OBBEDISCO

TERZA GUERRA DI INDIPENDENZA

20 giugno - 12 agosto 1866

- libera trascrizione della splendida lezione del Professor Alessandro Barbero -


The same old story: c'è un esercito che spinge da occidente e un esercito che difende ciò che è rimasto del Regno del Lombardo Veneto. La storia è sempre la stessa, o quasi. Siamo nel 1866, e la geografia è cambiata rispetto al 1859. La Lombardia ora è italiana, il confine ora è sul Mincio e non più sul Ticino. C'è un'altra differenza. Nella Prima Guerra di Indipendenza c'era solo l'esercito piemontese, pur supportato dagli altri Stati della penisola. Nella Seconda Guerra di Indipendenza il Piemonte aveva al suo fianco il potente esercito francese, e beneficiava perciò di una netta superiorità, sia numerica che qualitativa. Ora, nel 1866, la compagine militare è cambiata di nuovo. Al di qua dal Mincio c'è il Regno d'Italia, con un esercito italiano quadruplicato rispetto all'antico esercito piemontese: nel 1859 il Piemonte disponeva di cinque divisioni, nel 1866 l'Italia può schierarne venti.

5 centesimi della II emissione del Regno di Sardegna, in coppia su lettera "primo giorno".

La configurazione dell'esercito italiano rispecchia la travagliata fase di transizione dal Piemonte all'Italia: da un lato c'è lo sforzo di costruzione di un nuovo Regno, che sappia attingere a tutte le risorse della penisola e sfruttarle al meglio, dall'altro l'impronta del Piemonte sabaudo rimane marcata - il numerale "II" del Re la dice tutta sulla percezione dell'Italia come un Regno di Sardegna allargato - e la tensione interna al nuovo Stato si riproduce e si accentua tra i ranghi dell'esercito.

L'esercito italiano ha una evidente predominanza piemontese, nella élite dei Generali. Due dei quattro Corpi di Armata sono guidati da piemontesi, uno da un toscano, e un altro da un modenese. La stessa proporzione si ritrova tra i Generali delle dodici Divisioni: sei sono di marca piemontese, due provengono dall'esercito napoletano, uno dal Granducato di Toscana, e ben tre sono "garibaldini" (ché la diffidenza verso le camice rosse toccava i soldatacci e non i gradi elevati).

C'è dunque una fusione in corso, squilibrata e incompleta, che sconta timori e antipatie. Girano pettegolezzi di ogni tipo sui due Generali napoletani, Alessandro NunzianteGiuseppe Pianell. Rimangono ex Generali del Regno delle Due Sicilie, avevano giurato fedeltà ai Borbone, e ora servono i Savoia. Saranno affidabili o tradiranno alla prima occasione? Circolano così tante cattiverie - infondate - che  viene il dubbio siano i servizi segreti austriaci a metterle in giro, per inasprire i già problematici rapporti tra i soldati e destabilizzare l'esercito italiano. Di Pianell si arriva a dire che era pronto a consegnare la sua Divisione al nemico, che è stato scoperto, arrestato e fucilato. Nulla di vero, ma queste voci corrono con gran facilità, i soldati le sentono e le rilanciano. I filtri critici si azzerano, le suggestioni prevalgono.

C'è - più in generale - il problema di un debole spirito di corpo, in un esercito che accoglie uomini dalle più disparate provenienze geografiche, diversi per cultura, tradizioni e stili di vita, e ancora agitati dalle reciproche ostilità del passato. Ci sono aneddoti di ogni sorta sui conflitti nelle caserme tra piemontesi e napoletani, tra lombardi e siciliani. Il bersagliere piemontese Giovanni Rossetti è un soldato di lungo corso, ha fatto il 1859 e poi è stato richiamato nel 1866. Racconta di quando è dovuto intervenire per fermare due napoletani che minacciavano un piemontese. "Ce l'avevano già fatto sentire questi maccheroni, che volevano rivoltarsi a noi piemontesi e lombardi. Fra noi vi regnava sempre guerra continua con quella razza diabolica". E quella volta finisce a coltelli sguainanti, con Rossetti che in camerata grida: "fuori tutti i napoletani, è ora di finirla con questi maccheronacci traditori!". Il sentimento è amorevolmente ricambiato. Dai volumi di sentenze dei tribunali militari di quegli anni: "nella caserma del 45° fanteria a Pinerolo, il soldato Giuseppe Maiolino, napoletano, aggredisce a pungi e calci il caporale Viriglio, piemontese. Il caporale Morelli, napoletano, interviene a difendere il collega piemontese aggredito, al che il soldato Cantoriello, napoletano, esclama: 'Cane di un caporale, tu sei napoletano e prendi la difesa di questi piemontesi. Stai bene attento, che se non potrò farti la festa questa notte, te la farò infallibilmente domani". Denuncia, processo militare, sei mesi di galera.

Non che boemi e ungheresi, nell'esercito austriaco, si scambiassero coccole carezze, e del resto questo genere di asprezze non hanno mai impedito a un esercito di funzionare. Ma rimangono situazioni da ricordare, segnali di una compagnie ancora immatura, disunita e sfilacciata.

L'Italia è ancora tutta da fare, forse addirittura da immaginare.

La IV emissione del Veneto della Provincia di Mantova (1863) su lettera.
 
E tuttavia questo esercito va in guerra con ottime chance di successo, con tutte le probabilità di vittoria a suo favore. Le circostanze del 1866 non potrebbero essere migliori. Nel 1859 si era vinto a Solferino, e volendo si poteva proseguire sino a Venezia, se Napoleone III non avesse deciso che bastava regalare la Lombardia ai Savoia, e che il Veneto se lo sarebbero conquistati da soli un'altra volta. Il Regno d'Italia ha quindi un obiettivo preciso - buttar fuori gli austriaci dal Veneto - e confida in nuova guerra per realizzarlo, una guerra che prima o poi arriverà. E nel 1866 la guerra arriva, non per ragioni di politica italiana, ma sulla scia di conflitti europei.

Gli austriaci non hanno grane solo in Italia. Devono vedersela pure con la Prussia, un Regno in espansione nel mondo di lingua tedesca, che vuol sottrarre all'Impero austriaco la sua posizione egemonica e destinato a diventare la grande Potenza militare di metà '800. Nel 1866 i tempi sono maturi. Re Guglielmo I di Hohenzollern assegna il ruolo di Primo Ministro a Otto von Bismarck, un politico di vocazione anti-austriaca, con una priorità molto chiara: unificare gli Stati germanici sotto la dinastia prussiana. La Prussia si prepara a dichiarare guerra all'Austria, e siccome il nemico del mio nemico è mio amico, Prussia e Italia si ritrovano a braccetto, accomunate dallo stesso sentimento anti-austriaco. Primi contatti, negoziati, mediazioni e schermaglie diplomatiche per dar tempo ai rispettivi Governi di affinare le proprie posizioni. Infine la decisione: Prussia e Italia saranno alleate nella guerra all'Austria, unite per sfruttare la debolezza - politica e e strategica - in cui Vienna si ritrova per la prima volta dopo tanti anni.

Prussia e Italia siglano l'alleanza l'8 aprile 1866. La Prussia dichiara guerra all'Austria il 15 giugno 1866. Ci si aspetta che l'Italia si schieri immediatamente al fianco della Prussia. Non ci stupirà sapere che gli italiani aspettano ancora un po', ancora una settimana, e poi finalmente si decidono - è guerra! - e l'esercito si concentra sulle rive del fiume Mincio.

Nel 1866 - come nel 1859 - ci sono treni e ferrovie per mobilitare l'esercito, per concentrare sulla frontiera - sul Mincio - i soldati sparsi per la penisola, e il convoglio delle truppe è un autentico capolavoro logistico. Anche i numeri sono incoraggianti, lasciano tutto da sperare e nulla da temere. L'Italia dispone di 220.000 uomini, come l'Austria, ma l'Austria deve tenere i suoi 220.000 in Boemia, a fronteggiare l'invasione prussiana. A contrastare agli italiani, in Veneto, c'è solo un contingente di 75.000 unità.

Sono 220.000 contro 75.000: il Regno d'Italia non può perdere. E se vi state chiedendo come abbia fatto a perdere, ebbene, il busillis è proprio questo: come ha fatto a perdere?


C'è un problema di fondo: chi comanda il poderoso esercito italiano? Re Vittorio Emanuele, in definitiva. Sono però passati un po' di anni dal 1859, e Re Vittorio ha finalmente capito che fare la guerra non è il suo mestiere. L'Italia può contare su alcuni valorosi Generali, o almeno tutti ne sono convinti, e l'esercito sarà così in mano a loro, ai grandi Generali del Regno.

Uno è realmente un grande: Giuseppe Garibaldi. Sono lontani i i tempi in cui lo cacciavano, quando veniva a proporsi. Il Re lo tiene dentro senz'altro, e fa le cose in grande per il grande Garibaldi. Non è più tempo di sparute armate improvvisate, incontrollabili e politicamente pericolose. Il Regno d'Italia affida a Garibaldi la bellezza di 40.000 volontari, un piccolo esercito, neanche poi così piccolo. Rimane sottintesa la solita clausola, la vecchia regola d'ingaggio: noi, con l'esercito regolare, passiamo il Mincio e invadiamo il Veneto; tu, Garibaldi, la guerra vai a farla da un'altra parte. Nel 1859 lo avevano spedito a Brescia, a Bergamo e prima ancora a Varese. Ora quei territori sono italiani. Quindi? Dove lo mandiamo? Ma sì, dai, mandiamolo a Trento!

L'idea è buona. Peccato che Garibaldi inizi a mostrare la corda, proprio ora che gli affidano un esercito regolare. Ha 59 anni, che non son pochi per comandare un esercito e condurre una guerra in mezzo alle montagne. E' stanco, logoro, e fatica persino ad andare a cavallo. Quattro anni prima c'è stato l'Aspromonte, la ferita alla gamba, la prigionia nella fortezza. La "Spedizione dei Mille" è solo un ricordo. Garibaldi raccoglie comunque i suoi soldati, e si prepara a partire dalla Valtellina, con l'idea di marciare verso nord-est e sboccare nell'area del trentino.


Garibaldi è sistemato. Rimangono i due Generali più conosciuti in Italia: Alfonso La Marmora e Enrico Cialdini.

La Marmora ha 62 anni, è il più anziano e importante Generale piemontese, ma non è solo un Generale. E' anche un politico, un uomo di potere, da due anni Presidente del Consiglio a Firenze, capitale del Regno d'Italia. Rinuncia all'incarico di governo quando scoppia la guerra, per rispondere alla sua originaria vocazione, per tornare al suo antico mestiere, comandare l'esercito.

Ma c'è un altro Generale che ritiene di avere l'esperienza necessaria per guidare l'esercito. E' il modenerse Cialdini, che negli ultimi anni si è caricato dei lavori più sporchi: l'assedio di Gaeta (concluso con la resa del Re di Napoli), l'Aspromonte (a un passo dall'ammazzare Garibaldi) e poi la repressione del brigantaggio (nella fase più acuta). Cialdini è una garanzia. Forse dovrebbe comandarlo lui l'esercito.





Serve decidere: La Marmora o Cialdini? La scelta non è neutrale, perché La Marmora e Cialdini hanno idee diverse su come condurre la guerra.

La Marmora appartiene alla vecchia scuola piemontese, e per lui c'è solo una strategia possibile: passare il Mincio, e tirare dritto sino a Venezia.

Cialdini è emiliano, e già lo spazio lo percepisce in altro modo, vede un'altra geografia. Perché ragionare sempre come se la base fosse a Torino? Immaginiamola a Bologna, concentriamo l'esercito sul fiume Po, attraversiamolo, e da lì marciamo su Venezia.

A chi dare il comando? Quale dei due piani attuare? La decisione spetta a Re Vittorio, e non è una decisione semplice, perché i Generali sono entrambi eccezionali (o almeno così sembra) e le strategie sono entrambe valide (sulla carta). E qui accade il primo disastro, da cui seguiranno tutti gli altri. Perché in guerra non c'è nulla di peggio dell'incertezza su chi deve comandare e su cosa si deve fare, nulla di più dissennato del voler fare una cosa e pure il suo contrario. I piani sono entrambi buoni? E allora attuiamoli entrambi! Diamo metà dell'esercito a La Marmora e l'altra metà a Cialdini. Tanto siamo di più e siamo più forti.

La Marmora entrerà dunque dal Mincio con dodici Divisioni, Cialdini - formalmente subordinato a La Marmora, ma nei fatti con un comando indipendente - opererà sul basso Po, con otto divisioni. I due schieramenti - il contingente di La Marmora sul Mincio, quello di Cialdini sul Po - sono numericamente superiori alle truppe austriache presenti sui rispettivi fronti. Gli austriaci hanno in tutto 75.000 uomini. La Marmora ne ha di più, Cialdini ne ha di più.

Il 2 soldi della V emissione del Veneto della Provincia di Mantova (1865), usato a Verona.

E gli austriaci? Cosa fanno gli austriaci? Semplicemente aspettano. Al comando dell'esercito austriaco c'è l'Arciduca Alberto d'Asburgo, 46 anni,  un buon Generale, ma con un esiziale difetto fisico. E' miope, drammaticamente miope, fatica a vedere persino con gli occhiali. Però la carta geografica la conosce e la sa usare, e il servizio di spionaggio austriaco funziona a meraviglia. L'Arciduca viene subito a conoscenza della strategia italiana: si sono divisi, una parte dell'esercito è sul Mincio, un'altra sul Po, e noi siamo in mezzoCosa avrebbe fatto Napoleone Bonaparte? Ne avrebbe approfittato. Attacchi l'uno con tutte le tue forze, e lo sbaragli, e poi passi all'altro. L'Arciduca Alberto si prepara: attaccherà in massa il primo dei due italiani che si muoverà.

E gli italiani? Cosa fanno gli italiani? Gli italiani non si muovono. I prussiani - che forse si stanno già pentendo dell'alleanza - insistono affinché l'esercito italiano si dia una svegliata. L'ambasciatore prussiano a Firenze e i Generali prussiani in visita in Italia sono ossessivi. Muovetevi! Avanzate! Fate qualcosa! Passate il Mincio! Passare il Mincio. Pare facile, pare. Li c'è il Quadrilatero, ci sono le fortezze di Peschiera e Mantova. Lasciate perdere le fortezze, entrate dentro, riversatevi sull'Isonzo, marciate verso Vienna - consigliano i prussiani. La Marmora rimane esterrefatto, nel sentire certi suggerimenti. Ma cosa vengono a dirci questi tedeschi su quel che dobbiamo fare? Prima bisogna assediare Peschiera, e poi si vedrà.

Il 2 soldi della V emissione del Veneto della Provincia di Mantova, usato a Padova.

Ma La Marmora temporeggia anche anche per un'altro motivo. Lui era Presidente del Consiglio sino al giorno prima della guerra, e aveva pure l'interim del Ministero degli Esteri, teneva insomma le redini della politica italiana. Lui sa che Napoleone III teme la Prussia e non vuole l'annientamento dell'Impero austriaco. Se accontentiamo gli italiani - pensa Napoleone III - se gli diamo ciò che vogliono a spese degli austriaci, che faranno i bravi e pagheranno, l'Austria non avrà la guerra in Italia, e potrà meglio resistere all'attacco prussiano.

Napoleone III ha così informato La Marmora di un negoziato in corso con l'Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe, per la cessione pacifica del Veneto al Regno di Italia. La guerra non si farà, e noi avremo comunque quel che vogliamo: che meraviglia! Napoleone si è però raccomandato di non far innervosire gli austriaci, di andarci piano sul fronte, di non vivere l'evento come la guerra del secolo. Cialdini non sa niente di queste trame diplomatiche, ma La Marmora sì, quindi aspetta e prende tempo.

Poi non se ne farà nulla, tra lo sconcerto di numerosi politici italiani, ma quell'attesa sarà comunque servita a preparare un altro pezzo di guerra, perché la guerra si fa anche per mare, nell'Adriatico. Lì c'è la flotta, la grande flotta italiana, nata dalla fusione tra la Marina sarda - che non era male - e la Marina napoletana - che era ancora meglio - passata per intero ai  Savoia. Anche per mare, quindi, l'Italia è più forte dell'Austria.

La flotta italiana lascia la base di Taranto il 21 giugno, al comando dell'Ammiraglio Persano, per inoltrarsi nel Mar Adriatico. Due giorni dopo La Marmora ordina di passare il Mincio. Piano, con calma, a ranghi ridotti. Più della metà del suo esercito è fermo a presidiare Mantova e Peschiera. Di là del Mincio c'è un villaggio chiamato Custoza. Il 24 giugno - anniversario di Solferino - l'Arciduca Alberto attacca. La Marmora dispone di 120.000 uomini, ma se ne è portati solo 50.000. L'Arciduca Alberto ha 75.000 uomini, e se li è portati tutti. Italia e Austria iniziano a battagliare, tra il Mincio e l'Adige.


Come al solito, come in tutte le guerre precedenti, nessuno di questi Generali è poi così bravo, nessuno sa gestire eserciti così grandi, e entrambi procedono a sensazioni, a intuito, diciamo pure a caso. La battaglia è un susseguirsi di azioni slegate, a Custoza e nei villaggi là intorno. Fa un caldo da morire, in senso letterale: i soldati muoiono di sincope, con i loro cappotti di lana, la divisa dell'epoca. Non ci sono viveri e gli austriaci premono. Non funziona niente e succede di tutto.
 
C'è l'episodio del quadrato di Villafranca, celebrato a lungo perché coinvolge il battaglione italiano in cui c'è il Principe Umberto, che resiste strenuamente "in quadrato" all'attacco della cavalleria nemica. Il fatto troverà la sua versione letteraria nel libro "Cuore" di Edmondo De Amicis. Il papà di Coretti smania per incontrare il Re, in visita a Torino, ma i poliziotti non lo lasciano passare. "Io ero nel 4° Battaglione del 49° Reggimento a Custoza!", grida l'uomo, e allora il cordone si allenta e gli permette di andare, perché quello era il Battaglione del Principe. De Amicis offre pure una vivace narrazione della carica della cavalleria austriaca e della resistenza italiana. "Ah! i demoni scatenati! Ci vennero addosso come l'ira di Dio, ci vennero. Giravano tra i gruppi, i quadrati, i cannoni, che parevan mulinati da un uragano, sfondando ogni cosa. Era una confusione di cavalleggeri d'Alessandria, di lancieri di Foggia, di fanteria, di ulani, di bersaglieri, un inferno che non se ne capiva più niente. Io intesi gridare: - Altezza! Altezza! - vidi venir le lancie calate, scaricammo i fucili, un nuvolo di polvere nascose tutto ... Poi la polvere si diradò ... La terra era coperta di cavalli e di ulani feriti e morti. Io mi voltai indietro, e vidi in mezzo a noi Umberto, a cavallo, che guardava intorno, tranquillo, con l'aria di domandare: - C'è nessuno graffiato dei miei ragazzi? - E noi gli gridammo: - Evviva! - sulla faccia, come matti. Sacro Dio che momento!".

Grande carica della cavalleria austriaca a Villafranca, dunque, con le forze italiane di fanteria disposte "in quadrato", ammucchiate, con le baionette in fuori, a respingere eroicamente l'assalto per l'intera giornata. Questa, almeno, la versione ufficiale. Poi si scopre che l'Arciduca Alberto aveva soltanto un reggimento di ulani - circa 300 uomini - spedito contro due Divisioni italiane di 20.000 uomini. Ventimila contro trecento. Ventimila soldati, fermi per un giorno intero, "in quadrato", con trecento ulani intorno, al galoppo, che gli urlano di tutto in polacco. Questa è la straordinaria resistenza italiana.


Dall'altra parte gli austriaci passano. Qualche reparto italiano cede, qualche altro si dà alla fuga. Non c'è da biasimarli. Nessun soldato ha voglia di farsi ammazzare, quando capisce che le cose si son messe male, e possono solo finire peggio, perché i comandanti hanno le idee confuse. L'esercito italiano crolla, scappa. Spiace dirlo, ma il primo a fuggire è proprio La Marmora. "Che disfatta, che catastrofe, nemmeno nel '49", commenta con i suoi aiutanti di campo. Corre al ponte di Goito, per organizzare la ritirata. E' così abituato a perdere, da non vivere la sconfitta come un trauma. Abbiamo perso, d'accordo, ma adesso conta solo ritirarsi in ordine, perciò corro a vedere che i ponti siano a posto.
 
La Battaglia di Custoza è andata così: l'Italia ha perso e l'Austria ha vinto, senza che nessuno abbia avuto presa sugli eventi. Semplicemente gli austriaci avanzavano e gli italiani scappavano. Il bilancio rimane pesante: 7.000 perdite per gli italiani, 8.000 per gli austriaci, all'incirca il 15% delle forze in campo. E' stata una vera battaglia.

E ora c'è un problema: un esercito stroncato per il 15%, in cui tutti i soldati sanno di aver preso una sonora sberla, non lo riporti a combattere il giorno dopo così facilmente. Questa è una caratteristica delle battaglie dell'Ottocento: non serve distruggere fisicamente un esercito, per dire di averlo pesantemente battuto. Quando un esercito è rimasto sul campo di battaglia per un giorno intero, e è stato sistematicamente respinto con numerose perdite, non combatterà più finché non lo si farà rifiatare e riposare.

Bisogna ritirarsi, dunque, e così l'esercito italiano ripiega dietro il Mincio. Il 25 giugno La Marmora fa saltare i ponti sul Mincio e arretra dietro l'Oglio. Desolazione, sconforto, scoramento. Re Vittorio Emanuele è l'unico a non aver capito. Oggi è andata così, pazienza, ma domani torniamo alla carica e gli diamo una bella bottaLa Marmora lo riporta alla realtà. Maestà, abbiamo perso, ci ritiriamo.

Cialdini? Che fine ha fatto Cialdini? Non doveva passare il Po col suo esercito, per attaccare gli austriaci alle spalle? Queste sono ancora battaglie in vecchio stile, combattute alla vecchia maniera, coi battaglioni ammassati "in linea" e "in quadrati", e però beneficiano pure delle moderne tecnologie di comunicazione. C'è il telegrafo, che fornisce notizie in tempo reale, già nel corso delle battaglie. Il 24 giugno il Re aveva mandato un primo telegramma a Cialdini, per ordinargli di passare il Po. Noi  siamo impegnati qua con gli austriaci, e non sappiamo come andrà, ma tu passa il Po, e prendili alle spalleCialdini era rimasto serafico. Passerò il Po domani, come previsto. Quella sera stessa il Re manda un nuovo telegramma. Abbiamo perso. Perdite immense. Molti Generali feriti. Dato ordine ripassare Mincio.
 
Cialdini riceve la comunicazione e non è più così sicuro di voler passare il Po. Telegramma di Cialdini al Re: "Risultato battaglia oggi è grave e mi pone in grande perplessità". E - già che c'è - prova a strappare un autorevole consenso sull'opportunità di arrestarsi. Telegramma di Cialdini al Ministro della Guerra: "Disastro accaduto sul Mincio cambia molto situazione. Passando domani Po temo compromettere sorti Italia, Dinastia. Vostra signora che ne pensa?". Non conosciamo la risposta del Ministro, ma sappiamo che Cialdini rimane fermo. La Marmora - brav'uomo - gli manda un altro telegramma: "Stia allerta. Stato armata deplorabile". E Cialdini - a quel punto - non solo rinuncia a passare il Po, ma addirittura indietreggia, ripiega a Bologna. Telegramma di Cialdini: "Dopo disastro di ieri sarebbe follia pensare passaggio Po. Ciò comprometterebbe sorti Paese, Dinastia. Dati ordini per concentrarmi verso Bologna". La sola battaglia di Custoza - persa, d'accordo, ma senza compromettere la superiorità numerica - è stata sufficiente a far rintanare l'intero esercito italiano: La Marmora è dietro l'Oglio, Cialdini è a Bologna senza aver mai visto un soldato austriaco.

C'è di peggio. La Marmora ha perso di credibilità, non ha più autorevolezza. Alla notizia del ripiegamento su Bologna, La Marmora - Comandate in capo - rivolge a Cialdini - formalmente subordinato - una supplica più che un ordine: "La prego caldamente di non abbandonare il Po". Cialdini abbandona il Po, La Marmora presenta le dimissioni, il Re le rifiuta. La Marmora propone di passare il comando a Cialdini e il Re rifiuta ancora. La Marmora rimane a capo dell'esercito, Cialdini continua a far quel che vuole.

 Lettera del 12 agosto 1866 (fine della Terza Guerra di Indipendenza), 
da Larino (Campobasso) a Forlì (ospedale militare).
Il destinatario è Emilio Altobello,
Armata del Po - IV corpo d'armata (Generale Cialdini),
17a Divisione di Linea (Maggiore Generale Cadorna),
Brigata "Granatieri di Toscana" (Generale Diana),
8° Reggimento Granatieri, 3° battaglione, 12a compagnia.
Alla storia (postale) della Terza Guerra di indipendenza
è dedicato il sito internet "La posta del 1866" di Dario
 
Ma l'area italiana è solo il fronte meridionale del conflitto (e per fortuna, ché altrimenti sarebbe un dramma, con tutto l'esercito austriaco concentrato sul confine italiano). L'esercito austriaco, quello vero, è in Boemia, e in Boemia sono entrati i prussiani. E' il 3 luglio, e in un posto chiamato Sadowa si combatte la battaglia decisiva, in cui i prussiani sbaragliano gli austriaci. Il 4 luglio Francesco Giuseppe invia un telegramma a Napoleone III per proporre la cessione del Veneto all'Italia, purché l'Italia esca dalla guerra. Francesco Giuseppe ci spera, Napoleone ci starebbe. Avvertono La Marmora. Discutiamone. L'Italia accetterebbe pure, ma la Prussia la diffida dal siglare una pace separata. I prussiani non vogliono solo vincere. Ambiscono a stravincere. Vogliono entrare a Vienna, e a Vienna avrebbero voluto stringere la mano agli italiani. Ora hanno capito che gli italiani a Vienna non ci arriveranno, e pazienza, ma che rimangano almeno sul campo di battaglia, per la miseria! L'Italia, d'altra parte, ha voglia di riscattarsi, vuol segnare almeno un punto, e le possibilità non le mancherebbero.

C'è Garibaldi, con i suoi 40.000 volontari, che pur malandato sta avanzando verso il Trentino. Gli austriaci hanno il terrore di quel che Garibaldi potrebbe combinare sulle montagne, e gli hanno opposto le truppe migliori e i Generali più bravi. Garibaldi sostiene qualche combattimento, avanza di poco, poi viene ferito un'altra volta e anche lui deve fermarsi.

CialdiniCialdini ha ripreso slancio, dopo svariati giorni di riflessione. Forse ora potrei avvicinarmi al Po. Però - accidenti! - c'è una posizione fortificata austriaca a Borgoforte, proprio lì sul Po. Bisogna assediarla e prenderla, e poi passeremoCialdini programma l'assedio di Borgoforte. Trova pure il tempo di scrivere a La Marmora - suo superiore - pregandolo di non muoversi dall'Oglio, di non andarsene in giro a prendere altre batosteLa Marmora gli risponde entusiasta: "Credo convenientissimo che lei passi subito il Po". E finalmente Cialdini passa il Po. L'11 luglio entra a Rovigo, e non sarebbe messo male, se non fosse che rallenta e si guarda intorno preoccupato. L'Arciduca Alberto sarà da qualche parte col suo esercito - e chissà dove: Mantova? Verona? Vicenza? - e conviene andarci cauti. Cialdini si ferma.

Si fermano tutti, anche perché adesso si son ricordati: c'è la flotta! Tutti confidano nella flotta: le forze di mare regaleranno all'Italia quelle soddisfazioni che sinora sono mancate sulla terra ferma.

La "Re d'Italia" affonda, dopo lo speronamento della Erzherzog Ferdinand Max.

La flotta italiana è arrivata ad Ancona il 25 giugno, al comando dell'Ammiraglio Persano. E' più forte della flotta austriaca e perfettamente attrezzata per sbarazzare l'Adriatico dalle navi nemiche. Il 25 giungo la flotta di Persano è ad Ancora, e due giorni dopo, il 27, la flotta austriaca esce in mare al comando dell'Ammiraglio Tegetthoff, per posizionarsi proprio ad Ancona, come a dire venite fuori, se avete coraggioPersano non esce. Gli austriaci girano un po' intorno ad Ancona, e poi rincasano.
 
 
Il Governo italiano - in teoria - dovrebbe preoccuparsi per l'inerzia di Persano. Ma il Governo - in pratica - è il primo a esser angosciato dalla possibile perdita delle proprie navi, la "Re d'Italia" e la "Palestro", nuove e costosissime, costruite con sacrifici immensi. Perciò Persano fa bene a rimanere fermo, a non prendere rischi. "Mantenere una vigile e minacciosa difensiva" è il buffo ordine che gli impartisce il Ministro della Marina.

Ma tra un po' i prussiani arriveranno a Vienna, la guerra sarà finita, e l'Italia non avrà conquistato nulla. Bisogna fare qualcosa, qualunque cosa, purché si faccia.

Il 14 luglio, a Ferrara, un Consiglio di Guerra delibera la destituzione di La MarmoraCialdini prenderà il comando di 14 Divisioni sulle 20 disponibili, e d'ora in poi sarà lui, Cialdini, il punto di riferimento dell'esercito. Riceve l'ordine di marciare sull'Isonzo, di proseguire verso Lubiana, poi da Lubiana a Trieste, sino ad arrivare a Vienna.

Anche l'Ammiraglio Persano riceve stavolta un ordine preciso: attaccare entro otto giorni, altrimenti sarà destituito. E' il 14 luglio, e Persano aspetta sei giorni prima di muoversi, nella speranza di un contrordine. Esce da Ancona soltanto il 20 luglio e conduce la flotta sulle coste croate, nei pressi di un'isoletta chiamata Lissa, dove lo aspetta la flotta austriaca di Tegetthoff.

Intorno alla Battaglia di Lissa ci sono molti fatti accertati, numerosi punti ancora oscuri, e soprattutto un bel carico di leggende.
 
La credenza più amata è che sia stata l'ultima battaglia navale tra genovesi e veneziani, perché la squadra italiana è fatta di soldati genovesi e napoletani e la squadra austriaca possiede ancora la flotta di San Marco. Per molti versi è vero - il Veneto è austriaco e sulle navi austriache si possono dare ordine in dialetto veneto - ma se si guarda l'elenco delle perdite si scopre che i marinai sono per lo più croati, e pure i giornali italiani, in prossimità dello scontro, enfatizzano la diversa etnia, con articoli di sapore razzista: "Perché dovremmo aver paura della flotta austriaca? E' fatta di marinai croati, e si sa che ai croati l'acqua non piace, basta vedere che non si lavano mai!".

C'è poi un tecnicismo di particoalre interesse: che oggetti sono le navi da guerra nel 1866? Siamo in un periodo di veloce evoluzione della tecnologa. Le Marine militari hanno appena digerito la novità del vapore, per cui le navi da guerra sono navi a vapore, e i velieri, che pur continuano a esserci, stanno uscendo di scena. I militari stanno ancora familiarizzando con le navi a vapore, quando sbuca fuori un'altra novità: la corazzata. Quattro anni prima, in una baia della Virginia, nel mezzo della guerra civile americana, sudisti e nordisti hanno sperimentato delle navi di legno interamente coperte da piastre d'acciaio - le corazzate, appunto - e tutte le flotte al mondo sono di colpo diventate obsolete, perché una corazzata affonda tutti i velieri di legno, senza neppure scalfirsi. Tutti hanno iniziato a costruire corazzate - a vapore e a vela - anche se nessuno sa bene cosa siano, e nessuno le abbia mai governate in una vera battaglia.

La Battaglia di Lissa è un'altra battaglia confusa, proprio perché nessuno sa come gestire queste poderose macchine da guerra. Nessuno sa gestirle per come dovrebbero essere gestite, però gli austriaci le gestiscono meglio degli italiani. Persano impartisce ordini e i suoi comandanti di squadra non li eseguono. Gli austriaci vengono sotto. Si spara da una parte e dall'altra, e gli austriaci sparano meglio. Persano abbandona la corazzata per spostarsi su un'altra nave. Ha capito così poco della guerra navale del futuro, da illudersi che lo speronamento sia il modo migliore per affrontare il nemico. Ci sono addirittura delle navi chiamate arieti - la più bella è stata battezzata "Affondatore" - costruite proprio per investire le navi nemiche sulla fiancata, bucarle e affondarle. Persano sposta il comando su questa meraviglia di nave, ma non avverte i suoi superiori, che non sanno più dove trovarlo. Il combattimento prosegue. Gli austriaci continuano a sparare meglio. Subiscono gravi perdite, ma mettono fuori gioco le corazzate italiane, che affondano con i loro capitani e quasi tutto l'equipaggio. L'Italia alla fine segna due corazzate in meno e registra più di 600 morti. Gli austriaci hanno la flotta ancora intatta, e meno morti e feriti. Rientrano tutti in porto.
 
Tegetthoff, avendo vinto, torna alla base. Persano rimane in mare ancora un po', e poi spedisce un telegramma. Abbiamo combattuto una grande battaglia e siamo rimasti padroni delle acque. L'Italia esulta. Grandi festeggiamenti, suono ininterrotto di campane e titoloni sui giornali. Ma quando Persano torna ad Ancona, e gli chiedono dove siano la "Re d'Italia" e la "Palestro", gli tocca ammettere la disfatta. Le corazzate sono affondate. Ah, però! E gli austriaci quante ne hanno perse? NessunaPersano viene destituito e mandato sotto processo (sarà fortunato a non esser fucilato). L'Italia ha messo in collezione un'altra figura tremenda. I prussiani osservano sconsolati. Vi abbiamo lasciato giocare. Adesso basta. Noi abbiamo finito, la guerra è finita.


Ci sarebbe ancora una speranza: Garibaldi. Siamo nella seconda metà di luglio, e il Generale è alle porte di Trento. Ha molti uomini, e gli austriaci sono pochi. Quei pochi, però, sono anche molto bravi. Attaccano Garibaldi al comando di Kuhn von Kuhnenfeld, e hanno la meglio. Un migliaio di garibaldini finiscono prigionieri degli austriaci. Nessuno ci sarebbe riuscito una volta, ma Garibaldi non è più quello della Seconda Guerra di Indipendenza o della "Spedizione dei Mille". Però la stoffa del condottiero c'è ancora, e il talento alla fine vien fuori. Garibaldi ci mette una pezza, evita il disastro e obbliga Kuhn alla ritirata. E' la vittoria di Bezzecca, celebrata da un Regno che aveva così bisogno di una vittoria da non accorgersi del suo prezzo esorbitante: Garibaldi ha perso 1.400 uomini, gli austriaci appena un centinaio.

Il 3 luglio, a Sadowa, i prussiani avevano annientato gli austriaci e erano ormai a un passo da Vienna. All'Imperatore Francesco Giuseppe non parve vero di firmare un'armistizio prima della debacle. La guerra sarebbe finita, in teoria, ma l'Italia tentenna nel siglare la pace, perché ancora convinta di poter strappare qualcosa al nemico. Sarebbe un successo se Garibaldi arrivasse a Trento prima della fine ufficiale delle ostilità. Ai prussiani sale in sangue agli occhi: firmate, basta, è finita! L'Italia se ne fa una ragione: continuare non conviene a nessuno. Il 9 agosto Garibaldi è alla porte di Trento, quando riceve il telegramma che gli intima di fermarsi. La guerra è finita. Torna indietro. Di Trento ne riparleremo un'altra volta. Risponde con una sola parola: "Obbedisco".

Il celeberrimo telegramma del Generale Giuseppe Garibaldi.

La guerra è finita. Nel trattato di pace la Prussia ha la gentilezza di obbligare gli austriaci a cedere il Veneto, ma l'Austria impone la condizione - umiliante - di passare attraverso a mediazione di Napoleone III. The same old story, è sempre la stessa, vecchia storia.
 
Rimane l'ultimo passo, la solita formalità, la solita farsa: il plebiscito. Come ci si preparò all'evento ce lo racconta Gigi Di Fiore.
 
"Tre milioni. Erano gli abitanti del Veneto, i nuovi italiani da unire presto agli altri. Nonostante le sconfitte. Come era avvenuto con la Lombardia, anche questa volta l'Austria cedeva la provincia alla Francia. Sarebbe stato l'imperatore Napoleone III, come aveva fatto sette anni prima, a girare poi il Veneto all'Italia. [...]. Il governo italiano incaricò il generale Giovanni Genova Thaon di Revel di occuparsi di tutti i  passaggi per mettere le mani sulla nuova provincia. Il conte Thaon di Revel aveva ben lavorato a Napoli, poteva curare la transizione anche a Venezia. [...]. Il Ministro della Guerra, Efisio Cugia, avvertì Thaon di Revel che doveva muoversi in punta di piedi, per non urtare alcuna suscettibilità: quella dei veneti, quella del comandante dell'esercito, Enrico Cialdini, quella di francesi e austriaci. Una vera e propria missione diplomatica. [...]. Thaon di Revel si trovò di fronte a problemi già visti: garibaldini che avevano combattuto nelle settimane precedenti, con richieste di denaro; veneti che accampavano pretese patriottiche e chiedevano riconoscimenti; impiegati in cerca di nuove occupazioni. Le stesse difficoltà affrontate ad Ancona e Napoli. [...].

Era evidente che, ancor prima della solita farsa del plebiscito, Thaon di Revel si muoveva già come luogotenente governativo. Bisognava prendere decisioni amministrative, evitare disordini e l'ingresso delle truppe doveva di certo precedere il voto dei veneti. Ma la Francia inventò un sotterfugio, per nascondere che la cessione si faceva prima di sentire la volontà popolare: la provincia sarebbe stata consegnata dal commissario di Parigi a tre notabili locali. Come a dire: i veneti ritornavano padroni della loro terra. Ma l'ipotesi era guardata con sospetto da Ricasoli, che temeva rigurgiti di autonomia: bisognava calibrare i nomi dei tre notabili, far loro capire che il passaggio rappresentava solo un escamotage formale. Per ingraziarsi i nobili e i potenti locali, Thaon di Revel usò la solita arma: lusinghe e promesse di incarichi e onorificenze. [...].

Ma finalmente si arrivò al momento formale della cessione del Veneto all'Italia. Il 16 ottobre, il commissario Thaon di Revel trovò nella sua camera d'albergo 1300 copie di un manifesto reale che annunciava il plebiscito. Prestampati pronti, che crearono una situazione di fatto ignorata dai francesi. Come al solito, il commissario Leboeuf apprese la notizia da un giornale. Era il 17 ottobre. Urlò, protestò, irruppe nell'appartamento italiano parlando di violazione del trattato e insulto alla Francia: la considerava un'estromissione di fronte al fatto compiuto, quando ancora non era stata siglata la cessione. Il governo italiano, imbarazzato, fu costretto a precisare che non era stato ancora pubblicato alcun decreto sul plebiscito del Veneto. Ma naturalmente non era quella la verità: il regio decreto portava addirittura la data del 7 ottobre e fissava le giornate del voto per il 21 e 22 di quel mese. Inoltre, i manifesti erano stati già affissi in tutta la provincia di Treviso e 1300 copie erano pronte anche per l'area di Venezia. La protesta francese si fece più vivace. Così Thaon di Revel fu costretto a scusarsi con il commissario francese, parlò di ritardo ingiustificato dell'Austria nel passaggio di consegne alla base delle incomprensioni e rassicurò Leboeuf: il plebiscito sarebbe stato convocato solo dopo la cessione effettiva dalla Francia all'Italia. [...].

Il Veneto, antica sede della Repubblica di Venezia, territorio austriaco da decenni, si apprestava a essere ceduto all'Italia, che aveva fatto poco sul campo di battaglia per meritare quella conquista. Sarebbe bastata una semplice camera d'albergo, per rendere tutto ufficiale. Thaon di Revel poteva telegrafare al ministro della Guerra, Efisio Cugia: 'Domani alle 8, senza alcuna solennità, nell'alloggio di Leboeuf, si farà cessione Venezia retrocessione ai Notabili'.

Alle 7 del mattino del 19 ottobre 1866, in una camera dell'albergo Europa, il generale Moering firmò la cessione al generale Leboeuf. Testimoni il barone Alemann, generale d'artiglieria, e il cavaliere Gaspari, facente funzioni di podestà. Alla Francia veniva consegnato il 'Regno del Lombardo Veneto'. Solo allora, quindi, Vienna considerava definitivamente persa anche la Lombardia, diventata italiana nel 1859 senza alcun plebiscito: era stata ritenuta valida la votazione del 1848 a favore dell'annessione al Piemonte di Carlo Alberto. [...].

Dopo trenta minuti, la cessione passò ai notabili veneti [che], insieme con i loro colleghi dell'amministrazione comunale, avevano già pronta una lettera in cui rimettevano il loro incarico nella mani del rappresentante italiano. Era l'implicita cessione del Veneto, con dimissioni che rendevano privi di autorità formale gli assessori in carica e aprivano la strada alla volontà popolare del plebiscito. Un capolavoro di arguzia, che aveva superato tutto quello che si era già visto in Toscana, o nella Due Sicilie. Diceva il documento dei notabili e assessori Gaspari, Grimani, Visinoni e Giustiniani Recanati: 'Cessata definitivamente la dominazione straniera, i sottoscritti si fanno un dovere di deporre nella mani di V.E. il mandato già loro conferito di assessori municipali.

Thaon di Revel rispose ringraziando e subito sostituì i dimissionari con persone più vicine al governo di Firenze, elette dal consiglio comunale di qualche giorno prima [...]. I passaggi erano tutti studiati nei dettagli: la nuova giunta venne ricevuta dal commissario francese, che rimetteva nelle mani degli amministratori freschi di nomina il Veneto. Era la ulteriore farsa della 'cessione della Venezia a se stessa'.

La 'Gazzetta di Venezia' non fu benevola nell'annunciare il fatto compiuto. Titolò: 'Questa mattina, in una camera dell'albergo d'Europa, si è fatta la cessione del Veneto'. In piazza San Marco, poco prima delle 9 del 19 ottobre, con la guardia nazionale schierata a quadrato, vennero issate le bandiere italiane. Da Pollenzo il Re telegrafò: 'L'Italia è una e libera; sappiano ora gli italiani difenderla e conservarla tale'. Ci furono feste e telegrammi. Eppure, l'annessione era ancora priva dell'atto notarile della cosiddetta volontà popolare: il plebiscito".

"L'Italia è fatta. Venezia si concede, Roma non ancora,
mentre il Sud e Torino forse hanno già cambiato idea".



Lettera del 12 febbraio 1867 scritta dall'Onorevole Giacinto Pellatis,
eletto dopo l'annessione del Veneto del 1866 e deputato per tre legislature.
 La lettera è indirizzata al sindaco di Vittorio,
come era stata ribattezzata la cittadina veneta di Ceneda
dopo l'unione col comune di Serravalle nel 1867
(e diventerà poi Vittorio Veneto nel 1918).
Al verso della busta c'è ancora il timbro d'arrivo austriaco,
col vecchio nome di Ceneda scalpellato.
e l'autore ne prevedeva la caduta in sede parlamentare.
Ricasoli se la cavò poi con un semplice rimpasto.
"Sembra storia dei nostri tempi",
mi scrive il collezionista possessore dell'interessante documento.
 
Il veleno - per tradizione - è nella coda, il peggio arriva sempre alla fine.
 
L'umiliazione della Terza Guerra di Indipendenza provocò un trauma nell'opinione patriottica. Il Regno d'Italia - al suo battesimo sul campo di battaglia - aveva confermato il più avvilente degli stereotipi, il tormento degli intellettuali del Risorgimento: gli italiani non sanno combattere. E dietro all'incapacità bellica si intravedeva una fragilità sociale di ben altra portata, impietosamente fotografata da Pasquale Villari in "Di chi è la colpa? O sia la pace e la guerra":

"Bisogna che l'Italia cominci col persuadersi, che v'è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell'Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocrati macchine, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l'operaio inesperto, l'agricoltore patriarcale, e la rettorica che rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi".

Sfrondiamo la lucida e crudele conclusione di Villari - anno 1866 - da quei minimi elementi di contesto, e ne avremo una diagnosi che potremmo riproporre intatta ancora oggi, anno 2021.

"Bisogna che l'Italia cominci col persuadersi, che v'è nel seno della nazione stessa un nemico ... ed è la nostra colossale ignoranza, ... le moltitudini analfabete, i burocrati macchine, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l'operaio inesperto, l'agricoltore patriarcale, e la rettorica che rode le ossa".
 
"Povera patria
schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos'è il pudore...
Tra i governanti
quanti perfetti e inutili buffoni...
Nel fango affonda lo stivale dei maiali,
me ne vergogno un poco e mi fa male...
La primavera intanto tarda ad arrivare".

Commenti

  1. "E in quell'anno [1866] l'Italia ebbe inoculato il disonore: cioè la diffidenza e il disprezzo fremente di se stessa, il discredito e il disprezzo sogghignante delle altre nazioni. Sono acerbe parole quelle che io scrivo, lo so. Ma anche so che per un popolo che ha nome dall'Italia non è vita l'esser materialmente raccolto e su' l rifarsi economicamente, e non avere né un'idea, né un valore politico, non rappresentare nulla, non contar nulla, essere in Europa quello che è il matto nel giuoco de' tarocchi: peggio, essere un mendicante, non più fantastico né pittoresco, che di quando in quando sporge una nota diplomatica ai passanti sul mercato politico, e quelli ridono: essere un cameriere che chiede la mancia a quelli che si levano satolli dal famoso banchetto delle nazioni, e quasi sempre, con la scusa del mal garbo, la mancia gli è scontata in ischiaffi. Quando sarà promosso a sensale o mezzano? La gloria delle storiche città è sostenuta dai ciceroni e da gente di peggior conio. Le più belle fra esse sospirano al titolo e alla fama di locande e di postriboli dell'Europa. E la plebe contadina e cafona muore di fame, o imbestia di pellagra o di superstizione, o emigra. Oh menatela almeno a morire di gloria contro i cannoni dell'Austria o della Francia o del diavolo che vi porti!".

    (Giosuè Carducci, "Confessioni e Battaglie", Serie Terza, Roma, Casa Editrice A. Sammaruga, 1884, pp. 62-63).

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  2. Nel corso di un viaggio transoceanico del 1884, lo scrittore italiano Edmondo De Amicis incontra un uomo dai tratti molti simili a quelli dei Mille. Lo interroga e scopre che ha fatto davvero quella campagna e anche la successiva del 1866, ma ha poi avuto una reazione di rigetto verso la nazione che ha contribuito ad unificare. In un breve incontro sul ponte l’ex garibaldino traccia un quadro impietoso dell’Italia post-unitaria.

    “Egli scrollò le spalle. Poi, senza preamboli, col tuono di chi parla per liberarsi una volta per sempre da un importuno, più che per bisogno di confidarsi a lui, aperse l’animo suo con poche parole rapide e secche. Nemmeno lui rimpiangeva la patria, infine. Essa era riuscita troppo al di sotto dell’ideale per cui s’era battuto. Un’Italia di declamatori e d’intriganti, appestata ancora di tutta la cortigianeria antica, idropica di vanità, priva d’ogni grande ideale, non amata né temuta da alcuno, accarezzata e schiaffeggiata ora dall’uno or dall’altro, come una donna pubblica, non forte d’altro che della pazienza del giumento. Dall’alto al basso non vedeva che una putrefazione universale. Una politica disposta sempre a leccar la mano al più potente, chiunque fosse; uno scetticismo tormentato dal terrore segreto del prete; una filantropia non ispirata da sentimenti generosi degli individui, ma da interessi paurosi di classe. E nessuna salda fede, nemmeno monarchica. Dei milioni di monarchici, incapaci di difendere prodemente, a un bisogno, la loro bandiera, pronti a mettersi a pancia a terra davanti al berretto frigio, appena lo vedessero in alto. Una passione furiosa in tutti d’arrivare, non alla gloria, ma alla fortuna; l’educazione della gioventù non rivolta ad altro; ciascuna famiglia mutata in una ditta senza scrupoli, che batterebbe moneta falsa per far strada ai figliuoli”.

    Quanto riporta De Amicis gli è stato forse effettivamente detto nel 1884, o forse è una chiosa aggiunta cinque anni più tardi, ma in ogni caso il discorso del suo garibaldino è un topos della memorialistica di quel decennio… e di sconcertante attualità.

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