INTORNO ALLA CULTURA - Ducato di Modena


Le origini di Modena risalgono all'età media del Bronzo, tra il 750 e il 500 a.C. Villaggi quadrangolari, formati da palafitte sulla terraferma, delimitati e protetti da argini e fossati. E' la civiltà etrusca terramaricola, delle terre marne, quei terreni scuri, organici, ottimi per la concimazione, tipici del luogo. Il nome di battessimo è Mutina, dall'etrusco mutna o mutana - tomba - che ha la radice in mut o mot, monte, tumulo, collina, luogo rialzato.

I celtici dei Galli Boi se ne impadroniscono tre secoli più tardi, e impongono la loro dominazione sino al 200 a.C., per poi cedere all'Impero di Roma. Mutina diventa così - con le parole di Cicerone - una firmissimam et splendidissimam populi Romani coloniam. Vanta già una posizione geografica strategica per i suoi accessi ai passi appenninici, e la sua rilevanza è accresciuta dalla costruzione della Via Emilia, la strada di collegamento con gli altri grandi centri dell'area, crocevia di traffici economici e operazioni militari, che darà poi il nome a una parte della regione.

Il III secolo d.C. è un periodo di guerre con conseguenze devastanti - il vescovo di Milano, per noi Sant'Ambrogio, parlerà di "cadaveri di città semidistrutte", nell'attraversare la via Emilia -, ma è anche il periodo di una figura destinata a diventare un'icona modenese, il vescovo Geminiano, un personaggio in cui si intrecciano storia e leggenda, acclamato Santo e Patrono della città sin dal giorno della sua morte, il 31 gennaio 397, oggi festa cittadina.

La città rinasce sul finire del IX secolo, riorganizzata intorno a una pur limitata cinta muraria, fatta erigere dal vescovo Leodoino su concessione dell'Imperatore. Il 9 giugno 1099 è una data-simbolo nella storia di Modena: iniziano i lavori per la costruzione della nuova Cattedrale Romanica, con sforzi logistici e economici che diventano i segni materiali della ritrovata vitalità della comunità modenese, della sua rinascita spirituale.

Nel 1126 sorge il libero comune. Il periodo è invero convulso, agitato, instabile, come d'altra parte nell'Europa intera. Segni di progresso si intercalano a eventi bui, tristi: l'ampliamento delle mura, la fondazione dell'università (la quinta più antica al mondo), le chiese francescane, i primi statuti delle arti cittadine, la visita dell'Imperatore Federico Barbarossa, il congresso della Lega Lombarda; ma anche feroci e continue lotte civili all'interno della città, conflitti insanabili tra famiglie nobili, tra guelfi e ghibellini.

Il 1289 è l'anno della svolta. Quel libero comune, autogovernato, vive ormai un disagio insostenibile. Tutti sentono il bisogno di un moderatore, di una figura super partes, estranea alle inconciliabili fazioni modenesi. La individuano nel marchese di Ferrara Obizzo d'Este, nipote di Azzo VII, che nel 1240 aveva affermato in città la signoria degli Este  (una stirpe germanica, discendente dei Franchi, presente in Toscana nel IX secolo e in Veneto intorno all'anno mille).

"... e quell'altro ch'è biondo
è Opizzo da Esti, il qual pur vero
fu spento dal figliastro sù nel mondo".
La citazione di Dante - Inferno, Canto XII, 110-113 -
allude alla probabile morte di Obizzo d'Este per mano del figlio Azzo VIII.
"Figliastro" può suonare sia come figlio degenere sia come figlio illegittimo,
un'accusa forte, diretta, visto che Azzo era in vita quando l'opera iniziò a circolare.

La lungimiranza dei modenesi - la scelta di cedere la sovranità, di affidarla a gruppi esterni alla città - ne rappresenta la salvezza nei secoli a venire. Senza quella decisione, senza la rinuncia alla libertà comunale, la città avrebbe probabilmente seguito la sorte di Bologna e Rimini, annesse poi allo Stato della Chiesa, oppure di Mantova e Cremona, consegnate al potere di Milano. Anche Reggio deciderà l'anno dopo di consegnarsi a Obizzo, che diverrà Signore delle due province, come feudatario dell'Imperatore.

La casa d'Este avrà una vita plurisecolare, tra contese e conflitti che saranno un punto d'onore per il piccolo Stato, tenace e caparbio nel tener botta dapprima ai rigurgiti interni - solo nel 1336 gli Este si affermeranno in modo tendenzialmente definitivo - e poi alle occupazioni di eserciti stranieri - i papalini nel 1510, i francesi nel 1702, gli austriaci nel 1742, e poi Napoleone nel 1796 -, per cedere solo al terremoto culturale, politico e sociale dell'unità d'Italia.

Il primo stemma degli Estensi.

Alcuni passaggi storici hanno un valore nodale per la città.

Nel 1452 nasce il Ducato, con a capo Borso d'Este, che riceve il titolo di Duca di Modena e Reggio dall'Imperatore Federico III, il titolo di Duca di Ferrara dal Pontefice, nel 1471.

Il 1598 è l'anno di "Modena Capitale", sebbene in conseguenza di un atto di forza. Il Papa rivendica la città di Ferrara - capitale dei domini estensi - in seguito alla scomparsa di Alfonso II senza eredi legittimi. Il nuovo Duca Cesare I soccombe e trasloca Modena, che diventa così la nuova sede di corte. Inizia quel legame tra la città e la dinastia degli Este che ne sarà un tratto reciprocamente caratterizzante.

Il periodo dal 1629 al 1658 è la fase di massimo splendore, sotto il governo del Duca Francesco I. Mecenate delle arti e delle scienze, raffinato collezionista, tessitore di disinvolte trame diplomatiche in altalena tra Francia e Spagna. Con lui Modena sale al rango delle principali capitali europee, uno status che impone importanti lavori di rinnovamento edilizio - nuove strade, splendidi palazzi, sontuose chiese - di cui ancor oggi abbiamo testimonianza.

C'è poi una Modena di colore rosa, al femminile, che si ritaglia la sua parentesi di gloria e di dramma, nella storia del Ducato e non solo. Il Duca Alfonso IV muore nel 1662, dopo soli quattro anni di governo, quando il figlio Francesco II è ancora un infante. La moglie Laura Martinozzi assume la reggenza della città, e mostra così tanta abilità politica e amministrativa, da meritarsi l'appellativo di "miglior Duca di Modena". La figlia di Laura - Maria Beatrice - va in sposa a Giacomo Stuart, Duca di York, incoronata Regina d'Inghilterra nel quadro di quei complessi disegni diplomatici della corte estense dell'epoca. Cattolica, in un paese di protestanti, Maria Beatrice di Modena battezza il figlio secondo il rito romano, una scelta con le apparenze della provocazione, in un clima già teso, che condurrà alla "Rivoluzione Gloriosa" (Glorious Revolution), con la deposizione del marito e l'inizio di una monarchia vincolata alla "Dichiarazione dei Diritti" (Bill of Rights).

Borso d'Este (1452-1471)                                                Ercole I (1471-1505)



Alfonso I (1505-1534)                                                  Ercole II (1534-1559)



Alfonso II (1559-1597)                                                      Cesare (1597-1628)



Alfonso III (1628-1629)                                                    Francesco I (1629-1658)



Alfonso IV (1658-1662)                                                    Francesco II (1662-1694)



Francesco III (1737-1780)                                                     Rinaldo (1695-1737)


Ercole III (1780-1796)

Punti scelti nella storia di un Ducato in lenta ma costante espansione, a cui tra il '600 e il '700 si aggiungono la Signoria di Sassuolo, il principato di Correggio, il Ducato della Mirandola, la contea di Novellara, il Ducato di Massa e Carrara.

Sassuolo.


Correggio.



Mirandola.

Il periodo napoleonico è un capitolo a sé per gli stravolgimenti geopolitici - Modena è assorbita dapprima nella Repubblica Cispadana, poi nella Cisalpina, dopo ancora nella Repubblica Italiana, e infine nel Regno d'Italia - e il solo punto di contatto col passato è l'irresistibile pulsione a spogliare la città dei suoi tesori.

Già nel 1598 i funzionari pontifici avevano saccheggiato le collezioni dei Duchi a beneficio delle loro personali, approfittando del trasferimento della dinastia da Ferrara a Modena.

Nel 1746 la celeberrima vendita di Dresda salva il Ducato dalla bancarotta, e il Principe di Sassonia - tra agenti segreti, intrighi di corte e firme false - può acquietare i suoi invidiosi ricordi della Galleria Estense, che covava dalla prima volta in cui glia aveva posato sopra gli occhi, nel 1712.

Napoleone, infine, spoglia la città delle principali opere d'arte, nel corso della sua "Campagna d'Italia". Beni archivistici e librari, medaglie e monete, e poi dipinti, busti, vasi, disegni, cristalli. Un saccheggio libero da ogni freno inibitorio. La moglie Giuseppina manifesta lo stesso appetito, e si impossessa di gran parte della collezione di cammei e pietre preziose custodita a Palazzo Ducale, dove aveva preso la residenza.

"Noi desideriamo affermare che, per quanto ne sappiamo, 
nella Storia nessun torto ci tormenterà così a lungo
o sarà causa di di tale giustificabile amarezza
da autorizzare la rimozione, per qualunque ragione,
di una parte dell'eredità culturale di una nazione;
anche se quella eredità dovesse rappresentare il premio di una guerra vinta".
(Manifesto di Wiesbaden, 1945)

Nel 1815 il Congresso di Vienna ripristina il Ducato, e lo assegna al nipote del Duca Ercole III, l'arciduca Francesco d'Asburgo-Este, che prende il numerale IV.

Il territorio include Modena, Reggio, Massa e Carrara, il Frignano, la Garfagnana e la Lunigiana; ha un'estensione di 6.000 chilometri quadrati e conta circa 600.000 abitanti

L'inno nazionale diventa il "Serbi Dio", canzone popolare austriaca e manifesto della religione di Stato, un cattolicesimo totalitario che tollera solo una storica minoranza ebraica, presente con uno suo ghetto sin dal 1638.



Il periodo della restaurazione è complessivamente favorevole, ma sconta, come altrove, l'ostinato atteggiamento conservatore e reazionario dei regnanti, la loro ritrosia ad abbandonare l'idea di un governo paternalistico e illuminato. Anche il più piccolo tra gli Stati italiani vive periodi di tumulti e ribellioni, e diventa anzi il teatro del più importante tentativo d'insurrezione, sulla scia delle rivoluzioni del 1830 in Francia, Belgio e Polonia.

Il giovane avvocato modenese Enrico Misley ordisce sin dagli anni '20 una congiura per formare un nuovo Stato italiano monarchico-costituzionale, con la sponda del Duca. Il progetto è ambiguo e rischioso, perché se da un lato poggia con buon fondamento sulle ambizioni di Francesco IV di elevarsi a sovrano di un possibile Regno di Italia, dall'altro fa leva su un uomo che ha sempre mostrato un'altrettanto chiara avversione a qualsiasi idea liberale. Tra il 1826 e il 1830 l'avvocato prende contatti con gli esuli italiani a Parigi e a Londra, e con altri patrioti bolognesi e romagnoli, ma dopo lo scoppio delle rivoluzioni - in Francia a luglio, in Belgio ad agosto - Francesco IV si chiama fuori. La congiura - così dice - non è più sostenibile, perché ormai ben conosciuta dal Governo austriaco.

Il defilarsi del Duca consegna la scena a Ciro Menotti, giovane imprenditore modenese di idee patriottiche e liberali, che sin dal 1829 era entrato tra i cospiratori. Menotti e Misley rimodulano il piano nella forma di un'insurrezione armata da far scoppiare nell'Italia centrale, per poi propagarla sino a realizzare uno Stato italiano unitario, confidando nella benevola tolleranza di Francesco IV, da nominare nuovo monarca attraverso un congresso da convocare a rivoluzione compiuta. Il progetto fallisce, e Ciro Menotti sarà condannato a morte, ma la sua figura di rivoluzionario impavido e eroe romantico condizionerà nel profondo le coscienze dei popoli italiani, e Garibaldi ne trasformerà addirittura il cognome nel nome del suo figlio primogenito.

La cosiddetta "congiura estense" è uno degli episodi più singolari del Risorgimento,
per la gran quantità di tensioni interne e contraddizioni che lo caratterizzano.
Il Duca Francesco IV era un uomo di smisurata ambizione:
teneva una corte sfarzosa come un grande sovrano,
aveva continui rapporti diplomatici con diversi Stati europei
e giudicava il Ducato uno Stato troppo piccolo per le sue brame di potere.
Aveva seguito da vicino la questione della successione sabauda,
in qualità di marito di Maria Beatrice di Savoia,
primogenita del Re di Sardegna Vittorio Emanuele I.
Pensava di poterne prendere il posto, giocando sul legame di parentela? 
Da qui, forse, la sua ambigua posizione verso i movimenti rivoluzionari,
da un lato condannati in linea con la sua fama di sovrano assolutista,  
dall'altro non ostacolati nella speranza di indirizzarli a proprio vantaggio.
Il probabile doppio gioco del Duca si risolse infine per la via più ortodossa:
il voltafaccia a Menotti, l'arresto, il processo, la condanna a morte.
Ma sulle ragioni della decisione si fatica ancora a far chiarezza.
Il Duca aveva realizzato l'impossibilità di un Regno d'Alta Italia?
Temé di perdere i suoi domini e il suo potere, in caso di insuccesso?
O era semplicemente geloso del carisma di Menotti?

Il Ducato passa di mano nel 1846, a Francesco V, figlio di Francesco IV. Appena due anni dopo succede un quarantotto, e il nuovo Duca deve allontanarsi dai suoi territori. Ma è un'assenza breve, di pochi mesi, il tempo necessario all'Austria per spegnere le velleità dei piemontesi sul Regno del Lombardo Veneto.

"Consci dinnanzi a Dio e dinnanzi agli uomini
di non aver mai fornito alcun legittimo pretesto al Governo sardo
di ammettere per parte sua una così fatta considerazione, dopo averla considerata ingiusta,
dobbiamo anche considerarla contraria ad ogni analoga consuetudine internazionale".
(Protesta del Duca Francesco V di Modena, 14 maggio 1859)

Francesco V sarà di fatto ininterrottamente a capo del Ducato dal 1848 al 1859, e tra gli oneri e gli onori del suo governo - l'epidemia di colera nel 1855, la promulgazione di un nuovo codice di leggi, l'ospitalità a Papa Pio IX nel 1857 - c'è pure l'emissione dei francobolli modenesi, datata "1 giugno 1852".

1 giugno 1852: l'emissione del Ducato di Modena.
Cinque esemplari, con un valore facciale in (sottomultipli della) lira italiana (100 centesimi),
stampati in tipografia, in nero, con un unico cliché, su sfondi di diverso colore.
(nel 1853 sarà emesso un ulteriore esemplare con valore facciale da 1 lira).
Il soggetto è l'aquila estense coronata tra due rami di alloro legati in basso da un nastro.
Lo sfasamento temporale rispetto all'emissione del Regno del Lombardo Veneto (1 giugno 1850)
suscitò più d'una irritazione nella sospettosa Imperiale Regia Autorità viennese,
che percepiva il piccolo Stato come una semplice appendice del proprio potere centrale,
e scorgeva in quel ritardo un tentativo di indipendenza, da cui ne sarebbero potuti venire degli altri.



 Il Ducato di Modena creò un intenso flusso di corrispondenza
- al suo interno e verso l'esterno,  ma anche in entrata da quasi tutti gli altri Stati italiani -
giustificato per lo più da ragioni d'affari.
Uno specifico regime postale vigeva tra il Ducato di Modena, il Regno del Lombardo Veneto,
il Ducato di Parma, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio,
nell'ambito di una più generale Convenzione austro-italica.
Il flusso postale più intenso è col Lombardo Veneto,
favorito dalla contiguità geografica e politica, 
ma anche dalla sua economia nettamente più sviluppata.
Seguono il Granducato di Toscana, in particolare con le città di Firenze e Livorno,
e lo Stato Pontificio, in special modo le località delle Romagne.    
Meno frequenti gli scambi col Ducato di Parma, 
di ridotta estensione territoriale e minor rilevanza commerciale.
Dall'1 marzo 1855 entra in vigore la convenzione postale col Regno di Sardegna,
ma gli scambi di corrispondenza rimangono esigui, relativamente limitati.
Non vi fu mai alcuna convenzione con il Regno delle Due Sicilie.
Sono conosciute poche lettere provenienti dai domini al di qua del Faro (Regno di Napoli),
e non è nota alcuna corrispondenza dai domini al di là del Faro (Regno di Sicilia).
 Un capitolo a sé è l'affascinante corrispondenza con Philadelphia,
che ha originato il tesoro dell'Archivio Vito Viti.

Il Ducato si ritrova suo malgrado al centro dei piani del Conte Cavour, il Grande Tessitore, impegnato a gettare le basi della futura unità nazionale.

Nel luglio del 1858, nel comune francese di Plombières, il Conte e l'Imperatore francese Napoleone III tramano e cospirano, bisbigliano e prendono accordi segreti, in vista di una nuova azione bellica contro la dominazione austriaca. Napoleone III - lo scrive Cavour - era "risoluto a sostenere la Sardegna con tutte le sue forze in una guerra contro l'Austria, a patto che la guerra avvenisse per una causa non rivoluzionaria e potesse trovare giustificazione dinanzi alla diplomazia e più ancora all'opinione pubblica di Francia e d'Europa".

Serviva quindi un casus belli credibile, che però faticava a venir fuori. La violazione dei trattati commerciali col Piemonte? Argomento troppo debole, per giustificare una guerra. L'occupazione austriaca della Romagna Pontificia? Inverosimile, perché anche Napoleone III teneva una sua guarnigione a Roma. Dopo tanto girovagare, alla ricerca di un pretesto che non c'era, il Ministro e l'Imperatore giunsero nel Ducato di Modena, arrivarono dritti al Duca Francesco V, colpevole di non aver mai ufficialmente riconosciuto il ruolo di Napoleone III. La strategia franco-piemontese avrebbe impiegato l'arma della provocazione sistematica: indurre una parte del Ducato a rivolgere un appello di protezione a Re Vittorio Emanuele II; far prendere al Re di Sardegna le dovute distanze istituzionali da quell'invocazione, senza però restarvi indifferente; inviare una nota minacciosa a Francesco V, cavalcando la supplica di un popolo dichiaratosi oppresso; confidare nella brusca reazione del Duca, che si sperava rispondesse a tono, forte dell'alleato austriaco, per avere così l'agognato casus belli.

Le cose andarono diversamente. Il casus belli lo offrì direttamente l'Austria, quando non ce ne sarebbe stato più motivo, quando Napoleone III si era rimangiato gli accordi di Plombières e Cavour lo minacciava di rivelare tutto. Le cose andarono diversamente, perché ogni cosa segue vie diverse da quelle immaginate, ma la protesta prese comunque forma, ideata dalla penna di Emilio Lazzoni, con le firme di tremila cittadini di Massa e Carrara: "permettete, Eccellenza, che i sottoscritti cittadini di Massa e Carrara [...] espongano a Voi lo stato miserevole nel quale gemono da tanti anni [...]. E perché, in mezzo a tanti dolori e recenti provocazioni, rimasero calmi questi popoli e tranquilli? Perché un Augusto Personaggio proclamò di non essere insensibile ai tanti dolori che da tutte le parti di Italia a lui si indirizzavano". Le cose andarono diversamente, ma le vicende del Ducato diedero lo spunto al famoso grido di dolore, e forse non è una forzatura vedere sul torrente Parmignola, anziché sul Ticino, il germe della Seconda Guerra di Indipendenza.

"... ci mettemmo a percorrere insieme tutti gli Stati d'Italia,
per cercarvi questa causa di guerra così difficile da trovarsi.
Dopo aver viaggiato inutilmente per tutta la Penisola,
giungemmo senza farci caso a Massa e Carrara
e là scoprimmo quello che cercavamo con tanto ardore.
Avendo io fatto all'Imperatore una descrizione esatta di quel disgraziato paese,
del quale peraltro egli aveva una conoscenza assai precisa,
restammo d'accordo che si sarebbe provocato una supplica degli abitanti a Vostra Maestà
per chiedere protezione ed anche per reclamare l'annessione di quei Ducati alla Sardegna.
Vostra Maestà non accetterebbe la proposta ma, prendendo le parti delle popolazioni oppresse,
rivolgerebbe al Duca di Modena una nota altera e minacciosa.
Il Duca, forte dell'appoggio dell'Austria, risponderebbe in modo impertinente, 
in seguito a ciò Vostra Maestà farebbe occupare Massa e la guerra inizierebbe.
Siccome il Duca di Modena ne sarebbe la causa,
l'Imperatore pensa che la guerra sarebbe popolare non solamente in Francia,
ma anche in Inghilterra e nel resto dell'Europa
poiché quel Principe, a torto o a ragione, è considerato come il capro espiatorio del dispotismo.
D'altra parte, non avendo il Duca di Modena riconosciuto alcun Sovrano
di quelli che regnano in Francia dopo il 1830,
l'Imperatore ha meno riguardi da osservare verso di lui che non verso qualsiasi altro principe".
(Lettera del Primo Ministro Cavour a Re Vittorio Emanuele II, 24 luglio 1858)



"Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli d'Europa
perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira.
Questa condizione non è scevra da pericoli, giacché nel mentre rispettiamo i trattati,
non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi".
(Re Vittorio Emanuele II, Discorso al Parlamento, 10 gennaio 1859)



Lettera da Guastalla a Reggio del 2 giugno 1859,
affrancata con un esemplare del 5 centesimi dell'emissione ducale,
viaggiata nel corso della Seconda Guerra di Indipendenza.

Francesco V abbandona il Ducato all'alba di sabato 11 giugno 1859, a seguito della sconfitta dell'Austria a Magenta, episodio decisivo della Seconda Guerra di Indipendenza.

La sconfitta di Magenta aveva causato un ritiro in blocco verso il fiume Mincio delle truppe austriache presenti sui territori italiani. Era il 4 giugno 1859, e Francesco era rimasto scoperto, indifeso. Proprio lui, schierato apertamente con l'Impero nello scontro tra assolutismo e liberalismo, tra austriaci e franco-piemontesi, a differenza del Granduca Leopoldo in Toscana e di Maria Luisa di Borbone a Parma, rimasti neutrali; proprio lui, che si sentiva vincolato all'Austria dall'impegno di reciproco aiuto militare in caso di necessità; proprio lui, intuendo l'inutilità di ogni tentativo di resistenza, optò per la via dell'esilio. "La dissoluzione attuale rende per se stessa impossibile l'esistenza di Stati piccoli ed impossibile la fedeltà futura, giacché si vede che chi è fedele viene sacrificato dal nemico e dall'amico", chioserà a distanza di tempo, nel 1863, rielaborando l'accaduto.

Il 27 aprile 1859, il Granduca di Toscana aveva lasciato Firenze, senza opporre la minima resistenza a una ancor più debole pressione rivoluzionaria. Le truppe modenesi erano strette in una morsa, senza reali possibilità di difendere il Ducato. Francesi e piemontesi da un lato, toscani dall'altro, in guerra contro Modena sotto il protettorato torinese. Il giorno dopo, il 28 aprile, le truppe ducali abbandonavano Massa e Carrara, ma resistevano in Garfagnana e Lunigiana contro l'avanzata dalla Liguria dei Cacciatori della Magra.

La sconfitta di Montebello, il 20 maggio, causava un nuovo arretramento dell'esercito austriaco. I reparti estensi abbandonavano i territori dell'Oltreappennino per concentrarsi sui valichi, a fronteggiare i toscani pronti a invadere il Ducato attraverso il passo dell'Abetone.

Il 28 maggio, il primo colpo di mano. Il Principe Eugenio di Savoia Carignano, luogotenente del Re in Piemonte, firmava un decreto con cui le Poste della Lunigiana venivano annesse allo Stato sardo. Era il primo passo per il controllo della comunicazioni telegrafiche, che in tempo di guerra - nelle guerre di quei tempi - avevano un valore assoluto. La prima forzatura ne chiamava una seconda. Il Piemonte imponeva la sua giurisdizione anche sugli uffici telegrafici di Massa e Carrara, e con essi sulle due città, con una comunicazione in "Gazzetta" del 2 giugno: "Massa e Carrara, pronunziatesi spontaneamente e senza alcuna collisione per la causa nazionale, hanno proclamato la dittatura del re Vittorio Emanuele. Essendo quella popolazione minacciata da una colonna di truppe estensi, il Governo, che si considera in istato di guerra con il Duca di Modena, ha spedito forze militari per proteggere e mantenere la pubblica tranquillità".

Torino si considerava "in istato di guerra con il Duca di Modena" dal 30 aprile, quando, secondo la "Gazzetta piemontese", le truppe austriache avevano avuto il permesso di attraversare il territorio del Ducato. Falsità, bugie, strumentalizzazioni. Le truppe austriache passarono per Modena solo il 2 maggio, quando le invasioni erano già iniziate già il 26 aprile, senza esser mai state precedute da una dichiarazione di guerra all'ambasciatore modenese. Ingiustizie, soprusi, atti contrari a ogni convenzione, sotto l'incalzare di eventi drammatici. Il ritiro degli Imperiali dalle Legazioni di Bologna e Ferrara; Parma lasciata senza difese dopo l'addio della Duchessa; la simultanea avanzata dei Corpi francesi, piemontesi e toscani; l'entrata a Milano dell'armata franco-sarda; il ritiro dell'esercito imperiale tra le fortezze del Quadrilatero. La storia aveva preso il suo corso. Le guarnigioni asburgiche lasciavano anche Modena, per ripararsi oltre il Po. L'esercito ducale era rimasto solo, così esiguo nei numeri da non poter neanche di immaginare un'azione di opposizione all'imminente invasione.

L'11 giugno, l'addio. Francesco V d'Asburbo-Este, Duca di Modena, esce dal portone d'onore del Palazzo Ducale, attorniato da cortigiani e servitori che si affollano nei corridoi e nei cortili per salutarlo.

"Una provvista di francobolli sardi della IV emissione 
da 5, 10, 20, 40 e 80 cent. delle tirature del 1857-59
venne inviata a Massa non appena costituito il Governo Provvisorio [il 15 giugno 1859].
Questi francobolli, contrariamente a quanto disposto dalle autorità modenesi,
furono posti in vendita ed usati negli uffici postali dell'Oltreappenino modenese
(Aulla, Camporigiano, Carrara, Castelnuovo di Garfagna,
Fivizzano, Fosdinovo, Gallicano, Massa Carrara).
Analoga provvista inviata a Modena per essere distribuita nelle altre province
non venne invece utilizzata".
(Catalogo Sassone "Antichi Stati Italiani - Regno di Italia 1850-1900", edizione 2019)

La vita ha però questo di bello: ogni sciagura è mitigata dalla meraviglia per un evento inatteso, che emoziona e commuove. Il Duca si ritrova accanto il suo esercito pressoché intatto, una schiera di 3.623 di uomini fedeli - tra soldati e ufficiali, guidati dal Generale Agostino Saccozzi -, da quel momento ribattezzati Brigata Estense.


11 giugno 1859: l'addio a Modena del Duca Francesco V.
Il Sovrano indossa l'uniforme da maresciallo dell'esercito imperiale.
I soldati lo onorano abbassando la bandiera,
ornata con fronde di bosso, collocate anche sui copricapi,
secondo la tipica tradizione austriaca per le cerimonie solenni.

La Brigata Estense era un'armata con un forte spirito di corpo e un'autentica devozione alla Casa reale, un esercito dinastico coraggioso e fedele, una rappresentazione del potere del Duca e della sua persona, che ancor oggi suscita ammirazione.

Sebbene di consistenza ridotta, e allestita più che altro per la sicurezza interna, la Brigata aveva dato ripetute prove di efficienza bellica e fedeltà alla dinastia: nel 1815, nella campana asburgica contro Gioacchino Murat e nella Battaglia di Tolentino; nel 1831, nel corso dei moti carbonari, con un contributo decisivo sia nel controllo della situazione, in attesa dell'arrivo dell'esercito imperiale, sia nella riconquista della Garfagnana e dell'Oltreappennino estese, in mano ai repubblicani toscani; nel 1849, dopo la Battaglia di Novara, a conclusione della Prima Guerra di Indipendenza.

Il Ministro di Corte del Duca di Modena - Marchese Teodoro Bayard de Volo - vide nella fedeltà della Brigata "un plebiscito solenne, assai più splendido e spontaneo di quanti ebbero in seguito a porsi in scena con menzognero prestigio", per poi rivolgere la più retorica della domande: "una truppa la quale segue il proprio Sovrano non il giorno del trionfo ma quello della sventura, che resiste alla tentazioni dell'usurpatore, non protesta forse con tutta l'energia di una fede antica, contro la vituperevole cedevolezza dei tempi nuovi?".

La bandiera della Brigata Estense.
Il grande stemma Austro-Estense è circondato da un serto di alloro e da uno di quercia, 
sormontato dalla Corona Ducale, con i bordi di colore azzurro.

Curiosità Modenesi | L'esercito che seguì il duca Estense in esilio
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Il 28 luglio 1859 Luigi Carlo Farini assume il ruolo di commissario regio del Governo del Piemonte, nominato dittatore delle Province Modenesi e poi governatore dell'intera Emilia. Il saggista Gigi Di Fiore ce ne offre un'immagine unconvetional, nella sua "Controstoria dell'Unità d'Italia":

"Partito il duca, investito di pieni poteri, Farini divenne padrone incontrastato di Modena. Curletti raccontò che il primo ordine ricevuto fu quello di impadronirsi di tutte le chiavi del Palazzo Ducale, comprese quelle della cantina. L'argenteria con lo stemma di Francesco V venne fusa. Raccontò l'agente di Cavour al servizio di Farini: 'Mi fu ordinato di comunicare ai giornali un articolo, che tutti hanno potuto leggere, nel quale era detto che il Duca, partendo, aveva portato via tutta la sua argenteria e tutti gli oggetti di valore e non aveva, per così dire, lasciato che le quattro mura'.

Come riciclare, senza lasciar tracce, beni privati di un sovrano spodestato. [...].

La cattiva amministrazione e a dittatura assoluta di Farini si nutrirono anche di ricatti a ex simpatizzanti del duca. In cambio di un vuoto di memoria sul loro passato, veniva chiesto denaro. Due banchieri dovettero versare non meno di 4000 franchi a testa per il silenzio. Abusi e strapotere di certo conosciuti a Torino. E motivo di malcelato imbarazzo per lo stesso Conte di Cavour, che fu costretto a chiudere gli occhi. Ne diede conferma Massari, che annotò nel suo diario lamentele sul 'lusso biasimevole' del dittatore e di 50.000 franchi scomparsi nel nulla, che sarebbero dovuti andare ad un giornale. Scrisse il collaboratore di Cavour: 'E' un caso assai grave, se si sapesse, farebbe molto torto a Farini. Quel benedetto uomo è la leggerezza personificata in cose finanziarie'.

Più che leggero, il dittatore mostrava senza maschere il suo temperamento autoritario e la sua ambizione. Era ubriacato dal potere, senza controllo. Il suo compito di regio commissario doveva esaurirsi in un mese, ma la poltrona cominciò a piacergli. E fece sapere a Torino che sarebbe rimasto da cittadino privato a Modena, dove volevano assegnargli anche la cittadinanza onoraria. A Torino si capì l'antifona, nonostante gli imbarazzi per le voci sulla confusione e l'anarchia diffuse nell'ex ducato estense. Trovare un sostituto con uguale potere e capacità di controllo della situazione, un uomo con al soldo tanta gente priva di scrupoli non era facile. Risultato: si trasformò il regio commissario in dittatore delle province provvisorie".     

Dipinto allegorico del 1860, sulla caduta degli Estensi. 



Lettera da Modena a Bologna del 18 luglio 1859,
affrancata con un esemplare del 15 centesimi dell'emissione ducale,
cui venne asportata la parte superiore con la dicitura "Poste Estensi",
probabilmente per mandare un messaggio patriottico.

Nel 1863 cessa l'ultimo eco di una storia plurisecolare: l'ambasciata estense a Vienna non ha più ragion d'essere e viene chiusa; la Brigata Estense perde anch'essa di significato e viene sciolta, il 24 settembre a Cartigliano - nel vicentino, allora territorio austriaco - con una commovente cerimonia a Palazzo Cappello.

Dove finisce la storia, inizia la leggenda, e la Brigata ne fa parte a pieno titolo. Il suo valore non venne mai meno, nella percezione diffusa. Papa Pio IX e l'Imperatore Francesco Giuseppe erano già pronti a farne la spina nel fianco dei Savoia, prima che gli eventi prendessero un'altra direzione, con la conquista garibaldina del Regno delle Due Sicilie. Gli stessi piemontesi ne riconobbero la forza, ne sentirono tutto il pericolo, e a più riprese tentarono di rimpatriarla dall'esilio col Duca.

Nel settembre del 1859, Luigi Carlo Farini intimò ai soldati di rientrare, di disperdersi, in ogni caso di abbandonare il Duca, prospettando promozioni a chi obbediva, e severe punizioni a chi non rispondeva all'appello. Intimidazioni da un lato e lusinghe dall'altro, ma entrambe sterili, senza effetti apprezzabili. Anzi, il numero di arruolati aumentò spontaneamente "onde togliersi dalle persecuzioni ed esimersi dal servire sotto un governo usurpatore", si legge nel "Giornale della Reale Brigata Estense", il diario redatto da Emiliano Manni e pubblicato anonimo a Venezia, nel 186. La Brigata arrivò a contare sino a 5.000 uomini e Francesco V poté scrivere al Marchese di Normanby: "La mia truppa, divisa dal proprio paese, si è reclutata con volontari assai meglio che quando io teneva l'autorità in mano".

La Brigata diventò un caso diplomatico, tra l'imbarazzo dell'Austria per la persistenza di un esercito di un territorio ormai parte integrante del costituendo Regno d'Italia, e gli inviti di Torino all'Imperatore Francesco Giuseppe a risolvere l'anomala situazione. Nel settembre del 1862 Vittorio Emanuele decretò una nuova amnistia per i militari della Brigata, a cui si concedevano sei mesi di tempo per rientrare nel Regno d'Italia, se non volevano perdere i loro diritti civili e politici, oltre a subire la confisca dei beni materiali. Il "Giornale della Brigata" definì quel decreto una "spogliazione per chi voleva perseverare nella via dell'onore". Francesco V non volle comunque esporre i suoi fedeli al rischio di perdere tutto, e ne autorizzò il congedo nel febbraio del 1863. Ma, di nuovo, i più rimasero accanto al Duca, una fedeltà non disgiunta dall'entusiasmo, dalla convinzione di poter scacciare i piemontesi e ancora una volta riappropriarsi del Ducato. "Niuno avendo mai creduto né potendo credere alla durata di quella strana e eterogenea riunione di vari stati per indole, interessi, abitudini e tradizioni cotanto disparati che dicesi Regno d'Italia", scriveva un quotidiano veneto, ancora del settembre del 1862.

Il sipario, però, stava ormai per chiudersi: la Brigata perse il sostegno politico e economico dell'Austria e di lì a poco un decreto imperiale ne sancì lo scioglimento ufficiale.



24 settembre 1863: lo scioglimento della Brigata Estense.
Il Duca Francesco V e la Duchessa Adelgonda di Baviera
decorano i soldati uno a uno, con la medaglia di bronzo 
che su un lato mostra l'effige del Sovrano
e sull'altro l'iscrizione "Fidelitate et constantiae in adversis".
Gli ufficiali consegnarono le bandiere a Francesco V,
il solo che aveva diritto a riprenderle.
"Il sacrificio era così intieramente consumato!",
annotava il "Giornale della Brigata".
"La sventura fu immensamente grande,
ma, come pur ci disse l'amatissimo Sovrano, l'onore era salvo".
Adelgonda salì in lacrime in carrozza e il Duca la raggiunse.
"Addio figli miei, siate a ognora uomini d'onore".
Oltre mille soldati tornarono a Modena, dove li attendeva una sorte beffarda.
Una circolare del Ministero della Guerra sconfessava il decreto di amnistia del Re,
e così quei soldati diventarono all'improvviso disertori da punire con processi e manette.
I 782 militari della Brigata rimasti in Austria 
trovano collocazione nell'Imperiale Regia Armata. 
Furono accolti il 5 ottobre 1863 dal Tenente Maresciallo Luigi Pokorny,
con parole che ancora una volta ne elogiavano la fedeltà:
"Quali soldati d'onore avete dato al mondo un raro esempio
di forza d'animo, fedeltà ed attaccamento all'Augusto vostro Sovrano.
Il destino altrimenti dispose 
di quanto tanta fedeltà, eternamente durature nelle pagine della storia, avrebbe meritato.
Dall'Austria i guerrieri di tante nazioni salutandovi, vi chiamano i benvenuti.
Io in loro nome vi stringo la mano, e vi consegno la vostra nuova bandiera,
pur esse vessillo della legittimità e della religione,
ed in cui pure risplende il glorioso stemma estense".
Il simbolo del Ducato di Modena comparve così anche tre anni dopo,
sui cambi di battaglia della Terza Guerra di Indipendenza. 

Il plebiscito del marzo 1860 legittimava la formale annessione al Regno di Sardegna dei territori dell'ormai scomparso Ducato.




15-29 ottobre 1859: l'emissione della serie del Governo Provvisorio delle Province Modenesi.
11-12 marzo 1860: il plebiscito per l'annessione al Regno di Sardegna delle Province Modenesi.
Lo sfasamento temporale tra l'emissione e il plebiscito
offre una tangibile testimonianza dell'effettivo peso della "volontà popolare".
Il francobollo era all'epoca uno strumento di potere,
 emettere un francobollo significava dire "qui comando io",
e mettere in circolo lo scudo crociato dei Savoia ben prima del voto
significava attestare l'affermazione definitiva della nuova Casa reale,
che le urne potevano solo accettare e ratificare, "con quanto più entusiasmo possibile".
I numeri del voto oltrepassarono il più sincero desiderio di unificazione,
semmai fosse stato realmente presente tra la popolazione:
131.527 iscritti alle liste, 108.798 votanti;
108.336 favorevoli (99,6%), 231 contrari (0,2%), 231 schede nulle (0,2%).

Con l'unità di Italia, il 17 marzo 1861, Modena è fatalmente declassata a una piccola città del nuovo Stato; e tuttavia, sebbene non più autonomo palcoscenico di grandi eventi, la città ha preservato nel tempo le vestigia della capitale che fu.

Mutinenses, Mutuinensis, Multinenses, Mutena, MòtinaMòdana, e infine Modena, è oggi una cittadina suggestiva, operosa, tra le più ricche d'Europa. Diversi nomi, nei campi più svariati, le conferiscono un tocco distintivo di aristocrazia: Ferrari e Maserati, nel mondo della auto di lusso; Aceto Balsamico e Parmigiano Reggiano, nel settore alimentare; Luciano Pavarotti, nell'arte del canto. Paolo Vaccari, per gli appassionati di collezionismo filatelico. E poi il Duomo, la Torre Ghirlandina e Piazza Grande, che l'UNSESCO ha dichiarato Patrimonio dell'Umanità nel 1997.

La Ghirlandina è un campanile del Duomo,
immediatamente visibile a chiunque arrivi in città da qualunque direzione.
Il vezzeggiativo ha origine nelle balaustre in marmo che incoronano la guglia,
che appaiono "leggiadre come ghirlande".
La Torre ha rivestito una funzione civica sin dalle origini, databili nel XII secolo.
Il suono delle sue campane scandiva i tempi della vita in città,
segnalava l'apertura delle porte della cinta muraria
e chiamava a raccolta la popolazione in situazioni di pericolo.




I cataloghi d'asta della Collezione "Ghirlandina", dell'architetto Franco Carpanelli.
La collezione prese forma "nei lontani anni '70", con "appassionate e minuziose ricerche"
- si legge nella prefazione del titolare dello Studio Filatelico Santachiara -
e sin dalle origini fu impostata "secondo rigorosi criteri selettivi",
 "secondo canoni estetici e compositivi di notevole effetto e suggestione",
"secondo criteri di rigore scientifico e sensibilità estetico-compositiva".
E' un complesso filatelico di un "fascino irripetibile", 
in cui ogni pezzo è la "più sofisticata ed elevata espressione di autentico antiquariato".
La vendita fu realizzata in concomitanza con il 150° anniversario dell'emissione ducale
e la scelta di disperdere la collezione, anziché venderla in blocco,
rispondeva all'auspico di "vedere allargarsi la cerchia degli appassionati collezionisti",
di offrire a tutti di la possibilità di conferire alle propria raccolte
"un'impronta di aristocratica raffinatezza e di personale distinzione".

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