SUBLIME MADRE NOSTRA

UNITA' DI ITALIA

17 marzo 1861

"Libera e unita, quasi per mirabile aiuto della Divina Provvidenza,
per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti,
l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra.
A voi appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto"
(Dal "Discorso della Corona" di Re Vittorio Emanuele II
al primo Parlamento italiano a Torino, il 18 febbraio 1861)

"Monsieur le Marquis, le Parlement National vient de voter et le Roi a sanctionné la loi en vertu de laquelle S.M. Victor Emanuel II assume, pour lui et pour ses successeurs, le titre de Roi d'Italie [...]. Dès ce jour, l'Italie affirme hautement en face du monde sa propre existence".

Il destinatario della comunicazione è Massimo d'Azeglio, il firmatario è il Conte di Cavour. La lettera è datata 17 marzo 1861, il giorno in cui Re Vittorio Emanuele II "assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d'Italia".

E' un battesimo bizzarro. Una nuova corona con un vecchio numerale, la prima corona del Regno d'Italia con il "II" del Re di Sardegna. La stessa continuità già registrata nella numerazione della legislatura, la "VIII" dell'antico Regno di Sardegna e non la "I" del neonato Regno d'Italia. Gli Stati Sardi portano in dote anche la Carta Costituzionale - lo Statuto Albertino del 1848 - che rimarrà in vigore sino al gennaio del 1948. Scelte simboliche, con cui s'inaugura la Nazione italiana all'insegna di una stretta prossimità col Piemonte sabaudo. Gli "istituti comuni" - di cui vagheggiava Vittorio Emanuele - si risolveranno nell'automatica e acritica estensione delle istituzioni sarde ai nuovi territori, come se l'Italia fosse un Piemonte allargato, con pregiudizio per l'auspicato "stabile assetto" della nuova Nazione.

La bizzarria mostra venature grottesche. Cavour non scrive in italiano perché - ammette - "la lingua italiana mi è rimasta sino a oggi completamente estranea". Il Conte non vuole incappare in errori grossolani, nel veicolare un messaggio così rilevante. Preferisce il francese, la lingua che padroneggia, la lingua di quel Napoleone III a cui ha ceduto Nizza, trasformando Garibaldi in uno "straniero".

Cavour scrive in francese, e scrive immediatamente, perché consapevole della delicata questione istituzionale: il riconoscimento internazionale del Regno di Italia, l'approvazione degli altri Stati del principio di nazionalità, in sostituzione del principio di legittimità, punto cardine del Congresso di Vienna.

Già l'11 marzo 1861 il Conte ricorreva a una suggestiva struttura retorica per giustificare la Nazione italiana, nel presentare alla Camera il disegno di legge per l'assegnazione della la corona italiana a Vittorio Emanuele.

"E' una nobile nazione, la quale, per colpa di fortuna e per proprie colpe caduta in basso stato, conculcata e flagellata per tre secoli da forestiere e domestiche tirannie, si riscuote finalmente invocando il suo diritto, rinnovella se stessa in una magnanima lotta per dodici anni esercitata, ed afferma se stessa in cospetto del mondo. E' questa nobile nazione che, serbatasi costante nei lungi giorni delle prove, serbatasi prudente nei giorni delle prosperità insperate, compie oggi l'opera della sua costituzione, si fa una di reggimento e d'istituti, come già la rendono la stirpe, la lingua, la religione, le memorie degli strazi sopportati e le speranze dell'intiero riscatto".

Nel discorso di Cavour c'è una dimensione istituzionale, un argomento di stretta politica: lo Stato italiano ha una forma unitaria e centralizzata perché non vi sono alternative, perché di fronte a Re Vittorio Emanuele non vi sono figure con lo stesso grado di legittimità. Il nuovo Stato recepisce i bisogni di una comunità affrancata da "forestiere e domestiche tirannie", desiderosa di rimodulare il dispositivo di sovranità, di spostare il centro del potere dal Re alla Nazione. Oltre il Sovrano, oltre la concezione ereditaria dello Stato, oltre l'idea di una famiglia reale dai diritti divini e inconfutabili, oltre le guerre, i matrimoni e i trattati, c'è la volontà del popolo, il diritto nazionale, da codificare in coerenza allo spirito dei tempi.

Ma nel discorso c'è anche una latente dimensione ancestarale, un argomento più sottile. Cavour parla di nazione, e lo fa perché ha bisogno di un termine sintetico e efficace per compattare e caratterizzare una massa eterogenea e senza nome, per immaginarla come espressione di una realtà coesa da secoli, da chiamare ora nell'arena politica. Entrano in gioco elementi basilari - "la stirpe, la lingua, la religione, le memorie degli strazi" - innestati su fatti e sentimenti ancor più primitivi - la nascita, la morte, l'amore, l'odio, la speranza, la sofferenza - elaborati in un discorso che recupera eventi risalenti nel tempo, per rimodularli nel nuovo contesto attraverso opportune costellazioni narrative.

Il discorso nazionale è perciò artificioso, impostato su manipolazioni e viziato da incoerenze. C'è un evidente frattura - insanabile e imbarazzante - tra la costruzione concettuale e la dinamica dei fatti. Un'idea politica aveva preso fulmineamente forma, com'era naturale che fosse, per il punto a cui erano stati spinti gli eventi, ma come fu innaturale che avvenisse, date le condizioni di partenza. La "genialità" di Cavour - spesso indistinguibile dal più spregiudicato avventurismo - aveva trasformato una realtà multiforme in un nuovo soggetto, sedicente unitario. Sicuramente c'era una tradizione che teneva viva la percezione di un'entità etnica indipendente dalla frammentazione politica della penisola, ma per i più era una consapevolezza ormai assopita da secoli di ordinamenti pacificamente accettati.

Il caso della lingua è emblematico. L'italiano vanta autentici capolavori sin dal XIV secolo, e i pionieri del Risorgimento - da Cuoco a Foscolo, da ManzoniMazzini - presero le mosse proprio dalla letteratura italiana per testimoniare l'esistenza di una Nazione italiana e fondarne le ambizioni di riscatto politico. Ma a inizio Ottocento una frazione minima della popolazione usava l'italiano nella comunicazione quotidiana. I linguisti hanno stimato una quota di italofoni tra il 2.5% e il 9.5%, nel periodo immediatamente post-unitario. Le masse ricorrevano ai dialetti - anche profondamente diversi tra loro, nel lessico e nella sintassi - e persino a lingue straniere, come il francese nell'area del Piemonte. Già Dante Alighieri - nel "De vulgari eloquentia" - definiva volgare la lingua imparata dal bambino dalla nutrice - col richiamo al vernacolo fiorentino, romano, bolognese, napoletano - e la contrapponeva alla grammatica, una lingua immutabile, un prodotto artificiale dell'élite, da usare al di fuori della famiglia. Pietro Verri - esponente di spicco dell'illuminismo italiano - scriveva al fratello Alessandro, a proposito della figlia Teresa nata nel 1777: "Ella con me correntemente parla il francese, né mai altra lingua. Colla sua tedesca [la governante] parla il tedesco e cogli altri parla il milanese".

Il discorso nazionale sconta dunque handicap notevoli, all'origine e nei suoi sviluppi. Il Presidente Napolitano aveva gioco facile - col beneficio di una retrospettiva di 150 anni -  a parlare di un'Italia una e indivisibile, a rigettare quell'anti-risorgimento che "con fuorvianti clamori e semplicismi continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l'Unità poco oltre il limite di un Regno dell'Alta Italia". Ma nel 1861 la formazione di uno Stato italiano non era una necessità della Storia, e una classe dirigente italiana era una novità che avrebbe sconcertato i nonni e i padri di Cavour e d'Azeglio, di Ricasoli e Minghetti. La prospettiva di un'unità nazionale incontrò a lungo la ferma opposizione degli establishment di tutti gli Stati - incluso il Regno di Sardegna, sino al 1846 - e lo stesso Cavour definì "una corbelleria" l'inclusione del Regno delle Due Sicilie in un progetto unitario.

Eppure - e qui sta il fascino dell'esperienza risorgimentale - questa missione impossibile arriva a compimento. Com'è potuto accadere? Alberto Mario Banti - "the most visible of current experts of Risorgimento", nel giudizio del "Times Literary Supplement" - ha proposto un'originale chiave di lettura, basata su una profonda revisione del programma di ricerca; ha spostato l'attenzione dalla pura dinamica politica alla forza comunicativa del discorso nazionale; ha tolto il primato ai vaghi e perlopiù indimostrati mutamenti socio-economici, al caotico conflitto politico-ideologico e agli indecifrabili giochi di equilibrio internazionale, per consegnarlo alla potenza performativa del discorso romantico-nazionale.

La narrativa risorgimentale è concettualmente debole, e però emoziona, scuote le coscienze, trasforma la nazione da incompresibile astrazione a realtà che si vede e si tocca. L'impostazione sarà poi istituzionalizzata, quando gli Stati-nazione - quegli Stati sorti nel corso del XIX secolo, sulla base della nuova ideologia nazionale - procederanno a nazionalizzare le masse con l'uso sistematico e capillare di una panoplia di strumenti - scuola, festività nazionali, ritualità pubbliche, monumenti, nomenclatura delle strade, mezzi di comunicazione - suscettibili a vario titolo di insegnare la nazione al popolo.



  Lo storico George Mosse ha coniato il termine "estetica della politica"
per concettualizzare l'uso politico delle piattaforme mediatiche di svago.
Romanzi, opere teatrali, melodrammi, e persino i fumetti, vengono piegati a un fine istituzionale, 
per far passare il discorso nazionale e rendere seducente un sistema di valori.
per creare narrazioni con cui scatenare delle tempeste emotive nell'animo delle masse.

 
 
  
Lo Stato unitario è uno Stato nuovo, sorretto da un'idea nuova, l'idea di nazione.
 
Quando nasce questa idea? Su quale criterio si fonda? Quali fatti osservabili la rendono riconoscibile? Quante sono le nazioni? Chi ne fa parte? 

"Perché l'Olanda è una nazione, mentre l'Hannover o il Granducato di Parma non lo sono?" - si domanda Ernest Renan nella sua conferenza "Che cos'è una nazione", tenuta alla Sorbona l'11 marzo 1882. "Come può la Francia continuare ad essere una nazione, quando il principe che l'ha creata è sparito? Come può la Svizzera, che ha tre lingue, due religioni, tre o quattro razze, essere una nazione, quando la Toscana, per esempio, che è così omogenea, non lo è?".

Renan conduce la discussione sul punto più alto. Una nazione non può fondarsi sulla razza, perché "non esiste la razza pura" e "basare la politica sull'analisi etnica significa fondarla su una chimera". Una nazione non può fondarsi neanche sulla lingua, perché "la lingua invita, ma non forza, a unirsi". Una nazione non può fondarsi sulla religione, perché "non vi sono masse che credono in modo uniforme", e neppure sulla geografia, perché "un gruppo determinato dalla configurazione del suolo" non è in automatico coeso e solidale. Razza, lingua, religione e territorio sono aspetti esteriori, utili per avere un possibile correlato empirico del concetto teorico, ma non sono condizioni sufficienti né necessarie per parlare di nazione. Perché una nazione non ha un né limite chiaramente definito né caratteristiche immutabili. Perché una nazione è "una famiglia spirituale", "un principio spirituale, prodotto dalle profonde complicazioni della storia".

La tesi è raffinata, per l'enfasi posta sui temi del consenso e del rapporto col passato, sul nesso di causa-effetto tra la storia e il consenso, tra il passato comune e il consenso presente.

"La nazione è un'anima, un principio spirituale. Due cose che, a dire il vero, fanno tutt'uno, costituendo questa anima, questo principio spirituale. L'una è nel passato, l’altra nel presente. L'una è il possesso comune di un ricco lascito di ricordi; l'altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l'eredità che si è ricevuta indivisa. [...]. La nazione, come l'individuo, è il risultato di un lungo passato di sforzi, di sacrifici e di dedizione. Il culto degli antenati è tra tutti il più legittimo; gli antenati ci hanno creati così come siamo. Un passato eroico, di grandi uomini, di gloria (intendo la vera), ecco il capitale sociale su quale poggi un'idea nazionale. Avere delle glorie comuni nel passato, una volontà comune nel presente; aver fatto delle grandi cose insieme, volerne fare ancora, ecco le condizioni essenziali per essere un popolo. [...]. Nel passato, un'eredità di gloria e dei rimpianti da dividere, nell'avvenire un programma da realizzare; aver sofferto, gioito, sperato insieme, ecco quello che vale più delle dogane comuni e delle frontiere conforme alle idee strategiche; ecco quello che ci unisce malgrado le diversità di razza e lingua. [...]. Una nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici che si è fatto e da quelli che si è disposti a fare ancora. Presuppone un passato; si riassume però nel presente con un fatto tangibile; il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è [...] un plebiscito di tutti i giorni".
 
Il "plebiscito di tutti i giorni" non allude ovviamente a un voto quotidiano in cabina elettorale, ma richiama "un rito di compiacimento periodico celebrato di fronte al miracolo dell'appartenenza", ricorda che una nazione si fonda sulla volontà di farne parte e su un apparato istituzionale che sostenga questa volontà. Il meccanismo non chiama i causa i singoli individui - dotati di diritti personali - ma il popolo tutto assieme - come entità monolitica irriducibile alla somma delle singolarità - che si riconosce in una comunità solidale attraverso una storia comune.

Questa storia comune non esiste in natura, non corrisponde a nessuna immediata percezione di fatti bruti. Contiene in sé una poliedricità di situazioni - concrete e immaginifiche, reali o inventate -, si nutre di elementi artefatti e fa largo uso della retorica, per attivare processi di identificazione e affiliazione, e solo alla fine trova sbocco in un territorio preciso su cui si innesta uno Stato sovrano per volontà del popolo.
 
Questa storia comune è l'esito di una consapevole attività narrativa, che non è mai innocente - neutrale, asettica o indolore - e può persino imporre di reinventare il passato, di conoscerlo prima e dimenticarlo poi, di accoglierlo al principio in tutta la sua asprezza, per poi rimodellarlo ad arte per suscitare il sentimento di appartenenza nazionale. "L'oblio, e direi perfino l’errore storico, sono dei fattori essenziali nella creazione di una nazione" e - per paradosso - "il progresso degli studi storici è spesso una minaccia per la nazionalità", perché "riporta alla luce le violenze successe all'origine di tutte le formazioni politiche. [...]. L'unità si fa sempre brutalmente".

  "L'investigazione storica riporta alla luce le violenze all'origine di tutte le formazioni politiche
anche di quelle le cui conseguenze sono state le più positive".
E' il 17 marzo 1861, il giorno della proclamazione dell'unità d'Italia.
Una lettera viaggia da Campi a Taranto affrancata con una coppia dell'1 grano borbonico,
annullata con un timbro "a svolazzo" (di tipo 8), anch'esso un marchio di napoletanità.
La filatelia sintetizza la violenza - ma anche le inerzie e le incoerenze - in pochi centimetri quadrati:
   la rapidità e la brutalità degli eventi creò una frattura tra la vita di ogni giorno
e le decisioni prese nella sfera della politica e sui tavoli diplomatici,
l'Italia era unita, sotto i Savoia, ma nella quotidianità circolavano ancora i Borbone.
 
 
 
"L'unità si fa sempre brutalmente".
Lettera scritta l'8 ottobre 1861 a S. Spirito, rione di Bari,
diretta Gioia di Colle, e impostata a Giovinazzo l'11 ottobre 1861.
L'ufficiale postale doveva possedere uno spiccato sentimento patriottico:
 annullò il francobollo con le scritte a penna "Abolito - Annullato - di niun valore"
- parole che sembrano rivolte al Borbone più che al francobollo
o forse al Borbone attraverso il francobollo -
e tassò poi la lettera per 3 grana, come se non fosse stata affrancata,
sebbene i francobolli borbonici avessero validità sino al 21 novembre.
 
 
 
 "L'oblio, e direi perfino l’errore storico, sono dei fattori essenziali nella creazione di una nazione".
"L'investigazione storica riporta alla luce le violenze all'origine di tutte le formazioni politiche,
anche di quelle le cui conseguenze sono state le più positive. L'unità si fa sempre brutalmente".
Appartenere a una nazione significa conoscerne per intero la storia
e avere poi la volontà e la capacità di oltrepassare ciò che ostacola il senso di appartenenza,
in nome di un ideale più grande che si desidera affermare e perpetuare.
Appartenere all'Italia significa sapere (e aver poi dimenticato)
che la secolare dinastia dei Borbone di Napoli andò incontro a una "damnatio memoriae",
e che tutto il Meridione italiano subì una ripetuta violenza carnale,
in nome del diritto della Nazione italiana a prevalere sulla frammentazione delle Patrie.
Sentirsi parte dell'Italia unita vuol dire conoscere (e aver poi dimenticato)
la rappresentazione demonizzante che veniva data del Mezzogiorno
  - "una cancrena" (Luigi Carlo Farini), "un vaioloso" (Massimo d'Azeglio),
"un'ulcera" (Diomede Pantaleoni), "una razza di briganti" (Carlo Nievo),
"un lascito della barbarie alla civiltà del secolo XIX" (Aurelio Saffi) -
il cui eco, peraltro, fatica ancora oggi ad esaurirsi.
Sentirsi italiani significa sapere che l'Italia unita non sarebbe mai stata possibile 
senza l'ingerenza delle Potenze europee nelle questioni della penisola, 
essere consapevoli che una nazione la dovrebbero fare i popoli, e non gli eserciti stranieri,
e tuttavia e lanciare uno sguardo indulgente e positivo verso la propria storia,
e essere felici che il Risorgimento si sia comunque compiuto.
   
L'idea di nazione prende forma tra il XVII e il XVIII secolo. E' tenuta a battesimo dalla Rivoluzione Francese, e da allora sdogana l'esistenza di un nuovo soggetto istituzionale a cui assegnare il potere politico. Nazione, nazionalità e nazionalismo, sino ad allora parole generiche, riferibili alle più svariate realtà di gruppo - nel medioevo, per dire, anche agli studenti universitari "fuori sede" - entrano nel vocabolario politico e si caricano di implicazioni teoriche e pratiche, e la progressiva affermazione dello Stato-nazione sarà il fenomeno più rilevante del lungo '800 europeo, capace di distruggere, solo parzialmente nella realtà, ma del tutto nella coscienza politica, le forme statuali e i sistemi valoriali dell'ancien régime.
 
Esiste un diritto a governare i popoli? Da dove proviene questo diritto? Da un'entità metafisica, da Dio, secondo la concezione medioevale: la sovranità scende dall'alto, dalla divinità, e si appoggia sul singolo individuo, il monarca, attraverso il rituale dell'incoronazione che gli conferisce il potere di nominare consiglieri, ministri e funzionari con cui amministrare i suoi territori. Il dibattito politico-filosofico - tra '700 e '800 - inverte il meccanismo di legittimazione, non più una sovranità dall'alto verso il basso, ma dal basso verso l'alto. Tutti - anche se rimane un "tutti" controverso - hanno il diritto a esprimere le proprie preferenze, a indicare i propri governanti e a incidere sull'agenda politica. Il ribaltamento del meccanismo presuppone l'esistenza di una nazione, di un soggetto collettivo detentore della sovranità. "Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un'autorità che da essa non emani espressamente" - sancisce l'articolo 3 della "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino", del 26 agosto 1789.

Questa affermazione di principio avvia due dinamiche, una imitativa, l'altra reattiva. Dopo il 1789, chiunque voglia imitare la Francia, lo fa attraverso il linguaggio della nazione, con l'appello ai diritti politici inalienabili di una comunità e la revisione dei fondamenti del potere monarchico. Ma dopo il 1789 si inizia pure a reagire alla Francia, a rivendicari diritti negati alla propria nazione, quando gli eserciti transalpini - rivoluzionari prima, napoleonici dopo - vorranno imporsi d'autorità sugli Stati di nuova formazione. Su questa doppia dinamica - imitativa e reattiva - il discorso nazionale mette radici nella società e indirizza l'azione politica. Il nazionalismo raccoglie adesioni, crea movimenti, inventa un lessico. C'è chi - a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento - parla di Nazione piemontese, cisalpina, veneziana, romana, napoletana, ma poi il sentimento popolare e il linguaggio istituzionale si fasano sulla Nazione italiana.

Perché l'identità italiana prevale?

L'Italia unita - come tutte le Nazioni moderne, sempre con le parole di Renan - è "un risultato storico creato da una serie di fatti convergenti nel medesimo senso". Ma nel caso italiano, se guardiamo dietro ai meri "fatti convergenti", scorgiamo solo "uno spirito generale, tardivamente vincitore sui capricci della feudalità", che per di più muove "dall'oscura isola di Sardegna, terra appena italiana".
 
Giuseppe Libertini - leccese, mazziniano e repubblicano convinto - riconosceva che "l'italiano non è svizzero o americano; dopo di aver respirato in una ristretta sfera d’indipendenza, torna ad essere piemontese, fiorentino, veneto, siciliano, lombardo, toscano".
 
Nel 1844 Cesare Balbo scriveva di un'Italia che assommava "da settentrione a mezzodì province e popoli così diversi tra sé come sono i popoli più settentrionali e i più meridionali d'Europa".
 
Nel dicembre del 1860, quando gli eventi si erano ormai incanalati un traiettoria precisa, Giacinto de' Sivo pubblicava l'opuscolo anonimo "I Napolitani al cospetto delle nazioni civili", con cui stigmatizzava l'ormai inevitabile unità nazionale: ogni "paese" - della penisola preunitaria - "è uno stato intiero", con "sangue, storie e passioni e bisogni suoi", geloso della sua indipendenza, delle "sue leggi", del "suo nome", della "sua vita", e perciò "niuno vorrà perdere l'essere, cioè uccidere sé, per far presente del suo spento corpo ad una città lontana o ad un tutto ideale".
 
Ancora nel 1863 - con l'ottimismo della passione - Francesco De Sanctis dirà: "Diventando italiani, non abbiamo cessato d'esser napoletani".
 
E nel 1895, a oltre trent'anni di distanza dagli eventi, Raffaele de Cesare ricorderà quanto inverosimile potesse apparire ciò che poi effettivamente accadde: "Il Piemonte, che aspirava ad essere una grande potenza, andando a combattere in Crimea e discutendo la questione italiana nel Congresso di Parigi, teneva accesa la fede di quanti speravano tempi migliori; ma era piuttosto una fede religiosa che convinzione politica, tanto pareva inconcepibile quel che avvenne pochi anni dopo".

E allora, di nuovo, perché l'innovativo processo unitario risulta vincente rispetto all'atavica frammentazione della penisola? Come e perché si diventa patrioti italiani nella prima metà dell'Ottocento?

Il libro parla della "nazione napoletana prima della nazione italiana",
della "identità toscana nel XVIII secolo", della "Patria del Friuli prima dell'Italia",
e poi della "nazione dei genovesi", delle "patrie locali nelle periferie pontificie",
di "Bologna città libera nello Stato della Chiesa"
e della "Lombardia settecentesca come ipotesi di spazio nazionale".
La penisola non ebbe più una coesione politica, dopo la caduta dell'Impero Romano,
e i diversi territori sperimentarono nel tempo delle soluzioni istituzionali molto diverse tra loro.
Il Meridione vantava una storia di unità che si poteva datare già al 1078, 
con la conquista normanna dell'ultima roccaforte longobarda
e l'unificazione dei territori sotto il dominio del Duca Roberto il Guiscardo
(anche se fu poi Ruggero II, nel 1130, il primo Re di Sicilia, Puglia e Calabria).
Pur sotto diverse dinastie e dominazioni
le Due Sicilie rappresentarono per secoli un'entità sociale e politica autonoma,
connotata da una forte coscienza identitaria.
Il resto della penisola rimase invece a lungo frammentato,
impostato sul modello della Città-Stato, privo di un sentimento unitario.
Lo stesso Napoleone aveva di fatto diviso lo "Stivale", 
con la creazione di un Regno d'Italia limitato ad alcune zone nordiche
e l'annessione alla Francia di gran parte delle zone tirreniche.
La frattura strutturale tra Meridione e Settentrione
trova una paradossale conferma nella percezione dei Savoia,
in occasione del referendum del 2 giugno 1946, per scegliere tra Monarchia e Repubblica.
Il tema è complesso, non ammette un'unica lettura, e rifugge da spiegazioni semplici e immediate; 
ma non è irragionevole ipotizzare che l'abitudine secolare a essere "sudditi di un Regno" 
 abbia spinto la maggioranza del Sud a esprimersi in favore della Monarchia,
laddove il Nord, unificato solo nel 1860, inclinò verso la Repubblica,
con l'unica eccezione di Torino, città sabauda per eccellenza.

"L’analisi dello sviluppo dello Stato unitario non può non portare alla conclusione che esso è stato segnato da rilevanti difficoltà e permanenti fragilità, le quali nel corso di centocinquant'anni hanno cambiato forma e sostanza ma non sono mai venute meno, e che il sentimento dell’identità e unità nazionale è rimasto costantemente precario. Dal che sorge l’interrogativo, che oggi è sulla bocca di molti a cominciare dai leghisti, e a cui occorre dare una risposta, se 'fare' l'Italia' non sia stata una forzatura o, per usare questa espressione tanto schematica quanto densa di significato nella sua pregnanza polemica, 'uno sbaglio' tout court. I sostenitori di questa posizione si fanno forti dell’argomento che il progetto della formazione in Italia di uno Stato unitario non albergava né nella mente di Cavour prima dell' 'avventura' garibaldina nel Mezzogiorno né in quella del grande federalista Cattaneo. In effetti così era. Ma fu altrettanto vero che l’Italia unita diventò una realtà sotto la spinta di forze - élites, ceti medi e strati popolari - che prevalsero e che in essa il popolo italiano ha vissuto la propria storia a partire dal 1861. I problemi, le prospettive, le speranze e le delusioni, gli insuccessi e i successi degli italiani sono maturati nel contesto creato da quell'evento che fu l'unificazione del paese. Da tale contesto, e non da un altro, ha quindi preso origine ed è venuta a mano a mano dipanandosi la vicenda del popolo italiano".

"Il presupposto dello Stato italiano è l'esistenza di una nazione italiana. Ma oggi molti cittadini dello Stato italiano pensano che una nazione italiana non sia mai esistita, e perciò ritengono che non dovrebbe esistere neppure uno Stato italiano. La nazione, affermava il francese Ernest Renan, è un plebiscito di tutti i giorni. In Italia, nell'ultimo mezzo secolo, le frequenti elezioni politiche sono state simili a un plebiscito di tutti i giorni. Ma quasi tutte hanno fomentato aspre divisioni fra gli italiani, perché sono state vissute come una scelta di regime in una sfida mortale fra il Bene e il Male. E le divisioni si sono moltiplicate negli ultimi quindici anni, con la frammentazione dei partiti, la municipalizzazione della politica, la personalizzazione del potere, le guerre culturali fra principi non negoziabili. Renan diceva che la nazione è una 'grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme'. I cittadini dello Stato italiano non hanno mai avuto il sentimento comune dei sacrifici compiuti insieme. Il ricordo del passato ha sempre diviso gli italiani. Nel futuro, forse solo l'oblio del passato potrebbe unire gli italiani in una solidarietà collettiva. Renan sosteneva che l'oblio è 'un fattore essenziale nella creazione di una nazione', mentre, aggiungeva, la ricerca storica può essere un pericolo 'perché riporta alla luce i fatti di violenza che hanno accompagnato l'origine di tutte le formazioni politiche', anche quelle considerate benefiche".

Le opinioni, rispettivamente, di Massimo Luigi Salvadori ed Emilio Gentile ripropongono l'ansia di una comunità nazionale che non si riconosce come un "Paese normale", l'affannosa ricerca di un evento del passato che spieghi e illumini la specificità del percorso italiano. Il 17 marzo dovrebbe essere l'equivalente del 14 luglio per la Francia o del 4 luglio per gli Stati Uniti, e invece la nostra festa nazionale è invariabilmente irrequieta, polemica, ammantata di insofferenza.

Lettera da Napoli a Giovinazzo, affrancata con un esemplare da 2 grana.
Sulla lettera compaiono annotazioni anonime, probabilmente di un impiegato postale,
contro il Governo italiano e la persona di Vittorio Emanuele II.
L'Italia non esiste ancora, e già si polemizza.
 
All'origine del discorso nazionale (italiano) c'è una regressione dalla dimensione politica alla dimensione naturale: la nazione (italiana) alla stregua di una comunità di parentela e discendenza, una famiglia in grande scala, con una sua genealogia e un suo fato biologico, su un territorio compatto, per tre lati circodanto dal mare e sul quarto coronato dalle Alpi.

E' la nazionalizzazione della genealogia. E' la genealogia - il fatto di stare su un asse genealogico - a legittimare il potere del Sovrano, a giustificare la pretesa superiorità sociale di un nobile: un Re è Re perché figlio di Re, un nobile è nobile perché figlio di nobile, senza altri meriti se non l'appartenenza alla famiglia nobile o reale. Per trasposizione si nazionalizza la genealogia, con l'affermazione di un legame parentale all'interno di un popolo: non solo i Granduchi, i Principi o i Re hanno un genealogia; la abbiamo tutti, a prescindere dalla condizione sociale, in virtù dell'appartenenza a una stessa Nazione. 
 
La Nazione prende così la forma di una comunità bio-politica: politica perché è l'unica depositaria della sovranità, biologica perché la parentela evoca la riproduzione, quindi il sangue, la stirpe, la razza. Questo nucleo fondativo della nazionalità -  con cui si conferisce un significato politico a fattori primari come la nascita, l'amore e la morte - permette un passaggio immediato dalla dimensione mitografica al senso comune, dalla pura astrazione all'esperienza quotidiana. Il discorso patriottico mutua il lessico della famiglia (la Madre Patria, i Padri della Patria, e naturalmente i Fratelli d'Italia) e lo spinge sino alle leggi di attribuzione della cittadinanza (dispositivo dello ius sanguinis: "sei italiano perché figlio di italiani").

La comunità bio-politica esalta le differenze: noi siamo noi perché contrapposti agli altri, che sono diversi da noi e rappresentano una potenziale minaccia per l'integrità della nostra comunità. L'idea della guerra diventa inevitabilmente un cardine del sistema dei valori patriottici, e la guerra chiama a sé le esperienze del dolore, della sofferenza, della morte, tutte eventualità da contemplare per chi voglia militare all'interno del movimento nazionale. Cosa accomuna i percorsi di Mazzini e di Pellico, di Poerio e Settembrini, se non una sistematica e intensa sofferenza? E non è forse vero - come osserva Renan - che "la sofferenza in comune unisce più della gioia?".

La sofferenza entra nel sistema valoriale con una similitudine geniale, attraverso un calco diretto della tradizione cristiana. Il discorso politico è immerso in una dimensione para-religiosa, i martiri cristiani sono accostati ai martiri della nazione, le virtù cristiane sovrapposte alle virtù patriottiche, gli altari delle chiese trasformati in altari della patria. Sacrificio e martirio diventano le parole-chiave da proiettare dal campo religioso all'agone della politica. Martire è chi è morto per la causa, chi ha accettato il sacrificio, in paralllelo con quanto accade agli uomini religiosi. Martire - nella nuova declinazione - è chi testimonia la sua fede politica a una comunità in attesa di risvegliarsi - di capire il mistero dell'appartenenza nazionale, di agire per affermare la Nazione italiana - a costo della sua stessa vita. L'azione di propaganda diventa apostolato, e le guerre nazionali prendono la fisionomia di guerre sante, di autentiche crociate. La (ri)nascita della Nazione diventa una resurrezione  morale e politica - un risorgimento - attraverso la riconquista dell'indipendenza e della libertà della propria Nazione.
 
 "Nel partirmi da Pavia io sapeva, che sull'altare sacro alla Patria avrei deposto il mio sacrifizio,
e gli spasimi continui di un'afflittissima madre, 
ma la fidanza in Dio, che tu avresti sostenuto con coraggio questa suprema prova,
ed il santo principio, che mi fu guida, mi determinarono al difficile passo".
(Lettera di Luigi Cavalli alla madre, da Palermo, 12 giugno 1860)

Questa genesi è fisiologica, ma il fatto inquietante è nell'esser rimasti piantati al 17 marzo 1861, nell'aver ignorato un percorso evolutivo verso una concezione più elevata di Nazione, nel perpetuare stereotipi anacronistici e inespressivi. Parliamo ancora del sangue d'Italia, come Mameli nel suo Canto degli Italiani, anche se i genetisti ci hanno spiegato che le razze umane non esistono. Continuiamo ad ammantare l'appartenenza alla nazione di significati mistici, di contenuti religiosi, invocando la protezione di Santi e Madonne.
 
Anno 2011, l'Italia unita compie 150 anni. Al Festival di Sanremo va in scena la delirante esegesi dell'inno nazionale di Roberto Benigni. Il comico toscano recupera in un sol colpo tutti gli elementi del nazionalismo ottocentesco - la nazione è discendenza, articolata su sangue e suolo, noi siamo noi in opposizione agli altri, diversi da noi e pure violenti, perciò la guerra e il martirio sono i nostri elementi  identitari - e li attualizza brutalmente, senza nessuna mediazione storica o metodologica. Impariamo - in una sola sera - che noi italiani del XXI secolo discendiamo addirittura dai Romani (col loro magnifico esercito che incuteva timore al mondo), dai combattenti della Lega Lombarda (anno 1176), dai siciliani della Rivolta del Vespro (1282), da Francesco Ferrucci, morto nella difesa di Firenze (1530), e poi da Balilla, il ragazzino che avviò la rivolta di Genova contro gli austriaci (1746). Questa era esattamente la versione dei leader politici e degli intellettuali nazionalistici dell'Ottocento, che un secolo di ricerca storica ha mostrato infondata, ingannevole e fuorviante. Che tutta quella gente abbia lottato per la Nazione italiana, non solo è falso in sé, ma è anche pericoloso affermarlo oggi: perché rimette in circolo elementi tossici rispetto allo spirito dei tempi, perché ripropone l'immagine dello straniero - il tedesco, il francese, l'austriaco - violento e oppressore, perché smorza il sentimento di apertura all'Europa e al mondo, che ha segnato l'azione politica degli ultimi cinquant'anni.

Esagerazioni, si dirà. Il successo di Benigni è il successo di una sola sera. La militarizzazione della politica, la mistica del sacrificio eroico, la morte del nemico e la propria morte sull'altare della Madre Patria - in sintesi: il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana - sono servite al comico per strappare un nuovo cache da centinaia di migliaia di euro, senza conseguenze materiali sulle percezioni del pubblico o sui programmi dei politici. Non è così, purtroppo.
 
La concezione bio-politica di nazione, basata su sangue, razza, stirpe, sull'idea - "scientifica" per l'epoca - delle razze come gruppi umani con codici genetici differenti, fonda il concetto di razzismo, offre nemici e capri espiatori all'interno di un discorso comunque coerente. Sicuramente i leader politici (della destra di oggi) sono attenti a evitare accuse di razzismo - Matteo Salvini elogia le atlete italiane di colore: "bravissime, mi piacerebbe incontrale e abbracciarle" - ma il fatto rilevante è un altro: la costante preoccupazione di quegli stessi leader nel marcare il confine simbolico e materiale che separa noi dagli altri, con un linguaggio e un modo di porsi sostenuti da un imponente archivio memoriale - letterario, melodrammatico, pittorico, cinematografico - e ancora suscettibili, per quanto anacronistici, di colpire quell'immaginario in cui certe idee sopravvivono anche solo a frammenti.

"Stanotte ho pensato che quello che stiamo facendo lo stiamo facendo per i nostri figli", e scatta subito il legame di parentela; "amiamo i nostri figli, amiamo la nostra terra, e i nostri valori", e ritorna il tema della generazione, in cui sono impliciti i concetti di sangue e suolo; "amiamo anche la Madonnina che ci sta guardando dall'alto", e la proposta politica è circondata di un'aura sacrale, per favorire il dialogo con l'elettorato cattolico; "se serve, per voi, per l'Italia, e per i miei figli, io sono pronto a dare la vita", come se fossimo prossimi a una guerra, come se combattere fosse una necessità imminente. È tutta una retorica incentrata sulla nazione alla stregua di una madre che lega i suoi figli tra loro, li rende fratelli, li educa con la religione, la lingua e il passato comune, da difendere a ogni costo.

Sembra l'Italia del 17 marzo del 1861 del Conte di Cavour, e invece è l'Italia di Matteo Salvini del 18 maggio 2019.

"Oggi, nel 2011, forse dovremmo orientarci verso un tipo di patriottismo diverso,
che non si basi tanto sull'idea di nazione, ma che si basi piuttosto sull'idea di Costituzione,
cioè sul senso di appartenenza a una comunità politica, la Repubblica Italiana,
tenuta assieme da un patto collettivo che è quello scritto nel testo costituzionale.
Immagino che per la Repubblica Italiana del 2011,
il patriottismo-costituzionale potrebbe essere un buon cemento
per sentirci tutti quanti parte di una stessa comunità politica".

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