QUEL '59 CHE FU UN '48

SECONDA GUERRA DI INDIPENDENZA

27 aprile 1859 - 12 luglio 1859 

- libera trascrizione della splendida lezione del Professor Alessandro Barbero -


La Seconda Guerra di Indipendenza è un clone della Prima, sul piano della logistica militare. C'è però una differenza decisiva, in termini di forze in campo. Nella Prima Guerra di Indipendenza il Piemonte ha fatto un tentativo, c'ha provato, sull'onda dell'entusiasmo popolare e con l'iniziale supporto di un po' da tutta la penisola. Chissà - si erano detti a Torino - magari questo esercito sarà sufficiente a mandar via l'Austria dal Lombardo Veneto. E invece quell'esercito non è bastato. Nel 1859 ci si riprova. Il Piemonte torna all'assalto del Regno del Lombardo Veneto, ma stavolta lo fa accanto a un poderoso alleato, la Francia, la più grande potenza continentale.

A cavallo tra il 1858 e il 1859 Cavour può prospettare l'orizzonte di una guerra a Napoleone III. Il Conte persuade l'Imperatore - che pure politicamente ne sapeva quanto lui - dell'interesse francese nella "questione italiana", e l'Imperatore prende posizione, affiancherà il Regno di Sardegna nel nuovo tentativo di liberazione del territorio italiano dalla presenza austriaca. "Mi dispiace che i rapporti fra i nostri due Paesi non siano più buoni come una volta", dirà Napoleone III all'ambasciatore austriaco, nel corso del fastoso ricevimento di Capodanno a Parigi. Cavour - il freddo calcolatore - può sciogliersi e fantasticare: "Prepara i cannoni e l'anno prossimo andremo in parata a Milano, se non a Venezia" dirà al Ministro della Guerra, Alfonso La Marmora.

I due Stati siglano un'alleanza nel gennaio del 1859, con cui la Francia si impegna a venire in soccorso del Piemonte, alla prima provocazione austriaca. L'aria è frizzante. A febbraio il Parlamento autorizza Cavour a contrarre un debito di cinquanta milioni di lire, un finanziamento che Vienna legge come una dichiarazione di guerra. Il Piemonte inizia a richiamare i soldati in congedo, i cosiddetti "riservisti", per metterli sul piede di guerra. Immediatamente l'Austria invia nuove truppe a presidiare il Lombardo Veneto. Torino concede asilo ai renitenti lombardi, sudditi austriaci, e apre dei campi per l’arruolamento di volontari proprio sul confine. E' il classico meccanismo circolare che preannuncia un conflitto, che una volta innescato prosegue da sé.

Ma la prospettiva di una guerra non è mai un cosa privata tra due Stati. La prospettiva di una guerra allerta e preoccupa  anche tutti gli altri. E se accadesse qualcosa di spiacevole anche a noi inglesi, a noi prussiani? E se invece di assistere a una guerra ci impegnassimo tutti a metter pace? C'è un'innegabile "questione italiana", d'accordo, però molti Governi preferirebbero risolverla con le buone, magari con un congresso. Invitiamo gli austriaci, vediamo se son disposti a cedere qualcosa. I piemontesi non è neanche detto che li convochiamo. O meglio: gli austriaci non vogliono i piemontesi al tavolo, gli austriaci si presenteranno al congresso solo se i piemontesi saranno tenuti fuori.

E' un vincolo pesante, ma il Governo inglese ci pensa; e ci pensa anche il Governo francese, perché Napoleone III si è lanciato, sì, ma lui è più a suo agio nelle vesti del politico, del cospiratore, non del soldato, e l'idea di entrare in guerra, ora che la guerra è un'eventualità concreta, inizia a fargli un po' di paura. L'ipotesi del congresso - per tastare la disponibilità austriaca, col Regno di Sardegna fuori dalla porta - circola per varie settimane, sino a sembrare lo sbocco più probabile. Cavour vive settimane terrificanti, perché il congresso sarebbe il fallimento di tutta la sua decennale politica. Prospetta le dimissioni e di emigrare in America (e due: già il padre aveva minacciato di mandarlo oltreoceano, per le sue intemperanze giovanili). Minaccia Napoleone III di render pubbliche le loro trattative segrete. Le lettere di Cavour di quei giorni ne rivelano il tormento: "faccio fatica a non perdere la testa, me la tengo fra le mani perché non scappi". Napoleone III esista ancora, tentenna, sinché il 19 aprile finalmente si decide: il congresso si farà.

L'ambasciatore francese a Torino lo comunica a Cavour, e la reazione del Conte è melodrammatica. "Ora non resta altro che spararmi un colpo di pistola e farmi saltare la testa" (e due: anche a seguito della rovinosa speculazione in Borsa aveva minacciato di spararsi un colpo in testa).  Fa testamento e lascia tutto al suo unico nipote, Ainardo, che detesta, ma che è pur sempre il suo erede universale. "Speravo di farti ereditare un nome illustre e benedetto dagli italiani. Invece probabilmente il tuo nome sarà associato alle sciagure del nostro paese". Poi, da uomo d'affari, si premura di scrivere al suo amministratore, a cui in precedenza aveva dato ordine di vendere il bestiame. Cavour è un imprenditore agricolo, le sue tenute sono per lo più nel Piemonte orientale, e avrebbero avuto una sorte imprevedibile, se mai fosse scoppiata la guerra. Meglio vendere, a costo di perderci, piuttosto che rischiare una requisizione del bestiame a prezzi politici per ragioni belliche. "Non si dia più nessun fastidio per la pronta vendita dei buoi grassi, giacché pare che la guerra più non si faccia. Salveremo le vacche, ma perderemo la causa italiana che pareva prossima a una soluzione favorevole. L'Imperatore è stato ingannato o è traditore".

La prospettiva è catastrofica. Il suo Governo cadrà, la sua carriera politica è finita. C'è chi prova a consolarlo, invocando attenuanti generiche e specifiche per stemperare la situazione e convincerlo a restare in sella. Perché vuoi dimetterti? Questa decisione non è tramata nei gabinetti ministeriali, non ne hai nessuna responsabilità. Ma Cavour si è ormai esposto, tutta l'opinione pubblica italiana attende la guerra, e quando la politica coinvolge l'opinione pubblica, quando l'opinione pubblica entra nel gioco della politica, i margini di azione si stringono, le scelte diventano obbligate. "Io non posso trattare le popolazioni come le comparse in teatro e farle uscire o entrare a capriccio".

Ora la palla è nel campo austriaco: se l'Austria accetta il congresso, la strategia di Cavour sarà seppellita sotto un tavolo diplomatico, e il Conte potrà spararsi il suo bel colpo in testa. Fortunatamente, però, si può sempre contare sull'arroganza austriaca. Il congresso si farà, d'accordo, ma non è sufficiente. L'Impero vuol mortificare il Regno di Sardegna, sino a umiliarlo. Il 21 aprile - prima di accettare l'apertura dei lavori congressuali - gli austriaci inviano un ultimatum a Torino, con cui intimano il Piemonte a licenziare i riservisti, abbandonare la frontiera, rimettere l'esercito sul piede di pace. Altrimenti sarà guerra!

Cavour riceve l'ultimatum e trasecola. Che cul ... colpo di fortuna! Quasi non ci crede, eppure è proprio così: sarà guerra, se non licenziate l'esercito. Il Governo piemontese ha tre giorni di tempo per rispondere, ma il primo telegramma è diretto a Parigi, non a Vienna. Gli austriaci ci minacciano, ci han posto un ultimatum. Ora è guerra!  Napoleone III ha in gioco la sua credibilità. Non può mancare alla parola data e poi la sua vanità è stuzzicata dal ricordo dello zio. Si chiama Napoleone, come lo zio, è Imperatore, come lo zio, e ora deve dimostrare di possedere anche lui la grandeur dello zio, che veniva tutta e sola dai campi di battaglia. Sarà guerra!

La Gazzetta Ufficiale - a Parigi - annuncia la formazione di un nuovo esercito di Sua Maestà l'Imperatore: l'Armée d'Italie - l'Armata d'Italia -, lo stesso nome dell'esercito dello zio Napoleone, ai tempi della gloriosa "Campagna Italiana" del 1796.


I soldati transalpini di stanza in Piemonte e Lombardia
potevano spedire le loro lettere affrancandole con bolli francesi. 
Le lettere pagavano la tariffa di 20 centesimi,
il costo previsto in Francia per la corrispondenza da e vero i militari.
La prima lettera porta il timbro "Armée des Alpes",
il nome originario del Corpo di Spedizione francese,
poi mutato in "Armée d'Italie", come si vede nella seconda lettera.
Splendide testimonianze della posta militare al seguito dell'esercito francese
nel corso della Seconda Guerra di Indipendenza.



L'alleanza franco-piemontese in filatelia.
Lettera da Susa ad Auch del 2 maggio 1859,
la prima missiva nota del Corpo di Spedizione francese.
L'affrancatura accosta i profili dei due Sovrani coalizzati contro l'Austria,
e copre la tariffa di 50 centesimi prevista per le corrispondenza dalla Sardegna alla Francia

La stampa francese esalta l'Imperatore. La Francia sta per riprendersi gloria che le spetta. Escono articoli in cui si vagheggia di una rivincita della Battaglia di Waterloo, e poco importa se a Waterloo c'erano gli inglesi e non gli austriaci. I francesi sono in piazza a cantare la "Marsigliese", che sarebbe proibita, ma che riecheggia ugualmente per le strade, col consenso dell'Imperatore. C'è una visibile euforia, anche se minore di quel che sembra. Ci sono pure malumori e borbottii, appena una spanna sotto la superficie dell'entusiasmo. Affiancare il Piemonte in guerra è una scelta di sinistra, che non piace al Papa, e per estensione neanche alla destra cattolica francese. Però piace alla sinistra, e questa è precisamente una guerra di sinistra, una guerra rivoluzionaria.

Il 27 aprile scade l'ultimatum. I soldati piemontesi sono ancora lì, al fronte, sul confine, impegnati nelle loro esercitazioni. L'Austria dichiara guerra. 



27 aprile 1859: lo scoppio delle Seconda Guerra di Indipendenza.

Le guerre sono un fatto di velocità, le guerre si conducono - e si vincono - con l'occupazione veloce degli spazi, con la presa rapida dei territori. "Posso perdere una battaglia, ma non perderò mai un minuto", diceva lo zio Napoleone, e poi, ancora: "La strategia è l'arte di far uso del tempo e dello spazio. Sono meno cauto con il secondo che con il primo: lo spazio lo si può sempre recuperare, il tempo perduto mai". Dov'è il confine? Sempre lì, dov'era già nel 1848, sul Ticino, dove ci sono gli austriaci. Non è cambiato nulla, se non che ora i piemontesi non sono più soli a combattere. Adesso ci sono i francesi a supportarli, ma i francesi sul Ticino devono arrivarci, e sul Ticino, dalla Francia, non ci si arriva in un giorno.

Gli austriaci hanno l'immenso vantaggio del fattore tempo, e potrebbero già segnare parecchi punti, se solo sapessero sfruttarlo, se solo a comandarli ci fosse ancora Radetzky, che stava sui campi di battaglia già ai tempi del primo Napoleone, che ha vinto a Custoza a 82 anni e a trionfato a Novara a 83. Ma Radetzky è morto l'anno prima, a 92 anni, e alla guida delle forze austriache c'è ora un ungherese, Ferencz Gyulai, il comandate austriaco in Lombardia.

Avviare una guerra è un'operazione delicata, ma al pronti-su-via Gyulai ha indiscutibilmente le carte migliori, le chance di marcare i primi successi sono tutte a suo favore. L'esercito austriaco - in quel momento - è il doppio e forse anche il triplo di quello piemontese. Deve solo passare il Ticino, anche se passare il Ticino non è impresa da poco. La macchina bellica austriaca è lenta. L'esercito si sposta a piedi, con al seguito tutto l'armamentario da guerra. I ponti son pochi, sempre gli stessi. Serve una certa audacia, o almeno un minimo di coraggio.

Gyulai non si muove. L'Austria è in guerra da tre giorni e l'esercito è rimasto piantato sul confine. Eppure tutti sanno della necessità di fare in fretta, di sbrigarsi nell'aprire le ostilità. Arrivano le prime rimostranze. L'ambasciatore austriaco a Parigi - prossimo a lasciare la capitale francese - spedisce un telegramma a Vienna, per far sentire "il grido di dolore, di impazienza, di rabbia di tutta l'ambasciata, per le esitazioni del Generale Conte Gyulai". Che diamine! Deve solo passare il Ticino e attaccare i piemontesi, schiacciarli e annientarli. E invece rimane lì fermo, piantato, immobile. Perché piove.

Siamo alla fine di aprile, e effettivamente diluvia. Il Ticino è in piena e i ponti sono insicuri. Gyulai non si muove. Tutto sta nel vedere se si muoverà prima dei francesi, e i francesi - per sua disgrazia - si muovono in fretta. Sono passati solo undici anni dalla Prima Guerra di Indipendenza, ma i progressi della tecnica sono stati straordinari. Il treno non c'era nel 1848, e ora invece c'è, e la presenza di treni e ferrovie stravolge le regole della guerra.

Gyulai è fermo sulla sponda del Ticino, a fissare il cielo per vedere se smette di piovere, quando Napoleone va in treno da Parigi a Marsiglia, e da lì s'imbarca su una nave a vapore - altra novità del periodo -,  diretto a Genova con una parte dell'esercito, e con l'altra parte che invece si appresta a scendere in Piemonte per le vie tradizionali, verso la Val di Susa.

In altri tempi sarebbero passati dei mesi, prima di vedere stemmi, bandiere e uniformi francesi sul territorio italiano. Ora bastano due settimane, affinché tre corpi militari sbarchino a Genova, e da lì, in treno, siano liberi di dirigersi al fronte. Altri due corpi, scesi dal Moncenisio, trovano anch'essi un treno pronto a condurli sul campo di battaglia. Quindici giorni - soltanto quindici giorni - e i francesi saranno sulla linea del confine. Gyulai, di giorni, ne ha già lanciati alle ortiche cinque o sei.

Finalmente, il 30 aprile, Gyulai passa il Ticino, gli austriaci invadono il Piemonte. L'1 maggio sono a Novara, il 2 maggio superano la Sesia e si approssimano a Vercelli. La stampa - italiana e francese - segue da vicino la marcia austriaca, pronta a denunciare tutte le atrocità dell'invasione. Roba da piangere ... dalle risate. Le atrocità si esauriscono nel sequestro del bestiame - non per niente Cavour voleva vendere i suoi buoi! - perché è così che accade in guerra. Gli austriaci passano da una città all'altra, e in qualunque città mettono piede, il sindaco è obbligato a tirar fuori denaro, vino, pane, bestiame, tabacco e scarpe, per ventimila uomini. E' semplicemente il modo di fare la guerra, ma per la stampa governativa è la prova inappellabile delle barbarie del nemico.

A Torino serpeggia la preoccupazione. O meglio: dilaga il panico. Cavour scrive il 4 maggio alla sua amante, Bianca Ronzani, ballerina ungherese: "Cara Bianca, quale felice combinazione che tu non sia a Torino, giacché le notizie sono sempre più cattive. Gli austriaci si avvicinano e il Re non si muove. Non è certo che essi vengano a Torino ma è probabile. Siamo decisi a difenderci a oltranza. Ho fiducia nel coraggio dei piemontesi e nella Provvidenza. Ti abbraccio". In quegli stessi giorni il Conte visita le barricate alla periferia di Tornino, e poi la parte della Guardia Nazionale e tutti i bottegai, per verificare se siano ben armati e pronti a un fronte di resistenza in caso di arrivo degli austriaci. "Il Re non si muove", osserva poi sconsolato. Già, dov'è il Re di Sardegna col suo esercito?

Regno di Sardegna, 1853.
II emissione.
5 centesimi verde.

L'esercito piemontese è cambiato, rispetto al 1848. Quello del '48 era un esercito di riservisti, gente che aveva prestato solo un anno di servizio militare, per poi esser restituita alla propria vita, e infine richiamata sotto le armi allo scoppio della guerra. Questo sistema di reclutamento aveva denunciato tutti i suoi limiti. Contadini e operai arrivavano controvoglia in caserma, avendo dimenticato ogni cosa. Bisognava ricominciare ad addestrarli dal principio. Alla prima difficoltà si spaventavano. Un disastro. Il Piemonte ha perciò cambiato politica. La Seconda Guerra di Indipendenza è combattuta da tre eserciti qualitativamente simili, formati tutti con soldati, se non "di mestiere" (sono pur sempre coscritti), sicuramente di più lunga esperienza. Austria, Francia e Piemonte scendono sul campo con eserciti di caserma, più affidabili e ovviamente meno numerosi. Perché, insomma, quanti coscritti si possono arruolare, se gli si impongono ben cinque anni di servizio militare? Un giovanotto su cento, il Paese lo sopporta. Uno su cinquanta, ancora ci riesce. Ma se si inizia a prenderne uno su dieci, il Paese non lo tollera più. L'esercito di caserma presume pochi coscritti, pochi tirati a sorte. Il nuovo esercito sabaudo è piccolo, proporzionato al Piemonte: 60.000 uomini. Anche l'esercito austriaco è piccolo, ma proporzionato all'Impero: oltre 200.000.

Re Vittorio non può neanche immaginare di arrestare l'avanzata austriaca. Non può certo sostare tra Torino e Vercelli, perché finirebbe bastonato. Se ne sta giù, a sud del Po, e più sta a sud più si sente sicuro. Lì i piemontesi hanno grandi fortezze - le cittadelle di Alessandria e Casale - e l'esercito è lì, col suo Re, a contare i giorni che mancano all'arrivo dei francesi. Gli austriaci vengono dal Ticino, sono a nord del Po, e se pure avessero l'intraprendenza di passarlo, ce ne vorrebbe di tempo prima di ritrovarseli sull'altra sponda con l'intero esercito.

E' il 7 maggio. Gyulai ha sprecato un altro paio di giorni, e poi si è rimesso in cammino, sino a entrare nell'intorno di Vercelli. Occorre rallentarlo in qualche modo, in qualunque modo, e i piemontesi ricorrono al modo più estremo: l'allagamento. Il vercellese è terra di risaie, una zona con numerosi canali costruiti e gestiti per regolamentare i flussi d'acqua, per allagare le risaie tanto quanto basta e quanto serve. In quel maggio del 1859 il Governo decide di aprire tutte le chiuse e allagare il vercellese senza sosta, senza limiti. Allagare - senza sosta, senza limiti - vuol dire distruggere i raccolti, travolgere le cascine, far crepare il bestiame. Non importa. Serve fermare gli austriaci e non c'è altro modo, o almeno non se ne vedono altri. L'iniziativa ha in sé qualcosa di ancestrale, perché l'ingegnere responsabile della rete idrica del vercellese - incaricato di gestire questo diluvio universale in miniatura - ha un nome da predestinato: è l'ingegner Noè!

In Parlamento i deputati vercellesi sfogano tutta la loro rabbia. Cavour tiene botta. Vi ricordate quando Napoleone marciava su Mosca, e i russi hanno dato fuoco alla città? Questa è la stessa cosa. Se non avessimo allagato tutto quel che c'era da allagare, ora gli austriaci sarebbero in questa sala, dentro il nostro Parlamento. E invece gli austriaci - Gyulai e i suoi soldati - sono con l'acqua alle ginocchia, impossibilitati a muoversi. A Vienna, però, arriva una notizia fenomenale: Gyulai ha preso Torino. Canti e balli per le strade, Te Deum nelle chiese. Poi si legge meglio il telegramma, e arriva la rettifica: non Torino, ma Trino, nei pressi del vercellese. Gyulai è arrivato sino a Trino, sino a Biella. Poi il vercellese è stato allagato, e si è fermato.

La buona notizia è l'arrivo ormai prossimo dei soldati francesi. Il 10 maggio i corpi transalpini scesi dalla Val di Susa sono ad Alessandria. Il 12 maggio Napoleone III è sbarcato a Genova. Due giorni dopo è anche lui ad Alessandria. Ora ad Alessandria è concentrata una forza militare superiore a quella austriaca. Il rapporto di forza è invertito. In guerra, se sei il più debole, ti fermi, aspetti, ripieghi o torni indietro; se sei il più forte vai avanti e attacchi. Ora tocca a Francia e Piemonte attaccare.

Gyulai ripiega verso il Ticino, senza passarlo. Si ferma tra la Lomellina, Piacenza e il Po, per vedere cosa accade e valutare i passi successivi, ma insomma si è fermato. Napoleone e Vittorio Emanuele devono decidere cosa fare. Perché la guerra è azione, e comandare un esercito significa esattamente questo: decidere cosa fare, stabilire le azioni da intraprendere. Questa è la ragione per cui ai Generali vengono i capelli bianchi in guerra: perché tutti i giorni devono decidere qualcosa, senza sapere se è sarà la cosa giusta o qualcosa che li consegnerà alla storia come degli imbecilli responsabili di una catastrofe.

Napoleone e Vittorio Emanuele discutono. Siamo ad Alessandria, siamo a sud del Po. Restiamoci, marciamo su Piacenza e poi invadiamo la Lombardia da sud. Buona idea, però bisognerà pur attraversarlo il Po da qualche parte. Si lavora di carte geografiche. Dove sono i ponti sul Po? A Stradella! Potremmo passare il Po a Stradella. Però, accidenti, ce ne vorrà di tempo per attraversare il Po con 180.000 uomini. E se il nemico attaccasse mentre si è metà strada? L'alternativa è passare il Po nelle retrovie, ancora una volta in treno. Ce ne andiamo a Vercelli e a Novara, andiamo a picchiare la testa del Ticino, col buon vecchio sistema di una volta. Decidono così: c'è il treno, sfruttiamolo, e in due giorni avremo portato 180.000 soldati da Alessandria a Vercelli.

Napoleone e Vittorio Emanuele non si sono ancora mossi, quando Gyulai decide di far qualcosa anche lui. I giornali di Vienna lo tormentano, non gli danno tregua. Cosa fa il conte Gyulai? Perché non si muove? Faccia qualcosa! E un Generale - in questi casi - deve fare qualcosa, qualunque cosa, purché si faccia. Anche quando non ha idea di cosa fare. Gli sovviene allora la grande risorsa disponibile quando si obbligati a far qualcosa, senza sapere cosa. La ricognizione in forze. Ce ne si va un po' in giro, non con l'intero esercito, ma con una forza intermedia, così se accade qualche guaio non si è perso tutto, e intanto si girovaga alla ricerca dell'occasione propizia per fare qualcosa di realmente intelligente.

Gyulai decide per la ricognizione in forze verso Voghera, per verificare se il nemico non abbia per caso deciso di attaccare rimanendo a sud del Po. Serve andare avanti e proseguire oltre. Gyulai avanza lentamente, con la solita fatica, senza coordinare bene i movimenti delle truppe, con l'ulteriore complicazione che i contadini vogheresi sparano a vista agli austriaci e gli austriaci fucilano i contadini per rappresaglia (e saranno queste le uniche, autentiche atrocità della guerra).

Gyulai avanza con accortezza, con precauzione. C'è il nemico? Eh, sì, c'è! Perché anche i piemontesi e i francesi hanno mandato un in giro la cavalleria e anche loro si sono accorti che gli austriaci sono lì intorno e potrebbero arrivare in blocco da un momento all'altro. Sono tutti lì, insomma. Li, nei pressi di quel paesino, Montebello, dove finalmente arriva il primo scontro della Seconda Guerra di Indipendenza: la Battaglia di Montebello. Lì, a Montebello, la presenza dei francesi fa tutta la differenza, rispetto alle battaglie del 1848. Perché nel '48 nessun esercito calcava la mano o accelerava il passo, nel '48 nessuno voleva rischiare, e ogni scontro si risolveva con perdite minime (50 morti a Pastrengo, 40 a Goito). Ora, invece, Napoleone III e l'esercito francese sono disposti a battagliare sul serio, a combattere come si deve.

Montebello è una piccola battaglia, che impegna poche forze, e tuttavia l'alleanza franco-piemontese perde il 10% del suo schieramento di 7.600 soldati. Gli austriaci ne lasciano il doppio. E' una vera battaglia, non ai livelli dello zio Napoleone, che a ogni scontro salutava il 20% del suo esercito senza batter ciglio, però è una battaglia che segnala un nuovo atteggiamento, un'altra mentalità. A Montebello Gyulai è respinto e costretto a indietreggiare. Il franco-piemontesi sono ad Alessandria e ora - in treno - potrebbero impiegare solo due giorni ad arrivare a Novara. Gyulai è frastornato. E sta per arrivargli addosso un enorme chicco di grandine: Garibaldi.


Nel 1848 Carlo Alberto lo aveva congedato ancor prima di arruolarlo. Tutto, tranne questo comunista! Dieci anni dopo, nel 1859, Vittorio Emanuele è punto dal sospetto che la spada di Garibaldi possa tornare utile. Lo ha preso in carico nell'esercito sabaudo col ruolo di Generale, ha disposto la consegna di divise e armi ai volontari al suo seguito, e ha persino battezzato il corpo militare: Garibaldi e i suoi sono i Cacciatori delle Alpi.

Solo una cosa non è cambiata, rispetto al '48. Garibaldi vuol fare la guerra? Benissimo. Però - per cortesia, per gentilezza - lontano dall'esercito ufficiale, dove si fanno le cose serie. L'esercito franco-piemontese è concentrato a sud, ad Alessandria, a Casale. Garibaldi è spedito dall'altra pare, verso Varese. Vai a farti un giro lì, vai un po' a vedere cosa trovi da quelle parti, vai lì a dar fastidio agli austriaci. Garibaldi obbedisce: prende la sua brigata e passa il Ticino.

I garibaldini son pochi, solo tremila, ma si muovono con gran destrezza. Gyulai riceve notizie di ripetute sconfitte austriache a Varese, e inizia a temere il peggio. Noi lo sappiamo che le Cinque Giornate di Milano si son fatte una sola volta nella storia, ma Gyulai no. E se Milano fosse pronta a insorgere nuovamente? E se all'insurrezione di Milano seguissero le ribellioni di altre città lombarde? Sarebbe la fine! Gyulai resta fermo, quasi paralizzato, perché sente che potrebbe davvero accadergli di tutto.

L'esercito franco-piemontese si porta intanto verso Novara, verso Vercelli, con l'idea di attaccare. I piemontesi passano per primi la Sesia, con poche truppe, all'altezza di Vercelli. I francesi son lì che stanno per arrivare. Gyulai riceve l'informazione. I piemontesi sono passati, ma sono pochi. I francesi arriveranno dopo. Prova finalmente a giocare d'anticipo, a sfruttare il fattore tempo, a sferrare l'attacco approfittando di uno schieramento avversario a ranghi ridotti.

Gyulai attacca nel primo paesino che s'incontra passata la Sesia, dopo Vercelli, quel paesino che è un altro nome di strade delle nostre città: Palestro.

Roma.

I piemontesi sono appena arrivati a Palestro. Gyulai li attacca a modo suo, come al solito, maldestramente e con lentezza. I piemontesi resistono per tutto il tempo che serve resistere, per il tempo necessario a far arrivare quelli che la guerra la sanno fare sul serio: i francesi.

L'esercito francese dispone dei ponti mobili, butta i ponti sulla Sesia, l'attraversa e arriva a Palestro in giornata. Gli austriaci sono battuti, respinti, sbaragliati. Le perdite salgono al 15%. Ora si che è guerra.

Gyulai è sconsolato, depresso. E' stato respinto ovunque ci abbia provato. Il nemico è in massa oltre la Sesia, a Novara. Potrebbe ritrovarselo alle spalle. E poi c'è Garibaldi, a Bergamo, a Brescia, in Valtellina. Lo vedono dappertutto, anche dove non c'è. E' il panico.

Gli austriaci arretrano, tornano dietro il Ticino, basta correre rischi. Questo esercito - rimasto lì, con fatica, in mezzo alle risaie allagate per varie settimane - ora indietreggia. E' una decisione pesante. La sera del 3 giugno Gyulai ha 120.000 uomini dietro il Ticino. Stanchi, affamati, di pessimo umore, perché non han fatto altro che perdere e ritirarsi, perdere e ritirarsi. Pero son lì, accampati in un luogo che è ancora un altro nome di via, e stavolta non solo in Italia ma anche a Parigi.

Il grosso dell'esercito di  Gyulai è dietro il Ticino, a Magenta.

Parigi.

I francesi passano il Ticino. La guerra, loro, la sanno fare. Non si accontentano dei ponti che ci sono. Hanno i ponti di barche, che gettano dove vogliono loro, laddove sanno che non c'è il nemico ad aspettarli. I francesi passano il Ticino, lo passano lì, in un luogo che è anche il nome di una via parigina: Rue de Turbigo.

Gyulai - e qui non si può che averlo in  simpatia - abbozza una nuova controffensiva. Non fronteggia ancora l'intero esercito nemico, ma solo l'avanguardia francese. Zio Napoleone se la sarebbe divorata, ma Gyulai non è Napoleone. Contrattacca come può, come meglio gli riesce, con poche forze, a fatica. L'avanguardia francese regge, tiene botta sino al passaggio del Ticino di Napoleone, il nipote. Che ora si guarda intorno perplesso, smarrito, perché questa è la sua prima volta, la prima battaglia della sua vita.  E - come ogni prima volta - è piuttosto imbarazzante. Impartisce ordini che nessuno esegue. I Generali non si sa dove siano. Nessuno capisce granché di quel che accade. E' la nebbia della guerra.

I soldati però combattono ugualmente, e alla sera l'attacco di Gyulai è domato. I francesi hanno vinto la Battaglia di Magenta. Hanno lasciato sul campo il 7% delle loro forze, circa 4.000 uomini tra morti, feriti e prigionieri. Gli austriaci hanno perso 10.000 uomini, il 16% delle truppe, e sono stati battuti. La notte accoglie Napoleone III, la prima notte dopo la sua prima grande battaglia. Una vittoria straordinaria - gli dicono i suoi. Lui non sa se crederci, e in cuor suo non è granché convinto. Sicuramente si era immaginato tutta un'altra storia, quando gli raccontavano delle battaglie dello zio. E' stato lì, sul campo di battaglia, nel mezzo di un autentico macello, tentando di far qualcosa di utile, di decisivo, senza mai capire davvero cosa stesse accadendo. Alla fine è andata bene, ma la guerra non è come se l'immaginava. E poi tutti quei morti ...

Però è andata bene, e va bene così. Napoleone e Vittorio Emanuele entrano trionfalmente a Milano. Gyulai ha battuto la ritirata, è tornato indietro, a cercar riparo nel solito rifugio degli austriaci quando le cose girano male. Gyulai è al Quadrilatero. Lago di Garda, con Peschiera, Verona, Mantova e Legnano. La Val Adige per comunicare con la madre patria. Il Po, a sud, a proteggere il fianco. Il lago al nord. Gyulai si ritira dietro il Mincio.

Napoleone e Vittorio Emanuele devono ancora una volta decidere cosa fare, ché la guerra è un continuo decidere, e qualcosa si dovrà pur fare, finiti i festeggiamenti per la liberazione di Milano. E qui vien fuori un problema, il più classico dei problemi nelle guerre combattute da eserciti alleati. Due Sovrani, un Imperatore e un Re. Entrambi ambiscono a essere Generali, entrambi vogliono comandare, decidere, dare ordini. Re Vittorio pensa sul serio di essere un grande Generale, ne è realmente convinto. L'Imperatore Napoleone inizia a dubitarne, avverte più d'una perplessità. Però non ci sono incertezze su chi abbia il potere di decidere. L'Imperatore ha 120.000 soldati, il Re ne possiede 60.000. Comanda l'Imperatore della Francia, senza discussioni. E i Generali piemontesi son anche contenti della leadership francese, perché Napoleone III piace, attrae, è al massimo dello splendore, e in quel 1859 ci credono tutti che sia il degno nipote dello zio, mentre Re Vittorio zoppica, arranca, non è proprio in ague nella considerazione collettiva. Scrive il Generale Solaroli, aiutante di campo di campo di Vittorio Emanuele: "il nostro Re all'infuori del coraggio e dell'avventatezza non ha nulla; non ha occhio, né sangue freddo, non si ricorda mai il nome di un paese ..."  - che per uno che deve far la guerra a dare ordini ... - "chi sa far la guerra è l'Imperatore, fortuna per noi che abbiamo alla testa un tale uomo".

Vittorio Emanuele non ha grane solo con l'Imperatore, sul campo di battaglia, ma anche a Torino, con Cavour. Perché Cavour è Primo Ministro, e non può certo andare al fronte, ma anche lui conosce bene il suo Re, e da Primo Ministro passa notti insonni tormentato dalle stupidaggini che il Re potrebbe compiere ogni giorno. Gli scrive di continuo, per avere informazioni e dargli consigli. Un consiglio al giorno, ogni giorno un consiglio, sin quando Vittorio replica stizzito: "Mi dice che devo essere circondato da tanti geni che mi impediscano di fare delle bestialità. Pare che Lei mi considera un grande asino nel mio mestiere. Se lei mi parla ancora una volta così, vedrà cosa farò. Manderò via tutti intorno a me quelli che ci sono, e mi circonderò di men capaci ancora, e farò vedere se io non so fare il mio mestiere senza tanti consiglieri". Dall'Imperatore al Primo Ministro e ritorno. Ancora Vittorio Emanuele a Cavour, sull'atteggiamento di Napoleone III: "Siamo sottoposti a nuove tribolazioni. Non è più lei che ci tormenta. E' il degnissimo Imperatore, il quale ci comanda a bacchetta, cambia e discambia i suoi progetti, e vuole cose impossibili".

In questo bel clima il problema è invariabilmente lo stesso: decidere cosa fare. Piemontesi e francesi sanno che gli austriaci sono dietro il Mincio. Non sanno ancora che in Austria si son stufati del Generale Conte Gyulai e l'Imperatore ha deciso di prendere il comando diretto delle operazioni militari. Perché anche sull'altro versante c'è un Imperatore: è Francesco Giuseppe, che sarà ancora lì nel corso della Prima Guerra Mondiale, e nel 1859 è sul trono già da dieci anni, sebbene, di anni, lui ne abbia solo 29. E' un giovanotto, la guerra non l'ha mai fatta, però c'era durante i moti del '48, e ha persino vinto una battaglia. Ha studiato a lungo, si è interessato di strategia militare, è un appassionato di eserciti. Ma una guerra non l'ha mai condotta, e con lui si è completato il tris di Sovrani convinti di essere grandi Generali, senza mai aver avuto la prova del campo di battaglia.

Gyulai è congedato e Francesco Giuseppe arriva a Verona a prendere il comando del suo esercito. 

                
Regno del Lombardo Veneto.
5 soldi rosso, I° tipo, 1858.
10 soldi bruno, II° tipo, 1859.

L'esercito franco-piemontese avanza lentamente. Ha passato l'Oglio e si avvicina al Mincio. Tra il Garda e il Po c'è una fetta di terra di al più 70 chilometri. Gli eserciti la occupano quasi per intero. Dall'estrema sinistra sul Garda, sino all'estrema destra a ridosso al Po, un esercito di quasi 200.000 uomini non può marciare allineato sulla stessa strada. Creerebbe una fila lunga oltre 50 chilometri! L'esercito è disperso, sparpagliato, a battere strade parallele, e l'abilità sta nel sapere esattamente dove siano a ogni momento le truppe, nel saperle riunire rapidamente quando serve sferrare l'attacco. Questa era la forza del primo Napoleone, i cui soldati dicevano "l'Imperatore vince le battaglie con le nostre gambe". Napoleone III è Vittorio Emanuele II non sono allo stesso livello, ma per loro fortuna non lo è neanche Francesco Giuseppe.

Napoleone e Vittorio Emanuele avanzano alla cieca, senza neanche immaginare cosa potrebbero trovare, senza sapere che Francesco Giuseppe ha deciso di contrattaccare. Il 23 giugno l'Imperatore d'Austria passa il Mincio con tutto l'esercito, anch'esso disteso su un fronte troppo ampio, anch'esso ignaro di quel che potrà trovare lungo il cammino. Il 24 giugno i due eserciti si incontrano su questo fronte vastissimo, che a nord, sul Garda, è delimitato dalla collinetta di San Martino, al centro mostra la collinetta di Solferino, e poi scende giù. Gli eserciti si incontrano e iniziano a combattere, perché a quel punto non si può far altro. E' la Battaglia di Solferino, che sarà vinta dagli alleati, come ricordano - di nuovo - le varie "Via Solferino" delle città italiane.

Quel che si conosce un po' meno è l'immenso sforzo profuso per uscirne vittoriosi.

Solferino è quel che i tecnici della guerra chiamano battaglia di incontro. Non c'è un esercito offensivo e uno difensivo, qualcuno che attacca e qualcun altro che si difende. Gli schieramenti avanzavano sul territorio senza sapere bene quel che troveranno, senza aver consapevolezza dei rischi a cui vanno incontro, avanzano così, sperando di cavarsela, finché per l'appunto si incontrano, senza volerlo, senza averlo programmato. E allora non resta che battagliare così come viene, non rimane che picchiarsi e sparare alla cieca, senza strategia, senza tattica. Francesi e piemontesi sono tendenzialmente più numerosi, perciò possono premere sugli austriaci, che iniziano a soffrire. Però nessuno sa precisamente cosa stia accadendo su questo fronte così lungo.

Loro all'epoca non lo sanno, ma oggi noi sì che lo sappiamo. A nord, vicino il Garda, ci sono i piemontesi, e c'è la collina di San Martino con gli austriaci trincerati dietro. I piemontesi arrivano alla spicciolata. Stavano marciando e non prevedevano di dover combattere. Vittorio Emanuele è lì, in quel che ritiene il suo elemento naturale, il campo di battaglia, a cimentarsi il quel che pensa essere il suo mestiere, comandare la battaglia. Il Re sguaina la sciabola, e spedisce la prima brigata sulla collina, all'attacco. Gli austriaci la respingono. Arriva una seconda brigata, il Re agita di nuovo la spada e la manda all'attacco. Gli austriaci la respingono di nuovo. Arriva una terza brigata, a cui ora può unirsi la prima, che si è riposata abbastanza, e insieme tentano un nuovo e più massiccio attacco. Vittorio Emanuele è nel suo elemento, in mezzo ai suoi soldati, a cavallo, con le palle che fischiano, e si diverte da pazzi, si sente finalmente un vero Generale. La fanteria piemontese va dentro, sale la collina, spara e ridiscende, e va avanti così per l'intera giornata, nel disordine più totale.

Sulla collina il Generale austriaco Benedek riceve continuamente lettere dal suo Imperatore, che lo inviata spostarsi a Solferino, per dar man forte all'altra parte dell'esercito austriaco impegnato contro Napoleone. Hai voglia a scrivere per chiedere rinforzi, caro Francesco Giuseppe. Benedek non può muoversi dalla collina, ché altrimenti i piemontesi lo prenderebbero sul fianco. Quindi gli incessanti attacchi delle brigate sabaude, per quanti confusi, a qualcosa servono: bloccano l'ala destra austriaca. Poi, la sera,  Benedek riceve l'ultima staffetta di Francesco Giuseppe. Abbiamo perso, ci ritiriamo. Gli austriaci sgombrano la collina, Vittorio Emanuele ci sale con la sciabola al cielo, e poi spedisce il telegramma a Torino. Abbiamo vinto la grande Battaglia di San Martino.

Ma il centro dell'agone ha un altro nome: Solferino. E' lì, dove ci sono i due Imperatori, che si giocano i destini della guerra. Lì c'è Napoleone III, che si interroga su cosa fare, che riflette su cosa avrebbe fatto suo zio. L'esercito francese è forte, coraggioso, pieno di slanci, non ha nulla da invidiare al glorioso esercito dello zio, su cui può vantare persino una cosa un più, degli splendidi pantaloni rossi, che raddoppiano l'entusiasmo dei soldati e ne triplicano il coraggio (e pazienza se è più facile individuarli e colpirli).

A Solferino i francesi premono con forza e gli austriaci galleggiano a fatica. Napoleone è lì in mezzo e alla fine si ricorda cosa avrebbe fatto lo zio. Lo zio aveva la Guardia, tanti bei granatieri col colbacco di pelo d'orso, che entravano in campo con prepotenza, sfondavano, e ponevano fine alla battaglia. Anche Napoleone III ha la sua Guardia, ovviamente. L'ha rifatta identica, ancora tanti bei granatieri col colbacco di pelo d'orso, da buttar dentro quando finalmente si ricorda dello zio. La Guardia sfonda, Francesco Giuseppe ordina la ritirata, la Battaglia di Solferino è vinta.

Francesi e piemontesi - tra morti, feriti, prigionieri e dispersi - hanno lasciato sul campo una forza tra 15.000 e 17.000 uomini, una quota tra il 10% e il 15% degli eserciti. Gli austriaci hanno perso 22.000 uomini, il 20% delle forze. Queste sono cifre da guerra, come nelle battaglie del vecchio Napoleone.

Regno di Sardegna, 1854.
III emissione.
40 centesimi rosso mattone.

Su questo campo di battaglia - con decine di migliaia di morti e feriti, non solo uomini, ma anche animali, cavalli agonizzanti da finire a pistolettate - accadono due cose che la Storia ricorda.

Primo: c'è lì uno svizzero - che non si sa cosa ci stia a fare - che vede quanto pochi siano i medici, quanto insufficienti siano i servizi di assistenza sanitaria, e ha l'idea di organizzare un'istituzione internazionale per supportare i feriti in guerra. La fonda e la chiamerà Croce Rossa.

Secondo: Napoleone III, Imperatore della Francia, nipote di Napoleone Bonaparte, ha finalmente visto cos'è una guerra, e non è stato un bel vedere. Decide che può bastare così, che la si può chiudere qui. Francesco Giuseppe è disposto a un armistizio, Napoleone III pure.

E pensare che i francesi marciavano al passo di un rullo compressore. Avevano superato il Mincio e si preparavano ad assediare Peschiera e Verona. Possedevano tutta la forza - militare e psicologica - per stritolare gli austriaci, annientarli, umiliarli. Però, appena Francesco Giuseppe prospetta l'armistizio, Napoleone annuisce e la cosa finisce lì.

E allora viene da chiedersi se il nipote valesse davvero quanto lo zio, se Napoleone III avesse la stessa tempra di Napoleone Bonaparte, o se ne rappresentasse invece solo un'eco confuso. Napoleone - lo zio - era un uomo deciso, determinato, sicuro di sé, anche quando, forse, sarebbe stato meglio ripiegare su posizioni moderate o avvertire i rischi delle proprie azioni. Napoleone - il nipote - era un inno all'isteria. Prendeva decisioni in contraddizione con le idee di cui si atteggiava a paladino. Imponeva condizioni o spingeva per accordi a cui lui stesso non credeva. Non aveva alcuna stima di Cavour, ma lo assecondò per garantirsi un gettone di partecipazione nel rimaneggiamento della geopolitica italiana, quando continuava a far pressione per la tutela dello status quo, anche nel Lombardo Veneto. Aveva tutto un modo di fare orientato a garantirsi una via d'uscita in qualsiasi momento, la possibilità di un'inversione di rotta senza conseguenze.

Ma il fatto è che una guerra non è mai un'affare privato tra due Stati, una guerra suscita reazioni e genera eventi imprevisti, e Napoleone poteva opporre più d'una ragione per motivare la sua scelta. Disilluso sull'effettivo valore della causa italiana, che aveva preso un'imprevista e curiosa direzione verso il Granducato di Toscana, le Legazioni Pontificie e i Ducati di Parma e Modena. Inquieto per la condotta della Prussia, che minacciava di schierarsi al fianco dell'Austria, un intervento militare che avrebbe moltiplicato gli orrori della guerra nel tempo e nel numero. Stanco dell'ostilità del clero e della destra francese, di un'opinione pubblica che gli chiedeva conto della guerra, di tutti quei lutti, di tutto quel sangue, per favorire un piccolo Regno col quale non si erano mai avuti in passato grandi rapporti o attestazioni di stima. Napoleone non può esser biasimato il suo ripiegamento. Gli abbiamo già conquistato la Lombardia, il Veneto lo conquisteranno da soli la prossima volta.

L'Armistizio di Villafranca - 11 luglio 1859 - pone fine alle ostilità ... o quasi. Vittorio Emanuele non è all'acme della gioia, ma non può farci niente. Ha incassato la Lombardia e va bene così. Cavour la prende con meno filosofia. Aveva tessuto l'intera trama con l'idea di chiudere la partita con gli austriaci, di buttarli definitivamente fuori dai territori italiani, e al picco di entusiasmo era arrivato a immaginarsi addirittura degli scenari rivoluzionari - "non ci sarà Inghilterra che possa impedirci di andare a bruciare Vienna. Noi metteremo il fuoco all'Europa" - e tutti i suoi bei progetti si sono ora arrestati in una Villafranca qualunque.

Cavour si catapulta a Villafranca e va a cercare il Re. Di quell'incontro a porte chiuse abbiamo solo le testimonianze di chi stava fuori ad origliare - o semplicemente ad ascoltare, viste le urla - e i resoconti postumi dei due protagonisti.

Il Primo Ministro accusa il Re di essere "un traditore e peggio". Lo riferisce lo stesso Vittorio Emanuele: "mi ha chiamato traditore ... e peggio", e chissà cos'era questo peggio.

"Sta bene, Cavour, io pure avevo pensato molto di quanto lei mi ha detto; ma non è colpa mia se l'Imperatore non vuole continuare la guerra", prova a giustificarsi il Re. Ma ogni spiegazione sembra innervosire il Conte ancor più, anziché placarlo. Cavour minaccia le dimissioni immediate. "Per lor signori le cose vanno sempre" - replica il Vittorio Emanuele - "perché aggiustano tutto con le dimissioni, ma chi non si può levar d'impaccio così comodamente sono io, io che non posso dimettermi, io che non posso disertare". E Cavour non gli aveva ancora risposto: "Se un Ministro deve sapere quando dimettersi, un Re deve capire quand'è il momento di abdicare" (che non è cosa delicata da dire al figlio di Carlo Alberto, il Re obbligato undici anni prima a un passo indietro, dopo il tracollo di Novara).

Tavoli ribaltati, seggiole per aria. "Cavour è un tiranno, ha perduto la testa", dirà Vittorio Emanuele, uscendo dalla sala, a conclusione dell'incontro. Anche se poi sembra sollevato dal defilarsi del suo Primo Ministro. "Adesso Cavour è fuori dai piedi, ma spero che se ne vada ancora più lontano" - dice il Re a Napoleone III - "Pagherei un milione di franchi purché partisse per l'America" (e tre: prima il padre, poi Cavour stesso, e ora Re Vittorio a prospettare l'emigrazione nel nuovo continente).

Cavour è demoralizzato, affranto, esaurito. Scrive a un amico: "Mi accorgo che per me è cominciato la vecchiaia", e a noi, oggi, viene da sorridere. Perché noi oggi lo sappiamo - ma lui all'epoca non ancora - come proseguirà la storia. Noi sappiamo della "Spedizione dei Mille", del Regno di Italia, di Cavour Primo Ministro dell'Italia unita. Noi lo sappiamo e lui no. Per lui - per Cavour - è tutto finito a Villafranca.

Veneto e Provincia di Mantova, 1862, coppia del 10 soldi bruno mattone.
L'esercito franco-piemontese occupò la Lombardia nel giugno del 1859,
con l'eccezione di Mantova e di una parte della sua provincia.
La città rimase all'Austria anche a seguito dei negoziati di pace,
dove il Piemonte aveva provato a impossessarsene per via diplomatica.
I francobolli austriaci continuarono pertanto a circolare sui territori di Mantova e del Veneto.

La guerra è finita. E' stata breve, veloce - due mesi e tre battaglie -, ma ci sono ancora due aneddoti da raccontare, uno curioso, venato d'ironia, l'altro drammatico, emblematico delle somiglianze e delle differenze tra i modi di fare di ieri e di oggi.

L'aneddoto curioso. Un giornale tedesco pubblica l'articolo di un critico militare, un giornalista specializzato nel seguire la guerra, Friedrich Engles, quello del Manifesto Comunista redatto insieme a Marx. Appunta Engles, nel commentare la prospettiva della guerra: "Supponiamo che un esercito francese o italiano voglia invadere l'Austria dalla Pianura Padana, che è quel che tutti a Vienna in questo momento temono. Cosa dovrebbe fare un esercito tedesco per impedire che gli italiani o i francesi dal Friuli trabocchino verso l'Austria? C'è un punto preciso che la geografia di quelle zone ci indica come il più adatto per contrattaccare gli italiani e batterli. Si chiama Caporetto".

E poi l'aneddoto drammatico. Le guerre si vincono e si perdono per tante ragioni: ci sono colpe e ci sono meriti, intuizioni e esitazioni, eroismi e codardie, rischi calcolati e puri azzardi, e poi c'è tanta casualità. Alla fine resta solo il risultato, la vittoria o la sconfitta, e quando si vince si scrivono marce trionfali, come per Radetzky nel '48, e quando invece si perdono si istituiscono Commissioni d'inchiesta, come a Vienna nel '59.

Un'indagine rileva una frode gigantesca nel Dipartimento delle forniture alimentari, del Commissariato dell'esercito austriaco. Corre voce sia stato lo stesso Napoleone III a rivelarlo a Francesco Giuseppe, a Villafranca. "Vostra Maestà è circondata di traditori. Crede che Mantova abbia rifornimenti per sei mesi. Non ne ha neanche per sei giorni". Cos'era accaduto?

Il Commissariato dell'esercito austriaco comprava buoi per la guarnigione di Mantova. Comprava settemila buoi e li pagava tutti e subito. Ne arrivavano però solo mille. Entravano in città dalla porta principale, attraversavano il paese, uscivano da un'altra porta, compivano il giro da dietro, e poi rientravano dalla porta principale. Quelli erano gli altri mille buoi. Entravano, giravano, uscivano, rientravano. Eccone altri mille. E così di seguito - entro, giro, esco, rientro - sino ad arrivare a settemila buoi, o meglio, sino a contare sette giri degli stessi mille buoi.

E non è tutto. Una volta macellati i buoi, per farne carne per i soldati, il Commissariato ne vendeva le pelli per rientrare in parte della spesa. C'era un imprenditore di Trieste che quelle pelli le comprava, che si impegnava ad acquistare settemila pelli di buoi, con una clausola di salvaguardia: l'incasso di una costosa penale se il Commissariato non avesse fornito tutte le settemila pelli promesse. E siccome l'imprenditore triestino già sapeva dell'inganno - che i buoi erano cioè solo mille - l'incasso della penale per le seimila pelli mancanti non era eventuale ma sicuro.

E non basta. Dopo la Battaglia di Solferino, quando lo Stato Maggiore è ormai consapevole di un armistizio imminente, il Commissariato dell'esercito austriaco firma una serie di contratti di fornitura con commercianti privati, che si impegnano a consegnare bestiame, pane e vino in enormi quantità, ancora una volta protetti dalla clausola di un sostanzioso indennizzo, se per avventura l'esercito annullerà gli ordinativi.

Vien fuori che militari e imprenditori sapevano già tutto. I militari sapevano di siglare contratti che non avrebbero rispettato, gli imprenditori sapevano di incassare con certezza le penali, e le mazzette dei secondi ai primi erano il ponte per raccordare le due consapevolezze. Lo confessa per iscritto il responsabile del Dipartimento, prima di impiccarsi con gli alamari della sua giubba, nella cella in cui era stato rinchiuso dopo i primi sospetti. Da quella piena confessione seguiranno diversi arresti, di uomini d'affari triestini e di banchieri viennesi.

Corre voce sia coinvolto addirittura il Ministro delle Finanze dell'Impero, il Barone von Boch. Gli storici - oggi - pensano che il barone fosse all'oscuro delle frodi, che il suo nome fosse venuto fuori senza fondamento, sulla scia di un torrente di accuse ormai fuori controllo. Ma il Barone von Boch - all'epoca - fa l'unica cosa che nell'Ottocento poteva fare un Ministro delle Finanze quando correva voce di un suo possibile coinvolgimento in uno scandalo: si spara un colpo in testa.

Un epilogo iconografico della Seconda Guerra di Indipendenza.
Una suggestiva affrancatura con "valori gemelli"
- il 5 soldi del Regno del Lombardo Veneto accanto al 5 kreuzer dell'Austria -
a simboleggiare l'Impero e la sua provincia italiana.

Commenti

  1. E' disponibile on-line - gratuitamente - il numero 60 della rivista "Vaccari Magazine". A pagina 31 trovate l'articolo "La corrispondenza extraterritoriale dell'Oltrepò mantovano durante l'occupazione sarda", di Sergio Melotto e Paolo Vaccari.

    Ne estraggo il passo iniziale, particolarmente calzante col tema del post, invitando a leggere l'articolo per intero, davvero di notevole interesse.

    "È stata, nei secoli scorsi, buona norma quella di far coincidere i confini dei diversi Regni con precisi luoghi geografici, come la cresta di una catena montuosa o piccoli e grandi corsi d'acqua. Il motivo è semplice: questi confini erano chiari e soprattutto, aspetto fondamentale, offrivano la possibilità di essere facilmente difesi dagli eventuali attacchi dei nemici.

    Questa stessa logica fu adottata per definire gli accordi alla base dei preliminari di pace che portarono all'armistizio di Villafranca, l'8 luglio 1859, identificando il Po, al di sotto di Borgoforte come 'una linea di delimitazione naturale tra le armate belligeranti fino a Ficcarolo e di là fino alla sua imboccatura a Porto di Goro'.

    Troppo importante, tuttavia, era per gli austriaci, il mantenere il contatto diretto con i ducati loro alleati, che, per gli accordi siglati, sarebbero ritornati sotto il controllo delle famiglie regnanti, ed evitare che un cuneo sardo si potesse inserire tra i territori del Veneto e del Ducato di Modena. L'Austria fu, quindi, disponibile a cedere la Lombardia alla Francia, ma insistette perché i suoi confini meridionali venissero modificati nei documenti finali, delineando i possedimenti austriaci 'dal raggio estremo della fortezza di Peschiera, lungo il Mincio, a Scorzarolo, Luzzara ed al Po da dove le attuali frontiere continueranno a formare i confini dell’Austria'.

    Il dispiegamento di forze, tuttavia, che si venne a creare sulle sponde opposte del fiume, alimentò da una parte illusioni e speranze di un affrancamento definitivo di questo piccolo territorio, ma anche, da parte austriaca, il desiderio di una rivincita e di un ritorno imminente sulle posizioni iniziali. L'occupazione sarda dell'Oltrepò imponeva un preoccupante isolamento a un territorio da sempre collegato a Mantova e al Veneto, determinando una frattura nelle relazioni economiche, sociali e anche affettive".

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

KU FU? DALLA SICILIA CON FURORE

SEMIOFORI

LE DUE SICILIE - Normanni e Svevi