ALL'ASSALTO DEI DUCATI

GRANDUCATO, DUCATI E LEGAZIONI

27 aprile 1859 - 11/12 marzo 1860


"La famiglia del Plebiscito", Giovanni Pagliarini, 1860.
"Ma si tentò di nobilitare quell'operazione, imposta con la forza militare,
con l'invenzione dei plebisciti, una forma di votazione postuma, a invasioni avvenute.
Si trattava di tentativi di giustificazione giuridica formale,
con una votazione che forniva adesione popolare alle annessioni
dei diversi territori già conquistati con le armi.
A sconfinamenti e vittorie militari avvenuti,
con gli eserciti vincitori presenti alle operazioni di scrutinio,
si chiamavano i conquistati a esprimere consenso all'unificazione col Piemonte".
(Gigi Di Fiore)  

La vita regala un'infinità di situazioni: gradevoli e ingrate, avvincenti e noiose, semplici e complicate, bizzarre e ripetitive, facili e faticose, privilegiate e sventurate, ordinarie e straordinarie, intriganti e piatte. La vita funziona così: viene giù un diluvio di cose, ma non sono mai le cose che ci si aspetta.

Gli Accordi di Plombièrs avevano immaginato una geopolitica italiana da modulare sulle circostanze, ma ben definita nei contorni generali. Il Regno d'Alta Italia - Sardegna, Lombardo Veneto e Romagna Pontificia - sotto il controllo dei Savoia; il Regno dell'Italia Centrale - la Toscana e i rimasugli dello Stato Pontificio, con l'eccezione di Roma -, che Napoleone III avrebbe gradito consegnare alla Duchessa di Parma, per accattivarsi le simpatie dei francesi fedeli al ramo transalpino dei Borbone; poi la città di Roma - col suo circondario - da lasciare al Papa; e infine il Regno dell'Italia Meridionale - le Due Sicilie - anch'esso sotto le mire francesi, con Luciano Murat destinatario di trono, scettro e corona, se mai una ribellione di piazza avesse scacciato i Borbone di Napoli. La Francia ne avrebbe guadagnato la Savoia e possibilmente la Contea di Nizza.

Gli eventi - ovviamente - si collocarono su altre traiettorie. L'operazione militare franco-sarda aveva puntato al Lombardo Veneto, ma i Ducati avevano vissuto in parallelo delle sommosse spintanee - spinte da Cavour, sospinte dal Grande Tessitore - che avevano indotto i rispettivi Sovrani ad abbandonare i loro territori. Governi Provvisori erano sorti tra la mattina e il pomeriggio, tutti propensi a sottomettersi a Re Vittorio Emanuele, tendenzialmente favorevoli all'annessione al Regno di Sardegna. Napoleone III non aveva mai contemplato una simile evoluzione delle cose. Rimase sconcertato dalla sfrontatezza della politica piemontese, dai modi baldanzosi e spregiudicati con cui prendeva forma una nuova e imprevista entità statuale. La parte centrale della penisola - nella percezione dell'Imperatore - era una sfera di influenza francese, e annetterla al Piemonte significava rafforzare un Regno che prima o poi avrebbe alzato la voce e gli si sarebbe potuto persino rivoltare contro.

Nessun evento aveva seguito il piano iniziale, e nessun evento si accordò con le previste correzioni in corsa. I tavoli negoziali - a Villafranca prima, a Zurigo poi - deliberarono la restituzione di Ducati e Legazioni ai legittimi Sovrani (che avrebbero concesso un'amnistia generale e si sarebbero impegnati a un'apertura costituzionale). Il Piemonte avrebbe avuto solo la Lombardia, per gentile concessione della Francia (che nulla avrebbe potuto pretendere, giacché il Veneto era rimasto austriaco). Le riparazioni di guerra e le coperture delle spese sarebbero state a carico del Regno di Sardegna. Gli eventi - ovviamente - seguirono altri sentieri.

"Quante storie per questi due denti che dolgono in bocca,
non si creda mai che per due denti si lascino poi dolere tutti gli altri.
I denti che dolgono debbono togliersi subito 
e senza più pensare se è stato un bene o se è stato un male".
(Camillo Benso Conte di Cavour)

Re Vittorio sentiva una struggente nostalgia di Cavour, gli mancavano i suoi saggi consigli, la sua abilità nel destreggiare il Regno in questioni intricate, anche perché tutti quei Governi Provvisori - e meglio sarebbe dire improvvisati - iniziavano a intimorirlo e a creargli parecchi grattacapi, sia interni che internazionali. Il Grande Tessitore - tornato in sella al Governo - avviò un lavorio sotterraneo per trattenere la Toscana, le Romagne, Modena e Parma sotto la giurisdizione del Piemonte. Centrò l'obiettivo, con una manovra che rimane un caso di scuola di politica fatta sopra la testa delle persone.

"A guerra finita, con il progetto cavouriano realizzato a metà
attraverso l'annessione della Lombardia ma non del Veneto,
l'imperatore non poteva ancora reclamare con ragione
le contropartite territoriali ipotizzate un anno prima.
Poté farlo, però, quando decise di dire sì alle annessioni della Toscana e delle legazioni al Piemonte.
Annessioni che andavano in direzione diversa dagli accordi di Plombièrs.
Non si era stabilito di lavorare per una confederazione di quattro Stati
in cui l'Italia centrale doveva essere affidata a un nuovo Re?
Tutto stravolto: si stava invece perfezionando un'intesa per un primo ampliamento del Piemonte [...].
Napoleone III aveva dato il suo assenso ufficiale all'annessione immediata di Parma e Modena,
all'occupazione delle Romagne, all'autonomia toscana.
In cambio, ora chiedeva solo Nizza e la Savoia [...].
Il 24 marzo 1860 [...] si raggiunse l'accordo.
Cavour passeggiava avanti e indietro, mentre gli veniva letto il documento.
Firmò e poi disse, rivolto a Talleyrand: 'Adesso siamo complici, non è vero barone?'.
Già, complici di un grande inganno a scapito di migliaia di Nizza e della Savoia".

Un immenso polverone aveva iniziato a sollevarsi dalla penisola, in prossimità della Seconda Guerra di Indipendenza. Precarietà sociale, incertezza politica, ambiguità giuridica, confusione militare. All'orizzonte italiano si intravedeva un confuso accavallarsi di eventi imprevisti, impossibili da decifrare in tempo reale per approvarli o contestarli, e legittimati semplicemente dal trascorrere del tempo, dal loro progressivo sedimentarsi. Le questioni dinastiche, governative e geografiche erano rimaste sospese tra il diritto legittimo e lo stato di fatto e sarebbero state interpretabili solo a posteriori, quando la visione ideologica e la convenienza politica avrebbero trovato un'opportuna sintesi.

Un soggetto indefinito - un ibrido tra un'agenzia di propaganda, una setta segreta e un partito politico - aveva lavorato a un movimento di popolo e d'opinione suscettibile di destabilizzare gli Stati italiani dall'interno. Era la Società Nazionale, concepita a Torino nel 1857 dal veneziano Daniele Manin e del siciliano Giuseppe La Farina, con la benedizione di Cavour. Legittima in Piemonte, clandestina in tutti gli altri Stati, aveva l'obiettivo di sostenere il progetto unitario intorno al Regno di Sardegna. Numerosi infiltrati nelle vari Governi peninsulari lavoravano per guadagnare peso politico, amministrativo e giuridico, per dilatare le conseguenze del conflitto con l'Austria al di là del confine lombardo, per patrocinare una devoluzione di sovranità a vantaggio della Corona sabauda. Accentravano l'interesse della piccola borghesia, dei circoli rivoluzionari e dei piccoli leader territoriali. Allettavano ministri, magistrati, nobili, e persino alti prelati, con promesse di futuri incarichi nell'amministrazione sabauda.

L'ambiguità dell'associazione si trascinava dietro enormi problemi di governo e gestione, sino a casi paradossali di colpo di Stato nel colpo di Stato. Quella pletora di soggetti variegati si arrogava spesso il diritto di parlare a nome del Governo di Torino, di dichiarare di agire per suo conto, e se Cavour poteva ancora apprezzare occasionali soluzioni ingegnose o alcune mosse ben fatte, mal sopportava che gli autori potessero immaginare di estrometterlo dal processo decisionale. Il Conte aveva bisogno di collaboratori meno ambiziosi, più leali, capaci di spendersi più per l'obiettivo comune e meno per la carriera personale, e non solo non ne vedeva, ma aveva il terrore che la Società Nazionale ne formasse addirittura di opposti.


Granduca, Duchi e Cardinali avevano lasciato di gran fretta i propri territori, ma non per codardia, arrendevolezza, o disinteresse, non per salvare se stessi piuttosto che tutelare le istituzioni. "Quanto a me" - scriverà Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, una delle figure più oscure del Risorgimento - "sono convinto che sarebbe stato bastante un colpo di fucile, per rendere nulla la cospirazione di Modena, come ancora quelle di Firenze e Parma".

Non sapremo mai se a un'ipotetica nuova restaurazione sarebbe mancata la forza necessaria per perpetuarsi, se in un corso alternativo della storia - con i Sovrani Leopoldo II, Maria Luisa e Francesco V rientrati nei loro domini - le popolazioni avrebbero comunque avuto una crisi di rigetto, se la convivenza con quei Sovrani si sarebbe rivelata impossibile a causa di una fuga tacciabile di viltà. Ma sicuramente quei Sovrani avevano seguito i canoni di una dignità che nell'Ottocento faceva ancora la differenza. Vedevano nel proprio volontario allontanamento la più nobile forma di protesta, in attesa che i tavoli diplomatici ripristinassero velocemente lo status quo, come li aveva abituati la storia degli ultimi decenni. Non ristabilirono l’ordine interno, né respinsero attacchi sui confini, né comandarono azioni di polizia contro i Governi Provvisori, perché contavano su una veemente reazione internazionale alla violazione di trattati e alleanze. Affidarono la difesa dei loro diritti alle note ufficiali di protesta. Confidarono nei legami di sangue. E, semmai scorsero un mutamento d'umore nei loro popoli, non registrarono la frattura istituzionale rispetto alle numerose e brevi parentesi sovversive a cui avevano persino finito per assuefarsi. Non si accorsero che il moto rivoluzionario si era trasferito dalle barricate sulle strade ai tavoli della diplomazia, dalle urla in piazza ai codici di condotta della politica internazionale.

Così, se il Veneto era rimasto austriaco, i nuovi venti rivoluzionari avevano girato ben quattro carte sul tavolo da gioco: Toscana, Romagne, Modena e Parma. Gli Accordi di Plombièrs non permettevano a Napoleone di reclamare la Savoia e Nizza, ma Napoleone poteva ancora soprassedere sulle azioni piratesche nell'Alta Italia - mai contemplate a Plombiérs - a condizione di rivendicare quei territori originariamente concepiti come merce di scambio per l'intero Lombardo Veneto. La promessa restava valida, semplicemente cambiava la contropartita italiana sul piatto della bilancia. Un semplice dettaglio, se confrontato con la prospettiva di avere solo la Lombardia, pagare le spese di guerra e irritare l'Imperatore.

Il Governo di Torino cavillò sino all'ultimo, nell'illusione di potersi sottrarre agli accordi. Provò a subordinare la questione al preventivo vaglio del Parlamento, ma Parigi escluse categoricamente la possibilità: cosa c'entravano i deputati con un un accordo tra diplomatici? "Sono proprio stanco, vogliono Nizza e Savoia" - confidò Cavour al suo collaboratore Giuseppe Massari, dopo il colloquio con  Talleyrand del 27 febbraio 1860 - "Non so davvero cosa si sia ficcato in capo Napoleone III. Ma noi terremo fermo. Risponderò". Il punto fu lasciato e la risposta non arrivò.

Rimaneva un ultimo ostacolo all'attuazione di una decisione già presa, quel passaggio istituzionale vanto dei governi liberarli: la manifestazione della volontà popolareCavour ne temeva l'imprevedibilità e diede chiare disposizioni per indirizzarla verso l'esito già concordato a tavolino. "Avrà cura di studiare il modo più acconcio con cui a tempo debito dovrà aver luogo la manifestazione della volontà nazionale" - dirà al Commissario in Toscana Bon Compagni, nel maggio del 1859 - "senza ricorrere al pericoloso espediente del suffragio universale od a quello ugualmente pericoloso della convocazione d'una assemblea". E poi Massari, sullo stato d'animo di Cavour: "Il Conte è persuaso che, venendo al voto, Savoia si dichiarerà per la Francia; non così Nizza". Ancora Cavour, sui territori pretesi dalla Francia: "E' nostro dovere rassegnarci al doloroso sacrificio delle province transalpine [...]. E' necessario che si voti liberamente, ma che gli amici dell'Italia si adoperino onde il voto sia favorevole alla Francia".

La sovranità è del popolo, appartiene al popolo, in un regime liberale. Un Principe liberale ha il dovere di realizzare ciò che il popolo vuole, purché il popolo sappia esprimere con chiarezza la sua volontà. Ma  purtroppo il popolo non sa esprimerla, così il Principe è obbligato suo malgrado a farsene interprete. Come? Col plebiscito! Quel rito era l'usuale forma di coinvolgimento delle masse, entusiasmava Napoleone III e rispondeva alle pretese inglesi di legalizzare quella imbarazzante situazione attraverso il vaglio del consenso popolare.

La sovranità è del popolo, il popolo deve essere coinvolto e fatto votare, e tutti devono votare - e nei plebisciti risorgimentali a quel "tutti" si darà la massima estensione possibile per l'epoca: tutti i maschi adulti, senza altre distinzioni -, affinché il popolo veda chiaramente che il suo parere conta. Però è anche vero che il popolo sa ciò che vuole, perciò i plebisciti, nell'interesse del popolo, devono essere attentamente sorvegliati.

Il plebiscito quindi funziona così: tutti votano e a tutti sono forniti continui suggerimenti - censura, minacce, arresti, corruzione, compravendita di schede - sul modo giusto di votare; i voti sono tutti rigorosamente trascritti in appositi registri, e i registri sono poi consegnati al Ministero; e poi il Ministero, dopo aver fatto sparire i registri, compila le statistiche e pubblica infine i risultati ufficiali, opportunamente raccordati con le aspettative del Principe sull'esito del voto.

Questa è la volontà popolare, purgata dei propri inconvenienti.

VOLETE L'UNIONE 

ALLA MONARCHIA COSTITUZIONALE DI RE VITTORIO EMANUELE II?


DUCATO DI MODENA


Iscritti: 168.341

Votanti: 132.382

Favorevoli: 131.828 (99,6%)

Contrari: 293 (0,2%)

Nulli: 261 (0,2%)



DUCATO DI PARMA

                

Iscritti: 115.150

Votanti: 91.746

Favorevoli: 91.519 (99,8%)

Contrari: 209 (0,2%)

Nulli: 18 (0,0%)



STATO PONTIFICIO - Romagne


Iscritti: 252.727

Votanti: 203.384

Favorevoli: 202.659 (99,6%)

Contrari: 254  (0,1%)

Nulli: 471 (0,2%)



GRANDUCATO DI TOSCANA


Iscritti: non disponibili

Votanti: 386.455

Favorevoli: 366.571 (94,9%)

Contrari: 14.925 (3,9%)

Nulli: 4.949 (1,3%)



IL 26 aprile 1859 la Toscana è il teatro di "una rivoluzione finita a desinare",
con la sarcastica immagine di Vincenzo Salvagnoli.
Il Ministro della Guerra di Leopoldo II 
- "sensibilizzato" dal diplomatico piemontese Bon Compagni, con promesse di carriera politica -
suggerì al Granduca di non mettere alla prova la fedeltà delle truppe,
di rinunciare alla soppressione della rivolta, perché nessun soldato avrebbe obbedito.
Il Sovrano si sentì "sfiduciato" dal suo esercito e preferì abbandonare Firenze.
Il congedo avvenne in punta di piedi, in un clima sereno, il 27 aprile 1859.
Il Granduca aveva al fianco quei soldati che avrebbero dovuto tradirlo
e la gente lo salutava per strada al grido "Addio babbo Leopoldo!". 
Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malenchini e Alessandro Danzini
diedero immediatamente corpo a un Governo Provvisorio Toscano,
"puramente e semplicemente [...] istituito pei bisogni della pubblica sicurezza".
Già il giorno dopo, il 28 aprile, il Governo offriva la dittatura a Re Vittorio Emanuele,
che preferì però attenersi una linea di estrema prudenza,
non sapendo quale opinione avesse Napoleone III sull'eventuale annessione. 
Il Re di Sardegna accordò semplicemente la propria protezione
e nominò Commissario straordinario Carlo Bon Compagni,
già ambasciatore piemontese presso il Granducato.
L'11 maggio prendeva vita un Gabinetto di Governo con personalità locali
- Bettino Ricasoli, Cosimo Ridolfi, Enrico Poggi, Raffaele Busacca -
che preservava l'immagine di una Toscana indipendente, sovrana,
pienamente autonoma nella sua capacità decisionale.
E non era solo un fatto di facciata, di rispetto delle forme.
Ricasoli e Salvagnoli sponsorizzavano la fusione col Piemonte,
Ridolfi e Poggi caldeggiavano invece l'autonomia,
e nel mezzo arrivò a Livorno, il 23 maggio, il Principe Gerolamo Napoleone,
che causò un forte imbarazzo diplomatico tra Torino, Parigi e Firenze.
L'incertezza istituzionale non toccò le carte-valori postali.
Nessuno pensò di invalidare o sostituire i francobolli granducali,
il cui soggetto - il Leone d'Etruria coronato - non era politicamente scomodo,
e sembrava fatto apposta per sopravvivere a ogni possibile cambio di direzione.
Non solo i francobolli toscani rimasero a lungo gli stessi
- servirà arrivare al gennaio del 1860 per avere l'emissione "patriottica" -
ma la Sopraintendenza delle Poste mise in circolo un nuovo esemplare da 9 crazie,
- l'ultimo valore della "seconda emissione", o meglio, della serie su carta bianca a linee ondulate -
quando la dinastia dei Lorena se ne era ormai andata da tempo.
Questo prezioso francobollo è un ibrido:
emesso in periodo di Governo Provvisorio,
ma parte di una serie ideata in periodo granducale,
testimone di una Toscana ballerina,
tra un Granduca andato via e un Re che si faceva attendere.




Il Congresso di Vienna aveva consegnato il Ducato di Parma alla moglie di Napoleone,
con l'impegno a lasciarlo in eredità alla legittima dinastia dei Borbone (di Parma).
Il Ducato passò nelle mani di Carlo III, che fu però assassinato nel 1854.
La moglie Maria Luisa ne assunse la reggenza, in nome del figlio minorenne Roberto.
 La Duchessa lasciò Parma all'inizio di maggio del 1859, nel mezzo della guerra.
Vi rientrò appena quattro giorni dopo, scortata dai soldati e tra la gente in festa.
Ma in quegli stessi giorni il Generale Ribotti varcava il confine e entrava a Pontremoli, 
alla guida della Brigata "Cacciatori della Magra", su incarico del Governo di Torino.
La Duchessa ribadì la sua neutralità, ricorse alle vie diplomatiche, e chiese ragione a Cavour.
Il Conte le diede una risposta asciutta, sprezzante, nel suo solito italiano approssimativo:
"Il Ducato di Parma, essendo la base d'operazione dell'armata nemica,
non è possibile impedire che, anche da parte nostra, non accadano ostilità".
La dinastia dei Borbone di Parma era stata ribaltata
- come il francobollo da 10 centesimi sulla fascetta -
senza che vi fossero mai stati atti ostili da parte del Ducato,
senza alcuna dichiarazione di guerra da parte del Piemonte,
in violazione di qualsiasi norma o convenzione internazionale. 
  La Duchessa abbandonava definitivamente Parma il 9 giugno 1859.
"Quanto sia stato il Governo della mia Reggenza 
ne invoco a testimoni tutti Voi abitanti dello Stato e la Storia.
Idee più ferventi, lusinghiere per le menti italiane,
sono venute a inframmettersi ai progressi pacifici e saviamente liberali
cui tutte le Mie cure erano rivolte:
e gli avvenimenti che or si succedono Mi hanno collocata fra due contrarie esigenze,
prendere parte ad una guerra dichiarata di nazionalità
e non far contro alle Convenzioni cui Piacenza in special modo e lo Stato intero 
erano già sottoposti lungo tempo innanzi che ne assumessi il Governo.
Non debbo contraddire ai proclami volti d'Italia né venir meno alla lealtà.
Onde, non riuscendo possibile una situazione neutrale ... cedo agli eventi che premono
e raccomando al Municipio Parmense la nomina di una Commissione di Governo
per la tutela dell'ordine, delle persone e delle cose ...
E mi ritiro in paese neutro presso gli amati miei figli,
i cui diritti dichiaro di riserbare pieni ed illesi
fidandoli alla giustizia delle Altre Potenze ed alla Protezione di Dio".
(Duchessa di Parma Maria Luisa di Borbone, 8 giugno 1859)



Il Duca Francesco V lasciò il Ducato di Modena l'11 giugno 1859.
Fu l'ultimo Sovrano dell'Alta Italia ad abbandonare i suoi territori,
con uno spirito ben diverso da quello del Granduca di Toscana e della Duchessa di Parma.
Francesco V era apertamente schierato nello scontro tra austriaci e franco-piemontesi,
e il Ducato era vincolato all'Austria dall'impegno di un reciproco aiuto militare in caso di necessità.
Il Duca chiese l'intervento austriaco nell'Oltre Appennino, 
per la difesa di Lucca e Massa.
Ricevette solo un supporto per proteggere Reggio e Modena dalle rivoluzioni,
e le truppe furono poi ritirate, quando l'esercito austriaco ripiegò al di là del Mincio.
Al Duca non rimase che giustificare l'impossibilità di una strategia alternativa alla resa,
a distanza di tempo, a cose ormai sedimentate, dopo la proclamazione del Regno di Italia:
"la dissoluzione attuale rende per se stessa impossibile l'esistenza di Stati piccoli
ed impossibile la fedeltà futura, giacché si vede che chi è fedele
viene sacrificato dal nemico e dall'amico".
(Duca di Modena Francesco V, 9 settembre 1863)




La riforma amministrativa del 1850 partizionava lo Stato Pontificio in cinque "Legazioni":
Romagne, Marche, Umbria, Marittima e Campagna, e Circondario di Roma.
Quando la guerra volse a favore dell'alleanza franco-piemontese,
e le guarnigioni austriache abbandonarono i presidi a sud del Po,
la "Legazione" delle Romagne si ritrovò senza il puntello militare che la sosteneva.
Gli antichi centri di potere subirono la pressione di un'opinione pubblica avversa
e continuamente sollecitata ad abbracciare la "causa italiana" del Piemonte sabaudo.
Una neo-istituita Giunta di Governo proclamò decaduta la sovranità pontificia
e intimò i cardinali legati di abbandonare le rispettive città.
L'11 giugno andò via il cardinale di Bologna, il 13 il cardinale di Ravenna, il 21 quello di Ferrara.
I valori postali registrarono il cambio di regime politico solo nel settembre del 1859.
Un'emissione sobria, essenziale, minimalista, priva di riferimenti istituzionali,
"FRANCO BOLLO POSTALE ROMAGNE" sui quattro lati e al centro l'indicazione del valore,
espresso ancora in moneta pontifica, i bajocchi, pur ufficialmente fuori corso,



Governo Provvisorio della Toscana, 1860, 3 lire, il primo francobollo targato "IT(ALIA)".
Il 24 settembre 1859 il Re di Sardegna accolse le delegazioni dei territori "liberati". 
I rappresentati della Toscana, delle Romagne, di Modena e Parma
diedero il loro assenso all'annessione al Piemonte,
 forti degli esisti delle consultazioni popolari.
Ma Vittorio Emanuele replicò con prudenza,
disse di non poter riconoscere ufficialmente quelle deliberazioni,
perché le trattative di pace (con Austria e Francia) erano ancora in corso.
L'Armistizio di Villafranca, d'altra parte, non contemplava ipotesi espansionistiche,
e il Trattato di Zurigo - che ratificava l'Armistizio - sarebbe stato siglato solo il 10 novembre 1859.
Le negoziazioni diplomatiche stabilirono esclusivamente la cessione della Lombardia alla Francia,
che l'avrebbe poi gentilmente donata al Piemonte (a cui non restava che accettare).
I territori loro malgrado coinvolti indirettamente nel conflitto
- Toscana, Romagne, Modena e Parma -
sarebbero invece dovuti ritornare sotto l'autorità dei legittimi Sovrani.
La Francia non avrebbe guadagnato nulla in termini di estensione territoriale,
ma Napoleone III prospettò una possibile Confederazione Italiana presieduta dal Papa,
che gli avrebbe permesso di continuare a esercitare una notevole influenza nei domini italiani.
Questa ipotesi di accomodamento fu però superata e travolta da sofisticati giochi di potere:
i Sovrani spodestati non tornarono mai sui loro troni, la Confederazione non vide mai la luce,
tramontò l'idea di uno Stato federale, prese corpo una realtà monarchica e unitaria a guida Savoia.
La singolare evoluzione della geopolitica italiana aveva un preciso contrappeso, anzi due:
la Contea di Nizza e la Savoia, che diventarono francesi il 24 marzo 1860.



                              
11-12 luglio 1859: Armistizio di Villafranca per la cessazione del conflitto tra Austria e Francia.
10 novembre 1859: Trattato di Zurigo per la ratifica dell'Armistizio di Villafranca.
11-12 Marzo 1860: Plebisciti per l'annessione al Piemonte di Romagne, Toscana, Modena e Parma.
Né gli Accordi di Plombièrs né l'Armistizio di Villafranca né il Trattato di Zurigo
prevedevano un Regno di Sardegna esteso a Toscana, Romagne, Modena e Parma. 
Questi Stati entrarono a far parte del Piemonte attraverso manovre politiche sotterrane
e i francobolli dei Governi Provvisori rispecchiano le sensazioni e le contraddizioni del momento,
offrono un'originale chiave di lettura sui possibili, verosimili, stati d'animo dei protagonisti.
La prima emissione provvisoria si registra a Modena addirittura nell'ottobre del 1859:
francobolli "parlanti", che portano addosso gli stemmi di Casa Savoia
- la Corona, la Croce, il Collare dell'Annunziata, tra rami di alloro e di quercia -
come se già da allora si potesse dare per certa la nuova giurisdizione piemontese.
La stessa scelta si ritrova nel Granducato di Toscana,
l'ultimo Stato a transitare verso i valori provvisori, nel gennaio del 1860,
quando forse le controversie si percepivano risolte e il territorio si riteneva acquisito.
Nel mezzo ci sono i valori di Parma (agosto 1859) e delle Romagne (settembre 1859),
che mantennero invece un profilo neutrale, imparziale, a segnalare una posizione d'attesa.
A Parma si riutilizzarono gli stereotipi dei francobolli per giornali, privi di connotazioni politiche,
sebbene il Ducato fosse l'unico territorio che Napoleone sembrava disposto a lasciare al Piemonte. 
Nelle Romagne apparvero nuovi francobolli, caratterizzati da uno stile essenziale.
Casa Savoia era una famiglia cattolica e in amicizia col Papa,
e la scelta di valori postali neutri rispose forse all'obiettivo di tenere un profilo basso,
di non inasprire ulteriormente un rapporto all'improvviso divenuto travagliato.

Cavour aveva isolato l'Austria, accreditato il Piemonte presso l'opinione pubblica internazionale, e proposto il Regno di Sardegna a guida della risoluzione della questione italiana. L'originario obiettivo militare - la conquista del Regno del Lombardo Veneto - era stato conseguito solo in parte, ma altri territori - Toscana, Romagne, Modena e Parma - erano entrati nei confini sardi e del resto l'unità nazionale rimaneva un programma scadenzato su periodi lunghi. La classe dirigente fronteggiava ora un gigantesco problema di governo. Ci sarebbe stato da lavorare per anni, per creare un ordine politico - giuridico, amministrativo, militare, sociale - in quel Regno di Sardegna allargato a dismisura.

Rimanevano sullo sfondo i rapporti col più grande degli Stati italiani, il Regno delle Due Sicilie. Se per il Regno del Lombardo Veneto, per i Ducati di Modena e Parma, e al limite anche per le Romagne, si poteva ancora ostentare il legittimo motivo della guerra allo straniero, quel vasto Regno a sud dello Stato Pontificio poneva temi del tutto peculiari. Se tutti quei territori a nord della penisola formavano l'area "naturale" di espansione del Piemonte, il Meridione italiano era invece un altro mondo. Apparteneva alla dinastia dei Borbone dal 1734, era amministrato e governato da napoletani, i suoi Re parlavano il dialetto, il popolo stesso sembrava esprimere tutta un'altra sensibilità, un'altra cultura. Quel Regno lo si poteva occupare militarmente, ma non lo si poteva liberare, e Torino e Napoli erano in pace, agli antipodi nella filosofia, nello stile e nei modi di governo, se si vuole, ma in pace. Se proprio di liberazione si voleva parlare, allora serviva dimostrare che la stragrande maggioranza dei nove milioni di sudditi anelavano una mano esterna capace di affrancarli dalla sovrastruttura istituzionale borbonica, per trasformarli da regnicoli napoletani in abitanti della parte meridionale della nuova nazione italiana. Tesi oltremodo ambiziosa, se persino Cavour, in un esercizio di realismo politico, aveva definito "una tragica corbelleria" l'idea di un'Italia unita inclusiva delle Due Sicilie.

Ma nella primavera del 1860 tutto iniziò a girare più velocemente di quanto Cavour avrebbe voluto o avesse consapevolmente progettato o anche solo immaginato. Nella primavera del 1860 soffia il libeccio di una nuova guerra: la Sicilia sarebbe pronta a una nuova insurrezione, e Garibaldi cerca finanziatori, compra armi e recluta volontari, per unirsi ai rivoluzionari dell'Isola ...

Commenti

  1. Ringrazio il colto e brillante blogger per le sue rivisitazioni storiche, che mettono in luce aspetti poco noti della nostra storia patria. Mi permetto solo di segnalare una imprecisione nel collegamento legato al nome del diplomatico Talleyrand. Non era infatti il grande Charles-Maurice, principe di Talleyrand-Périgord, ministro degli Esteri sia con Napoleone sia con Luigi XVIII e protagonista del congresso di Vienna., morto nel 1838. Il Talleyrand che trattava con Cavour era un un suo lontano parente, Charles-Angélique barone di Talleyrand-Périgord, all'epoca ministro plenipotenziario presso il re di Sardegna.

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    1. Il mio sincero ringraziamento per la segnalazione. Provvedo tempestivamente a rettificare. Grazie ancora.

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