QUALUNQUE COSA AVVENGA, SIA FATTA SEMPRE LA TUA VOLONTA'

XX Settembre 1870

"Patisco un sopruso.
Siete testimoni.
Cedo alla violenza".
(Papa Pio IX, 20 settembre 1870)

"Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode" (Marco 2, 1), dunque nel periodo che noi indicheremmo tra il 37 e il 4 avanti Cristo, e con maggiore probabilità tra il 7 e il 4. La sua nascita è "un fatto accertato", secondo i parametri standard della storiografia. E soprattutto - di là delle discussioni accademiche - c'è una realtà sotto gli occhi di tutti, nitidamente fotografata dal Professor Barbero: il movimento fondato da Gesù Cristo è "un cambiamento enorme che ha travolto tutto un pezzo della civiltà antica, tutto un pezzo del modo di vivere e di pensare della gente, e l'ha sostituito con qualcos'altro che esiste ancora oggi". Il mondo non è stato più lo stesso, dopo l'avvento del cristianesimo, a inziare dalla convenzione di misurazione degli anni.
 
 "... se essi avessero in generale creduto che l'obbedienza a Cristo
è l'unica strada per la felicità presente ed eterna,
altrettanto fermamente e indubbiamente
quanto credono che esista una città come Costantinopoli,
o quanto credono, anzi, ai Commentari di Cesare o alla Storia di Sallustio,
io credo che la vita della maggior parte degli uomini,
sia papisti, sia protestanti, sarebbe migliore di quella che è".
 
Anno 33 dopo Cristo. L'apostolo Simone - detto Pietro - è il primo Papa della storia. L'investitura gli è conferita direttamente da Nostro Signore: "E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (Matteo 16, 18-19).

Inizia una storia millenaria, che ancora prosegue, e non avrà mai fine.

Domine, quo vadis? Eo roman iterum crucifigi. Persecuzioni, crociate e lotte per le investiture. Santi, martiri, Madonne, Papi e Antipapi. La Bibbia e i Vangeli apocrifi. Frati francescani, padri missionari e suore di clausura. Scomuniche, bestemmie, miracoli, conversioni e mistificazioni. Lourdes, Fatima e Madjugorje. La preghiera, che è la debolezza di Dio, e poi la Chiesa, che non si governa con le Avemarie. San Paolo, San Francesco e Sant'Agostino. I Borgia e la vita dissoluta dei Papi del Rinascimento. La Basilica di San Pietro, la Cappella Sistina e le chiesette di campagna. I rintocchi delle campane e il tintinno delle monete sul piatto delle offerte, il fruscio delle banconote, lo IOR e l'8 per 1000, perché il denaro sarà pure lo sterco del demonio, ma senza denaro non si fa niente, nemmeno la carità. L'Inquisizione e gli eretici. Processioni e pellegrinaggi, gli scandali e il sesso. Il Ponte dei Frati Neri e Manuela Orlandi. Libera Chiesa in libero Stato, la Legge Siccardi e la Cavour-Rattazzi, la Convenzione di Settembre e il XX settembre, il Non Expedit, la Legge delle guarentigie e i Patti Lateranensi. Il Cardinale Marcinkus, Papa Ratzinger e Papa Francesco.

Nella Chiesa ci sono cose perfette e pure, per mostrare l'immagine di Dio. E poi ci sono cose imperfette e impure, per far capire che quel che si vede è solo l'immagine.

 
"... fra il cielo e la terra, fra il finito e l'infinito, fra l'eternità e un istante,
non c'è assolutamente proporzione;
vedendo quindi quanto siamo disposti ad azzardare per futili motivi,
il cielo per la terra, l'infinito per il finito, il tutto per il niente,
non c'è forse da temere che benché molti di noi  pretendano di avere molta fede,
in realtà ne abbiano assai poca o nessuna?".

La nostra felicità in questa vita dipende per lo più dall'umile speranza di una vita a venire, un'aspettativa profondamente radicata nell'animo umano. Solo questa speranza e questa attesa riescono a illuminare la tetra prospettiva dell'incontro con Sorella Morte. Solo questa speranza e questa attesa tengono allegri tra le dure prove e i turbamenti della vita terrena, a cui tutti siamo esposti di continuo.

La prospettiva di  un mondo a venire, nel quale ogni uomo sarà classificato insieme a chi è realmente un suo pari per qualità morali e intellettuali; un mondo che ricompenserà chi possiede doti e virtù che in questa vita non hanno avuto opportunità di mostrarsi perché ostacolate dalla sorte, doti e virtù sconosciute non solo agli altri, ma persino al suo possessore, che stentava ad averne anche solo una pallida testimonianza; un mondo nel quale quel merito silenzioso sarà allo stesso livello, se non più alto, delle più abbaglianti glorie della vita terrena; l'esistenza di questo mondo, dunque, è una dottrina così venerabile, così di conforto per i deboli, così lusinghiera per la grandezza della natura umana, che l'uomo virtuoso che abbia la sfortuna di dubitarne, non può comunque fare a meno di desiderarlo ardentemente; la fede in questo mondo a venire è più forte di ogni retorica e più tenace di ogni oblio, tanto è radicata nell'intimo di ognuno di noi, come sigillo della presenza di Dio.
 
"Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti" (Lettera di San Paolo ai Romani, 2, 12-15).

"Ciò che è più deplorevole nella vostra situazione, signori,
è che in una vita dura e dolorosa,
nella quale i servizi e i doveri a volte oltrepassano 
il rigore e l'austerità dei più austeri chiostri,
la vostra sofferenza è inutile per la vita a venire,
e spesso anche per questa vita.
Ahimè!
Il monaco solitario nella sua cella,
obbligato a mortificare la carne e a sottometterla allo spirito,
è sostenuto dalla speranza di una ricompensa assicurata,
e dalla segreta unzione di quella grazia che allevia il giogo del Signore.
Ma voi, sul letto di morte, potrete osare presentarGli
le fatiche e le quotidiane privazioni che il vostro incarico vi imponeva?
Potrete osare sollecitarlo a ricompensarvi?
E in tutti gli sforzi che avete compiuto,
in tutte le violenze che avete fatto a voi stessi,
che cosa è stato da voi compiuto per compiacerLo?
I giorni migliori della vostra vita, comunque,
sono stati sacrificati alla vostra professione,
e dieci anni di servizio hanno sfinito il vostro corpo
più di quanto avrebbe fatto un'intera vita di penitenza e mortificazione.
Ahimè, fratelli miei, un solo giorno di quelle sofferenze, se consacrato al Signore,
vi avrebbe procurato una felicità eterna.
Una singola azione, dolorosa alla natura e offerta a Lui,
vi avrebbe forse assicurato l'eredità dei Santi.
E voi avete fatto tutto questo, e invano, unicamente per questo mondo".

Quando i principi naturali della religione non sono corrotti dallo zelo fazioso di qualche sciocco intrigo; quando il primo dovere imposto dalla religione è il rispetto degli obblighi morali; quando non viene insegnata l'osservanza superficiale della religione, ma la realizzazione delle opere di giustizia e beneficenza; quando non viene data a intendere la possibilità di mercanteggiare con Dio, con sacrifici, cerimonie e vane suppliche; quando si dice sia fatta la Tua volontà, senza il retropensiero che debba invece essere Dio ad approvare la nostra; quando tutto questo avviene, allora la religione rinsalda il naturale senso del dovere e il mondo avverte giustamente una doppia fiducia dell'uomo religioso, nella regolarità e nell'esattezza delle sue azioni, perché immagina che la sua condotta abbia un vincolo in più, che egli operi come se fosse alla costante presenza di Dio, come se dovesse reggere in ogni momento lo sguardo del Gran Giudice del Mondo.

"... qui c'è effettivamente un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare,
una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita,
e quel che rischiate è qualcosa di finito.
Questo tronca ogni incertezza:
dovunque ci sia l'infinito,
e non ci sia una infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere,
non c'è da esitare: bisogna dar tutto".

"Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi: siate candidi come colombe e astuti come serpenti" (Marco, 10, 16).

"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà" (Luca, 9, 23-24).

"Uno dei malfattori appesi lo insultava, dicendo: 'Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!'. Ma l'altro lo rimproverava, dicendo: 'Non hai nemmeno timor di Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio?' Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni; ma questi non ha fatto nulla di male'. E diceva: 'Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!'. Ed egli gli disse: 'Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso' " (Luca, 23, 39-43).

"Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? che cosa berremo? che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basti la sua pena" (Matteo 6, 25-34).

"Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: 'Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò'. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: 'Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?'. Gli risposero: 'Perché nessuno ci ha presi a giornata'. Ed egli disse loro: 'Andate anche voi nella vigna'. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: 'Chiama i lavoratori e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi'. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: 'Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li ha trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo'. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: 'Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quel che voglio? Oppure tu sei invidioso della mia generosità?'. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi" (Matteo 20, 1-16).

C'è da meravigliarsi delle incessanti persecuzioni subite dai cristiani nel tempo, del cinismo, e come minimo della pubblica derisione, a cui i cristiani sono andati incontro in ogni epoca, dall'arrivo di Cristo sino ai giorni nostri? 

Quale attrattiva può avere una pecora in mezzo ai lupi? Chi desidera portare ogni giorno una croce o perdere la propria vita? Chi riesce a non preoccuparsi del domani? In quanti si rapportano alle cose del mondo con la generosità del padrone della vigna?

Nessuno vuol vivere da pecora, perché chi pecora si fa, lupo se lo mangia, ammonisce il proverbio. Nessuno vuol portare croci - anche se piccole e leggere, figurarsi grandi e pesanti - e smaniamo per liberarcene, quando ce le ritroviamo addosso o anche solo le intravediamo. Siamo legati alla vita terrena più di quanto l'istinto di sopravvivenza possa giustificare, ci affanniamo come se potessimo realmente aggiungerle giorni, perché non vogliamo perderla, e giudichiamo la morte un evento terribile, catastrofico, come se la vita terrena potesse ammettere altri sbocchi. Ci preoccupiamo del domanidel dopodomani e del dopodomani ancora, e le nostre ansie aumentano esponenzialmente al dilatarsi della nostra immaginazione in quel tempo amorfo che è il futuro, capace di divorare l'unica cosa di cui abbiamo certezza, il presente. Progettiamo e agiamo come se tutto dovesse durasse in eterno, su questa terra, e il nostro agire è tutto un calcolare e soppesare, un razionalizzare e contabilizzare, un dare e avere in cui non c'è spazio per gli operai dell'undicesima ora. Persino a chi ha fede, a chi intravede una vita oltre la vita, la Parola non risparmia la più beffarda della provocazioni: oggi tu sarai con me in paradiso. Solo un uomo, uno soltanto, è sicuramente in paradiso: non uno di quei santi "che in ogni tempo ti furono graditi", come recita la preghiera, ma un ladrone, un farabutto che aveva trascorso l'intera vita nel peccato, e col solo merito di essersi realmente pentito, sulla croce, pochi istanti prima di spirare.

Dio sfida il nostro senso della realtà, fa violenza ai parametri regolatori dei giudizi umani, quando ci si sussurra che un'ora impiegata in una preghiera melodiosa val più di una vita spesa nel conformarsi agli insegnamenti consolidati, a ossequiare la saggezza convenzionale, a inseguire soddisfazioni e glorie terrene. Possiamo allora stupirci se questa dottrina abbia ricevuto una fiera opposizione in ogni tempo, pur nel mutare di culture e tradizioni?

Gli antichi romani rimasero sconcertati dall'abolizione di ogni distinzione tra uomini e donne, tra ricchi e poveri, tra schiavi e padroni, tra stranieri e cittadini di Roma. La prospettiva cristiana, sostenuta dalla fede in Dio, stravolgeva i meccanismi di funzionamento della società, rappresentava un pericolo costante e potenzialmente distruttivo del vivere comune. Non poteva trovare diritto di rappresentanza neanche in quel mondo con divinità à la carte, che tollerava la pluralità di credenze, ma non la sottomissione a un Dio che pretendeva la fede, un Dio complicato che chiedeva di credere in qualcosa - cosa mai sentita! - e non si contentava di un maialino sgozzato al Tempio, in segno di rispetto, come gli dèi tradizionali.

Oggi noi invochiamo la libertà di decidere, che ammantiamo di ragionamenti sottili e argomenti ricercati, di discorsi elaborati, ricchi di sfumature e distinguo, traboccanti di precisazioni e dettagli. E sì che il Vangelo mette in guardia: "il vostro parlare sia si, si, no, no, tutto ciò che va oltre questo viene dal maligno" (Matteo, 5, 37). Noi invochiamo i cosiddetti diritti civili - il diritto al matrimonio e il diritto al divorzio, il diritto a sperimentare sugli embrioni e il diritto all'aborto, il diritto a proteggere la vita e il diritto all'eutanasia, il diritto ad avere una cosa e anche il suo contrario - e chi li nega è un nemico da ridurre all'impotenza, da confinare agli angoli della società, solo perché rigetta una libertà senza obiettivi e direzione, solo perché rifiuta di pensare all'uomo come alla misura di sè stesso, solo perché ricorda al mondo che i cosiddetti diritti civili si traducono spesso nel brutale diritto a prevaricare il più debole.

Ma in oltre duemila anni i seguaci di Cristo non si sono mai scoraggiati. Nessuna minaccia, nessun castigo, nessuna pena, nessuna tortura, nessuna umiliazione hanno mai sortito effetti. Tutto si è rivelato inefficace, contro di loro. Lo aveva intuito già l'Imperatore Galerio - prima di Costantino - che pure aveva provato in ogni modo a sterminarli, e poi - con le scintillanti parole del Professor Barbero - "prima di morire fa un editto in cui dice, in sostanza: io c'ho provato ad ammazzarli tutti, ma è inutile, questi continuano a venir fuori, quindi lasciamoli perdere, e che facciano pure il cavolo che vogliono".

La fede in Dio è travolgente, incommensurabile a ogni alternativa. Lo realizzò Napoleone, protagonista di un episodio che poco importa se reale o inventato, perché dal valore paradigmatico assoluto, indipendente dalla sua verosimiglianza. Larevellière Lépaux - un cocciuto théophilantropre - spiegò all'Imperatore l'anacronismo della religione cattolica, il suo essere fuori moda, non più in linea coi tempi, e quindi la necessità di sostituirla con qualcosa di più moderno. Napoleone lo ascoltò pazientemente, e poi gli disse: "Sono disposto a credervi. Ma per sostituire la religione cattolica, bisogna che io abbia qualcosa di equivalente da proporre, qualcosa di altrettanto convincente. Perciò, facciamo così: io venerdì sera vi faccio fucilare, e voi vi impegnate a resuscitare domenica mattina". Lépaux non ritenne di insistere. 

La conversione dell'Imperatore Costantino passa per un episodio
- l'apparizione di una croce in cielo, prima della Battaglia di Ponte Milvio -
oggi unanimamente riconosciuto come un falso storico.
Non c'è nulla nelle fonti dell'epoca, e nei controlli incrociati tra fonti,
che avvalori o corrobori la plausibilità di un evento già di per sé inverosimile.
  La conversione però rimane, di là del folklore con cui è narrata.
Costantino asseconda e accelera una tendenza in atto nell'Impero Romano,
non solo rinuncia a perseguitare i cristiani, ma li sostiene e li difende;
e il cristianesimo, "religio non licita", secondo un Editto dell'anno 35,
diventa finalmente "religio licita", col cosiddetto "Editto di Milano".
Costantino restituisce la libertà ai cristiani e li pone sotto la tutela dell'Impero,
offre il suo potere e la sua autorità nell'organizzare la vita della Chiesa.
 La storia di Roma, l'unica storia possibile, 
e la storia della Chiesa, sin allora una storia di clandestinità,
diventano con Costantino una cosa sola, un'unica storia:
è il primo patto di alleanza tra Stato e Chiesa.
Sorge però un sospetto, inevitabilmente:
che nella conversione di Costantino non ci sia stato nulla di cristiano,
che l'Imperatore sia rimasto sedotto dall'idea di cancellare i peccati con un po' d'acqua,
che l'arruolamento tra la fila di Gesù Cristo sia stato solo un'espediente.
Probabilmente è così, una volta conosciuto il personaggio.
Costantino è spietato, non ha scrupoli, è un usurpatore, un cinico:
ha fatto ammazzare altri tre Imperatori romani, di cui uno era il suocero e due i cognati;
ha tolto di mezzo il proprio figlio maggiore e la moglie Fausta;
la casa dell'Imperatore - si diceva all'epoca - è fradicia del sangue dei suoi parenti. 
Ma il dato di fatto rimane e è l'unico ad avere importanza: 
dopo Costantino, qualunque fossero le motivazioni della sua conversione,
i Pontefici furono liberi di pensare alla loro Chiesa,
di organizzarla sul piano giuridico e amministrativo, oltre che spirituale.

Sia sempre fatta la volontà di Dio, come in cielo così in terra. Sia sempre fatta la Sua volontà, e non la nostra, sia quando la comprendiamo sia quando ci rimane oscura. "Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: 'Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà'. Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo" (Luca 22, 41-43).

Sia sempre fatta la Tua volontà: "non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace, secondo la Tua volontà".  Rimettiamo alla volontà di Dio persino l'unità e la pace della Chiesa, e non ci sorprendiamo se Dio lascia libertà d'azione al diavolo, se gli permette di disgregare la fede nel cielo in una molteplicità di Chiese sulla terra.
 
Diavolo è una parola di origine greca: diabàllo, che vuol dire separare, mettera barriera, porre frattura. Il diavolo è colui che separa, che divide, che allontana. Il diavolo alza barriere e crea fratture, tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e la sua anima, tra l'uomo e gli altri uomini. Che il diavolo divida pure, se così Dio vuole. 

"Ma la più grande astuzia e furbizia di Satana si rivela nel seminare le liti e i dissidi ...
Accende negli uomini una insaziabile sete di conoscere tutte le cose
(anche quelle che non servono a nulla) e ogni giorno insinua degli scrupoli.
E qualunque scrupolo avrà insinuato, persuaderà anche, per quanto può,
che la verità di quella cosa debba essere assolutamente conosciuta ...
Dalla troppa opinione che l'uomo ha di sé, nasce la temerarietà:
e quindi egli butta fuori tutto ciò che gli viene in bocca,
stabilisce come certo tutto ciò che gli capita".

Che il diavolo agisca pure nella Chiesa, se Dio vuole. Perché la Chiesa di Roma preserverà comunque il suo patrimonio di anime. Perché comunque, da oltre duemila anni, la Chiesa di Roma ha una vittoria e una vendetta su tutti i suoi oppositori: la vittoria è nel sopravvivere a essi, la vendetta è nel pregare per loro.


La Stato Pontificio è una realtà istituzionale di straordinaria complessità: la sua formazione non è collocabile in una cronologia precisa, la sua evoluzione non si può ricondurre - come per altri Stati - a una ben definita sequenza di conquiste militari, armistizi e trattati internazionali. 

La caduta dell'Impero Romano d'Occidente - anno 476 d.C. - è il punto oltre il quale non vi è necessità di risalire, per iniziarne la narrazione. Il centro della politica è ora a Costantinopoli, la Nuova Roma, geograficamente e culturalmente distante dall'antica Caput Mundi, ora priva di autorità. La Chiesa è l'unica istituzione capace di colmare quel vuoto di potere, e risponde con prontezza alla chiamata: fissa un'argine alle invasioni dei barbari, si fa carico di impegni sociali e politici verso le popolazioni, diventa un polo di aggregazione e un punto di riferimento, vede accrescere il suo prestigio. Dal Papato alla parrocchia di paese, dalle strade al confessionale, la Chiesa è una realtà pervasiva che dà un volto al potere, alla legge, all'informazione.

La Chiesa dà e i fedeli restituiscono. Intorno al VI secolo prende forma il Patrimonium Sancti Petri, un accumulo di ricchezze materiali idealmente intestato a San Pietro, realizzato con donazioni di varia natura e provenienza. Il Patrimonium è diviso in singoli patrimonia, organismi autonomi gestiti da un rector, un alto funzionario nominato dal Pontefice, secondo un modello organizzativo trasversale alla frammentazione politica tra i regni romano-barbarici e i territori imperiali. Il potere sulle cose di questo mondo - le terre, le proprietà, le rendite - assicura l'autonomia nella gestione del Papato e l'indipendenza finanziaria, e permette un più sereno esercizio del potere sulle cose dell'altro mondo, per la guida spirituale per i fedeli.

La Chiesa ha dunque una struttura complessa - con personale numeroso, vaste proprietà e un'ampia serie di competenze - ben prima di avocare a sé il potere temporale.


La carta geografica all'inizio e alla fine del V secolo.
L'Impero Romano aveva storicamente ben gestito il fenomeno dell'immigrazione,
ma a un tratto si scopre debole nel garantire un percorso di integrazione ordinato.
  Arrivano popolazioni desiderose di restare compatte, di preservare la loro identità etnica,
e non più interessate a fondersi con la civiltà e la cultura del luogo.
  Il periodo inizia con i Goti, nel 376, e finisce con i Longobardi, nel 568:
sono le cosiddette "invasioni barbariche" del mondo romano,
che gli storici tedeschi chiamano sobriamente "Völkerwanderung", migrazioni di popoli. 
Non mancano, in un periodo così lungo, momenti di scontro, di conflitto,
ma questi nuovi popoli non sono pregiudizialmente bellicosi.
Le "invasioni" non sono un evento pacifico, e provocano parecchi sconquassi,
ma non sono programmaticamente orientate alla distruzione.
  I barbari vogliono entrare nell'Impero Romano
proprio perché a Roma ci sono città, strade, acquedotti e fognature
mercati e moneta, sicurezza e ordine, giochi circensi e bella vita.
Gli Imperatori accettano la loro presenza, e gli lasciano pure governare alcune zone,
ma ben presto si scopre che i barbari non hanno le risorse e la cultura per farlo
- non sanno riscuotere le tasse con la stessa precisione dei romani, per dirne una -
e il loro arrivo avvia così una fase di declino, di decadenza. 
Longobardi entrano nella penisola italiana nel 568.
Governa in quel momento un'Imperatore d'Oriente, 
che risiede a Costantinopoli e ha da poco riconquistato la parte occidentale.
Teodorico, Re dei Goti, aveva governato a lungo prima di lui, e pure con un discreto successo, 
sin quando, appunto, un esercito "romano", fatto di greci, siriani e arabi,
non era sbarcato nella penisola per restituire l'Italia all'Impero d'Oriente.
La riconquista richiese vent'anni e mise a terra l'Italia, mai così vuota di popolazione.
In questa Italia spopolata arrivano gli ultimi barbari: i Longobardi.
Il loro arrivo è pacifico: non distruggono, non devastano, vogliono godersi quel che c'è;
e d'altra parte i romani non li hanno fermati, e forse sono pure d'accordo nel dividere il governo, 
accertata l'impossibilità di un comando unitario da Costantinopoli.
Sono pochi numericamente, tra cento e duecentomila,
 in una penisola che conta qualche milione di persone, 
ma divenuti i nuovi padroni s'impongono di forza. 
I capi confiscano le terre dei ricchi e le redistribuiscono ai loro guerrieri, 
perché i Longobardi sono un popolo di guerrieri.
Lo si vede dai documenti  in cui la parola "exercitus" indica il popolo tout-court,
e ancora meglio dalle parole lasciate in eredità alla nostra lingua:
guerra, zuffa, faida, tregua, trappola, spranga, e poi i verbi spaccare e arraffare.
Non erano una società di filosofi, evidentemente, 
e questa società entra in un paese dove la gente è disarmata, 
dove gli unici a portare le armi sono i soldati dell'Imperatore,
che hanno però deciso di ritirarsi davanti all'avanzata longobarda.
Gran parte della penisola è dunque occupata, ma non tutta.
Longobardi vanno a piedi, si muovono con sicurezza sulla terra ferma,
e quando arrivano al mare non sanno bene come procedere.
Riusciranno a conquistare Genova, e molto più tardi anche Ravenna
- quella zona a lungo governata dai romani in una Pianura Padana in mano ai Longobardi,
e perciò chiamata Romagna, una denominazione arrivata sino a noi -
ma non riescono a prendere Napoli, il Salento, il sud della Calabria e le Isole. 
E non prendono Roma, perché Roma è grande, presidiata e ben difesa.
Non è facile impossessarsi di Roma, anche perché a Roma c'è la Chiesa, il Papato,
con cui ogni padrone deve comunque confrontarsi.

In un'epoca di incertezza e stravolgimenti, in una lunga fase di transizione dal mondo antico al medioevo, la solida autorevolezza del Pontefice sovrasta la volubile autorità dei politici.
 
Con la Prammatica Sanzione del 554 - a seguito della riconquista dell'Imperatore Giustiniano - i vescovi vedono accresciuti i loro poteri. All'arrivo dei Longobardi - nel 568 - Papa Gregorio I Magno ha un ruolo centrale nel proteggere Roma e acquista un'indiscutibile autonomia di fatto nel governo della città, pur rispondendo formalmente all'autorità di Bisanzio.

La penisola italiana tra il VI e il VII secolo.

Il nucleo iniziale dello Stato Pontificio è il Ducato di Roma, che passa sotto il governo di Papa Stefano II alla morte del Duca. Il Patrimonio di San Pietro si accresce con le elargizioni dei Sovrani longobardi, e in particolare con la Donazione di Sutri - nel 728, da Re LiutprandoPapa Gregorio II - che ufficializza il potere temporale della Chiesa. Nel 754 Pipino il Breve promette la cessione di nuovi territori al Pontefice, per tener fede all'impegno verso il precedente Papa Zaccaria (e a cui darà seguito nel 756, dopo la cacciata dei Longobardi). Carlo Magno amplierà ulteriormente le concessioni territoriali nel 774 e nel 778. 

Territorio e proprietà materiali, diritti e privilegi, autorità religiosa e prestigio politico configurano un principio di Stato. Nei secoli i confini mutano, si estendono a luoghi dalle deboli difese militari e con vacui governi politici. Marche, Umbria e Romagne entrano nei domini de Papato. Verso la metà del '500 arrivano anche Parma e Piacenza, erette a Ducato e concesse da Papa Paolo Farnese III al figlio Pierluigi. Qualche decennio ancora, e il Papato rientra in possesso di Ferrara (finita sotto il dominio di Venezia) e del Ducato di Urbino (alla morte del Duca Francesco Maria Della Rovere). Alla fine del '700 Papa Pio VI governa uno Stato che ha occupato la parte centrale della penisola, che possiede direttamente alcuni territori e ne controlla altri: Lazio, Umbria e Marche, la Romagna sino a Bologna, e poi le enclave di Benevento e Pontecorvo nel napoletano, e di Avignone in Francia. Nel 1815, dopo le scorribande napoleoniche, il Congresso di Vienna ripristina lo Stato Pontificio, con la sola eccezione di Avignone,  Sul trono di Pietro si erano intanto avvicendati Pio VIILeone XIIPio VIII e Gregorio XVI, sino ad arrivare - nel 1846 - a Pio IX, l'ultimo Papa Re.

Per undici secoli la figura del Pontefice assommò due funzioni, una spirituale, di massima autorità religiosa del mondo cattolico - di Servus Servorum Dei, con l'appellativo che si era attribuito Papa Gregorio Magno - e l'altra politica, di Sovrano di uno Stato.

"Nell'uomo stesso, infine, per poter scoprire e riconoscere Dio,
il creatore di tutto l'universo, nell'uomo stesso, dico, dunque,
sono stati interrogati i due: l'anima e il corpo.
Gli inquirenti hanno interrogato ciò che essi stessi portavano:
vedevano il corpo, ma non vedevano l'anima.
Vedevano attraverso gli occhi, ma dentro c'era chi guardava quasi da due finestre.
 E se questo inquilino se n'è andato, la casa è crollata:
se n'è andata via la guida, e ciò che è guidato cade,
e proprio perché cade si dice che è 'decaduto'.
Non sono illesi i suoi occhi? Eppure anche se sono aperti non vedono nulla.
Ecco le orecchie, ma colei che udiva se n'è andata;
resta la lingua come strumento, ma il musicista che la suonava non c'è più.
Gli inquirenti hanno dunque interrogato questi due;
il corpo, che si vede, e l'anima, che non si vede;
ed hanno trovato che ciò che non si vede è meglio di ciò che si vede:
meglio è l'anima che si nasconde; da meno è la carne che è visibile.
Hanno visto l'una e l'altra; li hanno fatti oggetto di ricerca
e hanno trovato che l'uno e l'altra nell'uomo sono mutevoli.
Mutevole è il corpo per l'età, perché si deteriora, perché si alimenta,
perché cresce e si disfa, perché vive e muore.
Allora si sono rivolti all'anima, che concepivano come qualcosa di meglio
e avevano ammirato come qualcosa di invisibile;
ma scopersero che anch'essa è mutevole;
ora vuole ora non vuole; ora sa e ora non sa;
ora ricorda e ora dimentica; ora teme e ora osa;
ora si dedica alla saggezza, ora si abbandona alla stoltezza.
Hanno visto dunque che è mutevole e perciò sono andati al di là di essa stessa:
hanno cercato così qualcosa di immutabile.
E in questo modo sono giunti a riconoscere Dio".
(Sant'Agostino, "Discorsi", 241, 2-3)

I Papi del Medioevo sono figure istituzionali sicure di sé, persuase di aver ricevuto da Dio un potere totalitario, spirituale sui fedeli e politico sul mondo. Dall'anno 1000, dalla lotta per le investiture in poi, i Papi avvertono il diritto e il dovere di governare, di impartire ordini a Re e Imperatori, di porre la Chiesa al vertice della piramide di comando. E non si accontentano di affermarlo. Lo vogliono dimostrare. Vogliono argomentare intorno al ruolo dominante della Chiesa in ambito politico e sociale, giustificare la loro auto-promozione al più elevato livello della gerarchia del potere. Fronteggiano quindi un formidabile problema di comunicazione. 

Un solo Dio in cielo, un solo Imperatore sulla terra. Ma ne siete proprio sicuri? Siete sicuri che i Re governino per grazia di Dio? E' una presa di posizione rivoluzionaria. Siamo nel XI secolo e Papa Gregorio VII ribalta la tradizione con una violenza che lo potrebbe confondere con Karl Marx.
 
Ci sono due autorità, la Chiesa e l'Impero. Chi è superiore? La Chiesa di Roma l'ha creata Dio, quando ha scelto Pietro - e i suoi successori - per guidare il popolo fedeli. L'Impero è un'invenzione degli antichi romani, un popolo di pagani, devoti a un nugolo di divinità, ignari dell'autentica religione. Basterebbe questo fatto - sostiene Gregorio VII - per capire chi deve star sopra, a comandare, e chi sotto, a obbedire.
 
Chi sono in fondo questi Re e questi Imperatori, che si gloriano della loro supremazia? Papa Gregorio lo ricorda in modo brutale. "Chi non sa che i Re e i Principi hanno avuto origine da quelli che, ignorando Dio con la superbia, le rapine, la perfidia, gli omicidi, con tutti i delitti, spinti dal principe di questo mondo, il diavolo, hanno preteso di dominare i loro pari, gli uomini, con cieca avidità e intollerabile presunzione".
 
Il Re è Re perché lui o i suoi antenati hanno ingannato, derubato e ucciso, perché l'intera stirpe non ha avuto scrupoli nell'impadronirsi del potere e nel conservarlo. Il potere è un furto, uno status per sé condannabile - quello dei Sovrani, s'intende, ché quello dei Papi è un'altra storia - e chi lo possiede ha invariabilmente battuto strade ignobili.

Cosa voleva Gregorio VII? A cosa mirava il Papa, quando degradava Re e Imperatori a una masnada di furfanti? Scalzarli dal trono, privarli di scettro e corona, e prenderne posto? No, ovviamente. Voleva che Imperatori e Re venissero in ginocchio da lui, dal Papa, a chiedere istruzioni su cosa fare, perché l'unico modo per riscattare l'origine malefica del loro potere - violento e oppressore - era la sottomissione alla volontà della Chiesa di Roma.
 
Dalla dimostrazione della superiorità genetica del potere papale - l'unico potere giusto, di un governo legittimo, protetto da Dio - seguiva il dovere di sottomettersi alla Chiesa e annientare gli eventuali oppositori. I Papi selezionano le parole con grande accortezza, quando devono far passare questo messaggio bellicoso, quando devono giustificare i loro atti di forza.

Il caso di Federico II di Svevia è emblematico. Federico - pur cristiano - non accetta un'obbedienza acritica alla Chiesa, la contesta e pubblica un manifesto in cui ne elenca tutti gli errori. Il Papa controbatte con tutta la forza e il peso delle parole, sfrutta la conoscenza di ogni piega della Bibbia, ne estrae i brani utili alla controffensiva e li combina sapientemente tra loro. Ne viene fuori è una retorica di straordinario impatto sulle coscienze dei popoli, degli ecclesiastici e degli altri Sovrani. "E' salita dal mare una bestia, piena di parole di bestemmia, formata coi piedi dell'orso, la bocca feroce del leone, e che apre la bocca per bestemmiare il nome di Dio". E' una citazione letterale del Libro dell'Apocalisse, ma è anche ... la descrizione dell'Imperatore Federico II nella bolla di scomunica del 1239 di Papa Gregorio IX. La Sacra Bibbia offre un'immagine pronta all'uso, immediatamente spendibile nel contesto conflittuale - c'è una bestia mostruosa che bestemmia, e questa bestia è proprio l'Imperatore - che fa da sponda all'attacco frontale. "Non dovete stupirvi tutti voi che ascoltate le bestemmie di questa bestia contro di Noi, dato che le stesse bestemmie le rivolge contro il Signore, ma per resistere alle sue menzogne osservate bene la testa, il corpo e la coda di questa bestia, Federico, cosiddetto imperatore, fabbricante di falsità".

Parliamo dunque di Papi attenti a spiegare il loro pensiero, ad argomentare le loro convinzioni, a persuadere della giustezza delle loro azioni con la pulizia dei loro ragionamenti. Parliamo di Papi - i Papi del Medioevo - con un'eccellente formazione da giuristi, da avvocati, abituati a cavare il sottile dal sottile. La Chiesa era una gigantesca e complessa macchina amministrativa, e per farsi strada al suo interno, per scalare le gerarchie e far carriera, una laurea in diritto canonico era un prerequisito ineludibile. Solo i laureati potevano ambire a diventare Papi o cardinali. I vertici della Chiesa erano imbevuti di cultura giuridica, e questa cultura si rivelava risolutiva quando c'era da orchestrare un ragionamento, sostenere un'argomentazione, dimostrare e convincere.
 
Esistono due poteri, per tradizione: il potere spirituale, che guida i fedeli alla salvezza dell'anima e dispone di un'arma ideale, la scomunica; e poi c'è un potere temporale, che preserva l'ordine in terra e si avvale di armi materiali, impiccagioni, torture e prigionia. I Papi raffiguravano i due poteri come due spade, un'immagine fornita direttamente dal Vangelo. "Poi disse loro: 'Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa? Risposero: 'Nulla'. Ed egli soggiunse: 'Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. [...]. Ed essi dissero: 'Signore, ecco qui due spade'. Ma egli disse: 'Basta!' " (Luca, 22, 35-38).

L'esclamazione finale - basta! - è la traduzione di satis est, un ammonimento da contestualizzare, di cui non è immediato restituire il significato profondo. Il passo è controverso. Gesù sembra voler mettere fine a una discussione che ha preso una piega inaspettata e imbarazzante; teme che gli apostoli stiano equivocando, che possano sentirsi legittimati a compiere atti di violenza. Satis est! Basta così, due spade sono sufficienti, chiudiamo il discorso.

Papa Bonifacio VIII - laureato in giurisprudenza - ricorre a una linea interpretativa più subdola, di stampo allegorico. Le due spade simboleggiano i due poteri, spirituale e temporale. La Chiesa ne possiede sicuramente una, la spada del potere spirituale. Rimane da capire a chi appartenga l'altra spada, chi sia il detentore della spada del potere temporale, e serve capirlo con un ragionamento logico, coerente, persuasivo. Papa Bonifacio VIII - nella bolla contro il Re di Francia - argomenta intorno alla spada temporale, alla sua appartenenza alla Chiesa di Roma, col classico atteggiamento dell'avvocato che va sul testo, pizzica a una a una le parole, e se ne serve strumentalmente per impostare e sviluppare la dimostrazione della propria tesi. "Il Vangelo ci insegna che in questo ovile che è la Chiesa e nella sua autorità ci sono due spade, spirituale e temporale, perché quando gli apostoli dissero 'ecco qua due spade', il Signore non rispose che era troppo, ma che era abbastanza". Satis est vuol dire proprio questo: giusto così, va bene così, non serve altro, è precisamente quel che ci vuole.

Il Vangelo offre ulteriori conferme alla bontà dell'interpretazione. "Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli taglio l'orecchio destro. [...]. Gesù allora disse a Pietro: 'Rimetti la tua spada nel fodero' [...]" (Giovanni 18, 10-27). Siamo nell'orto degli ulivi, al momento dell'arresto di Gesù. I soldati lo catturano, Pietro lo difende, taglia l'orecchio di Malco, ma Gesù lo ammonisce: "rimetti la tua spada nel fodero". Dice proprio così: rimetti la tua spada nel fodero, la tua spada. L'aggettivo possessivo è dirimente: tua significa che la spada è di Pietro, di San Pietro, il primo Papa della Chiesa, e perciò ereditata dai successori di Pietro, dai Papi di oggi. La spada che taglia le orecchie e mozza le teste, la spada che giudica le cose di questo mondo, appartiene anch'essa ai Papi. Non importa che il passo evangelico abbia un significato più vasto e profondo - basti pensare che Gesù guarisce l'orecchio del servo ferito - o almeno non rileva ai fini della tesi. Bonifacio probabilmente lo sa, ma non gli importa, perché non gli fa gioco. Rileva solo il testo: c'è scritta tua - tua di San Pietro - e quindi è sua, di San Pietro, e quindi è mia, che ne sono il successore.

La Chiesa ha il diritto di governare gli uomini in questo mondo, oltre che il dovere di traghettare le loro anime verso l'altro mondo. Come volevasi dimostrare.

"Frate Leone, agnello del Signore,
per quanto possa un frate sull'acqua camminare,
sanare gli ammalati o vincere ogni male,
e far vedere i ciechi e i morti camminare ...
Frate Leone, pecorella del Signore,
per quanto possa un santo frate parlare ai pesci e agli animali
o possa ammansire i lupi e farli amici come cani,
per quanto possa lui svelare che cosa ci rivelerà il domani ...
Tu scrivi: QUESTA NON E' PERFETTA LETIZIA.
Frate Leone, agnello del Signore,
per quanto possa un frate parlare tanto bene
da far capire i sordi e convertire i ladri,
per quanto anche l'inferno lui possa far cristiani ...
Tu scrivi: QUESTA NON E' PERFETTA LETIZIA.
 E in mezzo a frate inverno, tra neve, freddo e vento,
stasera arriveremo a casa e busseremo giù al portone,
bagnati, stanchi ed affamati, ci scambieranno per due ladri,
ci scacceranno come cani, ci prenderanno a bastonate 
e al freddo toccherà aspettare, con Sora Notte e Sora Fame.
Se sapremo pazientare, bagnati, stanchi ed affamati, pensando che così Dio vuole ...
Tu scrivi: QUESTA E' LA PERFETTA LETIZIA".
(La "Perfetta Letizia" di San Francesco, nel Musical "Forza Venite Gente")

Si prosegue così, si superano difficoltà e si sconfiggono nemici. Poi, alla fine del Medioevo, nella fase di massima potenza sulle anime e sul mondo, di affermazione anche in campo artistico - con Michelangelo impegnato a realizzare la Cappella Sistina - il Papato affronta una delle sfide più impegnative della sua storia: Martin Lutero sale al Castello di Wittenberg, con chiodi e martello, e pianta sulla porta l'elenco dei 95 errori della Chiesa di Roma. 

Servirà Papa Francesco - in occasione del cinquecentenario dell'evento - per sentir dire che Lutero non aveva affermato cose folli. Ma nell'immediato la reazione della Chiesa è violenta, di una violenza amplificata dalla gran sicurezza di sé che i Papi hanno accumulato nei secoli. E se in passato i Papi si sforzavano di argomentare, di spiegare e dimostrare, ora non avvertono più quest'obbligo etico. Ripropongono ormai da cinque secoli il loro punto di vista, lo percepiscono blindato, inattaccabile, e forse non hanno più neanche voglia di discutere.

Papa Leone X - figlio di Lorenzo il Magnifico - condanna Lutero con la bolla "Decet Romanun Pontificem": "Alzati, o Signore, invoca San Pietro e San Paolo, affinché si alzino per difendere la Chiesa di Roma". Immagine scenografica, sicuramente, ma quando si deve entrare nel merito, per spiegare perché Lutero ha torto e la Chiesa ha ragione, la linea d'argomentazione si scopre debole. "Quanto questi errori siano pestiferi, quanto perniciosi, quanto scandalosi, quanto ingannevoli, per le menti pie e semplici, quanto infine siano contrari alla carità, alla reverenza per la Santa Romana Chiesa, madre di tutti i fedeli, e al nerbo della disciplina ecclesiastica, cioè l'obbedienza che è fonte e origine di ogni virtù, senza la qualche chiunque diviene un infedele". Come a dire: gli errori di Lutero sono evidenti, manifesti, non serve spiegarli, li capisce chiunque non sia stupido, perciò capitelo da voi perché Lutero sbaglia. Il Papa rimarca la centralità dell'obbedienza, il ruolo dell'obbedienza nel far germogliare le virtù cristiane. "L'Autorità della Chiesa è tale che Sant'Agostino non avrebbe creduto al Vangelo, se non ci fosse stata la Chiesa cattolica", e poca importa, di nuovo, se la realtà è più sottile, se Sant'Agostino tirò fuori l'argomento della dell'obbedienza alla Chiesa in un contesto preciso e delimitato, quando si accalorava contro i manichei.

La Chiesa entra nella lotta con tutte le sue energie, ma gli esiti rimangono interlocutori: tiene il punto in Italia, Francia e Spagna, ma perde il nord Europa e la Scandinavia, le isole britanniche e metà della Germania passano dall'altra parte.
 
I Papi s'incattiviscono, si sentono nel mezzo di conflitti profondi e persistenti, si vedono a capo di una guerra (e quanta differenza col mondo di oggi, assuefatto a vederli come messaggeri di pace). Il sentimento bellicoso traspare nella scomunica della Regina Elisabetta d'Inghilterra a opera di Papa Pio V, nel 1570, in cui si delegittima la Sovrana e se ne stigmatizza la situazione nel suo Regno. "Elisabetta, serva del delitto, pretesa Regina d'Inghilterra, che ha ridotto il suo Regno a miserabile rovina". E' interessante il modo in cui il Papa ribadisce il ruolo della Chiesa nel governo del mondo. "Colui che regna nell'alto dei cieli ha affidato l'unica Chiesa, cattolica e apostolica, al di fuori del quale non c'è salvezza, a un solo uomo sulla terra, a Pietro, il primo degli apostoli, e al successore di Pietro, il Papa di Roma. Ha stabilito lui solo come unico Sovrano di tutti i popoli e Re, col potere di sradicare, distruggere, dissolvere, disperdere" e poi aggiunge "e di piantare e di costruire", realizzando forse di aver ceduto a un tono eccessivamente rissoso. Ma le parole iniziali rimangono aggressive, parole di guerra: sradicare, distruggere, dissolvere, disperdere.

E questa nuova guerra i Papi la perdono. Perché se la guerra contro i protestanti era una guerra contro un nemico preciso, e poteva esser condotta su un piede di parità, i secoli seguenti vedono una Chiesa emarginata da un fenomeno multiforme: la modernità.
 
Galileo è zittito a fatica - "e pur si muove!" - ma poi arrivano innovazioni su larga scala, non più circoscrivibili a singoli individui, perciò virtualmente impossibili da arginare: la rivoluzione industriale, l'illuminismo, il culto della ragione, il liberalismo.
 
La Chiesa sembra incapace di capire il nuovo mondo, o forse si rifiuta di capirlo e di adeguarsi. I Papi smarriscono la sicurezza, vedono scardinati i capisaldi dei loro ragionamenti, accantonano la retorica biblica. Il loro linguaggio diventa lacrimoso - lo stile comunicativo da violento si fa lagnoso e cauto, i discorsi sono un continuo lamento - perché la Chiesa non è più ascoltata come dovrebbe, perché non c'è novità capace di acquietare gli animi, perché dopo una novità se ne vuole un'altra, e di novità in novità le cose del mondo procedono verso un baratro.

Novità: questa è la parola che spaventa i Papi all'inizio dell'800. Le novità sono tutte sbagliate, in ogni luogo e in ogni tempo, e non possono - non devono - toccare la Chiesa, che è al di sopra degli uomini e delle cose umane, perché opera di Dio, in una parola, perfetta. E' un'eresia, una bestemmia, pensare di poterla migliorare, di cambiare qualcosa per innalzarla. La Chiesa condanna aprioristicamente tutti i cambiamenti, fossero pure la libertà di stampa, l'istruzione pubblica, il treno e l'illuminazione a gas.

Servirà Papa Francesco - ancora una volta - per vedere la Chiesa di Roma abbracciare il più classico dei principi protestanti: ecclesia semper reformanda. La Chiesa ha un bisogno continuo di rinnovarsi, di filtrare lo spirito dei tempi con i suoi precetti, per capire se e in che misura rimodulare il proprio agire nel mondo (e in verità uno spiraglio si era già aperto nel 1891, con l'Enciclica "Rerum Novarum" di Leone XIII, che parla delle cose nuove, che sdogana le novità, e anticipa il punto di svolta).

Posizioni ideologiche che ancor oggi agiterebbero l'eterno riposo di Papa Gregorio XVI, al tempo impegnato a contrastare un ventaglio di principi rovinosi: dall'indifferenza a un estremo, sino al delirio della libertà di coscienza sul lato opposto, passando per la follia di una salvezza possibile anche al di fuori della Chiesa pur di tenere una condotta retta e giusta.

Papa Gregorio XVI chiama a sé il clero, i vescovi e tutti gli uomini della Chiesa,
con la sua prima Enciclica, "Mirari vos", del 1832.
"Venerabili fratelli, diciamo cose che voi pure di continuo avete sotto gli occhi
e che deploriamo perciò con pianto comune.
Superba tribù della disonestà, insolente è la scienza, licenziosa la sfrontatezza,
le leggi più sante non sono al sicuro.
Le scuole echeggiano orribilmente di mostruose novità di opinioni,
corrotti gli animi dei giovani allievi".
Cita un suo predecessore, il Pontefice Agatone, del V secolo
- "Delle cose che son state organizzate regolarmente
nessuna si deve diminuire, nessuna mutare, nessuna aggiungere" -
per prosegue sulla stessa linea:
"Perciò appare chiaramente assurdo e insultante per la Chiesa proporsi una certa
restaurazione o rigenerazione quasi che la si potesse ritenere soggetta a difetto.
Tutte macchinazioni e trame dirette dai novatori al malaugurato loro fine
che la chiesa divenisse cosa umana, quando al contrario è cosa tutta divina".

Gregorio XVI succede Pio IX, che ne recupera stile e linguaggio, che combatte contro gli stessi nemici - e con un demone in più: il comunismo - ma che almeno una novità la lascia passare: i francobolli dello Stato Pontificio.

Lettera manoscritta del 1852 indirizzata a Papa Pio IX, con richiesta di indulgenza plenaria.
Firma autografa del Pontefice, con aggiunta "Pro Gratia" e la data.



31 dicembre 1851: l'ultimo giorno prefilatelico dello Stato Pontificio.



1 gennaio 1852: il primo giorno dei francobolli del Papa Re.
La moneta dello Stato Pontificio ero lo scudo, diviso in 100 bajocchi.
L'emissione contemplava all'inizio otto valori - da ½, 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7 bajocchi -
e fui poi integrata tra luglio e ottobre con i valori da 8 e 50 bajocchi,
e con l'esemplare da 1 scudo, il più alto valore facciale degli Antichi Stati Italiani.
Il soggetto dei francobolli era invariante
- la tiara, corona simbolo della sovranità papale, 
e le chiavi decussate, simbolo della Santa Sede -
ma dentro cornici di forme ogni volta diverse.
La Tipografia della Reverenda Camera Apostolica curò la stampa, 
in nero su carta colorata per i primi nove valori,
e in azzurro e rosa, rispettivamente per il 50 bajocchi e lo scudo, su carta bianca.
I fogli contavano 100 esemplari, divisi in 4 gruppi da 25 e separati da interspazi,
a eccezione del 50 bajocchi e dello scudo, stampati in fogli da 50 esemplari, divisi in due gruppi.
I valori da ½, 1, 3, 4 e 8 bajocchi presentavano un doppio filetto divisorio sui quattro lati.
Le tirature si susseguirono dal 1852 al 1867
e di volta in volta si ebbero involontari cambiamenti nelle sfumature di colore. 
 
 
 
Febbraio 1852: primi mesi d'uso dei francobolli pontifici.
 
 
 
Uno straordinario esemplare da 3 bajocchi: otto filetti e angolo di foglio integrale.

 


Il 12 marzo 1858 il Consiglio Postale propose l'emissione di un francobollo da 20 bajocchi,
nell'ambito di un più generale progetto di miglioramento dei servizi di corrispondenza.
Il nuovo valore avrebbe assolto la tariffa di una lettera semplice per la Francia.
Ne fu stampato un quantitativo imprecisato, ma poi non fu emesso,
probabilmente a causa del precipitare della situazione politica
(la perdita delle Romagne nel 1859 e di Marche e Umbria nel 1860). 
Il 20 bajocchi "non emesso" ha una storia curiosa, a livello collezionistico.
Il mondo filatelico ha conosciuto a lungo solo un foglio intero, custodito nei Musei Vaticani,
e un esemplare sciolto "che non si sa a che titolo sia stato conservato",
si leggeva nelle varie edizioni specializzate del Catalogo Sassone.
Nel 2010, l'incredibile ritrovamento: salta fuori un altro foglio intero!
   Il censimento esatto, da quel momento, diventa problematico.
Il Sassone parla oggi di "due fogli interi ... e qualche esemplare singolo",
e un esemplare singolo è stato sicuramente staccato da una striscia di cinque.
Ma già nell'autunno del 1940, sulla storica rivista "Il Corriere Filatelico",
l'ingegner Alberto Diena dava una testimonianza che avrebbe dovuto insospettire.
''L'ing. Luigi Respighi, conservatore della collezione filatelica dello Stato della Città del Vaticano,
ha avuto la premura di mostrarci, qualche tempo fa,
alcuni fogli di prova di francobolli da 20 baiocchi dello Stato Pontificio,
ricevuti in addietro dal Governatore, l'Eccellenza Camillo Serafini''.
"Alcuni fogli", dice Diena, dunque più d'uno.
Pure, da puntuale analisi del 20 bajocchi, sia storica che tecnica,
veniamo a sapere che la seconda moglie del Sopraintendente delle Poste Pontifice, rimasta vedova,
"spesso invitava i nipoti a farle visita  e faceva loro dono dei francobolli che essa ritagliava dai fogli",
e è quanto meno verosimile che tra quei fogli ce ne potesse essere anche uno del 20 bajocchi.
 
Il ruolo accentratore del soggetto Chiesa-Stato - casuale al principio, strutturale in seguito - se da un lato diede sicurezza a larghi strati di popolazione, dall'altro implicò una crescente ingerenza politica, alla lunga mal sopportata da numerosi Governi.
 
Il Papato era un'autorità dalla presenza capillare, suscettibile di condizionare dall'interno l'autorità statale. Tutti i poteri - giuridico, economico, politico, amministrativo - avvertivano un vincolo di obbedienza ai valori morali e religiosi della Chiesa, ne soffrivano una posizione di inferiorità, di sudditanza.

Un movimento laicista - e in seguito illuminista e anticlericale - iniziò a propagandare un nuovo equilibrio tra Tiara e Corona, una ripartizione di giurisdizioni tra Trono e Altare, come passaggio obbligato per modernizzare  degli Stati. Colpire il Papato nella sua dimensione politica, privarlo del potere temporale, laicizzare lo Stato, sganciare le scelte di governo dalla subordinazione ai precetti della Chiesa, ora percepiti come abusi e prepotenze.
 
La Repubblica Romana, dei francesi prima (1799) e dei mazziniani poi (1849). Le misure anti-clericali del Regno di Sardegna, nel 1855. L'usurpazione delle Romagne, nel 1859, e poi di Marche e Umbria, nel 1860. La proclamazione di Roma Capitale, con lo Stato Pontificio ancora in piedi, e i tentativi di corruzione del gotha ecclesiastico per convincere il Papa a cedere il suo territorio, nel 1861, subito dopo l'unità di Italia. E poi Garibaldi, fermato nel 1862 sull'Aspromonte (dagli italiani) e nel 1867 a Mentana (dai francesi).

Sono le tappe di un cammino il cui esito, in retrospettiva, appare inevitabile. Sono i passi di una lotta animata da motivi ideologici, ma che accentua nel tempo la sua sua dimensione sociale e culturale, sino a diventare un fatto squisitamente politico. Sono i passi che conducono al 20 settembre 1870, anzi al XX settembre 1870, come si scrive usualmente per enfatizzare la drammaticità di quel giorno.

"Viva la Repubblica! Morte al Papa Re!"
E' il 30 dicembre 1797 e lRivoluzione Francese bussa alle porte di Roma.
  I francesi hanno già sottratto a Pio VI le Legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna,
e la città di Avignone e il Contado Venassino in Francia.
Il Direttorio ordina al Generale Berthier - il comandante in capo dell'armata francese in Italia -
  di muovere verso Roma col pretesto della morte del Generale Duphont, negli scontri di dicembre. 
Il 9 febbraio 1798 l'armata arriva a La Storta, occupa Ponte Milvio e si accampa a Monte Mario.
Il 10 febbraio i Generali pontifici firmano la resa e consegnano Roma ai francesi.
Il 15 febbraio il Generale Berthier proclama la Repubblica Romana.
Il 20 marzo è il giorno della Costituzione.
e il nuovo potere ammanta Roma di segni e simboli della stagione rivoluzionaria.
Il cosiddetto "Albero della Libertà" è l'icona del nuovo ordine di cose.
Se ne pianta ufficialmente uno in ogni piazza di rilievo,
e altri ne spuntano spontaneamente per iniziativa di singoli,
e a ogni innalzamento - ufficiale o no - corrisponde un rituale:
un discorso, una danza, un banchetto, con allusioni all'albero della cuccagna.
"Il popolo solo e sovrano" e "Roma senza Papa" sono i manifesti del nuovo regime.
Ma questa Roma senza Papa, questa Repubblica sorella della Francia,
conosce subito conflittualità e discordanze, sia politiche che sociali,
oltre a fronteggiare assillanti problemi finanziari.
E deve poi guardarsi dalla controrivoluzione.
  I Borbone di Napoli sono in ansia, temono uno sconfinamento dei francesi nel Regno,
e l'invasione di Malta, nel giugno del 1798, ne materializza le paure.
  Ferdinando IV Maria Carolina sviluppano un marcato sentimento anti-francese.
L'alleanza con l'Austria è il primo passo nella prospettiva di un'azione militare,
e l'arrivo a Napoli dell'Ammiraglio Nelson, il 22 settembre 1798, rompe gli indugi.
Il 14 novembre Ferdinando dichiara guerra alla Repubblica Romana.
Il 28 novembre l'esercito napoletano entra a Roma e distrugge i simboli repubblicani.
Cadono e bruciano gli "Alberi della Libertà", crolla la colonna in memoria del Generale Duphot.
  Re Ferdinando passeggia per Roma da trionfatore, ma è il suo è un successo effimero,
perché i francesi sbaragliano le truppe napoletane con un'immediata e risoluta controffensiva.
Il commento dell'abate Sala restituisce il clima di sconforto
- ʺl'esercito del Re delle Due Sicilie si è coperto di una vergogna sempiternaʺ -
 e la fuga del Re è oggetto dell'abrasiva ironia dei romani 
- "in pochi dì, venne, vide e fuggì" -
e la sconfitta assume la dimensione di una disfatta.
I francesi marciano sino a Napoli e Re Ferdinando arretra a Palermo.
Nasce persino una Repubblica Napoletana, spazzata via dall'azione lampo del Cardinale Ruffo,
al comando di un'armata popolare ribattezzata Esercito della Santa Fede.
A Roma torna la Repubblica e con essa tutti i suoi simboli
- nuovi alberi, nuova colonna in memoria di Duphot -
ma il governo è sotto un controllo progressivamente più stretto della Francia,
che di fatto determinerà la fine dell'esperienza repubblicana.
I francesi abbandonano Roma il 19 settembre 1799.
Vi torneranno nel 1805 e l'annetteranno all'Impero nel 1809
(e Mario Monicelli ne farà lo sfondo del film "Il Marchese del Grillo").
I territori saranno infine riconsegnati al Pontefice il 24 gennaio 1814,
a seguito della disfatta di Napoleone in Russia,
e la restituzione ufficialmente ratificata con il Congresso di Vienna.



 
 I liberali italiani avevano salutato con entusiasmo l'inizio del pontificato di 
Pio IX.
Il nuovo Pontefice aveva concesso un'amnistia, una moderata libertà di stampa,
una consulta, una guardia nazionale e una Costituzione.
Arrivò a schierarsi militarmente accanto al Piemonte e contro l'Austria,
dopo aver lasciato intendere il suo favore verso il progetto di unità nazionale.
La percezione di uno Stato Pontificio liberale dura dal 1846 al 1848,
per svanire proprio alle battute iniziali della Prima Guerra di Indipendenza,
quando il Papa Re ordina il ritiro delle sue truppe per il più ovvio dei motivi:
il Re potrebbe anche sentirsi un Sovrano italiano, e appoggiare il movimento patriottico,
ma il Papa è a capo degli italiani e degli austriaci, entrambi cattolici.
Le simpatie politiche per il movimento nazionale sono inconciliabili col primato spirituale
e la sovranità della Chiesa si scopre in antitesi con l'idea di un'Italia libera dallo straniero.
Il 15 novembre 1848 è il giorno della contro-svolta:
Pellegrino Rossi, Primo Ministro del Governo Pontificio, viene assassinato.
Il giorno dopo un gruppo di facinorosi è sotto le finestre del Quirinale, allora residenza del Papa.
Pretende riforme, invoca libertà, e per non essere equivocato incendia un portone di ingresso
e lascia partire una fucilata che uccide il segretario del Pontefice, Monsignor Palma.
Pio IX non aspettò di vedere sino a che punto si sarebbero spinti i rivoltosi.
Dismise l'abito papale, indossò la tunica di un prete qualsiasi,
e si infilò nella prima carrozza utile, destinazione Gaeta, nel Regno delle Due Sicilie,
a chiedere la protezione di Re Ferdinando II, il più reazionario dei Sovrani italiani.
Il Papa, fuggendo, chiariva definitivamente la sua scelta di campo,
e ammetteva d'aver perso il suo Stato, tra lo sconcerto dei legittimisti.
Gli effetti della violenza di pochi patrioti incalliti
- l'omicidio del Primo Ministro, le proteste di piazza, la fuga del Pontefice -
non rispecchiavano il sentimento di un popolo assuefatto a un'obbedienza assoluta,
ma ora Roma era senza il Papa, e ora a Roma serviva un governo.
Il fallimento dei neoguelfi, le divisioni tra i papalini e i filo-sabaudi,
 la disfatta del Piemonte nella Prima Guerra di Indipendenza,
avevano determinato la crisi del partito dei liberali moderati
e lasciato spazio all'altro grande filone del Risorgimento italiano,
quello dei democratici e dei repubblicani.
E così la soluzione istituzionale più estrema prese forma,
nella città meno accreditata per questo tipo di esperimenti politici.
Il 9 febbraio 1849 nasce la Repubblica Romana.
Giuseppe Mazzini ne è il capo politico, Giuseppe Garibaldi il simbolo militare.
Il primo atto è la dichiarazione di decadenza del potere temporale del Pontefice.
Il Piemonte sta vivendo la velenosa coda della guerra contro l'Austria,
ma a Roma preferiscono non mischiarsi con i Savoia e procedere in autonomia,
anche se la scelta significa mettersi contro il mondo intero.
E il mondo intero - Austria, Spagna, Francia e Due Sicilie - arriva a Roma con le sue baionette,
in risposta all'appello del Papa per essere reinsediato nei suoi domini.
In tempo diversi gli eserciti delle Potenze cattoliche invadono i territori dello Stato romano,
con la Francia repubblicana di Napoleone III in prima linea.
La resistenza della Repubblica Romana è tenace, per molti versi sorprendente,
ma alla lunga insostenibile e chiaramente destinata al fallimento.
Il 4 luglio 1849 la Repubblica Romana è sciolta e i suoi capi si disperdono.
Pio IX rientra in città nel 1850, ritira le libertà concesse,
e inaugura una politica di censura e repressione.
Quell'esperienza rimane però un passaggio rilevante della storia risorgimentale,
un laboratorio politico per la sperimentazione di nuove forme di governo,
un banco di prova per nuove idee, nuove istituzioni e nuovi modi di vita sociale.
Principi di democrazia pura, abolizione della pena di morte, libertà di culto e suffragio universale
resero la Costituzione della Repubblica Romana la più avanzata tra tutte Costituzioni del periodo,
e l'avvicinano massimante all'idea di Costituzione che ne abbiamo noi oggi.



"Annunzia: gran funerale a Corte".
"Annunzia: non gran funerale a Corte, ma grandi funerali a Corte".
  Don Giovanni Bosco visse numerose esperienze mistiche, già da bambino.
A 9 anni, in sogno, intravede il suo futuro:
è in un cortile pieno di ragazzi che giocano, ma alcuni di loro bestemmiano;
gli si lancia contro, per farli tacere, quando gli appare un uomo che lo rabbonisce:
"Non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici".
E nei sogni di Don Bosco, più tardi, arriveranno anche i destini della Chiesa e del Regno di Italia.
Dicembre 1854. Il Parlamento subalpino discute la proposta di Umberto Rattazzi
- prestigioso e influente esponente della Sinistra storica, di note posizioni anticlericali -
per sopprimere tutta una serie di ordini religiosi e attribuire allo Stato i loro beni.
Era un'anticipazione del principio "Libera Chiesa, in libero Stato",
- che Cavour interpretò sempre nel senso più estremo: lo Stato è tutto, la Chiesa è niente -

ed era la rigorosa prosecuzione dello spirito e della lettera delle Leggi Siccardi,
che nel 1850 avevano privato la Chiesa di prerogative giudicate anacronistiche.
Il Governo di Torino riteneva insomma che frati e monache avessero fatto il loro tempo,
che conventi e monasteri fossero ottime istituzioni in tempi di violenza e di barbarie,
ma del tutto inutili, se non addirittura nocive, in un'epoca pacifica e liberale.
Nocive al progresso, alla modernità, alla civiltà, all'economia e persino all'arte
- come dimostrava l'evoluzione di quegli Stati dove certi privilegi erano stati aboliti -
e nocive persino al sentimento religioso, all'attaccamento al cristianesimo,
più pronunciato e saldo con una Chiesa più spirituale e meno materiale.
Di questo si discute e si dibatte nella Torino del 1855, quando Don Bosco fa un sogno:
un valletto, in uniforme rossa, latore del messaggio "Annunzia: gran funerale a Corte".
Pochi giorni dopo, lo stesso valletto rettifica: "Annunzia, non uno, ma più funerali a Corte",
da collegare evidentemente alle discussioni parlamentari sulle misure contro la Chiesa Cattolica.
Tutte le memorie bibliografiche di Don Bosco dedicano ampio spazio all'episodio, 
ma non è mai stata recuperata nessuna delle lettere che il prete avrebbe scritto al Re,
e nemmeno se ne è trovato un accenno nei carteggi esterni all'ambiente salesiano.
La sola prova documentaria è una lettera di Don Bosco a un amico sacerdote
- "una persona ispirata da Dio e veramente coraggiosa scrisse più volte al Re,
avvisandolo che sarebbero piombati mali se non si ritirava la legge fatale" -
e forse quella "persona ispirata da Dio" era lo stesso Don Bosco.
Non sorprenderebbe, però, se un fanatico avesse scritto delle lettere minatorie al Re,
e di possibili "calamità naturali" si parlava in fondo nelle stesse aule parlamentari.
I Savoia, d'altra parte, erano una dinastia di tradizione cattolica.
e già ai tempi delle Leggi Siccardi si era posto un problema di coscienza concreto 
nell'avallare un indirizzo politico manifestamente ostile al mondo cattolico.
 C'era già allora il timorre che a far qualcosa contro la Chiesa potesse arrivare la punizione divina. 
"Pensa quale sarebbe il tuo dolore" - scriveva la madre a Re Vittorio -
"se il Signore facesse ammalare gravemente la tua cara Adele, la tua Chiccina o il tuo Beto",
prospettandogli qualcosa di brutto per la moglie, la figlia Clotilde e il primogenito Umberto. 
Ma il Re si ricordò che anche i suoi avi, pur cattolici, non avevano avuto remore a litigare con Roma,
quando entrava in gioco la politica, quando c'era in ballo il potere temporale.
E così studiò la legge, si persuase della sua appropriatezza e l'approvò.
IlMinistro Santarosa - uno dei fautori delle Leggi Siccardi - morì poco dopo,
e il frate al suo capezzale - perché ovviamente Santarosa era cattolico - gli rifiutò l'assoluzione.
Cavour - amico del Ministro e già uomo di grande potere -  scatenò l'inferno.  
Padre Pittavino - il frate colpevole - venne cacciato da Torino con tutto l'Ordine dei Serviti.
 Anche l'Arcivescono Franzoni, ben noto per le sue posizioni reazionarie,
 venne arrestato, spedito in forteza, condannato e infine espulso dal Regno,
per avere incitato pubblicamente i cattolici a disobbedire alla Legge.
Re Vittorio manifestò una straordinaria ambivalenza, a conferma di quel che si diceva di lui:
  "del Re tutti sanno che non teme tanto Dio come dovrebbe, ma ha una gran paura del diavolo".
E così, da un lato, fa lo spavaldo e ostenta sicurezza
 - finché il Papa scomunica per ragioni temporali "me ne fotto",
"il Papa non può arrogarsi questa autorità, altrimenti non saremmo più padroni in casa nostra" -
dall'altro però si rasserena con il più capzioso degli argomenti:
 io ho firmato, d'accordo, ma lo Statuto dice che il responsabile della Legge è il Ministro,
quindi all'inferno ci andrà lui, Siccardi, e non io.
Una nuova profezia di sventura aleggia sulla Legge Rattazzi.
"La famiglia di chi ruba a Dio non arriva alla quarta generazione".
Questa frase, di nuovo, non è mai stata pronunciata da Don Bosco,
ma è solo uno stereotipo ripreso da uno dei tanti opuscoli in circolazione.
Attenzione, quindi, prima di far dire a Dio delle solenni bestialità,
  prima di attribuirGli risentimenti meschini da capoufficio isterico.
I fatti però rimangono e ognuno è libero di concatenarli con la sua sensibilità.
Tra il 12 gennaio e il 17 maggio 1855 Re Vittorio Emanuele perse nell'ordine:
la madre Maria Teresa di 54 anni, la moglie Adelaide di 33, il fratello Ferdinando di 33,
e poi il figlioletto ultimogenito, Vittorio Emanuele Leopoldo, di soli 4 mesi.
E poi la dinastia dei Savoia:
  Vittorio Emanule II muore nel 1878, a soli 58 anni, a quanto pare di malaria.
Umberto I, il suo successore, muore a 56 anni, a Monza, assassinato da un anarchico.
Vittorio Emanuele III, il secondo successore, si dà alla fuga l'8 settembre 1943, per poi abdicare.
  Umberto II sarà un Re provvisorio, giusto un mese, il cosiddetto "Re di Maggio",
condannato a un esilio senza ritorno, dopo il referendum tra Monarchia e Repubblica.
Alla quarta generazione i Savoia sono arrivati al capolinea.
 
 
 
 11 giugno 1859: l'ultimo giorno della Romagna pontificia.
 


Il 12 giugno 1859 il Cardinale di Bologna abbandonò la città
e il giorno dopo lo seguirono anche gli altri Legati.
La fuga non era causata da nessuno di quei tumulti che avevano segnato l'Ottocento.
Il potere papale cadeva per il venir meno del puntello su cui si reggeva da un decennio
- il presidio militare dell'Impero d'Austria nelle zone a sud del Po -
a seguito degli sviluppi della Seconda Guerra di Indipendenza.
Ferrara, Bologna, Ravenna e Forlì - territori pontifici dal 1503 - passavano agli Stati Sardi.
Il 22 giugno sarebbe poi stata la volta di Rimini.
Il Municipio di Bologna nominò una giunta Provvisoria, 
che come primo provvedimento inviò un telegramma a Cavour
per manifestare la volontà di sottomettere la città a Re Vittorio Emanule.
Già all'indomani dello sgombero di Bologna,
l'Ispettore delle Poste si rivolse alla "Eccelsa Giunta Provvisoria di Governo"
per segnalare il problema della scarsa disponibilità di francobolli
- "i Franco-Bolli esistenti in questo Officio postale non potranno bastare che per otto-dieci giorni" -
sollecitando l'emanazione di un provvedimento per l'ordinata gestione della corrispondenza.
La Giunta non andò oltre un continuo temporeggiare:
"fino a tanto che non siano prese su tale oggetto stabili determinazioni
restino autorizzati gli Uffici postali dipendenti da cotesto Dicastero
a percepire in denaro la tassa di impostazione ...
Intanto Ella potrà raccogliere i Franco-Bolli ove Le sia dato trovarne,
onde seguir il maggior tempo possibile con tale mezzo". 
Servirà arrivare a settembre per avere l'emissione per i territori delle Romagne.



Lettera del 9 luglio 1859, da Bologna per Imola, affrancata con un 2 bajocchi pontificio,
in periodo di Governo Provvisorio delle Romagne.
Dal testo interno:
"... posso dirvi che nella Piazza Maggiore si fanno gran preparativi per l'arrivo di Massimo d'Azeglio
che si attende sabato, e che sventolano più di mille bandiere tricolori
e grandiosi incontri si fanno ai militi che qui vi giungono".



Lettera del 28 luglio 1859, da Rimini a Roma, affrancata con un 6 bajocchi pontificio,
in periodo di Governo Provvisorio delle Romagne.

 
 


L'emissione preservò il facciale in bajocchi pontifici, l'unica moneta corrente,
sebbene un Decreto del 28 luglio stabiliva il corso legale della lira.
Si componeva di 9 valori, dal ½ bajocco al 20 bajocchi,
passando per i tagli intermedi da 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 8 bajocchi.  
I francobolli furono stampati, in colori diversi, in fogli da 120 esemplari 
- divisi in due gruppi di 60, separati da un interspazio -
dalla Stamperia Governativa Della Volpe e Del Sassi,
con stereotipi - tutti uguali - della Fonderia dei Fratelli Amoretti di Bologna.
L'estetica minimalista lascia immaginare una velocità di esecuzione
per rispondere esclusivamente a una necessità immediata.
I bajocchi romagnoli rimasero in vigore per cinque mesi:
la scadenza ufficiale del gennaio 1860 fu prorogata fino a febbraio,
e i valori furono ammessi al cambio sino a marzo.
 I rapporti postali tra lo Stato Pontificio e le Romagne furono conflittuali,
chiara espressione di una tensione politica ben più intesa:
lo Stato Pontificio non riconosceva i francobolli romagnoli,
giudicati come espressione di un atto di usurpazione di una propria provincia;
le Romagne, per ritorsione, tassavano le lettere in arrivo dallo Stato Pontificio.



L'11 settembre 1860 le truppe piemontesi varcano i confini dello Stato Pontificio,
col pretesto di andare incontro a Garibaldi per scongiurare l'anarchia, 
e nel giro di due settimane i territori pontifici dell'Umbria e delle Marche diventano sabaudi.
Questa lettera da Macerata a Roma, del 9 ottobre 1860, è una straordinaria testimonianza del periodo.
E' affrancata con quattro valori della IV di Sardegna, annullati con la griglia pontificia.
  per un valore di 75 centesimi (di lire sarde) equivalente a 15 bajocchi pontifici.
Le Poste Pontificie non riconobbero però la validità dei francobolli sardi sui loro territori
e tassarono la missiva per l'esatto controvalore (15 bajocchi), come da segno a penna.
Il documento anticipa e dà un contenuto tangibile ciò che accadrà all'indomani dell'unità d'Italia,
quando Papa Pio IX interromperà i rapporti istituzionali col Governo di Torino
e nell'Allocuzione concistoriale del 18 marzo 1861
respingerà l'idea "che la cosa ingiustamente e violentemente rubata
possa tranquillamente e onestamente possedersi dall'iniquo aggressore".



 Il 19 agosto 1861 la Direzione delle Poste di Torino propose un accordo alle Poste Pontificie
per rendere più economica la spedizione delle corrispondenze tra i due Stati.
Lo Stato Pontificio rifiutò, perché la stipula di un accordo in materia postale 
avrebbe implicitamente significato la legittimazione e il riconoscimento dello Stato italiano
e quindi la formale accettazione della perdita di Romagne, Marche e Umbria.
Un avviso al pubblico del 29 settembre 1861 informava sulle nuove tariffe pontificie:
spedire in territorio italiano sarebbe costato 5 bajocchi, sino al confine,
mentre la corrispondenza verso Romagne, Marche e Umbria avrebbe pagato solo 3 bajocchi,
a voler rimarcare la perculiarità di quei territori, a ricordarne la loro usurpazione.
(nel 1864 la tariffa per l'Italia fu ridotta a 4 bajocchi e quella per le province usurpate a 2).
Furono accettate affrancature con applicazione in partenza di francobolli di entrambi gli Stati
per rendere possibile la spedizione "franca" sino a destinazione.
Questa lettera del 14 gennaio 1866, diretta a Roma, è un'affrancatura mista Italia-Pontificio,
- 20 centesimi su 15 centesimi del 1865 più un 2 bajoicchi del 1852 -  
col francobollo pontificio annullato in arrivo con quattro tratti diagonali di penna,
di cui uno che attraversa l'intero frontespizio, a segnalare il "porto pagato" per intero.



La "Spedizione dei Mille" aveva sdoganato l'ambiguità in fatto di azioni miliari.
Perché non riprovarci allora con cio che rimaneva dello Stato Pontificio?
E' il 1862, e Garibaldi è di nuovo in Sicilia, a Marsala,
  davanti a una folla che gli grida: "Roma o morte!".
Il Generale dà il via a una nuova campagna di reclutamento,
con l'idea di risalire la penisola e spingersi sino allo Stato Pontificio.
I soldati piemontesi di stanza sull'isola lo lasciano fare.
Supera ancora una volta lo Stretto di Messina, con la Marina sarda girata dall'altra parte.
  C'è la sensazione che Garibaldi agisca in accordo con Re Vittorio,
ma stavolta le Potenze europee non offrono nessuna copertura militare e diplomatica,
e minacciano anzi di intervenire, se la nuova "Spedizione" dovesse proseguire oltre.
Napoleone III è schierato col Papa e la Francia non permetterebbe mai la presa di Roma.
 Il Generale piemontese Cialdini riceve così l'ordine di porre fine alla buffonata.
Nello scontro tra i piemontesi e gli irregolari, in Aspromonte,
  Garibaldi viene ferito a una gamba, per poi essere arrestato e spedito in fortezza.
Medaglie al valore per chi lo ha fermato
e fucilazione dei disertori dell'esercito italiano che si erano uniti a lui,
convinti che l'iniziativa avesse l'approvazione della Casa Reale.
E l'approvazione c'era, ben documenta da una serie di lettere da Re Vittorio a Garibaldi.
Processare Garibaldi, sottoporre Garibaldi al giudizio di un tribunale militare,
avrebbe però significato pubblicizzare quelle lettere, smascherare il doppio gioco di Vittorio Emanuele.
  L'amnistia fu ritenuta una soluzione decisamente più economica, sobria e indolore.
 




Papa Pio IX non accettò la perdita delle sue province, né riconobbe mai il Regno di Italia,
e le Poste pontificie continuarono a praticare le tariffe interne per le spedizioni in quelle zone.
La necessità di un'integrazione economica portò però al cambio di monetazione, nel giugno del 1866.
Scudi e bajocchi uscirono gradualmente di scena per lasciare posto alla lira pontificia,
scambiata alla pari con la lira italiana e a cinque centesimi per bajocco all'interno dello Stato.
Una nuova emissione di francobolli recepì il cambiamento in campo postale, il 21 settembre 1867.
I francobolli mostravano lo stesso soggetto, ma avevano valuta in centesimi  (2, 3, 5, 10, 20, 40, 80),
stampati su una carta lucida e di tinte brillanti che  li rendevano particolarmente appariscenti.



 E' più d'un semplice folklore il fatto che l'emissione pontificia del 1867la successiva del 1868
abbiano tenuto a battesimo Maurice Burrus, uno dei più grandi collezionisti della storia.
Ce ne parla Alberto Diena, nella prefazione al catalogo "Burrus Italian States"
della celeberrima casa d'asta Robson Lowe (Londra 1-2 dicembre 1964). 
"Maurice Burrus cominciò ad interessarsi di francobolli nel 1889, quando non aveva che sette anni:
la sua fantasia di fanciullo era stata colpita da certi francobolli più colorati degli altri,
che aveva visto su alcune delle lettere che formavano l'archivio di un suo zio.
Quegli esemplari dai colori così attraenti
erano i valori delle emissioni dello Stato Pontificio del 1867 e 1868.
La passione del bimbo si conservò e si sviluppò nel ragazzo e poi nell'uomo".
Ovviamente - prosegue Diena - la passione filatelica di Burrus
non si limitò al "technicolor delle due ultime emissioni [del Pontificio]",
e le "ragioni puramente visive", da cui "era stato attratto da bimbo",
si accompagnarono nel tempo a un crescente consapevolezza
della fecondità dell'intero campo della filatelia degli Antichi Stati Italiani,
"sì da diventarne, oltre che un appassionato collezionista, anche un attento amatore e conoscitore".
tuttavia rimane rimarchevole il ruolo dell'estetica nel collezionismo,
il fatto di avvicinarsi al collezionismo grazie al gioco cromatico che stuzzica l'occhio
e emoziona semplicemente per la sua irripetibile bellezza.
 


La serie del 1867 contemplava al principio sei valori
(3, 5, 10, 20, 40 e 80 centesimi).
 Tuttavia, proprio durante il periodo di allestimento dell'emissione,
le Poste pontificie decisero il cambio di tariffa per le stampe circolari,
da 3 a 2 centesimi, per uniformarsi alle Poste italiane.
Il nuovo valore da 2 centesimi prese il colore verde,
inizialmente destinato al valore da 3 centesimi, 
che fu invece stampato prima in grigio e poi in grigio-rosa.
I fogli del 3 centesimi verde passarono tra gli scarti e poi all'incenerimento.
Se ne salvarono sette esemplari, di cui solo tre perfetti, secondo i canoni filatelici.

 

La geografia dello Stato Pontificio - il suo "stare in mezzo" - era un motivo di batticuore
già dai tempi di Federico II di Svevia e del Sacro Romano Impero.
Ma con l'Italia unita, con il Nord e il Sud della penisola riuniti nello stesso Regno,
la sensazione di trovarsi stretti in una morsa non era più solo una sensazione.
Cosa assicurava che il Regno d'Italia non avrebbe ingoiato lo Stato della Chiesa?
  La politica aveva provato il colpo di mano ancor prima della proclamazione dell'unità nazionale:
per vie diplomatiche, se si vuol esser eleganti, o con la corruzione, se si vuol essere diretti.
"Ho consegnato al Passaglia 100 napoleoni d'oro,
con invito di consegnarglieli dopo aver ritenuto quanto gli occorrerà per le spese di viaggio.
Le faccio facoltà di spendere quanto reputerà necessario per amicarsi gli agenti subalterni della Curia.
Quando poi occorresse di ricorrere a mezzi identici ma sopra larga scala pei pesci grossi,
me li indicherà e io vedrò di metterli all'opera".
 Sono parole di Cavour, datate 11 febbraio 1861, rivolte al dottore Diomede Pantaleoni,
l'uomo individuato a Torino per convincere l'ambiente ecclesiastico a cedere Roma.
Nel 1862 si era fatto un tentativo "manu militari", con Garibaldi,
nella speranza di replicare la conquista del Regno delle Due Sicilie.
Nel settembre del 1864 Napoleone III decide che può bastare così,
che lo Stato Pontificio non può vivere sotto una minaccia continua:
"tutti gli atti di aggresione commessi contro il Papa"
- dirà l'Imperatore di Francia -
"non sono il movimento di un popolo, ma sibbene l'opera di una congiura". 
La "Convenzione di Settembre" stabilì il ritiro delle truppe francesi da Roma,
a fronte dell'impegno del Regno di Italia di non invadere lo Stato Pontificio
e di proteggerlo da eventuali attacchi esterni, se mai se ne fossero verificati.
Ma Napoleone III volle alzare la posta, a garanzia degli impegni italiani.
Pretese il trasferimento della capitale d'Italia, da Torino a una qualsiasi altra città,
come testimonianza della definitiva rinuncia alla Roma papalina,
come dimostrazione che l'Italia unita non era solo un Piemonte ingrandito.
Quanto costava - d'altra parte - spostare una capitale?
Tanto, troppo, e nessuno Stato poteva permetterselo senza un innalzamento del debito pubblico.
Se Vittorio Emanuele fosse stato costretto ora a fare questo investimento
non avrebbe avuto la disponibilità economica per mettere Roma al centro della politica italiana.
Torino diventò un inferno, quando la notizia divenne di dominio pubblico,
ma alternative non ve ne erano, e i Savoia traslocarono così a Firenze, dopo aver escluso Napoli.
Tutto sistemato, in linea di principio. Tutto in ordine, sulle carte intestate delle diplomazie.
Ma a Garibaldi importava il giusto - e cioè niente - di trattati, convenzioni, accordi e firme.
Garibaldi aveva un pensiero fisso:
"far crollare la baracca pontificia", "vergogna e piaga di d'Italia".
Garibaldi ci prova, tenta di nuovo, sulla scia di una rinnovata popolarità
(è l'unico Generale ad aver tenuto alto l'onore italiano, nell'umiliante Terza Guerra d'Indipendenza).
Nel 1867 nasce la "Legione garibaldina", un esercito di 10.000 volontari, per invadere Roma.
Il Governo italiano è a conoscenza dei preparativi e oscilla di nuovo sull'atteggiamento da tenere.
"I ministri erano divisi in tre partiti, che rappresentavano, grosso modo, un terzo ciascuno"
- scrive Lorenzo Del Boca -
"I più sornioni erano quelli che ritenevano fosse possibile ripetere 
la sceneggiata accaduta contro il Regno delle Due Sicilie,
che avevano conquistato facendo finta di essere contrari.
Il secondo gruppo sosteneva la legalità 
e il rispetto degli accordi stipulati con la comunità internazionale,in particolare con la Francia, 
nei confronti della quale esisteva un debito di riconoscenza non trascurabile.
Il terzo era quello che sembrava distratto da altre questioni".
A Firenze si discute, intorno a Roma si agisce,
e nell'ottobre del 1867 i garibaldini varcano i confini dello Stato della Chiesa.
Ma questa volta, a differenza delle Due Sicilie, trovano un esercito agguerrito, 
pronto a battersi per difendere i territori e i diritti del Papa.
Le truppe francesi, i militari pontifici e poi i mitici Zuavi, si lanciano nello scontro.
  e il 3 novembre 1867 - a Mentana - piallano la "Legione garibaldina" e le sue velleità di conquista.
Garibaldi va incontro al solito destino, all'ormai ben nota sequenza di eventi:
  Il Governo ne sconfessa l'impresa, procede all'arresto, e l'istante dopo lo rimette in libertà.
L'Aspromonte (1862) e Mentana (1867) denunciano tutte le ambiguità e le contraddizioni
di un processo unitario che nel tempo disilluderà il popolo verso il nuovo Stato,
verso il suo sistema di valori e la sua capacità di governare.
  
 
 
Lettera in franchigia da Tivoli per Roma dell'8 novembre 1867, giunta a Roma il giorno dopo.
"Faccio noto col massimo piacere all’E.V. che ieri fu ripristinato il Governo Pontificio
nell'occasione che le Truppe Francesi fecero ingresso in questa città.
I prodotti di Officio si fecero sparire con un supposto versamento,
così che alle bande di Garibaldi nulla si è dato ...".
 



I francobolli hanno lo stesso soggetto e gli stessi valori facciali, ma ora sono dentellati.
L'emissione avrà una vita breve.
L'11 settembre le truppe italiane entrano nel Lazio e in pochi giorni occupano quasi tutte le località.
La diplomazia si mette al lavoro per ottenere una capitolazione pacifica di Roma,
ma Pio IX è irremovibile nel voler mostrare al mondo che la città viene presa con la forza.
Il 20 settembre 1870 i bersaglieri sfondano Porta Pia e pongono fine al più antico degli Stati italiani.
Il 2 ottobre il plebiscito sancisce l'annessione di Roma e del Lazio al Regno d'Italia.
Vittorio Emanuele visiterà Roma per la prima volta il 31 dicembre
- per portare aiuti alla popolazione duramente colpita da un'alluvione dopo Natale -
  e solo l'anno successivo Roma diventerà ufficialmente la capitale del Regno.
Il servizio postale italiano fu invece molto più rapido a instaurarsi.
Dal 28 settembre subentrò il bollo muto a rombi, già in uso presso il Regno di Sardegna.
Dall'11 ottobre il bollo a cerchio semplice italiano sostituì il bollo a doppio cerchio pontificio. 
I francobolli italiani entrarono in scena già il primo ottobre, a preannuciare il plebiscito.
I valori pontifici in circolo rimasero validi, ma ne cessò la vendita negli uffici postali.
E' perciò raro riscontrare l'uso di francobolli italiani nelle prime settimane di ottobre,
perché la popolazione impiegò anzitutto i vecchi valori per spedire la propria corrispondenza.
I privati esaurirono comunque rapidamente le proprie scorte,
cosicché le lettere con francobolli pontifici sono infrequenti già in novembre, 
per diventare rare nel dicembre 1870 e nei successivi mesi del 1871.
Al cambio dei francobolli si associò il cambio delle tariffe interne,
per uniformandole a quelle vigenti nel resto del Regno di Italia.
 Le tariffe per l'estero entrarono in vigore più tardi (il 18 novembre),
ma comunque prima della proclamzione ufficiale di "Roma capitale" (1 gennaio 1871).

"La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno Italico".

Era l'11 ottobre 1860. Napoli non aveva ancora manifestato la volontà di entrare nel Regno di Sardegna - il plebiscito vi sarebbe stato il 21 ottobre -, Francesco II di Borbone teneva alta la bandiera delle Due Sicilie - la sconfitta sul Volturno non ne aveva determinato la resa e i legittimisti si preparavano alla leggendaria resistenza di Gaeta -, ma il Conte di Cavour prospettava già una Roma Capitale, nel suo discorso al Parlamento di Torino.

Era così incantato da Roma - dall'idea di fare di Roma "la splendida capitale del Regno Italico" - da proclamarla capitale quando il Papa era ancora il Re di uno Stato Pontificio ancora in vita, seppur ridotto al solo territorio laziale. Era il 27 marzo 1861, appena dieci giorni dopo la proclamazione dell'unità nazionale, e all'ordine del giorno del Parlamento italiano vi era l'attribuzione alla città di Roma dello status di capitale del nuovo Regno.

Cavour rispolverò il motto dello scrittore Charles de Montalembert, destinato a rimanere nell'uso pubblicistico e storiografico come sintesi fulminante del pensiero dello statista torinese sui rapporti tra autorità religiosa e potere politico: libera Chiesa, in libero Stato.

Il Papa doveva rinunciare alla spada del potere temporale, archiviare quelle subdole e anacronistiche argomentazioni medievali che ne legittimavano il possesso, per trattenere solo la spada del potere spirituale, per votarsi alla sua missione originaria, la salvezza della anime, senza interferire con le scelte politiche per governare la vita in questo mondo. Ognuno dei due attori - Stato e Chiesa - rimaneva libero e autonomo nel suo ambito di competenza - questo mondo e il mondo a venire - con l'impegno reciproco a non immischiarsi l'uno negli affari dell'altro. La netta separazione - di ruoli e responsabilità - era la via maestra, se non l'unica via, per assicurare una convivenza civile tra Stato e Chiesa.

Questa cesura avrebbe poi trovato la sua codificazione formale nel 1948, all'articolo 7 della Costituzione della Repubblica Italiana: "Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale".


Che buffo questo Regno di Italia proclamato il 17 marzo 1861.

Manca il Veneto, che però è geograficamente ai margini del territorio italiano. Il Veneto potrebbe essere Italia - com'è oggi - ma potrebbe anche essere Austria - com'era sino al 1866, prima di una inverosimile carambola diplomatica - e che sia Italia o Austria è più un accidente della storia, che una necessità imposta dalla sua collocazione geografica. Roma è invece piazzata nel mezzo del Regno, al centro dell'Italia, a separare geograficamente una realtà dichiarata politicamente unita. Che buffa questa Italia, questa la Nazione con il buco intorno.

All'Italia manca Roma, e è una mancanza grave, pesante, che restituisce un'immagine grottesca di uno Stato uscito fuori all'improvviso - tra il 1859 e il 1861, e poi nel 1866 - dopo oltre dieci secoli di frammentazioni. Manca Roma e a Roma si vorrebbe andare, per chiudere quel buco. Ma a Roma c'è un baluardo insuperabile. Non il Papa, non la sua autorità religiosa, ormai demodè, sovrastata dal dilagare di un sentimento anticlericale implicito nel processo risorgimentale. L'esercito italiano non ha ancora marciato su Roma per un motivo più banale. Perché a difendere Roma c'è la sciabola di Napoleone III, che se sta al comando della Francia lo deve anche al sostegno della masse cattoliche, e che a quelle masse deve rispondere e rendere conto. E quale risposta migliore dell'erigersi a protettore della Chiesa e del Papato?

Andare a Roma significherebbe mettersi contro Napoleone III - l'allegato del 1859 e l'amico di ora - vorrebbe dire dichiarare guerra alla Francia, e una guerra alla Francia sarebbe una follia, perché è chiaro a tutti come andrebbe a finire.

A Roma c'è il Papa, fisicamente, ma a Roma c'è anche Napoleone, idealmente. E finché c'è Napoleone, a Roma non si può andare.

"L'Italia è stata fatta su tre 'S': Solferino, Sadowa e Sedan.
E voi italiani non c'eravate mai".
(Un diplomatico all'allora Principe Vittorio Emanuele III, futuro Re d'Italia)

Conquistare Roma, se mai si può pensare, di sicuro non si può né dire né fare, almeno finché c'è Napoleone. Ma Napoleone commette un errore esiziale: dichiara guerra alla Prussia.

La Prussia è il nuovo leader dell'area tedesca. La Baviera, la Sassonia e tutti gli altri piccoli Regni che nel 1866 erano sotto il dominio austriaco, ora sono suoi alleati. Nessuno lo ha ancora capito, ma la Prussia ha una particolare abilità nell'arte militare, e sta lì a fare i suoi calcoli per capire quando e chi conviene attaccare. Nel 1870 tocca alla Francia. La Prussia vuole l'Alsazia e la Lorena, nella prospettiva di formare un nuovo Impero. Serve un pretesto per scatenare la guerra, lo trovano, e Napoleone III ci casca, convinto di esser ancora alla testa del miglior esercito europeo. Finisce malissimo. I francesi capitolano a Sedan, Napoleone si arrende, abdica, l'Impero si sgretola, arriva la Comune di Parigi.
 
Ma agli italiani importa solo una cosa: Napoleone è caduto, non c'è più.

Il Papa e' rimasto solo.

Andiamo a Roma.
 

La notte è quieta senza rumore, c'è solo il rumore che fa il silenzio ...

... e l'aria calda porta il sapore di stelle e assenzio.

Le dita sfiorano le pietre calme, calde d'un sole, memoria o mito ...

... il buio ha preso con sè le palme, sembra che il giorno non sia esistito.

Io, la vedetta, l'illuminato, guardiano eterno di non so cosa ...

... cerco, innocente o perché ho peccato, la luna ombrosa.

E aspetto immobile che si spanda l'onda di tuono che seguirà ...

... al lampo secco di una domanda, la voce d'uomo che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell ...

Sono da secoli, o da un momento, fermo in un vuoto in cui tutto tace ...

... non so più dire da quanto sento angoscia o pace.

Coi sensi tesi, fuori dal tempo, fuori dal mondo sto ad ad aspettare ...

... che in sussurro di voci o vento qualcuno venga per domandare.

E li avverto radi come le dita, ma sento voci, sento un brusio ...

... e sento d'essere l'infinita eco di Dio.

E dopo innumeri, come sabbia, ansiosa e anonima oscurità ...

... ma voce sola di fede o rabbia, notturno grido che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell ...

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell ...

La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato ...

... sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato.

Ma io veglio sempre, perciò insistete, voi lo potete, ridomandate ...

... tornate ancora se lo volete, non vi stancate!

Cadranno i secoli, gli dei e le dee ...

... cadranno torri, cadranno regni ...

... e resteranno di uomini e di idee, polvere e segni.

Ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà ...

... che la risposta sull'avvenire è in una voce che chiederà ...




"Qualunque cosa avvenga, sia fatta sempre la Tua volontà".
(Papa Pio IX, 19 settembre 1870, dopo aver salito in ginocchio la Scala Santa a San Giovanni)
 


La misteriosa lettera di Mazzini al patriota siciliano Francesco Schifani, del 14 settembre 1870.
 Con l'accorato linguaggio risorgimentale, Mazzini parla dell'Italia che "deve essere amata"
e invita a tenersi fedele "all'onore e alla grandezza della Patria".
E poi, con una criptica frase in latino, in apparenza priva di alcun senso in quel contesto,
cita l'Eneide di Virgilio, nel passaggio in cui Enea, sulle coste della Libia, incoraggia i suoi uomini:
"tra varie peripezie, tra tanti rischi, puntiamo verso il Lazio".
Mazzini scrive sei giorni prima della breccia di Porta Pia
e sulla lettera compare il timbro del Procuratore Generale di Lucca, 
che indica che la lettera è passata al vaglio della censura del Regno.
Alcuni storici ipotizzano un messaggio in codice,
forse il tentativo di battere sul tempo l'esercito piemontese. 
anche perché in tutte le altre contenute nell'archivio si trovano testimonianze delle reti cospirative
che dopo l'unità d'Italia diventarono reti di relazioni a sostegno dei democratici.
In Sicilia, in particolare, serpeggiava la delusione e la disillusione per le riforme mancate.
 Il patriota Francesco Schifani rappresentava l'élite democratica, deluso sì, disulluso no:
cospiratore prima dell'unità, carbonaro, massone fondatore di una loggia,
a unità realizzata non smise di credere nella possibilità di cambiare la neonata Italia.
 

 
"Porta Pia non fu che un meschino episodio, militarmente e politicamente.
Militarmente non fu che una grottesca scaramuccia.
Fu veramente degna delle tradizioni militari italiane.
Porta Pia rassomiglia - in piccolo - a Vittorio Veneto.
Porta Pia fu la piccola, facile vittoria
contro un avversario che - militarmente - non esisteva più.
Politicamente Porta Pia fu semplicemente l'ultimo episodio
della costruzione violenta e artificiale del Regno d'Italia.
Tutto il resto è chincaglieria retorica".
(Antonio Gramsci)
 
 
 
Il 20 settembre 1870 dal punto di vista dello Stato Pontificio.
Lettera da Roma per San Quirico,
affrancata con un 20 centesimi della terza emissione.
Una delle due lettere note
- in partenza da Roma, nel giorno dell'invasione - 
inoltrate tramite la posta civile. 
 
 
 
Il 20 settembre 1870 dal punto di vista del Regno di Italia.
"Cara Rosina, entrati oggi alle 10 antemeridiane a Roma
dopo un combattimento di cinque ore.
Ti scrivo, dunque sono vivo e sto bene.
Abbiamo avuto poche ma dolorose perdite. 
Noi siamo entrati dalla breccia aperta in vicinanza di Porta Salara, dalla nostra artiglieria.
Addio di cuore, saluta mio padre e la tua famiglia.
Tuo Giacomo".
(Fonte: "20 settembre 1870. Roma Italiana")



Targa al Senato della Repubblica italiana, posta sopra lo scranno del Presidente.
(Seconda Legislatura XI, 27 novembre 1871)

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