pensiero dell'illuminismo europeo all'inizio, virerà poi su posizioni conservatrici,
dopo la decapitazione di Re Luigi XVI e della sorella Maria Antonietta.
Entra nel Consiglio di Stato nel 1776 e usa il suo accresciuto peso politico
per rompere i legami con la Spagna e intensificare i rapporti con Austria e Inghilterra.
Ha amicizie e frequentazioni parecchio chiacchierate:
Emma Hamilton, moglie dell'ambasciatore inglese nel Regno delle Due Sicilie,
e poi le Duchesse di San Clemente e San Marco, donne dissolute e licenziose.
 Accade così che la Regina, sollecitata nella sua vanità, si ritrovi in un bordello di alto lignaggio,
semplicemente per togliersi lo sfizio di vincere una scommessa,
un fatto da leggenda, se in ogni epoca non fosse confermato da numerose e diverse fonti,
a iniziare da una lettera della stessa Maria Carolina a Emma Hamilton.
"Era una giornata grigia di tanto tempo fa, una di quelle in cui non succede mai niente di niente.
Ore pigre, lenti, tutte uguali: le solite visite degli adulatori, sempre le stesse chiacchiere.
Fu allora che, per sfuggire alla noia, feci una scommessa con la duchessa.
Donna di spirito, la San Clemente accettò.
Abbiamo indossato abito sgargianti e siamo andate in vicolo San Camillo, in un bordello...
E' successo quello che accade di solito in un bordello.
Io in una stanza, la duchessa in un'altra.
I miei clienti uscivano raggianti e consigliavano a quelli in attesa di scegliere me.
Che soddisfazione. Ho guadagnato diciotto ducati e la mia amica solo quattordici.
Ho vinto la scommessa, naturalmente".
Il postribolo di San Camillo era stato in passato una locanda adibita a bisca,
in cui il nobile Camillo aveva perso ogni suo avere.
Il luogo era poi diventato un convento dei frati cappuccini,
ma nel XVIII secolo era nuovamente degenerato in un bordello di lusso,
dove si pagava in proporzione alla bellezza e alle capacità amatorie delle dame.
La Regina vince la sua scommessa, si porta a casa i 18 ducati,
e soprattutto un anello di diamanti, la vera posta in palio,
che mostra con fierezza a ogni occasione.
La condotta sbarazzina presta il fianco a un attacco abrasivo dei nemici della dinastia, 
congegnato da un'altra donna in forma letteraria.
Eleonora Pimentel Fonseca, acerrima nemica dei Borbone,
mitizzata eroina della Rivoluzione Napoletana del 1799,
compose un sonetto velenoso, con quei celebri versi iniziali,
che non sono neanche la parte più offensiva:
"Rediviva Poppea, tribade impura / d'imbecille tiranno empia consorte",
come a dire, in modo meno soave, zoccola reincarnata, moglie blasfema di un Re imbecille.   

In un corso placido ma non pigro degli eventi, di riforme legislative parziali e cambiamenti sociali generali, irrompe un evento devastante: anno 1789, la Rivoluzione Francese. Non una semplice ribellione, pur violenta, ma il totale capovolgimento di un'intera concezione di vita, lo stravolgimento della prospettiva sulle cose del mondo. E' in discussione l'idea di un Re che governa per diritto divino, sono messe in gioco le differenze di rango, entra nel sentire comune la possibilità di far sparire le antiche dinastie, di seppellire Stati plurisecolari.

Gli avvenimenti francesi suonano l'allarme, per le monarchie europee. Le case reali sono inquietate dalla possibilità di sommosse analoghe nei propri territori, temono un probabile terremoto politico anche nei loro collaudati sistemi di governo. La Francia rivoluzionaria, d'altra parte, avverte l'obbligo morale e l'interesse materiale di sostenerei movimenti contro le monarchie assolute, di spalleggiare i popoli vogliosi di sottrarsi al giogo dei propri tiranni, come sono ora percepiti.

Sulla scia di un'idea rivoluzionaria, dal 1793 in poi, la Repubblica Francese sembra imbattibile. Respinge i tentativi di restaurazione del vecchio regime e in più d'una occasione passa all'offensiva, conquista nuovi territori. Il processo accelera con l'ascesa al potere di Napoleone Bonaparte, una figura di ben altro calibro rispetto agli improvvisati e disorientati esponenti post-rivoluzionari. Le sue conquiste lo portano a dominare gran parte dell'Europa, sino a sconvolgerne la geo-politica. Dinastie secolari soppiantate dai fedelissimi del Generale, confini ridisegnati con un tratto di penna, nuovi domini creati dagli antichi Regni, intere burocrazie sostituite da un nuovo sistema di diritto.


L'Europa, prima e dopo Napoleone.

Napoleone scende in Italia nel 1796. Le sue vittorie nella parte centro-settentrionale determinano un rimescolamento della carta politica della penisola. Sorgono le Repubbliche Cisalpina e Ligure. Il Papa perde il potere temporale e lo Stato Pontificio è sostituito dalla Repubblica Romana. E' poi la volta del Regno di Napoli, a cavallo tra il 1798 e il 1799, e alla monarchia borbonica subentra la Repubblica Partenopea. Ferdinando ripiega in Sicilia - e vi tornerà ancora, sotto la pressione di una nuova "Campagna Italiana" di Napoleone - vivendo quella permanenza più come un esilio che non come la presenza legittima di un monarca nel suo Regno.

La Repubblica Partenopea ha vita breve, appena sei mesi. E' abbattuta dalla controrivoluzione, scoppiata all'indomani della fuga del Re dalla capitale. Al centro dei dissidi c'è la cosiddetta questione feudale, che, irrisolta, determina il fallimento dell'esperienza politica. Parallelamente il Cardinale Fabrizio Ruffo sbarca in Calabria alla testa del cosiddetto Esercito della Santa Fede - formato da contadini, briganti e soldati - e procede alla riconquista delle province, in nome del Re. La famiglia reale rientra a Napoli nel 1801 - non Ferdinando, però, che si attarderà a Palermo sino al 1802 - e ai festeggiamenti iniziali seguirà una dura repressione - con condanne capitali, anni di carcere ed esili - a cui non sfuggirà neppure... San Gennaro, accusato di aver parteggiato per i repubblicani.

Nel 1805 il Regno di Napoli entra nella Terza Coalizione, un'alleanza militare con Gran Bretagna, Impero Austriaco e Svezia contro la Francia di Napoleone - divenuto Imperatore nel 1804 - per ripristinare le antiche monarchie, deposte durante le guerre rivoluzionarie. Napoleone accusa Napoli di violazione dei trattati di neutralità, dichiara decaduta la dinastia borbonica e muove alla conquista del meridione italiano, quando Ferdinando è già imbarcato nuovamente alla volta di Palermo. Il Regno è nuovamente diviso. La Sicilia è nelle mani di Ferdinando, sotto la protezione inglese, nella persona di Lord William Bentinck, Ministro plenipotenziario e comandante delle truppe britanniche. Napoli è francese, affidata dapprima al fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte, e poi al Maresciallo dell'Impero di Francia, Gioacchino Murat.

Inizia il cosiddetto Decennio, un'esperienza profondamente diversa dai pochi e intesi mesi della Repubblica. I francesi si ripresentano non più nella veste di conquistatori ma di amministratori, desiderosi di oltrepassare i disordini rivoluzionari. Sarà un periodo di forte progettualità, con riforme radicali che muteranno irreversibilmente le strutture politiche, amministrative e sociali. E' emblematica la legge di soppressione della feudalità - il carattere originale del Mezzogiorno - che priva i baroni dei diritti giurisdizionali e affida i demani feudali ai comuni.

Sono le premesse a una nuova organizzazione dello Stato e della società, a un nuovo rapporto tra potere e società, incardinato su burocrazie progressivamente più estese, regolato dalle forme oggettive della legge. Alla Corona non mancano spazi e modi per dirigere la vita pubblica - diplomazia, esercito, ministri, prelati - ma il collegamento tra la monarchia e i sudditi si snoda ora sulle pratiche amministrative. Lo Stato assume la forma di un'anonima e imperscrutabile catena di comando, che conduce alla cosiddetta monarchia amministrativa. I burocrati sono i protagonisti di questa nuova monarchia - a metà tra assoluta e costituzionale - sostenuta da una nuova etica del servizio pubblico, ispirata a valori di dedizione alla patria e al bene collettivo. L'impostazione stimola l'integrazione sociale, apre spazi a gruppi sin allora defilati, perché lo status non è più fissato alla nascita, ma rinvia alla funzione economica e alla capacità contributiva, in senso ampio. L'uniformità di indirizzi e comportamenti dà alla vita locale una coralità sconosciuta in passato.

Il cambio di regime rimane peraltro traumatico, soggetto a inerzie e incomprensioni. Tutto diventa suscettibile di pareri, opinioni e norme, la maglia delle istituzioni stringe lo Stato, produce una legislazione sovrabbondante che dà il tono alla burocrazia e un'identità a chi di quella legislazione è autore, esecutore e controllore. Gli apparati burocratici crescono a dismisura, più per il desiderio dei napoleonidi di crearsi proprie clientele in larghi strati della popolazione, che non per obiettive necessità. C'è chi affida le proprie prospettive di progressione sociale alle opportunità di impiego e di carriera nei pubblici uffici, ma c'è anche chi fatica ad assuefarsi a burocrati e impiegati statali, chi li vede come dissipatori di risorse, un filtro d'ostacolo alla comunicazione tra governanti e governati.

Il Decennio rappresentò un punto di non-ritorno, per il Regno di Napoli.
Le riforme francesi erano state così invasive, e avevano prodotto così tanti vantaggi,
che pure il rientro di Ferdinando non comportò il totale smantellamento del sistema
In retrospettiva può esser visto come un "buco nero" nella storia del Regno,
una vicenda lacerante da un lato, ma che aveva realizzato notevoli progressi dall'altro,
e serviva ora riconciliare i Borbone con una società plasmata su un ordinamento straniero. 
L'imbarazzo istituzionale ruotava intorno a una domanda precisa:
il regime napoleonico a Napoli aveva segnato una rottura col passato
o si era mosso in un rapporto di continuità col riformismo settecentesco? 
Le istituzioni del Regno e l'organizzazione della società
derivavano dalla stratificazione delle riforme di Carlo e Ferdinando,
o erano invece qualcosa di profondamente diverso e radicalmente nuovo, 
solo in minima parte riconducibile all'esperienza del dispotismo illuminato?
Il Decennio era figlio dei lumi o del giacobinismo?
Nel Regno non si poteva far passare l'idea che lo sviluppo fosse merito dei Re francesi, 
di cui si potevano riconoscere gli aspetti positivi, solo a condizione di farli risalire ai Borbone.
Nella posizione ufficiale i francesi avevano solo accelerato le riforme intraprese già da Carlo,
e che Ferdinando aveva poi perfezionato, per la volontà di dimenticare e perdonare tutti.
I francesi avevano solo disturbato la civilizzazione di popolo provato da secoli di vicereame,
La loro presenza si fondò sull'amministrazione ma anche sui soldati,
miscelava profili amministrativi e legislativi con aspetti militari e repressivi,
perché non era impossibile esercitare la pubblica autorità senza un presidio militare,
in un contesto segnato da soppressione degli ordini religiosi e della feudalità
che avevano pur sempre rappresentato gli istituti di disciplina e inquadramento del popolo.
Sotto il Decennio il Regno lo era solo di nome, ma non di fatto,
perché a Napoli trionfavano leggi e costumi francesi
e in Sicilia circolavano plenipotenziari e armate britanniche.
Per tutto ciò il Decennio troverà sì cittadinanza negli annali della storia napoletana,
ma la cronotassi dei Re di Napoli non darà alcuno spazio a Giuseppe Napoleone e Giocchino Murat. 

L'ondata francese conosce un solo ostacolo: sé stessa. Napoleone avrà la temerarietà di spingersi alle porte di Mosca e sarà l'inizio di una disfatta con significati ben più profondi d'una semplice sconfitta militare. Il grande Generale diventerà inviso non solo ai suoi nemici storici - la vecchia aristocrazia e il Papato - ma sin anche a chi nella rivoluzione aveva intravisto la speranza di un mondo migliore.

Il 23 aprile 1814, Lord Montgomery, il vice di Bentinck, si sporge dal parapetto di babordo della nave "Abukir", per annunciare la caduta di Napoleone a Re Ferdinando, accorso al molo per conoscere le piacevoli novità. Anche a Napoli, nel frattempo, il corso di Murat sta volgendo al termine. L'esercito di Re Gioacchino è sconfitto nella Battaglia di Tolentino e il popolo inneggia al ritorno di "Re Nasone".

Rimane un fatto: l'Europa pre-napoleonica non esiste più, non solo nella configurazione geografica e nell'assetto politico, ma più significativamente nelle idee costitutive e nei sentimenti popolari. I messaggi rivoluzionari sono entrati in circolo, fatti propri da gran parte delle popolazioni. La Costituzione - che sia un atto di bontà del sovrano verso i sudditi o un diritto inalienabile dei cittadini - è l'icona del periodo: questa "sublime parola" - Costituzione - "che redime una nazione, che la rigenera", che "suona per noi amore, fratellanza, patria, libertà" - nell'entusiastico commento retrospettivo del poeta Salvatore Di Giacomo - ma che pure resterà spesso una parola vuota, portatrice di concetti carichi di un'incomprensibile astrattezza. Persino Ferdinando l'aveva obtorto collo concessa in Sicilia - nel 1812, sotto le pressioni britanniche - e il figlio aveva saputo peraltro tramutarla in un eccellente strumento di propaganda.

L'aristocrazia fronteggia una sfida immane. Ridisegnare la carta europea, tracciare nuovi confini e riallocare poteri, ma più in profondità respingere l'ideale illuministico di un popolo capace di costruire da sé la propria storia. L'insegnamento della Rivoluzione francese va declinato al negativo. Gli eventi rivoluzionari sono da declassare a una triste testimonianza degli eccessi cui le masse possono spingersi, se sganciate dai sacri principi della tradizione. Le antiche monarchie paternalistiche devono riaffermarsi come l'unica forma di governo capace di assicurare quiete e progresso a uno Stato, il solo regime in cui possono incarnarsi i valori di fedeltà e lealtà, di religiosità, assi portanti di una società ben regolata.
 
Reprimere il rinnovamento restaurare le dinastie sono le nuove parole d'ordine.

Carlo (1734-1759)

Ferdinando III (1759-1816)

La questione è affrontata con un metodo innovativo, esso stesso rivoluzionario, per la cultura dell'epoca: un congresso
 
A Vienna - il centro del potere degli Asburgo, per secoli a capo del Sacro Romano Impero, simbolo di tutte le monarchie offese da Napoleone - convergono oltre duecento diplomatici, per archiviare venticinque anni di scelleratezze francesi e ripristinare un equilibrio conforme alla tradizione.
 
"La parola 'ordine' è il punto di partenza. La 'libertà' è il punto di arrivo. Il concetto di libertà può basarsi solo sul concetto di ordine", nella posizione ideologica di Von Metternich, il grande regista del Congresso.


Il Congresso di Vienna ha due chiavi di lettura, in antitesi, e pur entrambe valide:
è un un'iniziativa "reazionaria", che segna un passaggio "progressista".
E' "reazionaria", perché promuove una restaurazione politica,
ma è anche "progressista", perché si affida un'innovativa decisione concertata,
non più guerre o atti forza, ma la più raffinata diplomazia al lavoro, alla ricerca del consenso.
Le mediazioni non sono facili, perché la "pars destruens", per attaccare e sconfiggere il nemico,
è cosa diversa dalla "pars costruens", per configurare, almeno sulla carta, una nuova civiltà.
Le negoziazioni si protrarranno perciò a lungo dall'autunno del 1814 alle porte dell'estate del 1815.
Ma la durata del Congresso è pure dovuta a una marcata intonazione di frivolezza regale.
Balli e cortei, gite e parate, spettacoli e concerti collocano l'evento in una cornice festosa e sfarzosa,
lo immergono in un'atmosfera di euforia, ne fanno una grande kermesse aristocratica.
  per il desiderio di tutti di mostrare un accresciuto splendore degli antichi fasti.
Diventerà celebre l'annotazione ironica del principe Charles Jospeh de Ligne:
"Il Congresso danza, ma non avanza... 
non stilla nulla come il sudore di questi signori che ballano".

Dietro una facciata di allegria, oltre lo svago e il divertimento, le Potenze vincitrici - Inghilterra, Prussia, Russia e Austria - non hanno dimenticato che il congresso è di guerra, non di pace. La politica fa sul serio, pur con modalità negoziali distanti dall'idea che ne possiamo avere oggi. Nessun ordine del giorno, nessuna assemblea plenaria, nessun voto pubblico e palese. Piuttosto, una serrata sequenza di incontri informali, in comitati ristretti e mutevoli, organizzati all'abbisogna, per risolvere questioni specifiche. Non mancano egoismi e interessi privati, fotografati dal feldmaresciallo Blucher nell'immagine di una "fiera in un piccolo paese, in cui ognuno dà una lucidata al dorso del proprio bestiame per venderlo e barattarlo".

L'obiettivo generale, il principio informatore, rimane però chiaro e condiviso: realizzare una distribuzione di poteri equilibrata, libera dalla supremazia di un singolo paese, vincolando il più possibile le scelte allo scenario pre-napoleonico. Prevenire il dramma di una seconda Rivoluzione francese - e la catastrofe di una rivoluzione europea, sul modello francese - è il fine ultimo di tutte le Potenze asserragliate per un ventennio contro Napoleone. Il colpo di coda del Generale - tornato dall'esilio all'Elba, prima del definitivo allontanamento a Sant'Elena - concorre a compattare l'ambiente, ricorda a tutti la pur sempre latente minaccia del bonapartismo.

L'esito del Congresso dà una nuova forma agli Stati della penisola italiana, ma ne conferma una carta geografica variopinta.

Vittorio Emanuele I di Savoia riacquista il Regno di Sardegna, ingrandito con l'aristocratica Repubblica di Genova, che scompare insieme alle Repubbliche di Venezia e Lucca. Gli Stati della Chiesa, già coacervo di territori, si trasformano in Stato Pontificio. Papa Pio VII perde Avignone e il Contado Venassino, in terra di Francia, ma preserva la sovranità sulle Legazioni e sulle enclavi di Benevento e Pontecorvo. Compare il Regno del Lombardo Veneto, sotto il dominio austriaco, la cui influenza si propaga al Granducato di Toscana e al Ducato di Modena, rispettivamente sotto la dinastia degli Asburgo-Lorena e degli Austria-Este. I Borbone di Parma sono parcheggiati a Lucca, eretta a Ducato, in attesa della morte di Maria Luisa D'Austria, moglie di Napoleone, a cui è concesso l'appannaggio del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. E poi Napoli e Sicilia, la parte meridionale della penisola, restituita a Ferdinando inalterata nei  confini  e ridotta nell'estensione: i presidi sulla costa toscana passano al Granduca Ferdinando III, l'isola di Malta - storico feudo del Regno di Sicilia - diventa britannica, e sono disattese le aspettative della diplomazia borbonica sulle enclavi di Benevento e Pontecorvo.

Un senso di delusione serpeggia negli ambienti politici napoletani, nei confronti di una sistemazione giudicata penalizzante per uno Stato e una dinastia che riteneva di aver dato un contributo forte alla sconfitta di Napoleone e dei suoi satelliti italiani. Ma le rimostranze non raggiungeranno mai toni perentori, per la consapevolezza di aver in fondo guadagnato più di quanto si fosse pubblicamente disposti ad ammettere, perché la decisione di riconsegnare il Regno ai Borbone non era poi così ovvia, contemperando i veti incrociati e le convenienze reciproche delle potenze al tavolo dei negoziati: "la Francia vuol la Sicilia unità per non lasciarla interamente all'arbitrio dell'Inghilterra, e l'Inghilterra vuole il regno unito per la paura che il re di quel regno non sia dia interamente in braccio alla Francia", come leggiamo in un documento d'epoca.


"Un ordine la cui struttura è accettata da tutte le grandi potenze è legittimo;
un ordine che includa una potenza che ne considera oppressiva la struttura è rivoluzionario.
In politica interna, la sicurezza è data dal predominio dell'autorità;
in un sistema internazionale, è data dalla parità dei rapporti di forza [...]
stupisce non quanto fosse imperfetto l'accordo raggiunto, ma quanto fosse ragionevole;
non quanto fosse reazionario, ma quanto equilibrato [...]
non corrispose alle speranze di una generazione di idealisti, 
ma diede loro qualcosa di più prezioso:
un periodo di stabilità che diede alle loro speranze la possibilità di realizzarsi
senza un'altra guerra e senza una rivoluzione permanente"
(Henry Kissinger)



Regno del Lombardo Veneto



Regno di Sardegna



Ducato di Modena



Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla



Granducato di Toscana



Stato Pontificio



Regno delle Due Sicilie - Napoli



Regno delle Due Sicilie - Sicilia

Regni, Ducati e Granducati ripristinati ad arte su una mappa, spartiti tra Case reali senza valutare le implicazioni di una penisola pervicacemente divisa in piccoli potentati. Se da un lato è costante - in tutti gli Stati, all'indomani del 1815 - il tentativo di riassopire una società sovreccitata dal periodo napoleonico, dall'altro lo spirito rivoluzionario è ormai endemico, le forze sprigionate troppo prepotenti per esser arginate. La Francia rimane l'epicentro di nuove sommosse, ma la ribellione prende ora forme più aperte nelle realtà periferiche. "Il fanciullo è cresciuto, e si vedeva, o ci accorgeva alla prova, che non poteva rientrare negli abiti di una volta", chiosa Benedetto Croce sulle difficoltà di insistere con un sistema di governo ormai minato nella fondamenta.

E semmai l'annotazione di Kissinger possa esser stata vera in generale, Napoli e Sicilia rappresentarono una vistosa eccezione, un caso di scuola sui rischi di stringere i bulloni in circuiti in cui si vanno cumulando pressioni crescenti, nella speranza di evitare perdite. I Borbone saranno impegnati nel sedare continue ribellioni, negli anni a venire: i moti siciliani, nel 1820 e nel 1837, la rivoluzione calabrese, nel 1847, la rivolta in Sicilia, nel 1848-49 e poi il movimento costituzionale napoletano, del 1848. L'onda ha origini remote, muove da scelte istituzionali mal centrate rispetto al nuovo clima sociale e culturale, e s'ingigantisce e prende forza nel tempo, quando le ripetute azioni repressive sortiscono effetti opposti a quelli voluti, alimentano il fomento, anziché placarlo.

Re Ferdinando unifica formalmente Napoli e Sicilia, a un anno dalla chiusura del Congresso di Vienna. L'8 dicembre 1816 nasce il Regno delle Due Sicilie, con capitale trasferita a Napoli. Ferdinando prende il numerale "I" della nuova entità statuale.

La scelta è presentata alla stregua di una mera esecuzione dell'Atto finale del Congresso di Vienna, che all'articolo 104 ventila la prospettiva dell'unione. "Sua Maestà il re Ferdinando IV è ristabilito per sé e per i suoi eredi e successori sul trono di Napoli e riconosciuto dalle potenze come re del Regno delle Due Sicilie". La disposizione è venata di ambiguità: non afferma esplicitamente la fusione di Napoli e Sicilia come per altre realtà - Genova annessa al Regno di Sardegna, Venezia e Milano al Lombardo Veneto - e riporta Ferdinando a capo di un Regno ufficialmente mai esistito e ancora non istituito. Napoli e Sicilia - anche quando accomunate dalla stessa dominazione e percepite come un'unica potenza - avevano invariabilmente preservato una propria, chiara identità, e mantenuto larghi margini di autonomia. Lo stesso Ferdinando era "III" in Sicilia e "IV" a Napoli - un assurdo, se il Regno fosse stato uno solo - e una vera osmosi politica e sociale forse non si registrò nemmeno alle origini, nel Regno dei Normanni e degli Svevi.

L'unione formale - sebbene pubblicizzata come una decisione politica maturata altrove - rispose verosimilmente a un'ambizione di lungo corso della dinastia borbonica. Luigi de' Medici - Ministro tra i più valenti di Ferdinando - immaginava una Sicilia napoletanizzata già ai tempi in cui il Re si trovava a Palermo; e scriveva ad Alvaro Ruffo - a Vienna, per conto di Re Ferdinando -  che "se questo paese non è uno, se non è unico l'interesse dei governanti, non essendo sufficiente che sia unico quello del re, la scena del 1798, la scena del 1805, anche senza Bonaparte si potrà facilmente ripetere".

Il Re, dunque, sarebbe stato debole, avrebbe sofferto una posizione precaria, senza l'unione dei due Regni, anche senza paventare l'arrivo di un altro Napoleone. Il permanere delle separazione avrebbe ridotto i due territori all'equivalente dei Ducati di Modena e Parma del meridione. Nasce così l'idea di un unico corpo istituzionale, l'inedito Regno delle Due Sicilie, che archivia la formula politica del capostipite Carlo, due Regni, un solo Re, un unico Stato federale. Il nuovo Regno trova d'altra parte conforto nelle altre realtà dell'Europa post-napoleonica: il Regno dei Paesi Bassi, con Belgio e Olanda, il Regno di Svezia, inclusivo della Norvegia, e poi l'Impero Russo, col Granducato di Varsavia, si caratterizzano tutti per avere un unico sovrano e forme particolari di governo rispettose delle aspirazioni di autonomia dei paesi entrati a far parte di organismi statali più vasti. Tutte le monarchie europee - a iniziare da Francia e Regno Unito - sono formate da parti eterogenee, congiunte tra loro da necessità politiche o ragioni fisiche e indomabili.

Ma i siciliani vivono ugualmente come un'umiliazione la loro nuova condizione. La scomparsa della Sicilia - la sua fusione con Napoli, in una posizione subalterna - ha come prima, immediata conseguenza la soppressione della Costituzione, la chiusura de facto dello storico Parlamento, la perdita della sede centrale del governo, della bandiera e dell'esercito. "Dal 1816 in poi, la Sicilia ebbe la sventura di essere cancellata dal novero delle nazioni e di perdere ogni costituzione. Noi domandiamo l'indipendenza della Sicilia", scriverà Nicolò Palmieri in un saggio polemico, indirizzato a Re Ferdinando.

Dalla retorica si passa all'azione. I siciliani - baroni e ceti popolari - insorgono nel giugno del 1820; istituiscono un governo con sede a Palermo, convocano il Parlamento e ripristinano la Costituzione del 1812. Una delegazione giunge a Napoli, per avere il riconoscimento dell'autonomia dell'Isola, senza peraltro voler delegittimare la dinastia Borbone, a testimonianza di un malessere profondo, non ancora banalizzabile in un'ostilità a prescindere verso la Casa reale o in un'idea separatista purchessia. Il governo di Napoli non cede un passo e l'unica risposta la fornisce con l'esercito, che rimette in riga i siciliani ribelli a prezzo di lotte sanguinose.

Anche la parte continentale del Regno è in ebollizione, dopo un quinquennio di irreale serenità, all'insegna dell'amalgama tra il vecchio e il nuovo, tra gli esponenti della tradizione illumistica-riformatrice del settecento e le figure più moderante del periodo di Murat.

Il ripristino della Costituzione di Cadice in Spagna - tendenzialmente democratica - eccita gli animi e rinnova il desiderio di replicare l'iniziativa a Napoli. Nel luglio del 1820 un gruppo di militari insorge, capitanato dai sottotenenti Morelli e Salvati e appoggiato da vari ufficiali, tra cui si distingue Guglielmo Pepe, che già vanta un lungo curriculum tra le milizie francesi.  Il gruppo di rivoltosi guadagna persino l'adesione delle truppe inviate per reprimere l'ammutinamento e dei quadri superiori dell'armata regia. La rivoluzione trionfa senza spargimenti di sangue, Ferdinando cede e promulga l'agognato testo costituzionale.

L'apertura del Re risveglia le preoccupazioni delle Potenze europee, per il possibile spirito di emulazione che pregiudicherebbe tutte le altre monarchie. Un nuovo congresso - a Troppau, nel 1820 - dà un giro di vite all'assetto istituzionale. Austria, Prussia e Russia sponsorizzano il principio dell'intervento armato negli Stati "minacciati" da Costituzioni "contrarie ai principi dell'ordine e della morale", con una chiara allusione a Napoli, peraltro neanche presente al tavolo. Un altro congresso delle stesse potenze - a Lubiana, nel 1821 - estende stavolta l'invito a Ferdinando, affinché possa ricevere "nuove testimonianze dell'amicizia nostra e di quella lealtà verso il fondamento massimo della nostra politica".

Il Re annuncia la convocazione al Parlamento e dopo complesse negoziazioni, tra sospetti e diffidenze, si reca al congresso. La sua partecipazione - nelle intenzioni dichiarte - serve solo a tranquillizzare gli alleati europei sul carattere fondamentalmente pacifico, sicuramente legalitario e strettamente nazionale della sommossa, a difendere la Costituzione insomma, ma nei fatti il Re sconfessa tutto, invoca e ottiene 'intervento militare austriaco sul proprio territorio, con l'appello a non contrastare chi è venuto a ristabilire l'ordine. L'esercito costituzionale napoletano, al comando del Generale Pepe, fa opposizione, ma è sconfitto nella Battaglia di Antrodoco - sul confine tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio - ricordata come la prima battaglia risorgimentale. Napoli capitola il 23 marzo 1821 e la resa significa lo stralcio della Costituzione e la messa al bando di ogni altra innovazione. Da Napoli si passa poi a Palermo, dove gli austriaci entrano il 31 maggio 1821. Ergastoli e condanne a morte mettono infine il sigillo alla "amichevole" azione militare.

Era ingenuo - col beneficio della retrospettiva - immaginare che la rivoluzione napoletana si sarebbe potuta consolidare senza provocare le reazioni di altre Potenze europee; che ai napoletani fosse permesso di mutare autonomamente gli assetti stabiliti appena cinque anni prima a Vienna; che i destini del Regno si giocassero davvero Napoli anziché nelle Cancellerie internazionali.


Re Ferdinando I delle Due Sicilie tramonta il 4 gennaio 1825.
 
Regnò per 65 anni, su 76 della sua vita. Conobbe cinque Papi e quattro Granduchi di Toscana, e poi gli Imperatori del Sacro Romano Impero e quelli d'Austria. Vide la fine delle antiche repubbliche aristocratiche italiane. Visse l'intera parabola della Rivoluzione francese e dell'Impero di Napoleone.

"La mia età, caro figlio, cerca riposo; ed il mio spirito, stanco di vicende, rifugge dall'idea di guerra esterna e di civile discordie", scrive al figlio Francesco, nel dicembre del 1820,  in un ideale e ormai prossimo passaggio di consegne.

Lettera autografa di Francesco I di Borbone del 16 febbraio 1825,
scritta poco dopo la nomina a Re delle Due Sicilie e indirizzata ad Altesse Royalè.

La salita al trono di un nuovo sovrano permette di valutare con precisione le inclinazioni dei sudditi verso la propria dinastia: se ogni atto che possa far sperare in un miglior avvenire è rigettato, allora il popolo ha ormai receduto dal lealismo dinastico, altrimenti si può anche prevedere che le forme di malcontento e disaffezione verso il precedente sovrano possano esser riassorbite e trasformate in un sostegno appassionato.

Questa seconda, favorevole situazione caratterizza la salita al trono di Francesco I, nel gennaio del 1825, che pure avviene in età avanzata, a 48 anni. Il nuovo Sovrano ha un carattere timoroso, schivo e riservato, dedito alla famiglia più che alla politica, anche perché le esperienze di governo - nella veste di vicario del Regno - lo hanno duramente provato. Stanco e annoiato, lascia la conduzione del Regno ai suoi consiglieri e il governo sarà nelle mani del Primo Ministro Luigi de' Medici per l'intera reggenza. Gli rimane un successo politico rilevante, il merito di aver liberato il territorio dai soldati austriaci - incaricati di vigilare sulla pace nel Regno, minata dai carbonari - prima di passare scettro e corona al figlio Ferdinando, nel 1830.

Regno delle Due Sicilie, 1825.
Francesco I di Borbone.
30 ducati.

Ferdinando II sale al trono l'8 novembre 1830 e subito concepisce il Regno come una realtà politica "nella cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé", con le parole di Benedetto Croce.
 
Il Regno delle Due Sicilie reclama un ruolo autonomo sullo scacchiere europeo, vuol affrancarsi da antiche sudditanze; si emancipa dalla tutela dell'Austria, che ha sorretto ma anche sfruttato la monarchia napoletana; tiene un contegno fiero e altezzoso verso l'Inghilterra, protettrice della dinastia nel ventennio napoleonico. I rapporti col Governo d'oltremanica sono immersi in un campo di tensione, che rilascia la prima scarica nel 1834, quando Re Ferdinando nega l'appoggio alla coalizione franco-inglese nella Prima Guerra Carlista. Londra ci vede qualcosa di più di un pur grave atto di insubordinazione; vi scorge il desiderio del Regno di acquisire l'egemonia del Mediterraneo - militare, ma anche economica - giocando sulla più favorevole posizione geografica; da lì inizia a tramare per destabilizzarlo, in quel momento si rompe l'equilibro, l'amicizia diventa acredine e prende forma un intrigo internazionale per annientare il più grande "piccolo Stato"  della penisola.
una delle figure più carismatiche e dibattute nella storia del Regno.
Sale al trono ventenne e gode subito di rispetto e ammirazione.
Le sue iniziative realizzano progressi a vari livelli
e sono numerosi i primati tecnici conseguiti sotto il suo governo.
Col tempo, tuttavia, l'impulso riformatore subisce un arresto e poi un'involuzione,
che si accompagna a un isolamento progressivamente più spinto dalle altre Potenze europee.
Pietro Calà Ulloa - sostenitore della dinastia - divide il suo regno in tre parti:
la prima, ricca di riforme, lo avvicina a Carlo;
la seconda, dal 1837, segnata da paure e diffidenze, lo fa assomigliare a Ferdinando I;
la terza, dopo il 1848, alle prese con fazioni interne e appetiti stranieri, come per Francesco I.

Ma nell'immediato Re Ferdinando è impegnato soprattutto sul fronte interno. Il sogno di una Sicilia indipendente sembra svanito, tra sentimenti di rivalsa ancor più accesi, che rinsaldano la coesione tra ceti sociali - dai baroni ai preti, dalla borghesia agli artigiani e ai contadini - in opposizione al Borbone. Persino l'epidemia di colera del 1837 diventa un'occasione di propaganda d'odio verso il Re, accusato, tra ignoranza e superstizione, d'aver diffuso la pestilenza, inquinando aria e acqua con l'invio di persone infette. Nel 1844 i fratelli Bandiera sono protagonisti di uno sbarco dagli esiti infelici nei pressi di Crotone, un evento minimizzato nelle fonti ufficiali, ma la gran concessione di Croci, pensioni e onorificenze, per chi ha represso quel tentativo insurrezionale, conferma tutti i timori di Ferdinando per la stabilità del suo Regno.

E' l'anticamera dei moti nazionali del 1848, di cui la Sicilia è capostipite, con le stesse figure che saranno poi protagoniste del biennio 1860-1861, al centro del Risorgimento. E' un primato cronologico, ma ancor prima di contenuti politici e suggestioni giuridiche, nell'accidentato cammino verso un nuovo equilibrio. Il senso della rivolta è nelle parole del suo manifesto, affisso per le strade di Palermo:

"Siciliani! Il tempo delle preghiere inutilmente passò, inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni... Ferdinando tutto ha sprezzato, e noi Popolo nato libero, ridotto nelle catene e nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i nostri legittimi diritti? All'armi, figli della Sicilia: la forza di tutti è onnipresente... il giorno 12 gennaio 1848, all'alba, segnerà l'epoca gloriosa della nostra universale rigenerazione".

La data non è casuale - il 12 gennaio è il compleanno di Re Ferdinando - e tutto è orchestrato per avere la massima risonanza. Già poco prima - a Messina, il 3 giugno 1847, giorno della festa cittadina della Madonna della Lettera - la statua del Re appariva con gli occhi bendati e le orecchie tappate dalla bambagia, a denunciare l'ostinazione di Ferdinando nel restar cieco verso il malessere dell'isola e sordo alle istanze dei siciliani. La provocazione annunciava l'insurrezione congiunta di Messina e Reggio Calabria, che le forze borboniche ebbero però gioco facile a stroncare, favorite della scarsa organizzazione dei ribelli, fatti passare per un manipolo di pazzi.

I rivoltosi di Palermo non sembrano vantare miglior programmazione, ma con la benevolenza della sorte riescono a far ripiegare l'armata borbonica. Una decina di soldati lascia la vita negli scontri, molti altri sono disarmati, sequestrati o costretti alla resa. Il gruppo s'ingrossa, arruola progressivamente aristocratici, intellettuali, possidenti, contadini, e respinge una seconda controffensiva dell'esercito regio, obbligato a riparare a Napoli. I fatti di Palermo invogliano alla sommossa anche Messina e Catania, e a seguire le altre città, a formare il nucleo di un movimento che avrebbe poi interessato l'intera Europa: Napoli insorge il 10 febbraio - proprio il giorno il cui Ferdinando promulga la Costituzione - e la seguiranno Firenze, Parigi, Torino, Roma, Vienna, Budapest, Berlino, Venezia e Milano. Sono rivoluzioni con svolgimenti e obiettivi diversi, ma, di là degli esisti, preannunciano tutte la fine della strategia politica concepita a Vienna.

Stampa allegorica dell'epoca, che simboleggia la cacciata delle truppe napoletane dalla Sicilia.

Ma le rivolte, tanto velocemente si sono sviluppate, quanto rapidamente vengono soffocate, con la stessa violenza e determinazione. Gli eventi battono un ritmo frenetico - tra il gennaio del 1848 e il maggio del 1849 - a cui solo una narrazione giorno-per-giorno può rendere una pur pallida giustizia.

12 gennaio 1848. Il moto anti-borbonico prende avvio a Palermo, in Piazza della Fieravecchia, guidato da Rosolino Pio e Giuseppe La Masa, con la massiccia presenza di popolani, cui segue l'adesione della borghesia liberale, animata dalla volontà di ripristinare la Costituzione del 1812. La sollevazione coinvolge tutti i centri del palermitano e arriva veloce sino alla Sicilia orientale, con l'insurrezione prima di Messina, poi di Catania. I rivoluzionari cacciano le milizie borboniche dall'Isola, in meno di un mese.

23 gennaio 1848. Prende forma un "Comitato Rivoluzionario", presieduto da Ruggero Settimo, un liberale moderato della nobiltà siciliana.

29 gennaio 1848. Re Ferdinando promette la Costituzione, preoccupato per le agitazioni napoletane, sulla scia dei successi siciliani, temendo un'insurrezione anche nella capitale. Il Regio Decreto del 29 gennaio introduce un testo ispirato al modello francese, di stampo liberale. I sudditi diventano cittadini, vedono riconosciute le libertà personali, di stampa, di associazione, di proprietà. Alla cittadinanza civile si affianca una cittadinanza politica, con la previsione di un Parlamento di due Camere, una di 164 deputati eletti dal popolo, l'altra di 50 "Pari" nominata dal sovrano.

10 febbraio 1848. Ferdinando firma la Costituzione Napoletana e ne propone l'estensione alla Sicilia, anche su sollecitazione degli ambasciatori inglesi, nel tentativo di placare l'ambiente. Il Comitato Rivoluzionario rifiuta la mediazione senza dare spiegazioni, se non una generica inadeguatezza del testo alle esigenze dell'Isola. Le lusinghe del Re, lontane dal guadagnarsi la fiducia dei siciliani, sono valse solo ad accrescerne l'insoddisfazione e le smodate pretese.

11 febbraio 1848. La Sicilia promulga una propria Costituzione, giurata il 24 febbraio.

22 marzo 1848. Ferdinando dichiara nulle tutte le iniziative istituzionali intraprese in Sicilia.

25 marzo 1848. Nasce il Regno di Sicilia e dopo trent'anni riapre il Parlamento Siciliano, presieduto da Vincenzo Fardella di Torrerasa. Le figure di spicco si scoprono però ideologicamente divise, in contrasto sulla linea da intraprendere verso Napoli e più in generale sulla visione del futuro, sull'opportunità di far parte di uno Stato Italiano. Monarchici e repubblicani, indipendentisti, federalisti e unitari, hanno in comune solo il desiderio di cacciar via il Borbone.

13 aprile 1848. I siciliani dichiarano d'imperio la decadenza della dinastia borbonica e vagheggiano la possibilità di un governo costituzionale, da far reggere a un Principe da nominare. Francia e Inghilterra sono pronte riconoscere l'indipendenza della Sicilia, appena eletto il nuovo Re. La reazione dei siciliani è scomposta, emotiva, per molti versi irrazionale, rivelatrice della reciproca mancanza di fiducia. Ruggero Settimo avrebbe la caratura per presiedere a una Repubblica siciliana, ma probabilmente non si fida degli altri e forse neanche di sé stesso. La Corona è offerta dapprima a Alberto Amedeo di Savoia, che però la rifiuta, per l'impegno nel conflitto contro l'Austria. Si passa allora al secondogenito di Carlo Alberto, il Duca di Genova Ferdinando, purché acconsenta a cambiar nome, non volendo la pur minima evocazione del Re Borbone. Ferdinando II avvia una serie di contatti con i Principi italiani e le potenze europee per osteggiare l'iniziativa, in un'opera dissuasiva, di persuasione morale, facilitata dalla mancanza di un'adeguata preparazione diplomatica da parte dei rivoltosi. La situazione è caotica. Londra è favorevole ai Savoia. Parigi preferirebbe Carlo di Lorena, Principe di Toscana. Il Papa e gli altri Principi italiani preferirebbero evitare strappi, proponendo un discendente di Ferdinando. Lo stesso Carlo Alberto è perplesso, perché in quel momento - in guerra contro l'Austria - ha bisogno di Napoli, della sua solidarietà morale, del suo aiuto materiale.

15 maggio 1848. E' il giorno d'apertura del primo Parlamento di Napoli, ma un gruppo di deputati contesta la Costituzione appena proclamata, ne propone una sostanziale modifica e rifiuta il giuramento al Re. Ferdinando tenta una conciliazione, con la mediazione di vari emissari, pur di avviare i lavori dell'assemblea. I tentativi di accomodamento sono infruttuosi, i rivoltosi spargono voci su un possibile intervento armato delle truppe regie e gli eventi vanno fuori controllo, non sono più governabili. Barricate, scontri, arresti, fuochi d'artiglieria, saccheggi, esecuzioni sommarie, proclamazione di uno stato d'assedio. Il conto finale sarà di almeno cinquecento morti.  Il 15 maggio diventa una giornata di sangue, paradossalmente non voluta da nessuno, né dal popolo né da Ferdinando, una vicenda tragica - che valse al Re la taccia di "inimico pubblico e parricida" dal Parlamento Piemontese - animata dai "pazzi", mentre "non seppero impedirla i savi", nell'obiettivo commento del patriota Luigi Settembrini.

Il Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie del 16 maggio 1848,
il giorno successivo alla rivolta di Napoli.
(da notare l'aggettivo "costituzionale", introdotto dal 18 marzo).
  Re Ferdinando II rimase profondamente impressionato dai luttuosi eventi del 15 maggio
e probabilmente ne fu condizionato in tutti i suoi comportamenti successivi.
La ferita del 15 maggio non si rimarginò più
e forse il Re si convinse dell'equazione "Costituzione uguale Rivoluzione",
senza tuttavia revocare il testo, almeno formalmente,
perché "ho giurato la Costituzione e la manterrò, se io non volevo darla, non l'avrei data".

27 maggio 1848. Il Parlamento Siciliano cambia il simbolo dell'Isola: la Trinacria è posta al centro del tricolore italiano.

"Il Parlamento decreta:
Che qui innanzi lo stemma della Sicilia sia il segno della Trinacria senza leggenda di sorta.
Fatto e deliberato in Palermo lì 28 marzo 1848".
L'adozione del tricolore con al centro lo storico simbolo della Sicilia
portò a identificare la rivolta anti-borbonica in chiave "unitaria",
laddove la ribellione aveva un'origine "separatista".
All'idea di un'Italia "una, libera, forte, indipendente da ogni supremazia straniera e morale",
nella celebre immagine di Giuseppe Mazzini,
faceva da contraltare una Sicilia indipendente, al più confederata con gli altri Stati italici,
cosicché il contributo del popolo siciliano al Risorgimento
andrebbe propriamente letto e interpretato in senso anti-borbonico e, soprattutto, autonomista,
anche se poi l'indipendentismo siciliano perse di forza e prestigio
e si posero le premesse per la confluenza della cultura isolana nel movimento unitario nazionale,
per saldare le ragioni del separatismo con la formazione di uno nuovo Stato. 

2 luglio 1848. E' un giorno nodale, la sconfitta di Carlo Alberto, a Custoza, contro gli austriaci. La guerra è iniziata nel marzo del 1848, preceduta dalle sommosse nelle città di Venezia e Milano, con le sue celeberrime Cinque Giornate. Da un lato il Regno di Sardegna, promotore del conflitto, dall'altro l'Impero Austriaco. Lo schieramento sardo vanta al principio l'appoggio dello Stato Pontificio e del Regno delle Due Sicilie, finché Papa Pio IX non sconfessa l'azione del suo esercito - già penetrato in Veneto - con l'allocuzione "Non semel", al concistoro del 29 aprile 1848. La condanna papale - motivata dall'inopportunità politica di combattere una grande Potenza cattolica - rompe un equilibrio già di per sé precario. La notizia arriva al quartier generale piemontese il 2 maggio, vissuta con grande apprensione. "L'allocuzione del Papa è un fatto che può avere conseguenze immense", scriverà Carlo Alberto al Ministro Thaon di Revel. Il disimpegno dello Stato Pontificio fa da sponda alla retromarcia delle Due Sicilie. Il corpo di spedizione napoletano - in procinto di entrare in Veneto - è raggiunto dall'ordine di fermarsi e rientrare. Ferdinando ha così ricomposto il rapporto con una potenza - l'Austria - tradizionale alleata del Regno. D'altra parte, il Re di Sardegna appare impegnato non già in una guerra di indipendenza, bensì nel più classico dei conflitti dinastici, con mire espansionistiche che porterebbero all'ingrandimento del suo Stato e a minacciare l'indipendenza degli altri (tra cui il Ducato di Parma, retto da un ramo borbonico, e la stessa Sicilia, dove il governo rivoluzionario ha inviato una delegazione a Torino per offrire la Corona a un principe sabaudo, pur declinata da Carlo Alberto). Pure, se da un lato il "partito albertista" sollecita il contributo di Ferdinando, dall'altro non si pronuncia sullo sbocco della guerra in caso di vittoria: se conservare le dinastie sui loro troni e legarle con vincoli federativi, o procedere a una fusione sotto l'egida di Casa Savoia, oppure immaginare una confederazione con la soppressione delle presenze - i Lorena e gli Asburgo - di origine straniera. Le prospettive sono incerte, potenzialmente destabilizzanti. Ma più d'ogni altra ragione Re Ferdinando vuol defilarsi per dedicarsi interamente alla riconquista della Sicilia. Quando lo squilibrio tra le forze in campo diventa manifesto, e l'Austria ne esce vincente, non c'è più ragione di attendere. Un corpo di oltre quindicimila soldati - capitanato dal generale Carlo Filangieri - salperà da Napoli il 30 agosto, sbarcherà a Reggio il 3 settembre, per dar inizio alle operazioni belliche il 6 settembre.

10 luglio 1848. La Sicilia promulga una nuova Costituzione.


 "La Sicilia sarà sempre Stato indipendente.
Il re dei Siciliano non potrà regnare o governare su verun altro paese.
Ciò avvenendo sarà decaduto ipso facto.
La sola accettazione di un altro principato o governo
lo farò anche incorrere ipso facto nella decadenza"
 (Titolo Primo, articolo 2)

3-6 settembre 1848.  Sono i giorni dell'assedio di Messina, che ritorna borbonica. La riconquista costa a Ferdinando l'appellativo di "Re Bomba", per la decisione di bombardare la città in modo prolungato e indiscriminato, sino alla capitolazione, al culmine di una serrata sequenza di azioni militari di diversa portata. Le truppe regie entrano in città, la saccheggiano, e solo la diplomazia internazionale - che aveva già stigmatizzato l'offensiva borbonica - permetterà un armistizio per evitare ulteriori afflizioni alla popolazione.

28 febbraio 1849. Ferdinando conferma l'unità del Regno delle Due Sicilie, col decreto conosciuto come Ultimatum di Gaeta, tra lo sdegno dei siciliani che abbozzano ancora un focolaio di ribellione, annichilito dalle truppe regie.

7 aprile 1849. La città di Catania torna in mano ai Borbone.

22 aprile 1849. Il Governo siciliano rassegna le dimissioni, le antiche corporazionise ne insediano uno nuovo, che offre subito la propria resa. La supremazia borbonica è totale. "Re Bomba" può concedersi persino il lusso di un atto di clemenza, l'amnistia per gran parte dei rivoltosi. L'ultimo Stato indipendente di Sicilia spira dopo diciassette mesi.

14 maggio 1849. Il comandante Filangieri riprende possesso di Palermo. I pochi esclusi dall'amnistia si sparpaglieranno tra Malta, Genova, Torino e Londra. Molti di loro, a distanza di un decennio, condivideranno la causa risorgimentale, contribuendo a preparare la Spedizione dei Mille.

15 maggio 1849. Le truppe regie hanno ragione dei rivoltosi anche a Napoli; il Parlamento viene definitivamente sciolto.
 
Il successo di Ferdinando è netto, e tuttavia rimane di breve respiro, come d'altra parte la repressione di tutti i moti del '48, che lasciano comunque ferite profonde in ogni Stato e rappresentano uno spartiacque nella situazione politica di gran parte dell'Europa.

La pervicace indifferenza di Re Ferdinando verso ciò che accade fuori dal Regno non gli permette di scorgere i nessi con i disegni delle altre potenze. L'ostilità con l'Inghilterra diventa manifesta. Londra censura l'esito della rivoluzione del 1848, con una nota ufficiale del 15 settembre 1849. La rivolta - nell'opinione inglese - aveva radici profonde, era motivata dai ripetuti abusi del governo borbonico e i britannici non avrebbero assistito passivamente a una nuova crisi tra il governo di Napoli e il popolo siciliano. La minaccia suona a vuoto. Ferdinando fornisce anzi una seconda prova di carattere, nel 1855, sfilandosi dalla Guerra di Crimea - che trova invece Cavour al fianco di Francia e Inghilterra, contro la Russia -  in linea col disimpegno dalla Guerra Carlista. Francesco Saverio Nitti - Presidente del Consiglio del Regno d'Italia, più volte Ministro - parlerà di Ferdinando II come di un sovrano che regnò "senza guardare all'avvenire".

Il Regno delle Due Sicilie visse una politica estera travagliata, aggravata dall'opposizione interna.
I dispacci degli ambasciatori stranieri, la "Protesta" del Settembrini, 
e poi ancora le lettere di Gladstone e l'opuscolo di Scialoia 
 diffusero nelle Corti e nelle Cancellerie internazionali l'idea di delegittimare Ferdinando II,
sino a mettere in dubbio la compatibilità dell'intero Regno col quadro politico europeo.
Francia, Inghilterra e Austria guardavano con preoccupazione alla situazione delle Due Sicilie,
si interrogavano sulle capacità di tenuta dello Stato e delle sue istituzioni,
scommettevano e giocavano sull'integrità territoriale del Regno, seppur per ragioni diverse.
L'attenzione delle Potenze europee non era disgiunta da una manifesta ipocrisia.
C'è da chiedersi, a esempio, da dove derivasse  la "tenerezza" inglese verso le insurrezioni siciliane, 
quando Londra aveva condannato gli insorti di Cuba, che avevano tenuto lo stesso atteggiamento.
Forse perché una Cuba indipendente sarebbe diventata un protettorato statunitense,
laddove un diverso Regno di Sicilia avrebbe favorito  gli interessi britannici nel Mediterraneo,
 quasi fosse una Malta più grande?

L'8 dicembre 1856 il militare Agesilao Milano trapassa il Re con la lama della propria baionetta, durante la visita del sovrano al Campo Marte, dopo la cerimonia dell'Immacolata. Il soldato traditore è condannato a morte, il Re sopravvive, ma la ferita, mal curata, non smetterà più di dargli noie.
 
All'inizio del 1859, contro il parere dei medici, Ferdinando è in viaggio per accogliere la sorella della principessa Sissi, novella sposa del primogenito Francesco, erede al trono. Le sue condizioni fisiche ne risentono, la salute si aggrava, e sarà troppo tardi, quando finalmente ci si deciderà per l'intervento chirurgico.
 
Il Re ci lascia il 22 maggio 1859, a Caserta.

"Raccomando a Dio l'anima mia, e chiedo perdono ai miei sudditi
per qualunque mia mancanza verso di loro, e come sovrano e come uomo.
Voglio che, eccetto le spettanze matrimoniali alla Regina,
e gli oggetti preziosi con diamanti al mio primogenito,
si facciano della mia eredità dodici uguali porzioni:
vadano una alla Regina, e dieci ai miei dieci cari figli. 
La dodicesima a disposizione del primogenito,
stabilisca Messe per l'anima mia, sussidii a' poveri,  e restauri e costruzioni di chiese
nei paesetti che ne mancassero sul continente e in Sicilia"
(Dal testamento di Re Ferdinando II di Borbone)

La prerogativa delle monarchie ereditarie sta nella continuità delle istituzioni e dell'esercizio del potere, nella transizione da Sovrano all'altro; ma il prematuro passaggio di consegne a Francesco II genera un vuoto d'aria, rimette molte cose in discussione.
 
Francia e Inghilterra provano a riallacciare le relazioni diplomatiche; l'Austria vuol preservare l'antica alleanza, rinsaldata dal matrimonio tra Francesco e Maria SofiaCavour propone un'intesa, uno schieramento al suo fianco proprio contro gli austriaci, in cambio della garanzia dell'integrità territoriale del Regno, inclusa la Sicilia.
 
Francesco fa muro. Preserva nella dura politica del genitore, senza però averne la forza, per poi virare all'improvviso, una scelta che sarà un suicidio politico, pur col romantico epilogo della resistenza di Gaeta.

Francesco II di Borbone, l'ultimo Re di Napoli.
E' probabilmente il sovrano più oltraggiato dalla storiografia di matrice ideologica,
con la costruzione di un cliché cui fa gioco la breve e travagliata durata del suo regno.
Giovane, inesperto, timido, impreparato all'arte politica e al comando,
schiacciato dall'ingombrante personalità paterna,
e poi, ancora, credulone e superstizioso, sol perché credente e di delicata spiritualità.
 All'epoca i contemporanei lo sminuivano coi vezzeggiativi "Franceschiello" e "Checco Bombino".
La figura di Re Francesco II meriterebbe tuttavia un'indagine più approfondita
due sue celebri prese di posizione possono forse stimolare la curiosità.
La prima, nel celebre proclama di Gaeta dell'8 dicembre 1860,
col Regno delle Due Sicilie ormai seppellito: 
"nato tra voi, non ho respirato altra aria,
non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio.
Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno:
i vostri costumi sono i miei costumi; la vostra lingua e la mia lingua;
le vostre ambizioni mie ambizioni".
La seconda, nella lettera  di risposta al Barone von Hubner, diplomatico austriaco,
che nel 1870 si offriva di mediare per il recupero di almeno una parte del patrimonio del Re,
all'indomani della partenza di Francesco da un agonizzante Stato Pontificio:
"La restituzione del mio non mi adesca.
Quando si perde un trono, poco importa il patrimonio.
Se l'abbia l'usurpatore o lo restituisca, né quello mi strappa un lamento, né questo un sorriso.
Povero sono, come oggi tanti altri migliori di me.
Il mio onore non è in vendita".

Ferdinando I (1816-1825)
Francesco I (1825-1830)
  Ferdinando II (1830 - 1859)
  Francesco II (1859-1861)

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