E SUCCESSE UN QUARANTOTTO!

PRIMA GUERRA DI INDIPENDENZA

23 Marzo 1848 - 22 Agosto 1849

- libera trascrizione della splendida lezione del Professor Alessandro Barbero -


"Orbene, quale sia l'opinione più diffusa intorno al Congresso di Vienna, non ho bisogno di dirvelo, perché tutti voi lo sapete. Fu, si dice universalmente, sotto le apparenze della giustizia, il più turpe mercato che si potesse immaginare. Non si ebbe riguardo a nulla, né a nazionalità, né a confini geografici, stabiliti dalla natura, né a tradizioni, né a diritti, né a storia. I popoli furono spartiti come armenti, comprati e barattati come a una fiera; si voleva fare un'opera di pace, e si posero i germi di nuove rivoluzioni e di nuove guerre".

Il giudizio di Ernesto Masi è una spietata radiografia della precarietà della strategia definita a Vienna: non aver avuto riguardo né a nazionalità, né a confini geografici, né a tradizioni, né a diritti, né a storia. L'impostazione del Congresso - a voler concettualizzare il giudizio di Masi - soffriva di una presunzione e di un'illusione. La presunzione stava nell'immaginare un macro-equilibrio europeo senza una correlata micro-fondazione nazionale. L'illusione era nell'assimilare la sconfitta militare di Napoleone al tramonto delle idee della Rivoluzione Francese.

Il "1789" era evoluto da rivoluzione armata a rivoluzione di sentimenti e stati d'animo, infine tradotti in nuovi assetti istituzionali, con ricadute sul piano sociale. La Rivoluzione aveva mutato i modi e il linguaggio della politica e della società. Riforme amministrative, uguaglianza giuridica, abolizione della feudalità, soppressione dei privilegi della nobiltà e del clero, ampi spazi ai nuovi ceti - proprietari terrieri, mercanti, banchieri, pubblici funzionari, professionisti, industriali - e poi libertà civili, carriera aperta ai talenti e distribuzione del potere politico, sullo sfondo del soggetto "nazione", di un "popolo-nazione" titolare della sovranità, da esercitare attraverso le forme di rappresentanza codificate in una Costituzione. I sudditi - storicamente vincolati alla fedeltà al Re, emanazione politica della Provvidenza - si percepivano ora cittadini, individui liberi e dotati di diritti civili. La sovranità diventava astratta e impersonale, identificata, in ragione dei contesti, con lo Stato, la nazione, il Parlamento, la legge, ma non più ricondotta a un singolo individuo (o a un gruppo di individui specifici).

Sentimenti e ideali difficili da estirpare dall'anima, una volta radicati, e procedure e prassi complicate da rimuovere dalla società, una volta innestate nei suoi meccanismi di funzionamento. Eversione della feudalità e liquidazione dei beni ecclesiastici - solo per citare due casi - restarono realtà irreversibili, tra i malumori e i borbottii dei legittimisti. La presa d'atto di fatti compiuti tagliò trasversalmente le situazioni di vita dei singoli individui e la configurazione delle istituzioni. Ogni Sovrano si trovò a dover salvaguardare le trasformazioni politiche e sociali riconosciute valide, isolandole dalle originarie ideologie di cui erano espressione.

La mediazione tra passato e presente - la conciliazione tra il ripristino della tradizione e le nuove sensibilità ormai sedimentate - rimaneva un'operazione complessa, dagli esiti incerti, su cui non poteva certo riposare l'istanza di ordine statuita a Vienna. La stabilità geopolitica imponeva misure di rigore.

Già nel settembre del 1815 Russia, Prussia e Austria avevano stipulato la Santa Alleanza, che sarà pur stata "un pezzo di sublime misticismo e assurdità" - come la definì Lord Castlereagh, per la bizzarra comunanza di ortodossi, protestanti e cattolici -, ma che raccolse comunque una vasta adesione, e rappresentò l'anticamera della successiva Quadruplice Alleanza del novembre 1815 - a Congresso concluso - con l'ingresso dell'Inghilterra. L'Alleanza recepiva il principio di intervento e il duale principio di sovranità limitata, già prospettati a Vienna. L'intonazione angelica della formulazione testuale - nell'articolo IV del Trattato si evocavano la "felicità del mondo", la "serenità e prosperità delle Nazioni" e il "mantenimento della Pace in Europa" - non riusciva a celarne la natura di strumento di polizia internazionale. Quando gli eventi in uno Stato diventavano una minaccia per tutti gli altri Stati, quando un focolaio locale rischiava di innescare un incendio globale, lo Stato responsabile cedeva la propria sovranità, consentiva l'intervento di altre Potenze, per ripristinare l'ordine all'interno del suo territorio.

Popolo, borghesia e nobiltà si ritrovano in un campo ad alta tensione. Nascono società segrete - una per tutte, in Italia, la Carboneria - e una serie di moti rivoluzionari scuote la penisola italiana, tra il 1815 e il 1847: nello Stato Pontificio, nel 1817; nel Regno delle Due Sicilie, nel 1820, nel 1828 e nel 1837, nel 1844; nel Ducato di Modena, nel 1831. C'è tutta una realtà - sociale e politica - in continuo movimento, con un programma minimalista di ripristino dell'indipendenza italiana, e la previsione - più ambiziosa e sfidante, anche se vaga - di una forma di governo costituzionale. Ma sono tutte iniziative viziate dallo stesso errore: eccessi di azione e mancanza di progettualità, troppo idealismo e scarsa adesione.

Il movimento politico trova l'inattesa sponda dell'opera artistica. Dal 1815 è tutto un fiorire di poesie, tragedie, romanzi, saggi e melodrammi che rielaborano il mito dell'Italia e lo compattano in vivaci narrazioni ad elevata carica emotiva e simbolica, in cui la nazione italiana diventa una realtà di fatto, radicata in fattori biologici, linguistici, culturali e religiosi, da riaffermare con uno sforzo di volontà e coraggio, per riscattare un passato di decadenza dovuto a oppressione straniera o a fratture interne. Questa pubblicistica riscuote successo per il suo tono epico e romantico, per la capacità di presentare il discorso nazionale chiamando in causa, non già la ragione degli illuministi, la solida cultura o il lucido pensiero, ma più semplicemente, e più efficacemente, l'universo pre-razionale delle emozioni. Prende forma una estetica della politica, in auge anche in epoca moderna. Strumenti di svago e divertimento - romanzi, poesie, teatri, opere liriche - accolgono messaggi istituzionali, propagandano ideologie, senza per ciò smarrire la propria attrattiva, senza perdere nulla del loro fascino, anche se a volte con risultati controversi.

"I Vespri Siciliani" è una Grand Opéra di Giuseppe Verdiche debuttò a Parigi il 13 giugno 1855.
Il libretto di Eugène Scribe si rivelò oltremodo infelice, riuscendo a scontentare tutti.
Irritò Verdi e gli Italiani, perché Giovanni da Procida, l'eroe dei Vespri,
veniva presentato come una figura infida e senza scrupoli;
i Siciliani, mostrati come gente a un tempo feroce e codarda;
gli Austriaci, perché l'oggetto era un'insurrezione di italiani contro una Potenza straniera;
e poi i Francesi, perché l'azione drammatica raggiungeva il culmine
nella scena in cui i compatrioti venivano massacrati.
"Contavo sul fatto che il Signor Scribe, come mi aveva promesso sin dall'inizio,
avrebbe cambiato tutto ciò che offende l'onore degli italiani", sbuffò Giuseppe Verdi.
"Più rifletto su questo soggetto, più mi persuado che sia rischioso.
Ferisce i francesi perché vengono massacrati;
ferisce gli italiani perché il signor Scribe, alterando il carattere storico di Procida,
ne fa (secondo il metodo da lui preferito) un comune cospiratore armato dell'inevitabile pugnale.
Mio Dio!
Nella storia di ogni popolo ci sono virtù e crimini, e noi non siamo peggio degli altri.
In ogni modo io sono italiano anzitutto e costi quel che costi
non mi renderò complice di una offesa al mio Paese".
La prima rappresentazione italiana andò incontro a una severa censura,
per azzerare il potenziale effetto patriottico dell'evento.
L'opera fu ribattezzata "Giovanna di Guzman" e l'azione spostata in Portogallo, sul libretto di Caimi.
Al Teatro San Carlo andò in scena col titolo "Batilde di Turenna".

Gli anni successivi al Congresso saranno punteggiati da continue repressioni - retate, processi, carcerazioni, esecuzioni, esili - che preserveranno sì l'ordine, ma al prezzo, a lungo insostenibile, di un'insofferenza crescente, contagiosa e incontrollata. Il patriottismo prenderà i contorni di una nuova religione, col suo corredo di martiri e profeti. Sino al giorno, anzi all'anno, dell'apparente redenzione.

'E' successo un Quarantotto' è un'espressione entrata nel parlare comune,
per indicare una situazione di caos totale, di grande scompiglio, di forte agitazione.    

Il 1848 è un anno sbalorditivo, senza precedenti nel periodo post-congressuale, che pure aveva visto più d'una sommossa. Questa volta è l'intera Europa a finire sottosopra. Tutti i popoli contestano pressoché in simultanea i propri Governi, l'insurrezione assume una dimensione internazionale, sull'onda di una parola-simbolo: Costituzione.

Avere una Costituzione significa aver scardinato la Monarchia assoluta, o almeno aver posto un contrappeso a quel regime in cui un Re fa e disfa, dispone e concede, premia e punisce, senza restrizioni al suo campo d'azione, senza obbligo a dare spiegazioni.  Promulgare una Costituzione è un'atto di immenso valore simbolico, segna una rottura ideologica. La Costituzione è rilevante per il sol fatto di esistere, quasi a prescindere dai suoi contenuti specifici. La Costituzione è rilevante anche se rimane octroyées, concessa cioé per benevolenza del Sovrano, e anche se nel Sovrano continua a vedere il Sole intorno a cui tutto orbita. C'è di regola un Parlamento con poteri legislativi, formato da una "Camera bassa" (eletta a suffragio censitario) e da una "Camera alta" (nominata dal Re), e il Re conserva ancora il potere esecutivo, la responsabilità della politica estera, il ruolo di capo dell'esercito e la prerogativa di nominare i funzionari dello Stato. La Costituzione è rilevante anche se l'architettura istituzionale rimane sbilanciata a favore del Re, perché un Re con una Costituzione è sì un Re che regna per grazia di Dio, ma è anche un Re che ammette di governare per volontà della Nazione.

La penisola italiana è l'avanguardia del movimento, nelle idee e nella tempistica. Il 1848 inizia con l'insurrezione della Sicilia, a gennaio. Ferdinando II di Borbone - il Re delle Due Sicilie - è il primo a vedere il suo popolo in rivolta, e il primo a rispondere con quel che il popolo reclama. Concede la Costituzione il 29 gennaio, ma lo contrapposizione tra i siciliani e il loro Re viaggia ormai da tempo su un piano personale, e non solo ideologico, e la Sicilia proseguirà nella sua rivolta come se dal Sovrano non avesse mai ricevuto alcuna apertura. Per un'ironia della storia andrà meglio all'altro Re italiano, Carlo Alberto, altrettanto se non più reazionario di Ferdinando, che a parlare di Costituzione proprio non ci riesce, che non ce la fa a pronunciare una parola così di sinistra, e ripiegherà così su un più sobrio Statuto. Papa Pio IX chiude la sua Allocuzione con la consueta benedizione all'Italia, che in quel frangente assume però un significato imprevedibile - il Papa approva la causa italiana! - e quando emanerà lo Statuto Fondamentale per Governo Temporale degli Stati della Chiesa, quando persino lo Stato Pontificio avrà la sua Costituzione, allora non vi saranno più dubbi: il Papa è un carbonaro!

Ma la macchina rivoluzionaria - ormai in moto - è inarrestabile. A febbraio tocca al Paese specializzato in rivoluzioni, la Francia. A Luigi Filippo avevano insegnato sin da piccolo a temere la folla, e già si vide sul patibolo, con la testa mozzata, quando seppe del popolo in marcia sulle Tuileries. Abdicò senza porsi molte domande, senza star troppo a sottilizzare sui diritti regali. La Monarchia fu scardinata e la Repubblica ripristinata. A marzo accade l'inverosimile: la rivoluzione colpisce Vienna, il cuore dell'Impero Austriaco. L'Imperatore liquida il Cancelliere von Metternich, promette la libertà di stampa e l'istituzione di un Parlamento multietnico. La propagazione è istantanea, dal centro alle periferie dell'Impero. A Budapest si proclama l'indipendenza dell'Ungheria, a Venezia si ripristina la Repubblica di San Marco (che non era poi chissà quale anticaglia: erano passati solo cinquant'anni e qualcuno ancora se la ricordava).

Tra il '700 e l'800 il consumo di caffè si è diffuso anche Italia,
e il Caffè  - il locale - è diventato un circolo borghese,
un punto d'incontro aperto e contrapposto alla dimensione privata dei salotti nobili,
un'officina politica dove sensibilizzare gli animi e costruire prospettive.
Qui siamo a Padova, al Caffè Pedrocchi, uno dei luoghi della memoria del Risorgimento.
Nel muro della Sala Bianca del Caffè c'è ancora il foro di una pallottola austriaca,
sparata l'8 febbraio 1848, il giorno d'inizio dei moti studenteschi.
L'episodio è ricordato nell'inno ufficiale dell'Università di Padova, "Di canti di gioia":
"Ribelli ai tiranni di sangue bagnammo
Le zolle d'Italia tra l'armi sposammo  
In sacro connubio: la patria e il saper".

Milano insorge il 18 marzo. La città non ha una tradizione particolare, non può rivendicare un passato illustre, e tuttavia vuole - pretende - la fuoriuscita degli austriaci dal Regno del Lombardo Veneto, il ritiro delle truppe imperiali e la permanenza esclusiva dei reggimenti reclutati sul territorio italiano. Il comandante austriaco - Joseph Radetzky - rifiuta. E' l'inizio delle Cinque Giornate di Milano.

"La città di Milano è sconvolta dalle fondamenta ed è difficile farsene un idea.
Il carattere di questo popolo mi sembra cambiato come per un colpo di bacchetta magica.
Il fanatismo ha pervaso ogni età, ogni ceto, ogni sesso".
(Joseph Radetzky, 19 marzo 1848)



Le "Cinque Giornate di Milano" sono state così sfruttate sul piano mediatico,
da finire involontariamente declassate a semplice episodio di folklore:
tanti bei giovanotti con barba e baffi, dietro le barricate, pieni di entusiasmo,
gentiluomini in cilindro affratellati ai popolani col berretto,
con le ragazze che si prendono cura di tutti, come meglio possono.
Questa visione oleografica non è sbagliata,
se non fa scemare il senso profondo della sollevazione:
una città di 160.000 abitanti aggredisce una guarnigione straniera di 14.000 uomini,
con l'idea di sterminarla e non semplicemente di cacciarla via dal territorio.
Le "Cinque Giornate di Milano" vogliono dire il giovanotto nerboruto 
che sbuca all'improvviso da un portone, con un coltellaccio in mano, 
e sgozza il soldato austriaco rimasto isolato dai compagni;
i soldati che irrompono nelle case da cui si spara
e ammazzano a colpi di baionette chi si trova dentro;
le strade disseminate di cadaveri, un centinaio i milanesi, oltre quattromila gli austriaci, 
in una Milano piccola, piccola, che va dal Castello Sforzesco a Porta Romana.
Le "Cinque Giornate" esprimono un sentimento di rabbia e rivalsa,
condensano un odio profondo, viscerale, etnico, verso la razza tedesca.

La propaganda è sfrenata. Da un lato e dall'altro si raccontano atrocità di ogni sorta. Gli austriaci - si dice - infilzano i bambini sulle baionette, sventrano le donne incinte, bruciano viva la gente. Nello zaino di un soldato austriaco - si racconta - c'erano le mani mozzate di una donna, ancora cariche di anelli. Gli ufficiali austriaci - per parte loro - allertano i soldati sulla pericolosità delle donne italiane, ben allenate a cavare gli occhi agli stranieri.

Tutte cose per gran parte inventate, quasi niente di vero. Simili atrocità non succedono nelle guerre europee dell'800 e, se accadono, rimangono episodiche, limitate e circoscritte. E' tutta e solo propaganda, e però la gente ci crede, azzera ogni filtro critico, si beve ogni cosa (al contrario di ciò che accadrà nella Seconda Guerra Mondiale, quando le atrocità saranno così irreali che la stessa propaganda stenterà a crederle, e non le ripeterà, perché nessuno potrebbe immaginarle anche solo vagamente verosimili).


Il comandante Radetzky abbandona la città il 22 marzo, dopo cinque giorni di autentica macelleria. "Questa è la più terribile decisione della mia vita" - scrive a Vienna - "ma non posso tenere più a lungo Milano. Tutto il Paese è in rivolta". Non solo Milano e Venezia, ma l'intero Lombardo Veneto sta ora insorgendo per cacciar via gli austriaci.

"Sono minacciato alle spalle dai Piemontesi" - prosegue Radetzky - perché Carlo Alberto non avrà ancora dichiarato guerra, ma ha concesso lo Statuto e si è ben capito da quale parte è schierato. "Non so niente di ciò che accade alle spalle dell'esercito".

Radetzky lascia Milano con la sensazione di aver preso una decisione drammatica, con l'impressione che sarà già una fortuna salvare quel che rimane del suo esercito.

Gira voce di alcuni ufficiali austriaci che - se ben pagati - sarebbero disposti a consegnare Radetzky agli italiani. Il Governo Provvisorio di Milano ne discute. Cattaneo è l'unico a non aver dubbi. Tiriamo fuori il denaro, subito! Gli altri non sembrano granché convinti. Non è un atteggiamento da gentiluomini, e poi non c'è bisogno di questi mezzucci: il Radetzky lo cattureremo lo stesso.


Il 21 marzo c'è una proposta di tregua. I diplomatici di Francia, Inghilterra, Belgio, Sardegna e Stato Pontificio si presentarono in blocco al Governo Provvisorio di Milano. Cattaneo e Casati  finiscono tuttavia col battibeccare penosamente tra loro, davanti alle esterrefatte delegazioni, senza saper decidere se accettare o rifiutare una conciliazione.

Carlo Alberto gioca la carta della mediazione del Conte Martini. Gli raccomanda la prudenza, o almeno di andarci cauto con le promesse, ma il Conte non riesce a tenere la consegna, si sbilancia e assicura l’appoggio del Sovrano, purché Milano continui a resistere, a trasmettere l’immagine di una città ingovernabile, e meglio ancora, poi, se riuscisse a indurre un'offensiva austriaca sufficiente a giustificare lo spostamento dell'esercito sabaudo sul confine.

L'appoggio del Regno di Sardegna è ora una possibilità concreta, anche se il Re non desiderava esporsi sino a quel punto. Tra i rivoltosi si apre un dibattito serrato. Cattaneo è il più intransigente: se Milano invoca il soccorso del Piemonte, la Lombardia sarò svenduta alla Monarchia sabauda! Il Consiglio di Guerra delibera alla fine per una formula vaga, da usare nel proprio proclama: Milano avrebbe genericamente chiesto l'aiuto "di tutti i popoli et i Principi".


Carlo Alberto si dà finalmente pena di concedere udienza al Conte Martini, rientrato a Torino da due giorni. Esamina la richiesta di aiuto della Municipalità milanese, tra timori manifesti e ambizioni inconfessate. Se mi espongo a proteggere dei rivoltosi, come minimo si deve riconoscere al Piemonte un ruolo esclusivo e privilegiato nell'opera di difesa delle genti italiane. Quel che lo trattiene è un'incertezza spaventosa. E se i milanesi, una volta liberati, non volessero entrare a far parte del Piemonte? E se - peggio ancora - dichiarassero una Repubblica?

La sbandierata insofferenza di Milano, tradotta in una romantica invocazione d'aiuto all'intera penisola, era alla fine soltanto una questione di ordine pubblico all'interno di un altro Stato. Un eventuale intervento esterno avrebbe dovuto perciò soggiacere ai principi del diritto internazionale. Il moto di Milano doveva quindi affrancarsi dalla veste di una semplice insurrezione, per accreditarsi come un problema di governo del mondo, di equilibri europei, di lotta al demone giacobino.

L'imprinting sabaudo alla rivoluzione milanese sarebbe stato allora un passo obbligato per evitare l'incrinarsi di tutta la faccenda verso un sistema di cose suscettibile di minare la stabilità di qualsiasi altro Stato. Attenzione! Non è un bruto attacco all'Austria, ma una nobile azione di contrasto di un antico cancro, pronto ad aggredire tutti, noi e voi. Chi vuole darci man forte, si unisca. Chi non se la sente, si giri dall'altro lato e ci lasci fare. Noi vinceremo per tutti.

C'era una giustificazione politica all'azione militare. La guerra contro l'Austria era iniziata.


 22 marzo 1848: la cacciata degli austriaci a Porta Tosa.
Tempera di C. Bossoli - Stampa dell'epoca.

Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto dichiara guerra all'Austria. Tre giorni dopo le sue truppe sono a Milano. In tempi normali sarebbe una follia, ma non siamo in tempi normali, siamo in pieno Quarantotto! L'Impero Austriaco ha sette volte il numero di abitanti del Regno di Sardegna, ma l'Impero è nel vortice della rivoluzione, e poi anche tutti gli altri Sovrani italiani - un po' per convenienza, un po' perché sospinti dall'opinione pubblica - sembrano disposti a soccorrere il Piemonte, a versare il loro tributo di sangue per la causa italiana. La Prima Guerra di Indipendenza la combatte sì l'esercito sabaudo, ma con l'appoggio dei contingenti di altri Stati, di truppe inviate da ogni parte della penisola. C'è il Granducato di Toscana, con un corpo di milizie regolari e volontarie, tra cui spiccano 389 universitari pisani e 74 senesi. C'è la Chiesa, ancora con corpi regolari e volontari, ufficialmente sul posto per presidiare il confine padano dello Stato Pontificio. C'è il Regno delle Due Sicilie, con una squadra navale e un corpo di spedizione.

Tutta la penisola concorre a un'azione militare sentita come una guerra di liberazione. Attenzione, però. Potrebbe diventare qualcosa di più. Potrebbe trasformarsi in una guerra rivoluzionaria, ché nessuno può sapere dove andrà a infrangersi l'onda di una così vasta partecipazione armata. Questo è precisamente ciò che Carlo Alberto e tutti gli altri Sovrani non vogliono. Perché va bene cacciare gli austriaci, va bene pure l'idea di una Confederazione Italiana, magari anche di un Regno d'Italia, ma la rivoluzione no, assolutamente no, la rivoluzione non la vuole proprio nessuno. E così Carlo Alberto dichiara sì guerra, e i volontari arrivano sì in massa per rinforzare gli eserciti, ma ... non vengono presi! Non tutti almeno. Perché mettere dei fucili in mano a un popolo entusiasta, senza sapere quanti rossi ci siano là in mezzo, nessuno sa dire cosa può provocare.

La guerra la farà chi la guerra la sa fare, la farà l'esercito del Re, che la farà, sì, credendoci pure, ma con un ineliminabile senso di smarrimento. Perché l'Italia, l'idea di condurre una guerra per l'Italia, è una novità assoluta, anche per i soldati piemontesi. Carlo Alberto convincerà sì l'esercito a marciare col tricolore in testa, e l'esercito inalbererà sì il tricolore - che ha una valenza fortissima e sino al giorno prima era proibito in tutti gli Stati italiani - ma i Generali continueranno rimanre perplessi, a guardarsi tra loro sbigottiti. Perché l'esercito piemontese è l'esercito di una Monarchia assoluta, di una Monarchia della restaurazione, che condannava a morte Mazzini e Garibaldi, e i Generali di oggi sono gli stessi di ieri. "Ci siamo battuti per una causa grande e generosa, se si vuole, ma totalmente opposta a tutti i principi in cui eravamo stati allevati", dirà il Duca di Genova, uno dei figli di Carlo Alberto. Pure i soldati sono gli stessi, ma ora i soldati gridano viva l'Italia!, senza che nessuno glielo abbia comandato, perché ormai queste parole corrono tra la gente e nulla sembra poterle arrestare.

L'esercito sabaudo, il Piemonte di Re Carlo Alberto, è pronto a impossessarsi del Regno del Lombardo Veneto, con Radetzky che batte in ritirata.



Le guerre sono un fatto di spazio, collegate allo spazio, condizionate dallo spazio.
Si fa la guerra per occupare lo spazio di un altro, per proteggere il proprio o per riprenderselo.
La conquista o la difesa di uno spazio sono gli obiettivi ultimi di una guerra,
e lo spazio determina le strategie militari e influisce sulle azioni di battaglia.
Se tutte le guerre sono un fatto di spazio, se tutte le guerre dipendono dallo spazio, 
lo spazio delle Guerre di Indipendenza Italiane, la geografia della Pianura Padana,
è un condizionamento davvero decisivo, impressionante.
Le Guerre di Indipendenza - sul piano tecnico - sono la ripetizione di uno stesso cliché.
  C'è un esercito che viene da occidente
- i piemontesi nel 1848, i francesi e i piemontesi nel 1859, gli italiani nel 1866 -
con l'obiettivo di occupare uno spazio per gran parte situato a nord del Po.
La direzione di marcia è invariabilmente la stessa.
E cosa incontra questo esercito in marcia? 
Fiumi, fiumi, fiumi e ancora fiumi
- la Sesia, il Ticino, l'Adda, l'Oglio, il Mincio -
 fiumi che scendon giù uno dopo l'altro e affettano la Pianura Padana.
Attraversare tutti questi fiumi è un'impresa, per l'epoca.
I ponti son pochi, le strade sempre quelle, i mezzi di trasporto minimali.
I movimenti degli eserciti sono vincolati, le azioni belliche prevedibili.
Un semplice accostamento restituisce il senso della ripetitività:
l'esercito piemontese perde la battaglia decisiva a Custoza, nel 1848;
l'esercito italiano perde la battaglia decisiva a Custoza, nel 1866.
 Possibile si finisca sempre a Custoza, con tanti posti a disposizione?
Sì, possibile. Anzi, inevitabile.
Perché la geografia della Pianura Padana incanala gli eserciti,
obbliga a certe mosse e ne inibisce altre, pesa su strategia e tattica.
E Custoza, che sta proprio a ridosso del Mincio, 
all'altezza di ponti da oltrepassare per forza se si vuol andare di là del Mincio,
è predestinata dalla geografia a essere il luogo dello scontro decisivo.

Studiare una guerra significa guardare dentro gli eserciti, analizzarne le logiche di selezione e dimensionamento, indagare sull'educazione militare, capire cosa voglia dire essere un soldato in un contesto sociale e culturale storicamente determinato.

I soldati dell'epoca sono tutti coscritti, il servizio di leva nell'Ottocento è obbligatorio, anche se con modalità peculiari. Gli Stati dell'Ottocento non chiamano alle armi l'intera popolazione maschile abile e arruolabile, come accadrà poi nel Novecento. Il bilancio statale non potrebbe finanziare un esercito così grande, e lo stesso Stato non lo vorrebbe neanche. Gli basta una frazione della massa potenziale, e quella frazione la si individua nel modo più semplice e brutale: tirando a sorte. I giovanotti arruolabili si presentano dal sindaco, sorteggiano un numero, e quelli che han sorteggiato i numeri più bassi si ritrovano nell'esercito.

Se il criterio di selezione è invariante da uno Stato all'altro, se tutti gli Stati scelgono a caso le prime linee dei loro eserciti, è nello stile di formazione dei soldati - nei modi per forgiarli e nei tempi dell'addestramento - che si apprezzano tutte le differenze.

Alcuni Stati si accontentano di eserciti relativamente esigui nei numeri, ma in cui ogni numero - ogni singolo soldato - è un'eccellenza formata nel corso di anni di arruolamento. Questo è l'esercito di qualità o esercito di caserma. Questo è l'esercito austriaco, un esercito di lungo termine, in cui i disgraziati che han tirato il numero basso sono sottoposti a otto anni di servizio militare, sbattuti in una provincia dell'Impero a loro sconosciuta, così da formare un corpo militare separato e isolato dal resto della società, obbediente solo all'Imperatore.

Altri Stati vogliono eserciti più numerosi, anche se numeri maggiori impongono una leva più breve, per ragioni di consenso politico e sociale, sotto l'obbligo di tornare a imbracciare i fucili in caso di guerra. Questo è l'esercito di quantità. Questo è l'esercito piemontese, fatto con un gran numero di riservisti, tutta gente tenuta sotto le armi per un solo anno, poi tornata alle sue occupazioni, e all'occorrenza richiamata sul campo di battaglia. "Dal Piemonte fu spinta sul Mincio, a marce forzate, una gente staccata appena dagli aratri e dai telai, male ammaestrata nelle armi, e arrugginita per i lunghi congedi", osserverà desolato Carlo Cattaneo.

Questo esercito di riservisti - di contadini e operai richiamati sotto le armi - potrebbe anche funzionare, se solo ci fossero Ufficiali di complemento idonei a inquadrarli. Ma chi dovrebbero essere questi Ufficiali? Per lo più medici, avvocati, maestri di scuola. Figure scomode per l'epoca, al centro di un aspro conflitto sociale, tutta gente che coltivava l'ideale del liberalismo, forse addirittura della democrazia, una costante minaccia per i privilegi degli aristocratici, lo spauracchio dei governi reazionari. Quella gente lì  - quella classe borghese, colta e pericolosa - il Piemonte non la vuole. L'esercito piemontese prende così la forma di una buffa piramide, con alla base un nugolo di soldati, e ai livelli più alti solo un ristretto club di Ufficiali, una sproporzione esiziale tra l'imponenza dei battaglioni e l'esiguità di chi quei battaglioni deve comandarli.

Questi sono i due eserciti, e rimane ora da vedere chi ne è a capo, chi li comanda.

Da una parte c'è Re Carlo Alberto. Ha 50 anni, appartiene alla generazione cresciuta sotto Napoleone, all'epoca in cui il Piemonte era una parte della Francia. E' cresciuto a Parigi e trova più naturale parlare francese che italiano. Ha fatto appena in tempo a strappare il grado di Tenente, ma una guerra non l'ha mai fatta. Ha partecipato solo a un'azione repressiva in Spagna, da Ufficiale, ma non ha mai comandato un esercito, non sa come guidare le azioni di soldati, non conosce il peso del dover decidere sotto la pressione degli eventi.

Dall'altra parte - per disgrazia di Carlo Alberto - c'è uno che invece la guerra la sa fare. Il Maresciallo Johann Josef Wenzel Anton Franz Karl Graf Radetzky von Radetz. Ha 82 anni, in un mondo un cui a 50 anni si è belli che andati, e però non si è ancora dimenticato tutto. Era Generale già ai tempi di Napoleone. Ha combattuto a Austerlitz e a Wagram, dove comandava un'intera Divisione. Forse ora avrà rallentato, sarà un po' arrugginito, batterà il passo, ma possiede ancora intatta la scorza del soldato, di chi la guerra sa cos'è e come si fa.




La guerra è scoppiata il 23 marzo, con Radetzky in fuga da Milano. Cosa vuol fare il comandate degli austriaci?

Perché fare una guerra significa esattamente questo: fare qualcosa, sapere cosa si vuol fare e provare a farlo, sapendo che sarà maledettamente complicato, perché dall'altra parte c'è qualcuno il cui unico obiettivo è impedirti di fare quel che vorresti fare, ma sapere quel che si vuol fare è già qualcosa, è il minimo, e se invece non lo si sa - come non lo sa Carlo Alberto - allora c'è tutto da temere e nulla da sperare.

Radetzky se ne va dunque da Milano con l'esercito al seguito. Quali sono i suoi pensieri? Ha un piano? O sta solo scappando? Oppure vuol raggiungere un posto preciso, magari un luogo sicuro, dove rifiatare e organizzare le forze, da cui far poi partire una controffensiva?

Avete mai sentito parlare del Quadrilatero? Radetzky è diretto proprio lì: al Quadrilatero.

Il Quadrilatero. Due grandi città fortificate, Verona e Mantova. Altre due fortezze, Peschiera e Legnago. Una zona sicura. Il lago di Garda la protegge a nord, di lì non si passa, Il Po la protegge a sud, di lì non si passa. La Valle dell'Adige assicura il collegamento con l'Austria, per avere rifornimenti, tenere le comunicazioni, chiamare i rinforzi. Il Quadrilatero, una posizione strategica perfetta.

Radetzky è diretto lì, al Quadrilatero, senza peraltro sapere cosa troverà e come eventualmente si difenderà. Perché le città lombarde e venete stanno insorgendo, a  ogni villaggio potrebbe incrociare una massa di contadini pronti a sparargli, e poi i suoi soldati hanno iniziato a disertare, specialmente i reggimenti italiani, e c'è il rischio che i piemontesi attraversino il Ticino e gli arrivino addosso, con un esercito che in quel momento sarebbe il triplo del suo.  

                                    



                                   



1 giugno 1850: la prima emissione del Regno del Lombardo Veneto,
una testimonianza della vittoria dell'Impero Austriaco nella guerra del 1848.
Il Regno apparteneva all'Impero, ma preservava una certa autonomia amministrativa.
Vi circolava la lira austriaca, anch'essa equivalente a 100 centesimi (austriaci),
ma con un valore del 15% inferiore alla lira piemontese.
I primi francobolli usarono il sistema monetario locale,
anche se i loro valori facciali, da 5, 10, 15, 30 e 45 centesimi,
furono determinati dalla conversione in lire dei valori in kreuzer 
della speculare emissione austriaca anch'essa del primo giugno 1850.
Ogni francobollo assolveva una specifica tariffa,
ogni pezzo della serie aveva cioè un uso postale autonomo
(il 5 centesimi copriva a esempio il porto della stampe,
il 45 centesimi serviva per le corrispondenze oltre i 148 km della "seconda distanza").
La compresenza di esemplari diversi sulla stessa lettera
è pertanto una casistica di particolare interesse filatelico.

La lettera "Verolanuova" - Collezione Masi - con la prima emissione al completo:
la più grande rarità del Regno del Lombardo Veneto e una tra le maggiori rarità degli Antichi Stati.
"Diversi anni fa Alberto Bolaffi mi disse: 'ingegnere, la sua collezione è magnifica;
mi fa pensare di essere entrato in uno splendido parco lussureggiante 
pieno di fiori, di animali esotici. 
Il visitatore si addentra e passeggia ammirato,
ma alla fine si chiede: dov'è il castello?
Vede, manca il castello'.
Io gli chiesi: 'Scusi, ma qual è il castello?' 
e lui rispose: 'E' la prima emissione, naturalmente'.
Io fui molto colpito, direi roso, da queste parole;
vi pensai per diversi giorni e notti, 
infine mi decisi: avrei allargato la collezione anche alla prima emissione"
(Ottavio Masi)

Carlo Alberto ha dichiarato guerra il 23 marzo. Ha dichiarato guerra e non si muove. Milano freme. Il Generale Passalacqua scrive il 25 marzo al Ministro della Guerra a Torino: "Creda, eccellenza, che se vogliamo riuscire a qualcosa di onorevole, bisogna assolutamente che la nostra armata cerchi il nemico". Quel 25 marzo, finalmente, l'avanguardia piemontese passa il Ticino. Peccato che il resto dell'esercito impieghi altri cinque giorni per superare il fiume.

Siamo così al 29 giugno, e quando i piemontesi passano il Ticino, Radetzky ha già oltrepassato l'Oglio. E ha avuto ottime notizie. Verona e Mantova non sono insorte, la guarnigione austriaca tiene. Il 2 aprile Radetzky entra a Verona. Carlo Alberto è fermo Cremona, a cento chilometri di distanza, a interrogarsi su cosa fare. Restar fermi non si può. Lì davanti ci sono le fortezze del Quadrilatero, con l'esercito austriaco asserragliato dentro. Ma noi siamo più forti, accidenti, e poi arriveranno i napoletani, i toscani, e persino quelli del Papa. E allora si avanza. Piano però. Senza fretta.

Tra il 6 e il 7 aprile - con calma - l'esercito piemontese passa l'Oglio, e passato l'Oglio rallenta ancora. Perché adesso i soldati sono in territorio straniero, e far la guerra fuori casa è complicato. Lo è in generale, e ancor più in questo frangente, con lo Stato Maggiore sprovvisto delle carte del Veneto. Sembra pazzesco, ma è proprio così. L'esercito piemontese non ha una carta geografica dall'Oglio in poi, nessuno sa dire cosa come sia fatto il territorio una volta passato il fiume. Servirebbe una cavalleria leggera che vada un po' in giro, in ricognizione, a batter le campagne per racimolare informazioni. L'esercito piemontese dispone di una meravigliosa cavalleria pesante, belle squadre di corazzieri da mandare alla carica per sfondare il fronte nemico, ma non ha cavalleria leggera, neanche un reggimento.

Gli austriaci - fortuna loro - hanno invece la miglior cavalleria leggera del mondo. Hanno gli ungheresi, inventori degli ussari, e hanno i polacchi, inventori dei lancieri e degli ulani. Radetzky ha così tanta cavalleria leggera a percorrere i paesi, che c'è sempre il rischio di ritrovarsela davanti, ovunque i piemontesi decidano di metter piede. Il solo pensiero scatena il panico, e sono frequenti drammatici casi di autosuggestione, con innocui contadini scambiati per reggimenti austriaci, e le sentinelle piemontesi che arrivano a spararsi addosso da sole.

Carlo Alberto deve perciò andarci piano, ancor più piano di quanto già andava di suo. Arriva al Mincio tra il 9 e l'11 aprile, e il Mincio è una cosa seria, perché i ponti son pochi e gli austriaci quei pochi ponti li difendono tutti, se non altro di facciata. Servirà sparare qualche fucilata, se si vorrà impossessarsene. Spariamo, allora, e anche se non ci scappa neanche un morto, l'esercito ha agito, gli austriaci hanno ceduto i ponti, e i giornali italiani possono celebrare l'impresa.

Eccellente. L'esercito piemontese è padrone dei ponti. Ora sicuramente li attraverserà, per andare dall'altra parte del Mincio. Invece no. L'esercito resta fermo. Perché chissà cosa c'è dall'altra parte, chissà cosa si potrebbe trovare. Meglio non muoversi, attendere e sperare. Non è che qualche città potrebbe farci il piacere di insorgere? Che fanno Mantova e Verona? Dormono? Finalmente arriva la notizia: i patrioti di Mantova stanno organizzando una ribellione! Lì c'è già un presidio, un Reggimento italiano che potrebbe unirsi ai rivoltosi. E allora via, si marcia verso Mantova, che è pure al di qua del Mincio, così non si ha neanche l'imbarazzo di doverlo oltrepassare.

La spedizione marcia verso Mantova e già si avvertono le prime contraddizioni nelle molteplici sfumature del sentimento popolare, l'ambiguo atteggiamento delle popolazioni lombarde verso la loro rivoluzione. Scrive il Generale Bava: "in questa spedizione ci toccò osservare come quelle popolazioni siano fredde e poco o nulla animate a favore della causa italiana, inclinando forse più verso il tedesco, che ha sempre cercato possibilmente di favoreggiarle". Il Generale Bava registrava sul campo ciò che nell'opinione pubblica internazionale era una convinzione diffusa. Scriveva all'epoca un giornale tedesco: "Tutto il moto di Italia è raggiro di pochi nobili, di pochi individui della razza bianca, la quale opprime e spolpa la razza bruna, indigena delle campagne di Italia, costantemente e vanamente difesa dagli amministratori austriaci". Anche Carlo Cattaneo - a Parigi, l'anno dopo - avrebbe raccolto gli stessi umori. Questa storia della patria, della libertà, interessa solo quei quattro intellettuali che hanno studiato un po' e viaggiato ogni tanto. Il popolo, le masse, se ne disinteressano sovranamente. Sensazioni di ieri e di oggi, e con ogni probabilità anche di domani.



Il battaglione è diretto a Mantova, nella convinzione di trovare un paese in una rivolta. E invece è arrivato prima il Vescovo, ad acquietare gli animi, a predicare la calma, a raccomandarsi di non correre rischi. I cittadini gli han dato retta e son tornati a casa. Radetzky ha buttato dentro un altro reggimento, e la cosa è finita lì. Fine dell'insurrezione di Mantova.

E ora che si fa? Ci sarebbe Peschiera, la prima delle quattro fortezze, la più piccola. La assediamo? Sì, assediamola! Se non altro i piemontesi stanno facendo qualcosa, stanno assediando la fortezza. Peccato sia una cosa davvero d'altri tempi, che poteva andar bene nel '700, prima dell'arrivo di Napoleone. La guerra - ora - si fa in movimento: si va a scovare il nemico e lo si stermina, poi le fortezze cadranno da sé. Carlo Alberto però è fermo lì, al '700. Assediamo Peschiera, fate arrivare l'artiglieria pesante dal Piemonte.

E così l'artiglieria pesante, da assedio, si mette lentamente in moto per arrivare a Peschiera. Tanto c'è tempo, no? No, il tempo non c'è più, perché a Gorizia un Generale austriaco ha radunato le guarnigioni cacciate dalle città venete, ha reclutato ulteriori soldati in Croazia, e col suo piccolo esercito sta ora marciando verso ovest, per andare a rafforzare le truppe di Radetzky. E' il Generale Nugent, 71 anni, irlandese, al servizio austriaco dalla fine del '700, colui che ha sconfitto Gioacchino Murat.

Nugent varca l'Isonzo il 17 aprile e riprende Udine il 22 aprile. E' la prima città riconquistata dagli austriaci. Carlo Alberto è sempre fermo ad aspettare l'artiglieria pesante per dare il via all'assedio di Peschiera. I suoi provano a smuoverlo. E se andassimo a dare un'occhiata verso Verona? Sì, dai, buttiamo un occhio a  Verona! C'è però da passare l'Adige. Lì c'è un ponte difeso dagli austriaci, e se lo difendono vuol dire che ci tengono, significa che non vogliono che si passi. Quel ponte è in luogo che conosciamo tutti, perché in ogni grande città italiana c'è oggi una via col suo nome: Pastrengo.

Pastrengo - a nord di Verona, verso la valle dell'Adige - è un passaggio nodale. Perché se gli italiani sfondano, e bloccano la strada tra Verona e Trento, per  Radetzky è una seccatura grossa. La mossa è corretta e ingegnosa. Carlo Alberto si decide. Attaccheremo gli austriaci a Pastrengo! E' la prima autentica battaglia della Prima Guerra di Indipendenza, e chiaramente è vinta (perché altrimenti non avremmo le strade intitolate a Pastrengo).

A Pastrengo gli austriaci sono la metà degli italiani, per l'infelice scelta di Radetzky di piazzarci 8.000 uomini, laddove la scelta doveva essere draconiana, o l'intero l'esercito o nessun soldato. Metterci 8.000 uomini significa farseli divorare, o almeno un Napoleone se li sarebbe divorati di sicuro. Ma Carlo Alberto non è Napoleone. Attacca piano, con lentezza, finché gli austriaci non decidono per la ritirata. La battaglia di Pastrengo è vinta, con un bilancio finale piuttosto buffo: 15 morti e 90 feriti tra i piemontesi, lo 0.7% delle forze; per gli austriaci, sconfitti, perdite al 5%.

Può sembrare cinico parlare con tanta freddezza di morti e feriti, ma se si racconta una guerra, e se ne vogliono cogliere la dimensione e l'intensità, si è obbligati a ricorrere al linguaggio e agli schemi logici propri delle guerre, per quanto brutali possano apparire. Napoleone considerava normale perdere in un solo giorno di battaglia sino al 25% dei propri soldati. Quindi, se Carlo Alberto perde solo lo 0.7% delle forze a disposizione, e se gli austriaci si ritirano con solo il 5% delle perdite, anziché essere annientati, vuol dire solo una cosa: che Generali e truppe, da entrambe le parti, ci vanno con estrema cautela. Della serie Sparano? Fermiamoci!

Lettere del 1848, con bolli di franchigia di ospedali militari.

I cannoni sono finalmente arrivati a Peschiera. E sono arrivati anche i soldati del Papa, al comando del Generale Durando, un rivoluzionario piemontese di lungo corso, che ha combattuto nelle guerre civili di mezza Europa. Tipo bizzarro per fare il Generale del Papa, ma l'esercito dello Stato Pontificio non aveva Generali, e questo Durando sembra proprio bravo, uno che ne capisce e ci sa fare.

Durando arriva sul Po dall'Emilia Romagna, con una Divisione regolare pontificia e una Divisione di volontari romani. Insieme a Durando arriva però anche il contrordine. Pio IX ha cambiato idea. I cardinali gli hanno spiegato che la Chiesa non può partecipare a una guerra contro una Potenza cattolica. E' il 29 aprile e le truppe pontificie ricevono l'ordine di ritirarsi.

Ma per fortuna è il Quarantotto e nel Quarantotto accadono cose impensabili. Il Generale Durando disobbedisce al Papa. Resta lì, passa lentamente il Po, e si inoltra nel Veneto. Può sbarrare la strada a Nugent, che viene giù da Udine, è passato prima da Feltre e poi da Belluno, e ora sta scendendo verso Treviso. Durando sale con l'esercito pontificio. E' un fatto di bravura, di tecnica, di esperienza. Durando sbarrerà la strada a Nugent o Nugent sarà più rapido e riuscirà a superarlo? Nugent, 71 anni, a capo degli eserciti dai tempi di Napoleone. Durando, più giovane, rivoluzionario, ne ha viste e combinate tante, ma un esercito non l'ha mai comandato. Non c'è confronto. Nugent passa, Durando non lo trova.

Il 25 maggio, a Verona, Radetzky riceve i rinforzi. Il Maresciallo non sarà Napoleone, ma la guerra la sa fare. Decide di attaccare e la sera del 27 maggio esce dalla città. I piemontesi son sempre fermi ad assediare Peschiera. Hanno Pastrengo alla loro sinistra, sull'Adige, la destra davanti a Mantova, e un fronte di 70 chilometri. Schierare un esercito su un fronte di 70 chilometri significa disperderlo e rischiare di perderne il controllo, in un'epoca in cui i mezzi di comunicazione sono minimali e gli ordini si mandano con un soldato a cavallo.


Radetzky attacca all'estremità, verso Mantova. Davanti Mantova ci sono una Divisione toscana e due Battaglioni napoletani. Sono tutti schierati tra due paesini, Curtatone e Montanara, la cui storia ha tanti angoli visuali quanti sono gli attori in gioco. Si può raccontare l'eroismo dei toscani, la loro valorosa resistenza per un'intera giornata, l'aver tamponato l'avanzata di Radetzky che avrebbe altrimenti preso alla spalle i piemontesi. Ma si può anche raccontare l'allerta del Generale Bava, piemontese, che il giorno prima aveva avvertito il comandante toscano dell'arrivo di Radetzky, invitandolo a fare qualcosa, qualunque cosa, senza mai ricevere riscontri. Possiamo ancora raccontare la versione del Generale toscano, che all'annuncio dell'arrivo di Radetzky si aspettava seguisse l'invio di un contingente militare, che invece non arrivò. Conclusione: gagliardo combattimento degli studenti toscani, ma la Divisione viene sbaragliata, si rintana a Brescia, e da lì non esce più.

Radetzky ha passato lo schieramento italiano e può ora prendere sul fianco i piemontesi. Carlo Alberto raduna quel poco che riesce a radunare di un esercito disperso e sparpagliato, e viene giù, incontro a Radetzky. E qui si vede che dopotutto neanche Radetzky è Napoleone. C'è un combattimento confuso, caotico, disordinato, nessuno capisce bene quel che accade, nessuno ha il coraggio di spingere e arrivare sino in fondo: è la Battaglia di Goito, altro luogo commemorato nelle vie delle nostre città.

Dopo un intero pomeriggio di incerte schermaglie, Radetzky capisce che di là non si passa. Non ce l'ha fatta, gli è andata male, si ferma e torna indietro, anche lui vittima di un clima arrendevole. La battaglia è vinta dai piemontesi, l'esercito di Carlo Alberto è salvo. Questo solo conta: Radetzky aveva attaccato e noi lo abbiamo fermato. La stampa celebra la grande vittoria. Carlo Cattaneo - a Milano, ormai fuori dal Governo Provvisorio - legge con disgusto la propaganda governativa e commenta sconsolato: "A Milano il Governo, vanissimo e ignorante, annunciò che il nemico era fuggito dirottamente, lasciando cinquemila morti". I numeri reali sono giusto un filo diversi: 45 morti e 260 feriti per i piemontesi, l'1% dell'esercito; 68 morti per gli austriaci.

Però è una vittoria, e il giorno dopo Peschiera si arrende, perché la guerra funziona così, con queste regole. Il comandante austriaco a Peschiera sapeva del programmato arrivo di Radetzky, e avrebbe resistito per tutto il tempo necessario, sin quando avesse avuto quella prospettiva. Ma ora sa che Radetzky non arriverà, e allora ha il diritto di arrendersi per portare in salvo i propri uomini. La fortezza di Peschiera cede, cade, e i soldati piemontesi son lì a gridare a Carlo Alberto viva, viva il Re d'Italia! Le cose si son messe bene e forse andranno ancora meglio. A Vienna è scoppiata una nuova rivoluzione. E se Radetzky venisse richiamato d'urgenza nella capitale, lasciando campo libero?

Cosa si fa ora? Si sta fermi ad aspettare, ovviamente, pensando  alla cosa migliore da fare. Cosa fa Radetzky? Star fermo non può. E' andata male da una parte? Pazienza. Ci sono ancora le città venete insorte, e c'è Durando con i pontifici. Sì, dai, andiamo a occuparci un po' di loro. Radetzky marcia fulmineamente su Vicenza, e a Vicenza arriva anche Durando, che assicura di poter tenere la posizione anche otto giorni. I piemontesi potranno così passare il Mincio, forse anche l'Adige, e attaccare Radetzky alle spalle. Il messaggio di Durando è un fomento: venite, venite pure, noi siamo qui a vostra protezione, resisterremo almeno otto giorni, garantito. Il primo giorno Radetzky attacca e annienta i pontifici. Durando chiede un armistizio e si ritira al di là del Po, con l'impegno a tenersi fuori dalla guerra per almeno tre mesi.

Tutte le città venete - tranne Venezia - sono ora riconquistate dagli austriaci. Segue un mese in cui nessuno fa niente. Radetzky aspetta i rinforzi, giudicando di aver già fatto abbastanza. Carlo Alberto non sa cosa fare. Ferdinando di Borbone invece sì. Ritira le truppe. Carlo Alberto - con entusiasmo ingiustificato e inopportuna esuberanza - aveva annesso al Piemonte le zone conquistate della Lombardia e del Veneto. Quelle annessioni affrettate avevano suscitato le proteste dei liberali - persino di Mazzini, figurarsi - e anche il Re delle Due Sicilie aveva cambiato umore, guardava ora con sospetto al Piemonte, alle sue reali intenzioni sul futuro della penisola.


Quando piove, grandina. I piemontesi - all'improvviso - sono soli in guerra, non hanno più neanche un esercito lombardo. Che fare? Reclutare volontari? E' un'idea, ma il clima non è più lo stesso delle Cinque Giornate, e non è facile trovare gente disposta a battersi. Il Governo Provvisorio di Milano si ricorda però di essere un Governo, col potere di richiamare i soldati in congedo, che hanno l'obbligo di rispondere alla convocazione del loro Governo. Li richiamano, e pazienza se non ci sono divise militari. Andranno a combattere al fronte senza divisa. Ancora l'impietoso Carlo Cattaneo: "Vestiti con giubbotti di tela, i più con berretto, alcuni con cappelli di feltro, di paglia, di ogni foggia, reggimenti informi, che parevano agli stipendi del più pitocco popolo del globo".

In un modo o nell'altro le truppe arrivano al fronte. L'opinione pubblica preme: bisogna fare qualcosa. Il 4 luglio Carlo Alberto ha il colpo di fortuna: il Generale Giuseppe Garibaldi arriva dall'America con un drappello di uomini al seguito, per offrire la sua sciabola al Re di Sardegna. Carlo Alberto non pare granché convinto. "Ho concesso oggi udienza al celebre Generale Garibaldi" - scrive al Ministro della Guerra - "I precedenti di questi signori, e specialmente del sedicente Generale, il suo famoso proclama repubblicano, ci rendono assolutamente impossibile accettarli nell'esercito. Si potrebbe forse dar loro un sussidio, purché si tolgano dai piedi". Sarà per un'altra volta, Generale Garibaldi, occasioni non ne mancheranno, stia sicuro.

L'esercito piemontese continua a rimaner disteso su un fronte di 70 chilometri, da Pastrengo a Mantova, dal Mincio al Po. Il servizio di rifornimento non funziona. Molti soldati muoiono di fame, nel mezzo delle province più ricche d'Europa. E' luglio e fa un caldo insopportabile. Le divise sono di panno pesante, nessuno ha pur minime nozioni di igiene, e tutti ignorano come difendersi dalla calura. Generali e Ufficiali muoiono di sincope, sotto il sole.

Radetzky è ancora fermo, in attesa dei rinforzi, e quando i rinforzi arrivano si muove. Il 29 luglio viene avanti, in esplorazione. Localizza la debolezza dei piemontesi a nord, sull'Adige. Attacca, sfonda e li mette in fuga. Prosegue oltre, correndo un rischio, perché la parte destra dell'esercito piemontese, dove c'è Carlo Alberto, è ancora lì e potrebbe prenderlo su un fianco. Radetzky  sta salendo verso occidente. Carlo Alberto lo attacca da sud, tra il Mincio e l'Adige, vicino ai ponti del Mincio, in un posto chiamato Custoza.

Carlo Alberto attacca, e lo fa a modo suo, come al solito, con pochissima convinzione. Poco convinto lui, poco convinti i soldati. Nessuno vuol farsi male. Combattono un paio di giorni, sinché realizzano di non poter passare. Radetzky ha vinto. Come al solito si è giocato più truppe, ha avuto più perdite, e stavolta però ha vinto. Gli austriaci lasciano sul campo il 5% delle forze, i piemontesi il 2%. Sono numeri incomparabili col 20% di Napoleone, ma evocano uno scontro appena un po' più serio.

Radetzky ha vinto e non si ferma. Passa il Mincio, diretto verso occidente. Arriva sulle strade di collegamento tra l'esercito sabaudo e il Piemonte, le occupa e spezza il contatto. Una tragedia. Perché un esercito entra in agonia se non ha più un aggancio con la madre patria, una via da cui far arrivare notizie, denaro, viveri, rinforzi. La situazione è disperata. Il 27 luglio Carlo Alberto chiede l'armistizio.

I piemontesi hanno mollato davanti al primo serio ostacolo. Radetzky è stupefatto. E' così sbalordito da non avanzare quasi pretese. Si accontenterebbe di vedere i piemontesi dietro l'Adda, e tengano pure Milano, se proprio la desiderano. E' un'offerta tanto straordinaria quanto umiliante. Carlo Alberto la rifiuta. Il Piemonte non accetterà mai condizioni di resa così vergognose. La guerra continua.

La guerra prosegue, sì, ma i piemontesi battono la ritirata, scappano. Il 27 luglio passano il Mincio. Il 28 luglio passano l'Oglio. All'andata ci avevano impiegato una settimana, al ritorno gli è bastato un giorno. Il 31 luglio passano l'Adda, lasciandosi dietro paesi terrorizzati, che prima erano insorti e ora temono le rappresaglie austriache.

Carlo Alberto spera di resistere almeno sull'Adda, ma gli austriaci son più bravi e all'inizio d'agosto passano anche l'Adda. E ora? La chiudiamo qui, si torna in Piemonte e non se ne parla più? Mai! Difenderemo Milano! Carlo Alberto marcia verso Milano, una scelta che scatenerà una tempesta di discussioni.

Le fonti monarchiche parlano di un atto eroico del Re, che insieme all'esercito si è voluto sacrificare per salvare almeno la città in cui tutto era iniziato. Sì, salvare Milano, come no, raccontano versioni meno poetiche. Il Re temeva la rivoluzione, la proclamazione della Repubblica, alla notizia della guerra perduta. Non aveva scelta, altroché. Non poteva che presidiare Milano, con l'esercito.


Quali che siano i sentimenti di Carlo Alberto, se coraggio o timore, eroismo o viltà, a Milano comunque ci arriva. Il 3 agosto l'esercito entra in città, accolto da una popolazione diffidente, se non addirittura ostile, convinta che il Re stia per mollare. Le Cinque Giornate sembrano appartenere a un'altra epoca, a un altro mondo. I piemontesi si rintanano in una zona che oggi è parte di Milano, ma al tempo rappresentava una remota periferia di cascinali: da Chiesa Rossa al Vigentino e al Corvetto, sino a Calvairate. Ci si schiera lì, il 3 agosto, nella speranza di tenere il possesso della città.

Il 4 agosto Radetzky attacca. Dopo un giorno Carlo Alberto si arrende. Preferisce arrendersi perché senza più viveri e munizioni - così dichiara il Re di Sardegna - tra il fiele dei milanesi che parlano invece di una città ben rifornita, armata e pronta a combattere. Qualunque sia la verità, Carlo Alberto preferisce la resa e chiede l'armistizio, e Milano è ovviamente perduta. Armistizio - ora - vuol dire che i piemontesi tornano a casa e Milano ritorna agli austriaci.

Il Re si è arreso, Milano è austriaca! I popolani milanesi - che dalle periferie arrivano al centro, per dare la notizia - subiscono il linciaggio di una folla sospettosa. Nessuno gli crede. Tutti pensano siano spie austriache o più semplicemente sobillatori o provocatori. La gente imbraccia le armi, la città è tutto un suono di campane, ma intanto gli austriaci stanno per entrare. Può accadere di tutto, ora, con l'esercito piemontese in periferia e il Re in centro, a Palazzo Greppi, con pochi aiuti. Fuori c'è una folla impazzita. I milanesi potrebbero entrare a forza nel palazzo e impiccare Carlo Alberto a un balcone per la rabbia. Così come le truppe piemontesi in periferia, informate dei disordini in centro, potrebbero attaccare Milano e devastarla, per mettere in salvo il loro Re.

Poi, per miracolo, il peggio è scongiurato. Arriva un gruppo di bersaglieri, recupera Carlo Alberto e lo porta fuori Milano L'esercito sabaudo arretra, torna in Piemonte. Gli austriaci entrano in città.

Il 9 agosto si firma l'armistizio di Salasco. La notizia arriva a Vienna - dove intanto la rivoluzione è scemata - e Johann Strauss (padre) omaggia l'esercito austriaco con la composizione di quell'opera che tutti noi ascoltiamo con gran piacere a ogni Capodanno. Allora non era il primo gennaio, ma il 31 agosto 1848, e a Vienna andava per la prima volta "La Marcia di Radetzky".

E' giovedì 16 gennaio 1964, e siamo a Londra, all'indirizzo 50 Pall Mall,
la sede della Robson Lowe Ltd, all'epoca tra le più rinomate case d'asta al mondo.
Sulla copertina del catalogo "ITALIAN STATES and ITALY"
fa mostra di sé il celeberrimo "3 lire Faruk"
una delle due  lettere affrancate col 3 lire del Governo Provvisorio di Toscana,
una gemma filatelica appartenuta al Re d'Egitto, da cui ha mutuato il nome.
Ma la terza di copertina è interamente dedicata a una collezione per intenditori,
un raffinato insieme con "many superb and rare pieces of historical interest",
costruito su pezzi postali della lunga fase preparatoria del Risorgimento italiano.

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