IL GRANDE TESSITORE
IL GRANDE TESSITORE
- libera trascrizione della splendida lezione del Professor Alessandro Barbero -
Una vignetta satirica dell'epoca, ispirata ai "Promessi Sposi" di Manzoni:
il Regno di Sardegna e l'Italia sono Renzo e Lucia,
in mezzo c'è Don Abbondio con le fattezze di Cavour,
sotto lo sguardo di Don Rodrigo col volto di Napoleone III.
La vignetta fotografa le sensazioni e le credenze del momento,
così sorprendentemente diverse dal corso che poi prenderà la storia.
Anno 1848. L'Europa è capovolta. Poi però fa ancora un giro, e torna come prima. Anzi peggio. E' la restaurazione della restaurazione. Politiche ancora più repressive, censura ancora più stringete. L'Austria ha piazzato le sue truppe nelle Legazioni Pontificie e nel Granducato di Toscana, con l'assenso di Pio IX e di Leopoldo II. Nel Lombardo Veneto ci si va con mano pesante verso chi si era schierato con i rivoluzionari. Il Regno delle Due Sicilie rinsalda i legami con lo Stato Pontificio, l'Impero austriaco e la Russia, lo zoccolo duro dell'Europa tradizionalista e reazionaria. Gli eventi bellici hanno avuto una lunga coda velenosa per il Regno di Sardegna: la sconfitta di Novara nel 1849 contro gli austriaci e poi la dura repressione dei moti di Genova. Carlo Alberto ha abdicato. Al comando del Piemonte sabaudo c'è ora Re Vittorio Emanuele II.il Regno di Sardegna e l'Italia sono Renzo e Lucia,
in mezzo c'è Don Abbondio con le fattezze di Cavour,
sotto lo sguardo di Don Rodrigo col volto di Napoleone III.
La vignetta fotografa le sensazioni e le credenze del momento,
così sorprendentemente diverse dal corso che poi prenderà la storia.
Regno di Sardegna, 1851.
I emissione.
5 centesimi nero.
Era stato inutile il Quarantotto? Nell'autunno del 1849 sembrava di sì, a un esame superficiale. Le Case Reali guardavano in cagnesco la Corte di Torino, colpevole di aver ignorato i rapporti di buon vicinato con l'Austria, di esser penetrata in una sua Provincia - il Regno del Lombardo-Veneto - per sostenere la rivoluzione contro la sovranità di un potere legittimo. Il Piemonte subiva ora un isolamento internazionale, oltre a dover gestire deficit, disoccupazione, inflazione, e tutte le altre tristi eredità proprie di una guerra.I emissione.
5 centesimi nero.
Ma quel convulso periodo - nel risolversi in un fallimento militare, con le sue pesanti conseguenze economiche - aveva anche gettato le fondamenta di matrice politica e sociale, e sin anche filosofica, culturale e artistica, per la nascita dello Stato nazionale. I movimenti liberali - addirittura democratici e repubblicani - avevano avuto per la prima volta un eco internazionale. Era finita l'era di Metternich e dei suoi accoliti. Erano entrate in circolo le discussioni sul suffragio universale e sulla volontà popolare.
In anni segnati da prospettive svanite, da passioni sopite e forze scemate, il Regno di Sardegna rimaneva il solo orizzonte per un progetto nazionale, moderno e riformista, l'unica possibilità, sebbene remota, per un rifiorire di entusiasmi e speranze. Lo Statuto Albertino era ancora lì e - per quanto moderato - rendeva il Piemonte lo Stato più liberale della penisola. Poco importa se la prassi applicativa di quegli 84 articoli ne avrebbe spesso stravolto la lettera e lo spirito: il permanere della Carta - con le parole di Gigi Di Fiore - "si tramutò, nelle entusiastiche interpretazioni storiche successive, in un simbolo etico della liberalità dei Savoia, quale dinastia predestinata a compiere l'unità della nazione".
La prima pagina dello Statuto Albertino.
Mater semper certa est, pater numquam. Così si dice, e così è in generale, ma l'Italia riesce a essere una vistosa eccezione persino in questo caso ovvio. Per l'Italia vale il contrario. Se la mater fu genericamente l'ambiente politico e sociale del Piemonte - l'unica meta possibile per gli esuli alla ricerca di un rifugio, l'unico riparo immaginabile dalle repressioni degli altri Stati, il solo riferimento liberale presso l'opinione pubblica - il pater è invece individuabile in una figura precisa, con un nome, un cognome e un titolo nobiliare: Camillo Benso Conte di Cavour, colui che all'età di 22 anni - col tipico atteggiarsi del ragazzo convinto di essere ormai adulto - ricordava con disincanto le sue ambizioni giovanili, "quando avrei creduto del tutto naturale risvegliarmi un bel mattino Primo Ministro del Regno di Italia".
Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, Conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella - più semplicemente Cavour - è sinonimo di calcolo e strategia, di freddo ragionamento. Cavour è per tutti il Grande Tessitore, e già lo si immagina nel suo studio a progettare piani raffinati, a ordire le più astute trame politiche, con scrupolo, pazienza e lucidità. Poi, però, al Tessitore si presentano anche le occasioni, e allora serve far sponda sulle contingenze, occorrono il fiuto e l'amore per il rischio, le classiche caratteristiche dell'uomo passionale, del giocatore d'azzardo.
Cavour è un italiano sui generis. La lingua italiana - per dire - non la padroneggia. "Io devo fare l'umiliante confessione che la lingua italiana mi è rimasta sino a oggi completamente estranea" - scrive in una lettera in francese - "Non solo non saprei servirmene con eleganza, ma mi sarebbe impossibile evitare di commettere errori, numerosi e grossolani". Camillo parla francese, e per tutta la vita parlerà e scriverà meglio in francese che in italiano, perché appartiene a quella generazione di piemontesi abituata a esprimersi in francese, tecnicamente nata in Francia. Torino è una provincia dell'Impero di Napoleone, in quel 10 agosto del 1810.
il francese è la lingua ordinaria della borghesia e dell'aristocrazia piemontese,
come testimonia questa lettera del 30 gennaio 1819.
Sulla missiva compare un'impronta che i collezionisti chiamano oggi "Cavallino",
un genietto a cavallo con un corno di posta e l'indicazione del valore, di colore azzurro.
La sua genesi riveste particolare interesse, perché lo rende un francobollo ante litteram.
Il Regno di Sardegna subiva all'epoca la concorrenza di privati per l'inoltro della corrispondenza.
L'Editto del 12 agosto 1818 statuì un diritto di monopolio del servizio postale
e proibì "espressamente [...], a chicchessia di fare questo trasporto".
La riscossione della tassa postale si rivelò tuttavia farraginosa,
per il gran numero di registrazioni e verifiche richieste dalla procedura.
Così, per semplificare gli adempimenti burocratici,
l'Amministrazione delle Poste ideò una carta da lettera già bollata
- un doppio foglio con impresso al centro il "Cavallino" -
e stabilì la libera circolazione per tutte le lettere scritte su questa carta speciale.
Nasceva nel Regno di Sardegna, vent'anni prima del mitico "Penny Black",
l'idea del pagamento anticipato per il trasporto dalla corrispondenza,
l'intuizione di far pagare il servizio postale al mittente e non al destinatario,
nasceva in Piemonte la logica del francobollo.
Cavour è perfidamente italiano, cinicamente italiano, furbescamente italiano, ma italiano. "Grazie al cielo, malgrado tutte le delusioni, l'amore per la mia patria italiana non si è per nulla indebolito nel mio cuore" - scrive all'età di 25 anni - "Amo l'Italia, e la vorrei servire in qualche modo, vorrei contribuire al suo onore e alla sua gloria, non fosse che aggiungendo una sola pietruzza all'immenso edificio della sua letteratura e delle sue scienze".Sulla missiva compare un'impronta che i collezionisti chiamano oggi "Cavallino",
un genietto a cavallo con un corno di posta e l'indicazione del valore, di colore azzurro.
La sua genesi riveste particolare interesse, perché lo rende un francobollo ante litteram.
Il Regno di Sardegna subiva all'epoca la concorrenza di privati per l'inoltro della corrispondenza.
L'Editto del 12 agosto 1818 statuì un diritto di monopolio del servizio postale
La riscossione della tassa postale si rivelò tuttavia farraginosa,
per il gran numero di registrazioni e verifiche richieste dalla procedura.
Così, per semplificare gli adempimenti burocratici,
l'Amministrazione delle Poste ideò una carta da lettera già bollata
- un doppio foglio con impresso al centro il "Cavallino" -
e stabilì la libera circolazione per tutte le lettere scritte su questa carta speciale.
Nasceva nel Regno di Sardegna, vent'anni prima del mitico "Penny Black",
l'idea del pagamento anticipato per il trasporto dalla corrispondenza,
l'intuizione di far pagare il servizio postale al mittente e non al destinatario,
nasceva in Piemonte la logica del francobollo.
Dice di non avere fantasia, di non possedere inventiva, e però immagina l'Italia, in un mondo reazionario in cui Italia è una parola bandita. Un Regno di Italia c'è già stato, sotto Napoleone Bonaparte. Circolavano marenghi d'oro con l'effige dell'Imperatore e l'incisione "Dio salvi l'Italia". Ma Cavour immagina un'Italia unita figlia di italiani, espressione di una volontà italiana di riscatto e coesione, da modellare su un assetto istituzionale di stampo liberale.
La sua immaginazione si traduce in visione politica e poi in azione, e sono visioni e azioni sorprendenti e inaspettate, se si guarda all'ambiente culturale in cui Camillo è stato allevato. I Cavour sono un'antica famiglia aristocratica di origine medioevale, capace di galleggiare con tutti i regimi - l'Ancien Régime, Napoleone, la Restaurazione - perché tutti i Governi, a Torino, hanno bisogno dei Cavour. Appartenere all'alta nobiltà significa subire condizionamenti ideologici virtualmente impossibili da rimuovere. Far parte dell'aristocrazia significa vivere ogni giorno la violenta contrapposizione con una borghesia riottosa, "quegli insolenti avvocati, mercanti e popolani che si credono divenuti qualche cosa" - in uno borioso giudizio dell'epoca - contro si invocano "piombo e capestri" per contenerne l'esuberanza. Essere un Cavour vuol dire avvertire tutta l'insofferenza di un ambiente che si chiede quotidianamente "dove finirà questo Paese con tanti germi di liberalismo e democrazia".
Ma Cavour è una personalità forte, dominante, desiderosa di indipendenza e capace di autonomia di pensiero e di giudizio. Cavour è un liberale, e nel regime liberale ripone la sola possibilità di sopravvivenza della nobiltà stessa, di cui stigmatizza gli atteggiamenti inutilmente ostili, di arroccamento su posizioni superate dalla forza imperiosa delle cose. "L'unica salvezza per la classe aristocratica sta nel mettersi alla testa del movimento [liberale e progressista]", dirà nel commentare i moti rivoluzionari francesi del 1848. Argomenterà sulla necessità di preservare l'ordine, non con un aprioristico rifiuto del progresso, ma con un suo accorto filtraggio. Preciserà l'opportunità di farsi promotori delle riforme, per disegnarle a modo e pilotarle, anziché subirle come conseguenze di processi fuori controllo: "Le riforme, compiute a tempo, invece di indebolire l'autorità la rafforzano, invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario lo riducono all'impotenza". Condannerà - in modo colto e raffinato - la cieca repressione dei moti popolari, "senza sapere che la forza del gas cresce proporzionalmente alla pressione che sopporta". Propagandare simili idee - all'epoca - significa essere pericolosamente sovversivi.
La sua indole irrequieta e ribelle si manifesta sin dall'infanzia, si esaspera in gioventù e diventa manifesta in età adulta. Da bambino, all'età di 6 anni, si reca a Ginevra a trovare un amichetto. Ci sono stati degli intoppi lungo il viaggio, e il piccolo Cavour - una volta a destinazione - pretende e ottiene di conferire col sindaco, a cui chiede l'immediato licenziamento del mastro di posta, responsabile del ritardo. Dai 10 ai 15 anni frequenta l'Accademia Militare di Torino, dove sarà sanzionato a più riprese "per l'arrogante rifiuto di obbedire agli ordini e per il tono perentorio con cui si rivolge agli altri". Da adulto scoprirà di trovarsi nelle liste dei soggetti sospetti, a Genova come a Milano. Re Carlo Alberto lo definirà "un carbonaro impertinente", e poco importa che il Conte non sia mai stato affiliato né alla Carboneria né ad altre società segrete, ché certe sfumature sono irrilevanti: Cavour è semplicemente uno che sta dall'altra parte, e tanto basta a vedervi un pericoloso estremista.
Anche il suo aspetto fisico, le abitudini e i modi di fare sono parecchio distanti dall'icona dell'aristocratico. L'immagine di Cavour è ben nota: basso e panciuto, col faccione e gli occhialini, un stempiato e con la barba a collana, dall'abbigliamento trasandato, e poi - lo segnalano tutti i cronisti dell'epoca - con l'odiosa abitudine di fregarsi in continuazione le mani per manifestare la sua compiacenza. Angelo Brofferio - suo storico avversario politico - ne farà un ritratto impietoso: "il volume della persona, il volgare aspetto, il gesto ignobile, la voce ingrata". Però rimane un nobile, geneticamente nobile, e da nobile, di quando in quando, spurga anch'egli contro la borghesia. "Non si dirà che l'aristocrazia piemontese non paghi il suo tributo alla patria. Essa si fa uccidere sui campi, mentre gli avvocati la diffamano nei trivi e nei caffè", dirà con rabbia e dolore, nel commentare la morte del suo amatissimo nipote nella Battaglia di Goito.
Una figura ingarbugliata, dunque, sicuramente uno spirito disallineato e complicato da domare, anche perché inasprito dalla sua condizione di cadetto, di secondogenito della famiglia. Il regime napoleonico ha formalmente abolito ogni privilegio verso i primogeniti, ma l'aristocrazia piemontese ha trovato il modo di eludere la norma, e i secondogeniti delle famiglie nobili restano delle comparse, personaggi di secondo piano, destinate tra le altre cose a essere esclusi dall'eredità. "L'idea di essere cadetto continua a ossessionarlo, non la può accettare, sarà il tormento della sua vita", commenterà sua zia Vittoria, a cui Cavour è profondamente affezionato.
La famiglia se lo spiega così quel carattere indisponente, recalcitrante a uniformarsi alla tradizione. E' un cadetto! Patisce la sua condizione, poverino. Concediamogli di sfogarsi. Il risultato è un'adolescenza travagliata, amara, segnata da continui litigi col padre, che più volte minaccia di mandarlo a morire di fame in America, nell'evocazione della novità dell'epoca, l'emigrazione forzosa oltreoceano.
Ma i figli so' piezz 'e core, a Napoli come a Torino. Il padre lo introduce nel mondo degli affari - ché questo figlio cadetto dovrà pur far qualcosa nella vita, costruirsi una posizione, farsi valere, affermarsi - e Cavour beneficerà costantemente dei privilegi del suo ambiente di nascita, della prossimità di quell'ambiente ai quei centri di potere che per molti versi detesta, ma di cui al fondo condivide l'arroganza e il senso di distinzione.
Entra nel Consiglio di Amministrazione di una società ferroviaria, ché le ferrovie lo avevano stregato da quando, a 25 anni, aveva vissuto la straordinaria esperienza di un viaggio in treno da Liverpool a Manchester: 50 chilometri in un'ora e mezza, una di quelle cose che cambiano la visione del mondo. Dopo di allora avrà parole d'ordine chiare: progresso, modernizzazione, infrastrutture, ferrovie, ferrovie, ferrovie, porti, ferrovie, strade, ferrovie, canali, trafori, e ovviamente ferrovie.
Lo stile negli affari è lo stesso con cui poi condurrà il gioco politico, perché poco importa se si scende nell'agone in concorrenza con altre società, da confinare ai margini del mercato, o contro Potenze straniere, da scalzare dai territori italiani. Da un memoriale al Consiglio di Amministrazione: "noi siamo in grado di combattere ogni concorrenza che volesse prendere piede per farci del torto. Avendo accumulato fondi per fare la guerra ai nostri rivali, noi li schiacceremo senza difficoltà, prima che diventino pericolosi".
Cavour entra in affari, ovviamente per arricchirsi, e possibilmente in fretta. E' un mondo sorprendentemente moderno, o forse siamo noi a esser tornati a quel mondo, o a non essercene mai discostati. Arricchirsi in fretta è il desiderio di oggi come lo era di ieri, e già ieri, come oggi, la via migliore per realizzarlo era la speculazione di Borsa. C'è da accarezzare la vocazione del giocatore d'azzardo, e non certo l'atteggiamento del meticoloso tessitore. Cavour architetta un'enorme scommessa finanziaria, interamente basata sulla convinzione - supportata da informazioni riservate - di un Governo stabile, che rimarrà in carica nonostante le innumerevoli tribolazioni. Il Governo cade. Cavour è in rovina.
Un debito di 45.000 franchi - l'equivalente odierno di mezzo milione di euro - pesa sulla testa del Conte come una lama di ghigliottina. Cavour informa il padre da Parigi, supplicandolo di "non dire a mamma cosa mi è successo. Le darebbe troppo dolore". Non è una lettera semplice da scrivere. La famiglia è ricca, d'accordo, ma servono buoni argomenti, motivazioni più che convincenti, per giustificare l'immediata copertura di una perdita che brucia il reddito annuo delle due principali tenute a riso. "Bisogna pagare o farsi saltare le cervella". Il padre paga. Cavour è mortificato, avvilito, sinceramente dispiaciuto. Ha rischiato troppo, ne è consapevole, ma lui voleva solo darsi un tono per poter poi mettere su famiglia. "Lavoravo per farmi una posizione e sposarmi. Ebbene, ci rinuncio di tutto cuore. Saprò crearmi sufficienti interessi per non aver bisogno di una moglie e di bambini. D'ora in avanti rinuncio a tutto quello che sa di fortuna e di rischio".
E' di nuovo in affari, il Conte, ma stavolta su campi diversi, un filo meno lucrosi ma decisamente più solidi e sicuri. Amministra le tenute di famiglia e studia nuovi modi per accrescere il rendimento delle terre. Li scova e si arricchisce nuovamente. Non ha ancora 40 anni, e già è uno degli uomini più facoltosi del Regno di Sardegna. E' anche entrato con autorevolezza nella cerchia degli economisti, e da fine economista già scrive sul "commercio futuro dell'Italia", dell'Italia tutta intera, quando il condomino italiano era ancora formato da una pluralità di Stati per lo più sotto il dominio straniero.
Si avvicina il 1848, e più che il vento del cambiamento si sente la tromba d'aria della rivoluzione. Tutti parlano ovunque di Costituzione - nel Regno di Sardegna, più sobriamente, di Statuto -, una virata politica decisiva verso il liberalismo. Costituzione significa Parlamento, partiti, elezioni, giornali, vuol dire far sentire la propria voce, avere il diritto al voto. Non votano tutti, non ancora. Vota solo chi possiede un certo status, chi può esibire precise condizioni di censo, di classe sociale. C'è chi reclama la più ampia estensione del diritto di voto, chi vorrebbe coinvolgere nel processo elettivo anche gli operai e i contadini. Quelli sono i democratici, e sono figure inquietanti, perché auspicano scenari politici e sociali percepiti come estremizzazioni di un sistema già di per sé assurdo.
Cavour conserverà sempre la sua anima liberale, ma non sarà mai un democratico. Sosterrà invariabilmente forme "limitate" di libertà, che all'epoca erano peraltro lo "standard". La sua caratura politica è tutta nel saper stare lontano dagli estremi, nell'aver intuito che quando il pendolo della politica è sospinto a sinistra, verso la rivoluzione, l'anarchia e l'impazienza, poi tornerà spontaneamente e a destra, verso le sciabole dei governi militari. "Venire sommersi dalle onde dell'anarchia o incatenati al potere della sciabola" sono i due pericoli percepiti da Cavour dopo la disfatta di Novara, e contro cui lotterà per tutta la vita, picchiando allo stesso modo a destra e a sinistra, sui neri e sui rossi, piallando ogni estremo come uno schiacciasassi.
"E' necessario e indispensabile costituire un partito liberale conservatore". Cavour pensa a una monarchia parlamentare, un assetto istituzionale in cui in cui c'è la possibilità di fondare partiti e "fare politica", un mondo in cui sopravvivono ancora il Re e i suoi Ministri, ma in cui c'è anche un Parlamento a cui Re e Ministri devono rispondere. E in cui poi ci sono i giornali: perché la comunicazione è tutto in questo nuovo mondo e la comunicazione urbi et orbi - all'epoca - passa attraverso il canale esclusivo dei giornali. Chi ha velleità politiche deve avere stretti e continui contatti col mondo del giornalismo, e magari essere egli stesso un giornalista. Cavour scopre un universo nel quale lanciarsi con ardore, con l'atteggiamento di chi - ancora una volta - ha voglia di prendere rischi e vivere un'avventura. Decide di fare il giornalista, e fare il giornalista, per lui, può significare solo una cosa: possedere un giornale tutto suo. Lo fonda e lo chiama "IL RISORGIMENTO", parola centrale nel lessico della propaganda politica di metà Ottocento.
La parola 'Risorgimento" significa resurrezione, rinascita, riscossa.
"Nasce negli ambienti intellettuali alla metà del XVIII secolo,
sotto l’influenza del pensiero illuministico inglese e francese.
E in principio ha un significato nobile e semplice:
risorgere da uno stato di degradazione civile, individuale e collettiva,
facendo propri quei valori di libertà e dignità sostenuti dalle rivoluzioni democratiche del Settecento.
All'inizio nella parola Risorgimento non è implicito il progetto di unificare l’Italia,
ma di liberarla dall'Austria e conferire agli italiani una dignità di cittadini,
simile a quella conquistata tra il Settecento e l'Ottocento da inglesi, americani e francesi.
Un'ansia di riscatto assimilabile a un nuovo Rinascimento,
ossia il desiderio di recuperare in Italia una gloriosa tradizione
che dall'anno Mille - dopo cinque secoli di decadenza barbarica - fino al XVI secolo
aveva rappresentato in Europa un primato economico e culturale".
(Emilio Gentile)
"Nei dizionari italiani di inizio Ottocento il termine ha un solo significato: 'risurrezione'.
E' bene ricordare questa risonanza religiosa, poiché essa presenta, in forma di slogan,
una delle componenti più importanti dell'ideologia nazional-partiottica;
e in effetti il termine [...] allude alla 'risurrezione' della patria,
caduta sotto i colpi delle invasioni straniere e delle divisioni intestine"
(Alberto Mario Banti)
sotto l’influenza del pensiero illuministico inglese e francese.
E in principio ha un significato nobile e semplice:
risorgere da uno stato di degradazione civile, individuale e collettiva,
facendo propri quei valori di libertà e dignità sostenuti dalle rivoluzioni democratiche del Settecento.
All'inizio nella parola Risorgimento non è implicito il progetto di unificare l’Italia,
ma di liberarla dall'Austria e conferire agli italiani una dignità di cittadini,
simile a quella conquistata tra il Settecento e l'Ottocento da inglesi, americani e francesi.
Un'ansia di riscatto assimilabile a un nuovo Rinascimento,
ossia il desiderio di recuperare in Italia una gloriosa tradizione
che dall'anno Mille - dopo cinque secoli di decadenza barbarica - fino al XVI secolo
aveva rappresentato in Europa un primato economico e culturale".
(Emilio Gentile)
"Nei dizionari italiani di inizio Ottocento il termine ha un solo significato: 'risurrezione'.
E' bene ricordare questa risonanza religiosa, poiché essa presenta, in forma di slogan,
una delle componenti più importanti dell'ideologia nazional-partiottica;
e in effetti il termine [...] allude alla 'risurrezione' della patria,
caduta sotto i colpi delle invasioni straniere e delle divisioni intestine"
(Alberto Mario Banti)
Cavour è abile nel fiutare gli umori dell'opinione pubblica, nel tenersi al corrente delle situazioni, e ben presto l'attività giornalistica regredisce a semplice sponda per il vero obiettivo: entrare in politica.
Presenta la propria candidatura e ... non viene eletto! Peggio ancora: è l'unico giornalista - tra i giornalisti candidati - a non aver strappato un consenso sufficiente. Prenderla con leggerezza e farsene una ragione non sono stati d'animo che gli appartengono. "Oh, dura sorte! Solo tra i giornalisti mi trovo escluso dalla Camera. Dopo aver lavorato nel campo della politica altrettanto se non di più di qualunque mio collega giornalista, sono il solo rigettato dal Paese".
Però ha fortuna. C'è un elezione supplementare, e da lì entra in Parlamento. L'ambiente è confuso, disordinato, isterico. La politica fatica a metabolizzare gli eventi del 1848 e i suoi strascichi, le severe sconfitte di Custoza e Novara, la cieca repressione verso la città di Genova. Poi un galantuomo prende il comando del Governo. E' Massimo d'Azeglio, incaricato di ricomporre un Regno malandato quanto si vuole, in cui però sopravvive quello Statuto Albertino che lo rende l'unico Stato costituzionale. Sta per iniziare una stagione straordinaria. Cavour lo intuisce e vuole starci dentro, in prima linea. Le vesti di deputato iniziano a star strette. Vuol scalare posizioni e annoverarsi tra i Ministri del Regno. E' pur sempre un rinomato economista, il più celebre nel Regno di Sardegna, e matura la legittima aspettativa di una convocazione alle Finanze. Massimo d'Azeglio non lo chiama. Prenderla con leggerezza e farsene una ragione - ancora una volta - non sono atteggiamenti nelle sue corde. Esce di scena, si auto-esilia in campagna, e lascia per iscritto tutta la sua irritazione. "Almeno qui avrò la consolazione di vivere come se quella puttana di Italia non esistesse". La paragona a una puttana, ma è comunque l'Italia, ancora l'Italia, l'Italia nel bene e nel male.
In campagna c'è aria buona, ma la campagna non è - non può essere - l'elemento naturale di un Conte. Cavour tallona d'Azeglio, lo marca stretto, se lo lavora ai fianchi, sino a quando non si risolve a chiamarlo, nel 1851, prima con incarichi minori, poi finalmente alle Finanze. E' stata un'acquisizione travagliata, ma d'Azeglio ne ora è sinceramente compiaciuto. C'è bisogno di lottatori, di politici capaci di padroneggiare il Parlamento e tener testa agli avversari, e Cavour è proprio "un gallo da combattimento, specialità che ci mancava". Re Vittorio Emanuele si piega alla volontà del suo Primo Ministro, ma rimane perplesso, titubante. "Ma come? Non vedono lor signori che quell'uomo lì li manderà tutti col culo per terra?". Quell'uomo lì è Camillo Benso, Conte di Cavour, che il Re conosce meglio di tutti gli altri. Se fare il giornalista significava possedere un giornale, allora fare politica non poteva certo voler dire essere soltanto un deputato tra i tanti o un Ministro tra i pochi. Fare politica - per il Conte Cavour - voleva dire solo una cosa: fare il Primo Ministro.
Cavour lavora incessantemente per sfiduciare d'Azeglio - Massimo stai sereno! - e prenderne il posto. Lui se ne accorge, preserva la facciata di rapporti cordiali, ma realizza di aver commesso uno sbaglio irreparabile. Cavour - ora divenuto "l'empio rivale" - lo scalza e lo sostituisce, e da Primo Ministro inizia a progettare l'evoluzione del Regno di Sardegna in Regno di Italia. Ma quale Italia? Un'Italia senza più stranieri a battere il passo sul territorio, un'Italia senza austriaci, sicuramente. E' ragionevole immaginare di più? Spingersi all'intera penisola? Significherebbe spazzar via il Regno più grande, con una storia secolare. Significherebbe detronizzare la dinastia dei Borbone, che sta lì - tra Napoli e Sicilia - da quattro generazioni. Il realismo politico impone prudenza. Che si inizi col Lombardo Veneto, intanto. E' geograficamente più vicino, gli animi sono più sensibili e c'è più voglia di partecipare. Cavour tesse la trama nella penombra dell'incertezza, senza sapere esattamente cosa verrà fuori, perciò rischia pure, accetta l'imprevisto, ma si tiene pronto a sfruttare l'occasione, se mai si presentasse. Getta rampini in ogni direzione, gioca su tutti i tavoli. Facciamo scoppiare una piccola rivoluzione da qualche parte? Si? Dove? Nei Ducati di Modena e Parma? Nel Granducato di Toscana? Vediamo, chi lo sa.
Cavour non aveva particolari inclinazioni per le pure teorie. Era un politico di professione, un diplomatico dalla coscienza elastica, che mirava all'obiettivo anche in modo rude, se occorreva. Era capace di azioni che esulavano da un rigido codice morale. Possedeva un'intuitiva comprensione dello scenario europeo, che gli permise di usare la politica degli altri Stati alla scopo di creare il proprio. Vedeva nella guerra un lasciapassare per un'infinità di occasioni. Ripeteva che l’astuzia in politica sta nelle mosse a sorpresa e nel prendere senza domandare. "Se la diplomazia fu impotente ricorriamo a mezzi extralegali. Moderato di opinioni, sono piuttosto favorevole ai mezzi estremi e audaci. In questo secolo ritengo essere sovente l'audacia la miglior politica, giovò a Napoleone, potrebbe giovare a noi".
La partecipazione del Piemonte alla Guerra di Crimea del 1854,
una tappa fondamentale (e poco conosciuta) del cammino di Cavour verso l'unità d'Italia.
"Una guerra assurda, incomprensibile e inutile"
- racconta il Professor Barbero -
"combattuta dalle due grandi potenze occidentali, l'Inghilterra e la Francia, le due potenze liberali,
contro l'Impero degli Zar, l'Impero più reazionario che ci sia,
e venduta all'opinione pubblica come una 'guerra santa',
addirittura una Crociata, contro l'Impero della frusta e dei cosacchi,
anche se fatta in alleanza con l'Impero Turco, che non è precisamente un baluardo democratico".
Cavour riesce a farne una sponda per il suo progetto di unificazione della penisola.
una tappa fondamentale (e poco conosciuta) del cammino di Cavour verso l'unità d'Italia.
"Una guerra assurda, incomprensibile e inutile"
- racconta il Professor Barbero -
"combattuta dalle due grandi potenze occidentali, l'Inghilterra e la Francia, le due potenze liberali,
contro l'Impero degli Zar, l'Impero più reazionario che ci sia,
e venduta all'opinione pubblica come una 'guerra santa',
addirittura una Crociata, contro l'Impero della frusta e dei cosacchi,
anche se fatta in alleanza con l'Impero Turco, che non è precisamente un baluardo democratico".
Cavour riesce a farne una sponda per il suo progetto di unificazione della penisola.
Sponsorizza la partecipazione del Piemonte per"rialzare la reputazione dell'Italia"
per "provare all'Europa che l'Italia ha senno civile abbastanza per governarsi regolarmente",
per "far vedere che il suo valore militare è pari a quello degli avi suoi".
Pazienza - ancora una volta - per l'approssimativo, imbarazzante, italiano del Conte.
L'importante è sedere al tavolo dei vincitori a seguito del successo militare,
aver posto la "questione italiana" al Congresso di Parigi del 1856,
aver sensibilizzato Francia e Inghilterra in chiave anti-austriaca.
Cavour non avrà nulla di concreto nell'immediato,
ma il Piemonte acquisirà un'insperata visibilità internazionale,
- un risultato straordinario se si pensa alla sua ridotta dimensione -
e si accrediterà come l'unico alfiere del movimento nazionale italiano.
Ducato di Parma, 1 giugno 1852.
La prima emissione completa: 5, 10, 15, 25, 40 centesimi.
Al Congresso di Parigi si negozia, si contratta, ma si gioca pure alla politica dinastica,
ci si diverte a spostare le Case Reali da un parte all'altra, sulla carta geografica.
Il Piemonte è la Cenerentola del Congresso, e però gradirebbe ingrandirsi, anche di poco.
Sul tavolo ci sono alcuni principati danubiani, la Moldavia e la Transilvania,
ma Re Vittorio Emanuele è innamorato del Ducato di Parma e dà precise indicazioni a Cavour:
"Secchi l'Imperatore finché basti. Dia i Principati all'Austria e anche al diavolo se li vuole,
ma si faccia dare quello che voglio", vale a dire il Ducato di Parma di Maria Luisa di Borbone.
Cavour sonda Napoleone III, e ne riceve un assenso di massima, pur condizionato:
"Trovate un posto qualunque dove mandare la Duchessa di Parma,
e io farò dare il suo Ducato al Piemonte".
Le mire piemontesi sul Ducato di Parma risalivano nel tempo.
Ne era consapevole il Re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone,
che rivendicava anch'egli incontestabili diritti dinastici sul piccolo Ducato.
Il 17 gennaio 1849, poco dopo l'elezione di Napoleone III a Presidente della Repubblica,
Re Ferdinando impartiva istruzioni al suo diplomatico a Parigi,
per una comunicazione ufficiale a Napoleone III, nella cui conclusione si legge:
"Infine, nonostante dalle apparenze sembri difficile la riunione del Congresso di Bruxelles,
pure si vocifera che si voglia in quello concedere al Governo del Piemonte
il Ducato di Parma e Piacenza, in compenso delle spese della guerra sinora sostenute.
Ove ciò seguisse, Voi non mancherete, per quanto la vostra posizione in Parigi lo permetterà,
di far valere i diritti, a voi ben noti, della nostra Real Corona, a quei Ducati.
E quando ciò non bastasse e si volesse assolutamente disporne,
userete quei mezzi, che nella vostra saviezza e nelle presenti circostanze d'Europa
giudicherete più convenienti a serbare integre le Nostre prerogative".
Non se ne farà niente, né nel '49 né nel '56, ma Cavour incasserà ora le simpatie dell'Imperatore,
rientrerà a Torino con la consapevolezza di avere Napoleone III dalla propria parte.
per "provare all'Europa che l'Italia ha senno civile abbastanza per governarsi regolarmente",
per "far vedere che il suo valore militare è pari a quello degli avi suoi".
Pazienza - ancora una volta - per l'approssimativo, imbarazzante, italiano del Conte.
L'importante è sedere al tavolo dei vincitori a seguito del successo militare,
aver posto la "questione italiana" al Congresso di Parigi del 1856,
aver sensibilizzato Francia e Inghilterra in chiave anti-austriaca.
Cavour non avrà nulla di concreto nell'immediato,
ma il Piemonte acquisirà un'insperata visibilità internazionale,
- un risultato straordinario se si pensa alla sua ridotta dimensione -
e si accrediterà come l'unico alfiere del movimento nazionale italiano.
La prima emissione completa: 5, 10, 15, 25, 40 centesimi.
Al Congresso di Parigi si negozia, si contratta, ma si gioca pure alla politica dinastica,
ci si diverte a spostare le Case Reali da un parte all'altra, sulla carta geografica.
Il Piemonte è la Cenerentola del Congresso, e però gradirebbe ingrandirsi, anche di poco.
Sul tavolo ci sono alcuni principati danubiani, la Moldavia e la Transilvania,
ma Re Vittorio Emanuele è innamorato del Ducato di Parma e dà precise indicazioni a Cavour:
"Secchi l'Imperatore finché basti. Dia i Principati all'Austria e anche al diavolo se li vuole,
ma si faccia dare quello che voglio", vale a dire il Ducato di Parma di Maria Luisa di Borbone.
Cavour sonda Napoleone III, e ne riceve un assenso di massima, pur condizionato:
"Trovate un posto qualunque dove mandare la Duchessa di Parma,
e io farò dare il suo Ducato al Piemonte".
Le mire piemontesi sul Ducato di Parma risalivano nel tempo.
Ne era consapevole il Re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone,
che rivendicava anch'egli incontestabili diritti dinastici sul piccolo Ducato.
Il 17 gennaio 1849, poco dopo l'elezione di Napoleone III a Presidente della Repubblica,
Re Ferdinando impartiva istruzioni al suo diplomatico a Parigi,
per una comunicazione ufficiale a Napoleone III, nella cui conclusione si legge:
"Infine, nonostante dalle apparenze sembri difficile la riunione del Congresso di Bruxelles,
pure si vocifera che si voglia in quello concedere al Governo del Piemonte
il Ducato di Parma e Piacenza, in compenso delle spese della guerra sinora sostenute.
Ove ciò seguisse, Voi non mancherete, per quanto la vostra posizione in Parigi lo permetterà,
di far valere i diritti, a voi ben noti, della nostra Real Corona, a quei Ducati.
E quando ciò non bastasse e si volesse assolutamente disporne,
userete quei mezzi, che nella vostra saviezza e nelle presenti circostanze d'Europa
giudicherete più convenienti a serbare integre le Nostre prerogative".
Non se ne farà niente, né nel '49 né nel '56, ma Cavour incasserà ora le simpatie dell'Imperatore,
rientrerà a Torino con la consapevolezza di avere Napoleone III dalla propria parte.
La Francia di Napoleone III avrà un ruolo cruciale nella Seconda Guerra di Indipendenza,
dalla possibilità stessa di dichiararla, alla sua conduzione sul campo, sino ai suoi esiti.
Napoleone III porta addosso un nome impegnativo, il nome dello zio,
perché Napoleone III è un nipote, il figlio del fratello dell'inarrivabile Napoleone Bonaparte.
E' anch'egli un personaggio notevole, di spessore, dalle incredibili risorse,
anche se il suo ricordo è poi rimasto appannato dalla scellerata guerra contro la Prussia
(che lo costrinse ad abdicare e diede modo al Piemonte di invadere lo Stato Pontificio).
Nel 1859, allo scoppio della Seconda Guerra di Indipendenza, è un avventuriero di 50 anni,
che ha trascorso l'intera vita a cospirare per diventare Imperatore, proprio come lo zio.
Alla fine c'è riuscito, anche se nel modo più imprevisto.
Nel 1848 i francesi ripristinano la Repubblica, ma nel popolo sopravvive il desiderio dell'uomo forte,
una prospettiva che rimane affascinante e coinvolgente, dopo l'esperienza del primo Napoleone.
Così i francesi fondano sì la Repubblica, ma ... chi eleggono Presidente? Il Principe Napoleone!
C'è solo un passo dalla legittimazione popolare al colpo di Stato alla proclamazione dell'Impero,
anche se nel mezzo di quell'unico passo ci sono centinaia di morti e migliaia di carcerati.
Poi, dopo aver represso la ribellione di piazza con la violenza,
il nuovo Imperatore ripristina il suffragio universale, annuncia il plebiscito,
e i francesi lo eleggono Imperatore, confermando "dal basso" quel titolo acquisito con la forza.
Napoleone III passerà tutta la vita così, a barcamenarsi tra poli opposti,
una condotta che assurgerà addirittura a categoria politica: il bonapartismo.
E' un dittatore, sì, ma col consenso del popolo.
Governa coi corpi segreti di polizia, e però ci sono i plebisciti.
Controlla i giornali, ma c'è anche un Parlamento.
E' tutto un continuo gioco di equilibri precari, instabili,
tra la destra clericale e la sinistra rivoluzionaria.
"Chi è in fondo questo Napoleone III? E' l'ultimo dei sovrani d'Europa.
Un intruso fra noi. Farebbe bene a ricordarsi chi è lui e chi sono io,
che rappresento la più antica dinastia regnante".
L'abrasivo giudizio di Re Vittorio Emanuele
incrociò tutta la flemma dell'ambasciatore francese,
quando il Re realizzò d'aver esagerato e tentò di rettificare.
"Vostra Maestà voglia scusarmi di non aver potuto sentire una sola delle parole che ha pronunciato".
dalla possibilità stessa di dichiararla, alla sua conduzione sul campo, sino ai suoi esiti.
Napoleone III porta addosso un nome impegnativo, il nome dello zio,
perché Napoleone III è un nipote, il figlio del fratello dell'inarrivabile Napoleone Bonaparte.
E' anch'egli un personaggio notevole, di spessore, dalle incredibili risorse,
anche se il suo ricordo è poi rimasto appannato dalla scellerata guerra contro la Prussia
(che lo costrinse ad abdicare e diede modo al Piemonte di invadere lo Stato Pontificio).
Nel 1859, allo scoppio della Seconda Guerra di Indipendenza, è un avventuriero di 50 anni,
che ha trascorso l'intera vita a cospirare per diventare Imperatore, proprio come lo zio.
Alla fine c'è riuscito, anche se nel modo più imprevisto.
Nel 1848 i francesi ripristinano la Repubblica, ma nel popolo sopravvive il desiderio dell'uomo forte,
una prospettiva che rimane affascinante e coinvolgente, dopo l'esperienza del primo Napoleone.
Così i francesi fondano sì la Repubblica, ma ... chi eleggono Presidente? Il Principe Napoleone!
C'è solo un passo dalla legittimazione popolare al colpo di Stato alla proclamazione dell'Impero,
anche se nel mezzo di quell'unico passo ci sono centinaia di morti e migliaia di carcerati.
Poi, dopo aver represso la ribellione di piazza con la violenza,
il nuovo Imperatore ripristina il suffragio universale, annuncia il plebiscito,
e i francesi lo eleggono Imperatore, confermando "dal basso" quel titolo acquisito con la forza.
Napoleone III passerà tutta la vita così, a barcamenarsi tra poli opposti,
una condotta che assurgerà addirittura a categoria politica: il bonapartismo.
E' un dittatore, sì, ma col consenso del popolo.
Governa coi corpi segreti di polizia, e però ci sono i plebisciti.
Controlla i giornali, ma c'è anche un Parlamento.
E' tutto un continuo gioco di equilibri precari, instabili,
tra la destra clericale e la sinistra rivoluzionaria.
"Chi è in fondo questo Napoleone III? E' l'ultimo dei sovrani d'Europa.
Un intruso fra noi. Farebbe bene a ricordarsi chi è lui e chi sono io,
che rappresento la più antica dinastia regnante".
L'abrasivo giudizio di Re Vittorio Emanuele
incrociò tutta la flemma dell'ambasciatore francese,
quando il Re realizzò d'aver esagerato e tentò di rettificare.
"Vostra Maestà voglia scusarmi di non aver potuto sentire una sola delle parole che ha pronunciato".
Alla Conferenza di Parigi, dopo la Guerra di Crimea,
il Piemonte negozia con le più grandi Potenze del mondo,
e meglio sarebbe dire con gli uomini più potenti al mondo.
Uomini fatti di carne e ossa, di sangue che scorre nelle vene.
"Lavorarsi i potenti" non significa solo sollecitarli su complesse questioni istituzionali.
Vuol dire anche - soprattutto? - agire sugli istinti, le voglie, i desideri, le perversioni.
Cavour al suo collaboratore Rattazzi, in una lettera del 2 febbraio 1856:
"Sto assediando Napoleone III. Faccio tutto quanto so.
Ho persino cercato di stimolare il patriottismo della bellissima Castiglione,
onde seduca l'Imperatore".
Serve acquietare la Russia? Il mezzo è invariabilmente lo stesso.
Ancora Cavour, il 4 marzo:
"Sono in ottimi rapporti con i plenipotenziari russi.
Per renderceli del tutto favorevoli,
ieri sera ho presentato Orlof [ambasciatore russo] a Ninì:
se volesse soltanto civettare un po' con lui, il nostro affare sarebbe fatto".
Per il nonno Ranieri - che la educò - era "Verginicchia";
per il Conte Cavour - che la arruolò - era semplicemente "Nicchia";
Re Vittorio Emanuele la chiamava "Ninì"
e l'Imperatore Napoleone III la invocava come "Minà".
E' la Contessa di Castiglione Virginia Oldoini, donna di leggendaria bellezza,
"una statua di carne", nell'apprezzamento della Principessa di Metternich.
Nel 1854 - a 17 anni - aveva sposato il cugino di Cavour, il Conte Francesco Verasis di Castiglione,
e nel 1856 - a 19 anni - fu "arruolata nelle file della diplomazia" - parole testuali di Cavour -
e inviata in missione alla Corte di Napoleone III per promuovere la causa italiana.
"Era la più bella donna dell'Ottocento,
sapeva di poter contare sulle doti fisiche e non si vergogna di farlo.
Doveva 'circuire politicamente Napoleone III, civettare con lui e, se necessario, sedurlo'.
Badò al sodo: lo sedusse e si avventurò in un flirt patriottico
dove le lenzuola e il tricolore sembravano la stessa cosa.
Lei, senza chiedere niente per sé, cingendo, a suo modo, l'elmo di Scipio, ce la mise tutta:
con entusiasmo e, si presume, spirito patriottico.
Anche se volle scegliersi il campo di battaglia sul quale si sentiva più a suo agio.
Lei si divertiva e, nel suo diario, traduceva le sue emozioni in un personale alfabeto sentimentale:
'e' per embrassement, 'b' per baisers, 'f' per il resto.
'Pr' significava pour revanche e indicava una sua vendetta d'amore;
'ff' indicata fitfty fifty e voleva dire che l'aveva fatto un po' per passione e un po' per interesse".
(Lorenzo Del Boca)
Il 14 gennaio 1858 un gruppo di congiurati italiani
- capeggiati da Felice Orsini, un mazziniano romagnolo -
lancia tre bombe contro la carrozza di Napoleone III, diretta all'Opéra di Parigi.
L'attentato provoca numerosi morti e feriti, ma Napoleone e la moglie ne escono illesi.
La Francia è indignata, l'opinione pubblica carica l'atto di violenza di interpretazioni politiche,
lo legge come un'azione estrema verso una figura percepita d'ostacolo alla libertà italiana
già dai tempi della spedizione militare francese del 1849 contro la Repubblica Romana.
La polizia parigina è rapida nello scovare Orsini,
che il 13 marzo viene ghigliottinano in una pubblica piazza di Parigi.
Ma un fatto inatteso muta l'interpretazione del fallito attentato.
Orsini, prima di salire sul patibolo, invia una lettera a Napoleone III.
Non domanda la grazia, non piagnucola, sconfessa il movente politico
e sollecita anzi l'intervento dell'Imperatore sulla penisola, nel suo stesso interesse:
"Sino a che l'Italia non sarà indipendente,
la tranquillità dell'Europa e quella Vostra non saranno che una chimera.
Vostra Maestà non respinga il voto supremo d'un patriota sulla via del patibolo:
liberi la mia patria e le benedizioni di 25 milioni di cittadini la seguiranno dovunque e per sempre"
La pubblicazione della lettera suscita grande impressione nell'opinione dei francesi,
e spingerà Napoleone III a riconsiderare con maggiore attenzione la questione italiana,
a valutare l'opportunità di guidare la trasformazione geopolitica della penisola,
piuttosto che subirla con rischi imponderabili per la sua persona e per l'Impero.
Il teatro delle relazioni internazionali muta profondamente dopo la Guerra di Crimea.
A Cavour non rimane che tentare un'alleanza meno formale e più concreta con Napoleone III.
L'Imperatore francese ha sviluppato un'avversione verso l'Austria,
non solo per un semplice fatto di rivalità tra i due Imperi,
ma soprattutto perché la presenza austriaca sulla penisola
genera continui focolai di ribellione dagli esiti imprevedibili.
Risolvere la questione italiana - in breve: cacciare gli austriaci della penisola -
è indispensabile per neutralizzare le forze rivoluzionarie italiane e, di rimando, europee.
Nel 1858 Napoleone III propone a Cavour un incontro riservato,
che si terrà poi a luglio, nella stazione termale di Plombières.
All'ordine del giorno ci sono il riassetto geopolitico della penisola
e le modalità dell'intervento militare con cui realizzarlo.
Si immagina una confederazione italiana con quattro Regni autonomi:
l'Alta Italia, il Centro Italia, la Roma Papale e il Meridione.
L'Alta Italia spetterebbe ovviamente ai Savoia,
mentre sulle Corone del Centro e del Sud si abbozzano solo ipotesi.
La Francia riceverebbe in cambio la Savoia e possibilmente Nizza,
oltre alla possibilità di controllare indirettamente l'Italia centrale.
Manca il "casus belli", il pretesto per legittimare un'azione armata contro l'Austria.
Napoleone III è intransigente:
l'intervento francese è subordinato a un ultimatum austriaco al Regno di Sardegna,
in modo che la Francia appaia all'opinione pubblica internazionale
come il difensore di un piccolo Stato dai soprusi di una grande Potenza.
Il 1859 sarà in realtà un continuo susseguirsi di colpi di scena,
che porteranno comunque il Piemonte a ingrandirsi notevolmente,
seppur per vie sorprendenti e spesso spregiudicate.
"Il nostro Paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli dell'Europa,
perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira.
Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati,
non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi".
(Re Vittorio Emanuele II, 10 gennaio 1859, all'apertura della sessione parlamentare)
Sapete perché il Conte di Cavour si chiamava Camillo?
RispondiEliminaPerché, quando nacque, il Governatore del Piemonte era il Principe Camillo Borghese, e la moglie del Principe era Paolina Bonaparte, la sorella dell'Imperatore, che troviamo ritratta nelle statue del Canova. E il Principe Borghese, Governatore del Piemonte, e sua moglie Paolina, sorella di Napoleone, furono il padrino e la madrina di battesimo di quel bambino nato il 10 agosto 1810, chiamato Camillo proprio in onore del padrino.
Giusto per dare l'idea dell'ambiente elitario in cui nasce Cavour, della stretta prossimità di quell'ambiente ai vertici dell'Impero di Francia (il che spiega la predilezione di Cavour per la lingua francese, la lingua correntemente parlata nella casa di una famiglia di aristocratici fedeli sostenitori di Sua Maestà l'Imperatore).