LE DUE SICILIE - Angioini
Dinastia medioevale cadetta dei Capetingi,
titolare della Contea d'Angiò, poi Ducato, nella Francia centro-occidentale.
Carlo I d'Angiò - "sul mare e sulla terra, il più temuto di qualsiasi altro re cristiano", con le parole del cronista dell'epoca Giovanni Villani - cinge la corona di Re di Sicilia il 6 gennaio 1266.
Un presidio guelfo sorge nella roccaforte dei ghibellini, la politica papale trionfa.
E' il momento del contrappasso. Arabi, Normanni e Svevi avevano gareggiato nel moltiplicare il fascino di una terra, di un'Isola, che si credeva il centro del mondo. Gli Angioini ne avviano la decadenza, svanisce il sogno di una monarchia forte e disciplinata, rigida e intelligente, assoluta e illuminata.
Al normanno Ruggero II e a Federico II di Svevia si potrebbero riadattare le parole romantiche di Re Francesco II di Borbone: "nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi; la vostra lingua e la mia lingua; le vostre ambizioni mie ambizioni".
Al normanno Ruggero II e a Federico II di Svevia si potrebbero riadattare le parole romantiche di Re Francesco II di Borbone: "nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi; la vostra lingua e la mia lingua; le vostre ambizioni mie ambizioni".
Non è così per gli Angioini, che in questi territori non hanno radici, affetti o tradizioni. Il nuovo Re - emblematicamente - non è stato incoronato a Palermo, secondo tradizione, e verrà in Sicilia solo una volta in dodici anni - per di più solo di passaggio - allo scopo di riunirsi in Africa col fratello Luigi IX, impegnato in una Crociata.
Già la sua discesa nella penisola era stata segnata da devastazioni e saccheggi delle zone attraversate, senza risparmiare neppure i
beni ecclesiastici, destando l'indignazione del Papa, e la stessa Battaglia di Benevento fu strumentalizzata per altre ruberie, ancora una volta con lo stigma del Pontefice.
E se alla fondazione del Regno - nel 1130 - Ruggero II aveva ricevuto l'acclamazione del
Parlamento di Palermo, se la stessa ritualità si era ripetuta con Guglielmo II (nel 1166) e Tancredi (1190), e se nel 1254 era stato ancora il Parlamento a ratificare la
reggenza di Manfredi per il piccolo Corradino di Svevia, e a offrirgli poi la corona nel 1258, ora l'incoronazione a Roma di Carlo d'Angio - per investitura papale - segna una rottura sul piano istituazionale, e di fatto la fondazione di un "nuovo Regno di Sicilia"
piú che la continuazione di quello legittimo.
Non meraviglia - allora - un governo angioino improntanto a un cieco assolutismo, incurante persino dei solleciti del Papa a una politica più accorta: i nuovi dominatori si abbandonano a violenze, spregiudicatezze e rapacità, raramente sperimentate nella storia; si prendono i migliori possessi, monopolizzano i pubblici uffici, impongono oneri spropositati ai vinti; sopprimono i buoni istituti della savia amministrazione di Federico II e trasferiscono la capitale da Palermo a Napoli, che vivrà una sorte meno avversa, e anzi, nel complesso, si adatterà piuttosto bene a una monarchia assoluta e centralizzata (non a caso - a distanza di secoli - Carlo d'Asburgo salirà al trono di Napoli col numerale VI, inizando il conteggio da Carlo d'Angio, ma cingerà la corona di Sicilia come Carlo III, disconoscendo il dominio angioino, avversato dalla coscienza storica nazionale
siciliana).
L'avida politica fiscale - strumentale al finanziamento delle azioni militari contro l'impero bizantino - è al centro del sistema dispotico. Gli esattori possono pretendere il pagamento anticipato dei tributi dai baroni più facoltosi, tenuti pure a fornire le proprie navi al Re, pena la confisca. Il popolo subisce l'imposizione di monete con un contenuto minimo d'argento - i biglioni - da valutare come fossero interamente d'oro, con tremende punizioni corporali per chi ne rifiuta l'accettazione. Gli ufficiali francesi sono autorizzati a violare il domicilio dei cittadini e possono sequestrarne i beni con qualsiasi pretesto, o addirittura coabitare con loro. E' introdotta una tassa sul matrimonio, una versione erariale dell'immaginifico ius prime noctis; e poi c'è la chinea da corrispondere al Papa, settemila ducati d'oro, simbolicamente collocati in due borse in groppa a un asino.
La dominazione angioina, più che un governo, è un presidio militare in una provincia ostile, una mala signoria offensiva della dignità del popolo, prima ancora che oppressiva delle sue prerogative. La Sicilia è in una condizione di intollerabile schiavitù. Le incessanti angherie e le insopportabili malversazioni, l'oppressione e la prepotenza, suscitano e alimentano sentimenti di odio e rivalsa.
I siciliani si stringono intorno a Corradino - nipote di Federico II, appena quindicenne - con l'appoggio dei fautori dell'Impero e delle città lombarde, per sostenerlo nelle sue rivendicazioni. Trovano il primo sbarramento nel Papa, pronto contrastare il rampollo svevo con ogni mezzo, a iniziare dalla più classica delle scomuniche. Ci vuol ben altro, però, che una censura ecclesiastica, visto il livello di esasperazione.
Corradino prende coraggio, mostra tutto l'orgoglio per recuperare il potere e
lo splendore dei suoi avi, e chiede il supporto dei Principi tedeschi, che glielo accordano nella convinzione di poterne ricavere solo dei vantaggi (le ovvie ricompense in caso di successo, la possibilità di
spartirsi i poderi in caso di insucceso, mancando un successore della casata Sveva).
Arriva nella penisola italiana nel 1267, con un esercito consistente, accolto
festosamente dalle fazioni ghibelline del settentrione, trionfalmente a
Pisa e a Roma dove fu incoraggiato dall’appoggio di Enrico di Castiglia e
dalle notizie favorevoli sulle ribellioni delle città meridionali. Si muove verso l'Abruzzo e la Puglia per aggregare le forze
fedeli, evitando i
confini presidiati dagli angioini.
Carlo D'Angiò - per parte sua - aveva intanto assediato la
colonia ghibellina di Lucera per compiacere il Papa, per poi reindirizzare e forze nell'intercettare Corradino prima che possa congiungersi con altre
truppe.
Lo scontro avviene nei pressi di Tagliacozzo, alla fine di
agosto del 1268. E' una battaglia articolata e incerta, e le perdite sono consistenti da entrambi i lati, ma gli Svevi - preponderanti per numero e abbagliati da un iniziale
successo - commettono l'errore di dare per sconfitto Re Carlo, quando è ormai alle porte del Regno, permettendo alle
retroguardie angioine di coglierli di sorpresa e sopraffarli, anche grazie a un astuto espediente: un aiutante di Carlo ne assume le
vesti e si lancia nello scontro con gran parte dell'armata angioina,
preceduta dai vessilli reali; i soldati di Corradino affrontano in massa
l'avanguardia francese, la sbaragliano, e convinti del trionfo
allentano la tensione, rompono le formazioni e si abbandonano ai
festeggiamenti; Carlo può così sferrare l'attacco vincente, con
ottocento cavalieri tenuti in riserva, giocando sull'effetto sorpresa, e la disfatta assume la dimensione di un massacro.
Corradino fugge, mette in salvo la sua vita e poco altro, diretto verso Roma, senza trovare copertura neppure presso chi poco prima lo aveva osannato. E' la notte dei lunghi coltelli. Lo svevo sta per imbarcarsi verso la fedelissima Pisa, quando è catturato ad Anzio dai Frangipane, signori
del luogo, e consegnato a Re Carlo, il 23 ottobre 1268. Sarà imprigionato a
Castel dell'Ovo, a Napoli, e giudicato in un processo-farsa, che nei secoli avrebbe indignato persino i partigiani degli Angioini. E' condannato a morte e decapitato, a soli 17 anni.
29 ottobre 1268:
la decapitazione di Corradino di Svevia, a Napoli, nell'odierna Piazza Mercato.
La storia degli Hohenstaufen è alla fine.
La nobiltà siciliana accusa il colpo, ma tiene botta; si ricompatta attorno ai suoi principali esponenti - Giovanni da Procida, storico cancelliere di Manfredi, Ruggero di Lauria, fratello di latte di Costanza di Hohenstaufen, e poi Alaimo di Lentini, Gualtiero di Caltagirone e Palmiero Abate - che in segreto organizzano un movimento di rivolta, a lungo oggetto di molteplici interpretazioni e chiavi di lettura, talvolta contrastanti.La storia degli Hohenstaufen è alla fine.
Un intrigo, una cospirazione, una congiura tessuta da potenze straniere - Pietro III d'Aragona, l'Impero Bizantino e i ghibellini italiani - che dall'esterno fanno base sulle forze interne all'Isola, sul desiderio della Sicilia di rialzare testa, per contrastare le mire egemoniche degli Angiò?
Oppure una rivoluzione sociale, un risveglio spontaneo dell'identità siciliana, il sussulto delle forze vive dell'Isola, logicamente precedente a qualsivoglia alleanza strategica cronologicamente successiva?
Un disegno politico e militare ideato in terra aragonese e attuato sul suolo siciliano, come volle far intendere Carlo I, per sottrarsi alla vergogna di una sconfitta a opera di contadini e artigiani?
O più semplicemente un'inevitabile e inarrestabile esplosione di rabbia, indotta dalla sfrenata licenza degli ufficiali francesi, come suo figlio Carlo II riconosceva con franchezza e onestà, in una lettera del 10 agosto 1298?
Quale ne sia l'origine remota c'è un episodio melodrammatico riconosciuto come l'aurora della ribellione.
Quale ne sia l'origine remota c'è un episodio melodrammatico riconosciuto come l'aurora della ribellione.
I siciliani non possono portare armi, per pretestuose ragioni di sicurezza, e i francesi spesso ne approfittano per metter le mani addosso alle donne, per "verificare" l'osservanza delle proibizione.
Il 31 marzo 1282, un lunedì di Pasqua, sul sagrato della chiesa palermitana di Santo Spirito, alla messa del Vespro, un soldato transalpino caccia le mani sotto le vesti e sul seno di una giovane aristocratica (che in una leggendaria versione complottista è la figlia di Giovanni da Procida, arrivata da Napoli proprio per suscitare il casus belli).
Il marito reagisce con veemenza, sottrae la spada al soldato e lo uccide.
Il fatto sovreccita gli animi: "poiché le armi mancavano, i giovani corsero a raccogliere pietre. Il popolo si solleva. E' l'inizio di un vero massacro, tutti gridavano e si sentiva nell'aria un risuonare di terribili grida: Che muoiano i Galli. A morte!", nella narrazione del contemporaneo Bartolomeo di Neocastro.
Il mattino seguente i cadaveri di duemila francesi giacciono per le strade di Palermo.
E' l'inizio della Rivolta del Vespro, la ribellione più famosa della storia di Sicilia, un autentico fenomeno di costume, una storia medioevale che piacque molto alla cultura dell'Ottocento, sino a divenire un riferimento per i patrioti alla ricerca di radici profonde dell'unità nazionale, sino a entrare in una strofa dell'inno nazionale di Mameli. "Dall'Alpe a Sicilia, dovunque è Legnano; ogn'uomo di Ferruccio, ha il core e la mano; i bimbi d'Italia si chiaman Balilla; il suon d'ogni squilla, i Vespri suonò".
Che sia una rivolta spontanea, con cui il popolo assume un'identità eroica, o una congiura manovrata dalla vecchia nobiltà, per opporsi al nuovo corso, e quale che sia la correlazione tra il carattere spontaneo e l'esistenza di larghe trame, il mito del Vespro rimane invincibile e sovrano, parla un linguaggio universale e rappresenta uno snodo cruciale nella storia del Regno.
Le mogli perirono per colpa dei mariti.
Le giovani donne morirono per colpa dei padri
ed i bambini ancora muti vennero strappati al seno materno".
E' l'inizio della Rivolta del Vespro, la ribellione più famosa della storia di Sicilia, un autentico fenomeno di costume, una storia medioevale che piacque molto alla cultura dell'Ottocento, sino a divenire un riferimento per i patrioti alla ricerca di radici profonde dell'unità nazionale, sino a entrare in una strofa dell'inno nazionale di Mameli. "Dall'Alpe a Sicilia, dovunque è Legnano; ogn'uomo di Ferruccio, ha il core e la mano; i bimbi d'Italia si chiaman Balilla; il suon d'ogni squilla, i Vespri suonò".
Che sia una rivolta spontanea, con cui il popolo assume un'identità eroica, o una congiura manovrata dalla vecchia nobiltà, per opporsi al nuovo corso, e quale che sia la correlazione tra il carattere spontaneo e l'esistenza di larghe trame, il mito del Vespro rimane invincibile e sovrano, parla un linguaggio universale e rappresenta uno snodo cruciale nella storia del Regno.
La terza versione del quadro "I Vespri Siciliani", di Francesco Hyez,
con la raffigurazione della scena madre dell'episodio all'origine della ribellione.
L'opera fu commissionata nel 1848 dal collezionista Vincenzo Ruffo, Principe di Sant'Antimo,
e si trova oggi nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, a Roma.
Le prima versione fu ordinata dalla Marchesa Visconti d'Aragona (1822),
con la raffigurazione della scena madre dell'episodio all'origine della ribellione.
L'opera fu commissionata nel 1848 dal collezionista Vincenzo Ruffo, Principe di Sant'Antimo,
e si trova oggi nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, a Roma.
Le prima versione fu ordinata dalla Marchesa Visconti d'Aragona (1822),
la seconda dal Conte Arese (1826-1827).
Sono entrambe in mani private.

"I nascondigli svelarono quelli che erano ricercati.
Catturati furono tutti immolati nelle case e trafitti di spada sulla pubblica piazza"
Sono entrambe in mani private.

"I nascondigli svelarono quelli che erano ricercati.
Catturati furono tutti immolati nelle case e trafitti di spada sulla pubblica piazza"
- scrive Michele Amari, nella sua ricostruzione "La guerra del Vespro siciliano" del 1843 -
"La grazia venne rifiutata persino al sesso femminile e non venne rispettata neanche l'età.Le mogli perirono per colpa dei mariti.
Le giovani donne morirono per colpa dei padri
ed i bambini ancora muti vennero strappati al seno materno".
La Rivolta del Vespro è una strage, i rivoltosi sono inarrestabili.
Lo sterminio procede tutta la notte, continua il giorno dopo e va avanti per il successivo.
I francesi fuggono, dismettono la divisa, si travestono, provano a fingersi isolani.
I siciliani escogitano uno stratagemma, per riconoscerli e giustiziarli.
Mostrano a ogni sospetto un pugno di ceci e lo costringono a pronunciarne il nome.
Un siciliano avrebbe sicuramente risposto "ciciri",
ma gli angioini sono obbligati dalla fonetica della loro lingua a dire "scisciri", "kikiri" o "sisiri",
mancandogli la pronuncia palatale della "c", oltre a possedere la "r" moscia.
Nobili, borghesi e popolani girano per le strade, con in mano un'arma e i ceci nell'altra.
Chi sbaglia la pronuncia è un francese, un angioino, un nemico. In una parola: è morto.
I siciliani, con i Vespri, si liberano sorprendentemente da soli,
sono il primo popolo, nel panorama europeo, a ribellarsi e vincere il proprio sovrano.
"La riputazione della forza, per la quale si tengon gli stati, mutabilissima è;
donde avvien talvolta, che la cosa pubblica, quando più irreparabilmente, sembra perduta,
d'un tratto ristorasi, per virtù di principe, o impeto del popolo"
Lo sterminio procede tutta la notte, continua il giorno dopo e va avanti per il successivo.
I francesi fuggono, dismettono la divisa, si travestono, provano a fingersi isolani.
I siciliani escogitano uno stratagemma, per riconoscerli e giustiziarli.
Mostrano a ogni sospetto un pugno di ceci e lo costringono a pronunciarne il nome.
Un siciliano avrebbe sicuramente risposto "ciciri",
ma gli angioini sono obbligati dalla fonetica della loro lingua a dire "scisciri", "kikiri" o "sisiri",
mancandogli la pronuncia palatale della "c", oltre a possedere la "r" moscia.
Nobili, borghesi e popolani girano per le strade, con in mano un'arma e i ceci nell'altra.
Chi sbaglia la pronuncia è un francese, un angioino, un nemico. In una parola: è morto.
I siciliani, con i Vespri, si liberano sorprendentemente da soli,
sono il primo popolo, nel panorama europeo, a ribellarsi e vincere il proprio sovrano.
"La riputazione della forza, per la quale si tengon gli stati, mutabilissima è;
donde avvien talvolta, che la cosa pubblica, quando più irreparabilmente, sembra perduta,
d'un tratto ristorasi, per virtù di principe, o impeto del popolo"
- scrive ancora Michele Amari -
"Splendono allora egregi fatti in città e in oste, cresce a tanti doppi la potenza della nazione,
e spezzansi ingiuriosi legami stranieri,
si abbatte al di dentro di una viziosa macchina, e in riforme salutari si assoda lo stato.
Questa, al vedere de' savi, è la gloria vera delle genti".
Palermo si proclama indipendente all'indomani del Vespro, e Palermo parla a nome dell'Isola. La seguono Corleone, Taormina, Siracusa, Augusta, Catania, Caltagirone e persino a Messina, che non ne avrebbe interesse, per esser stata nominata capitale dal viceré francese Erbert d'Orléans."Splendono allora egregi fatti in città e in oste, cresce a tanti doppi la potenza della nazione,
e spezzansi ingiuriosi legami stranieri,
si abbatte al di dentro di una viziosa macchina, e in riforme salutari si assoda lo stato.
Questa, al vedere de' savi, è la gloria vera delle genti".
Tutta la Sicilia è in rivolta al grido "Antudo!" - una parola misteriosa, che nell'interpretazione prevalente è l'acronimo di Animus Tuus Dominus, il tuo coraggio è il Signore - sotto una bandiera gialla e rossa dominata dalla Trinacria.
I francesi troveranno respiro solo a Sperlinga - un borgo tra i Nebrodi e le Madonie, oggi recensito tra i più belli d'Italia - che offrirà ospitalità e rifugio, aiuti e soccorso. "Quod siculis placuit soa Sperlinga necavit" si legge ancor oggi sull'arco dell'androne del castello. Ciò che piacque ai siciliani - di far strage di francesi - solo Sperlinga lo negò.
La Rivolta del Vespro dà alla Sicilia un formidabile slancio comunale.
Le città sono percorse da un desiderio di libertà e un sentimento di autonomia,
si agglomerano, si uniscono, creano nuovi centri di potere guidati da capitani eletti dal popolo.
Il notaio Benedictus roga il primo atto di confederazione tra Palermo e Corleone
L'atto notarile istituisce anche la bandiera della Sicilia, una delle più antiche al mondo.
Le città sono percorse da un desiderio di libertà e un sentimento di autonomia,
si agglomerano, si uniscono, creano nuovi centri di potere guidati da capitani eletti dal popolo.
Il notaio Benedictus roga il primo atto di confederazione tra Palermo e Corleone
- la città capofila della rivolta e la prima a venirle dietro -
ancora custodito presso la Biblioteca Nazionale di Palermo.L'atto notarile istituisce anche la bandiera della Sicilia, una delle più antiche al mondo.
Il giallo e il rosso, posizionati in ordine inverso rispetto alla bandiera odierna,
sono proprio i colori di Palermo e Corleone.
Al centro c'è la Triscele, o Trinacria,
tre gambe a indicare i tre promontori estremi dell'isola,
tre gambe a indicare i tre promontori estremi dell'isola,
e poi la testa della Gòrgone, Medusa con i suoi serpenti,
a simboleggiare il legame tra storia e mitologia.
Nasce la Communitas Siciliae, una confederazione di città libere e di contee, orientata a dar vita a un governo autonomo, sulla scia dell'esperienza dei comuni lombardi e toscani.a simboleggiare il legame tra storia e mitologia.
L'iniziativa non trova però la sperata sponda nel Papato, all'epoca retto dal francese Martino IV, che con la terra natia intrattiene un antico e consolidato rapporto fiduciario. L'esperimento politico dura pochi mesi, per poi naufragare.
Il fallimento spingerà Benedetto Croce a un giudizio critico sui Vespri, da un alto incapaci di spezzare la catena di dominazioni straniere, dall'altro causa prima della rottura dell'unità del regno meridionale. "Il Vespro siciliano che ingegni poco politici e moto retorici esaltano ancora come un grande avvenimento storico, laddove fu principio di molte sciagure e nessuna grandezza".
E' pur vero - di là dei giudizi d valore - che il Vespro segna la nascita di una coscienza nazionale siciliana, che
nella "Sicilia continentale" non avrà seguito, o troverà al più dei fiancheggiatori sporadici, non registrandosi nulla di neanche lontanamente paragonabile
all'epica rivolta dell'Isola. E per molto tempo ancora - ovviamente - la
Sicilia in rivolta avrebbe rivendicato il possesso dell'intera "grande Sicilia", esattamente come Napoli rivendicava per sé anche la "piccola Sicilia", ma l’esito sostanziale e finale fu la separazione di due realtà che forse non
si erano mai integratee la creazione di due regni paralleli (che sarebbero vissuti per secoli, ,
con vicende alterne, sino alla
riunificazione formale del 1816, e in pratica fino al 1860).
La Sicilia sta per entrare nella direttrice spagnola, che condurrà a sciogliere il legame tra la "Sicilia insulare" (l'Isola) e la "Sicilia peninsulare" (la parte continentale), a smembrare l'antico Regno e a privarlo quindi del suo ruolo storico di interposizione tra Europa, Africa e Medio Oriente.
Dante incontra Carlo Martello D'Angiò, figlio di Carlo II, nel Canto VIII del "Paradiso".
Carlo Martello elenca le terre su cui regnerebbe, se fosse ancora vivo,
tra cui vi è la Sicilia, se solo le vessazioni angioine non avessero causato la rivolta del Vespro:
"se il malgoverno, che è sempre doloroso per i popoli che vi sono assoggettati,
non avesse spinto Palermo a gridare: 'A morte, a morte!'".
La "mala signoria" è enfatizzata, nella costante polemica dantesca verso gli Angioini,
cosicché la sommossa palermitana trova, se non proprio una legittimazione,
sicuramente una forma di umana comprensione e giustificazione.
I nobili isolani si accalcano alla corte di Pietro III d'Aragona - marito della figlia di Manfredi, anche lei di nome Costanza - in una scelta dal manifesto valore simbolico, che da un lato insiste nell'idea romantica di un ritorno degli Svevi, e dall'altro offre la possibilità di un riscatto al Re aragonese.Carlo Martello elenca le terre su cui regnerebbe, se fosse ancora vivo,
tra cui vi è la Sicilia, se solo le vessazioni angioine non avessero causato la rivolta del Vespro:
"se il malgoverno, che è sempre doloroso per i popoli che vi sono assoggettati,
non avesse spinto Palermo a gridare: 'A morte, a morte!'".
La "mala signoria" è enfatizzata, nella costante polemica dantesca verso gli Angioini,
cosicché la sommossa palermitana trova, se non proprio una legittimazione,
sicuramente una forma di umana comprensione e giustificazione.
Da molti anni la Casa di Francia disturba le ambizioni della dinastia catalano-aragonese, che ha rinunciato a estendersi di là dei Pirenei, dopo la Crociata contro gli Albanesi del 1209. La Provenza, a lungo governata dai Conti di Barcellona, è sfuggita a favore di Carlo d'Angiò, che ora gli ha nuovamente sbarrato la strada, occupando un territorio anomalo rispetto ai possedimenti angioini.
Il sovrano aragonese accetta di appoggiare gli insorti, incentivato dalla posizione geografica dell'Isola, che ne fa un avamposto strategico verso Tunisi, da tempo nella mire espansionistiche della Spagna, ma forse era impegnato nei preparativi militari già dal 1281, sotto la copertura ufficiale di una missione per invadere le terre dell'Islam.
Il sovrano aragonese accetta di appoggiare gli insorti, incentivato dalla posizione geografica dell'Isola, che ne fa un avamposto strategico verso Tunisi, da tempo nella mire espansionistiche della Spagna, ma forse era impegnato nei preparativi militari già dal 1281, sotto la copertura ufficiale di una missione per invadere le terre dell'Islam.
Il 28 giugno 1282 - tre mesi dopo i Vespri - Pietro sbarca a Costantina, in Algeria, e dalle coste africane muove verso la Sicilia a fine agosto, e a questo punto conta poco se su sollecitazione degli insorti o per attuare un piano preordinato, e se pure fosse inverosimile una Rivolta del Vespro scatenata e pilotata a distanza, certamente il Re d'Aragona riesce a sfruttarla al meglio.
Pietro mette piede in Sicilia il 30 agosto 1282, a Trapani, deciso a rivendicare i diritti dinastici della moglie, tutelarne l'onore e vendicare Manfredi e Corradino. E' accolto trionfalmente dalla popolazione e, incoronato Re il 4 settembre, avanza pretese sull'intero Regno - Sicilia e Napoli - con l'impegno a tener separate le Corone (di Sicilia e d'Aragona).
Gli eventi conferiscono all'insurrezione la fisionomia di un conflitto strutturale, con Siciliani e Aragonesi su un versante e gli Angioini e il Papato sul lato opposto.
Pietro mette piede in Sicilia il 30 agosto 1282, a Trapani, deciso a rivendicare i diritti dinastici della moglie, tutelarne l'onore e vendicare Manfredi e Corradino. E' accolto trionfalmente dalla popolazione e, incoronato Re il 4 settembre, avanza pretese sull'intero Regno - Sicilia e Napoli - con l'impegno a tener separate le Corone (di Sicilia e d'Aragona).
Gli eventi conferiscono all'insurrezione la fisionomia di un conflitto strutturale, con Siciliani e Aragonesi su un versante e gli Angioini e il Papato sul lato opposto.
Il Papa scomunica l'Isola ribelle e depone Pietro dal trono d'Aragona, costringendolo a rientrare nel territorio di provenienza.
Ne prende il posto Alfonso III, col ruolo di luogotenente, cui seguirà Giacomo II. Carlo d'Angiò batte in ritirata a Napoli, il 26 settembre 1282.
La contesa durerà vent'anni, portata avanti per mare e terra, affollata di personaggi e colpi di scena, a iniziare da una singolare coincidenza: la morte nello stesso anno di tutti i principali attori, Papa Martino IV, Re Pietro III d'Aragona, Re Carlo I d'Angiò.
Una precisazione sull'esatta datazione dell'inizio della "Rivolta del Vespro". Molte fonti riportano il 31 marzo, ma il Lunedì dell'Angelo del 1282 cadeva il 30 marzo. Entrambe le date sono in realtà corrette, per via del particolare conteggio delle ore, che nel Medioevo erano misurate mezz'ora dopo il tramonto. La rivoltà scoppiò verso le sette di sera del 30 marzo, quindi alla prima ora del giorno successivo, 31 marzo.
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