ELOGIO DELLA BELLEZZA


La bellezza sembra evocare un'idea familiare. Ogni giorno, nei contesti più svariati, formuliamo di continuo giudizi sul bello (e sul brutto) senza precisare altro. Parliamo del bello come di un fatto auto-evidente - pur nella varietà di gradi e sfumature - e nel parlarne presumiamo di richiamarci a un sentire comune, a un sentimento largamente condiviso. Non sembra giustificato attendersi molto di più.

Ma la bellezza porta con sé aporie e paradossi, già visibili nel contrasto tra la vivacità e l'immediatezza della percezione e l'impossibilità di comunicarla in modo appropriato: tutti parlano di bellezza, tutti sono convinti di sapere cosa sia, ma nessuno riesce a spiegarlo in un modo soddisfacente anche per altri.

E' facile stupirsi di fronte alla bellezza ed è naturale entusiasmarsi per questo stupore. Molto più complicato è riflettere sulle sensazioni immediate, renderle consapevoli, risalire dal fenomeno al suo fondamento, per tematizzare il concetto, definirlo con precisione teoretica, chiarirne la portata.

Ogni definizione formale di bellezza è condannata a toccare gli estremi, senza costrutto: misera e generica, o inutilmente articolata e dettagliata, in ogni caso incapace di trasmettere con chiarezza il significato. Si oscilla tra eccessi di rigidità, convenzioni arbitrarie e opinioni contraddittorie, impantanati in primitive superstizioni verbali.

Bello! - così - scade in un'esclamazione di generica approvazione, come un fischio davanti a qualcosa di attraente. Riduzionismi, ambiguità, pensiero debole, relativismo ingenuo. La bellezza è ridotta all'oggetto dell'attrazione, e siccome ognuno è attratto da realtà diverse, se ne conclude l'impossibilità di definire uno standard, un canone. Se non possiamo chiarificare la bellezza, se non si sa cosa essa sia, allora tutto - e perciò niente - può essere giudicato bello: "il bello è brutto e il brutto è bello", dicono le streghe di Macbeth.

Eppure tutti abbiamo una predisposizione naturale a fare esperienza del bello, a esser guidati da questa esperienza in ogni scelta della vita, e il bisogno di bellezza è paradossalmente tanto più acuto proprio là dove la si degrada o dove l'incapacità di riconoscerla ne provoca l'oblio.
 
Da dove proviene l'esigenza di estetizzare il mondo? Cosa ci si ricava sul piano della speculazione intellettuale? Cosa ne viene in termini di conoscenza? L'esperienza estetica è davvero esperienza di qualcosa?


C'è tutta una filosofia, un filone di pensiero, che non disconosce la bellezza, ma le nega qualsiasi valore positivo, non le assegna alcun ruolo costruttivo.

Il desiderio di estetizzare il mondo sarebbe solo un tormento, un'istanza tirannica, un'autocritica immotivata. La voglia di bellezza - la frenesia per l'oggetto integro, delicato e fragile, ma immutabile - sarebbe solo una protezione magica rispetto ad angosce profonde - impotenza, solitudine, ignoranza, mancanza d'amore -, uno specchio ingannatore a cui si chiede di restituire l'immagine di una perfezione perduta o mai posseduta. La bellezza - sotto la sua parvenza rassicurante - non sarebbe altro che un'adescatrice di coscienze, a ogni momento pronta a trascinare verso un confronto truccato, da cui si esce invariabilmente perdenti.

Eppure tutto ciò che ci rende umani inizia proprio dalla bellezza. Non vi è scienziato, artista o filosofo che non abbia iniziato da lì, dalla bellezza, per ispirarsi nella sua indagine sul fondamento delle cose del mondo, per trarne scoperte immortali. "Le forme create dal matematico, come quelle create dal pittore o dal poeta, devono essere belle; le idee come i colori o le parole, devono legarsi armoniosamente. La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c'è posto permanente per la matematica brutta". Così il matematico Godfrey Harold Hardy, un'autorità in fatto di Teoria dei Numeri, quella Teoria dei Numeri che - nelle parole del princeps mathematicorum Carl Friedrich Gauss - è "la regina della matematica", quella matematica che è a sua volta "la regina delle scienze".

L'alba, il tramonto, i riflessi del sole sul mare, la campagna brulla, la forma delle nuvole e il cielo stellato, ma anche l'inatteso gesto atletico del campione, le magie del prestigiatore, lo stupefacente "Ultimo Teorema di Fermat" e la potenza di una pagina della "Divina Commedia". Come accade? Come ha fatto? Cosa lo rende possibile? Spesso la vita si spegne per la prolungata assenza di questi rapimenti. Affaticati dalla routine, dai piccoli e grandi problemi di ogni giorno, dalle brutture vomitate da internet, perdiamo il contatto con la bellezza, e con essa il significato delle cose.



La bellezza è uno stato dell'anima: "il senso estetico è l'intelligenza del cuore", nel fulminante connubio di James Hillman.

La bellezza evoca il dolore e la meraviglia, situazioni emotive che non contemplano le parole, che accelerano i battiti del cuore e lasciano inattivi, in una condizione di stupore. Ma la bellezza è anche intelligenza, è il sostrato dell'esperienza che fornisce quelle reazioni - stupore, meraviglia - da cui scaturisce la fascinazione che dà inizio alla conoscenza.

La bellezza è il più potente richiamo verso il significato delle cose del mondo, perché è dal coinvolgimento estetico che si sviluppa la passione per la conoscenza, è l'impatto con la bellezza che dà origine alla curiosità per ciò che si può trovare dietro l'oggetto.

La bellezza non è un attributo, una proprietà o una qualifica, che un oggetto possiede o non possiede, in una misura da determinare. La bellezza è una base inalienabile per la curiosità e l'interesse. La bellezza è una necessità epistemologica.

                            





La percepita instabilità della bellezza è l'inevitabile conseguenza della sua ingenua riduzione a una proprietà fisica dell'oggetto, laddove l'autentica bellezza scaturisce dall'interazione tra due enti, il soggetto e l'oggetto. E' un fatto di relazione, non di relativismo. La bellezza dell'oggetto - se riconosciuta - spinge il soggetto (verso lo studio, la ricerca, la scoperta). La bellezza è l'intersezione delle esperienze umane, è una situazione in cui il soggetto percepisce l'oggetto in sintonia col mondo intero (il mondo esterno e il mondo di cose che è dentro di lui).

Il visibile a cui diamo il nome di bellezza non necessita di evocare le categorie della forma o delle relazione tra le forme - l'armonia, la proporzione, la misura, la simmetria - ma sono quelle categorie a imporsi da sole - a esser riconosciute come naturali e a modularsi sulle situazioni specifiche - quando si possiede il dominio di sé nel rapporto col visibile. Possiamo interrogare le categorie della forma affinché ci diano dei dati di fatto come elementi di giudizio, ma la soluzione non è nei fatti. La soluzione è nel nostro stato d'animo, che le categorie della forma non possono vincolare, ma che a quelle categorie può spontaneamente sentirsi vincolato. In questo senso - e solo in questo senso, preciso e ristretto - il giudizio sul bello si sottrae a criteri oggettivi, riferibili esclusivamente alle caratteristiche fisiche dell'oggetto, per chiamare prepotentemente in causa il soggetto, con tutto il suo bagaglio di cultura, di raffinatezza, di educazione (estetica).

Se tutti i modelli di bellezza si rivelano insoddisfacenti, se ogni interpretazione del bello appare riduttiva, è solo perché la bellezza contiene il primo terrificante e meraviglioso incontro con la realtà, che darà inizio all'infinita esperienza del conoscere.




Nel collezionare la bellezza rimane una traccia di reciprocità e vitalità tra la persona e l'oggetto, laddove la collezione seriale baratta il possesso della bellezza con la bellezza del possesso, col trionfo dell'acquisizione al prezzo della scomparsa d'ogni fascinazione. Il collezionismo senza bellezza degrada a un fenomeno di massa parallelo al consumismo. Il collezionista, una volta disancorato dalla bellezza, non sa più dare una forma alle sue fantasie e ai suoi sogni, e i suoi impulsi si scaricano in acquisizioni continue di oggetti-protesi, pezzi di un'identità che spera invano di raggiungere attraverso le cose.

L'oblio della bellezza, non solo oscura l'oggetto pregiato, ma può persino stimolare la ricerca del suo opposto. E' un mercato senza prospettive, senza futuro, che lavora sull'orlo dell'abisso, con atteggiamenti quasi necrofili. L'antiquario e il mercante, l'amatore e il collezionista, cedono il passo  all'ambulante che vende dal baule della macchina, al margine di convegni ufficiali popolati da figure che per colmo d'impostura tentanto di imitarlo, nella qualità delle proposte e nei prezzi praticati. Lo squallore di questi ambienti è evidente e sconvolgente: abbonda il trash, rigurgitano cose che nessuno avrebbe mai voluto comprare, e che tuttavia nessuno dei frequentatori resiste dal comprare, per aggiungere ancora un oggetto all'illusione di una per sé significante, se pur misera collezione.

E questo forsennato accumulare sarebbe forse una strategia conoscitiva, un tentativo di ricostruire il mondo nelle proprie stanze? O non è piuttosto un regressivo, infantile bisogno di "giocare", qualcosa di simile a una collezione di sassi, di quelle che si facevano da bambini per modellare la propria identità, nell'assurda convinzione che ogni cosa del teatro del mondo meriti di esser ricordata?

Quando la bellezza è ridotta all'oggetto storico purchessia, quando il valore simbolico dell'oggetto impone la sua dittatura, si finisce sul serio col pensare che un oggetto vale l'altro. Imporre con violenza il valore della bellezza è l'ovvia reazione all'eccesso di democratizzazione del collezionismo. Esprime l'esigenza di recuperare una strategia, di ristabilire una gerarchia, di ripristinare il cerchio magico conoscitori-antiquari-collezionisti, quel club esclusivo ora rinchiuso in sé stesso, nascosto e silenzioso, diffidente verso gli intrusi, lontano dal palcoscenico dei concorsi, dagli schiamazzi di internet.

Negare il valore della bellezza, azzerare la distinzione tra bello e brutto, significa aprire il varco a negazioni di ben altra portata, vuol dire sminuire la distinzione tra pregiato e comune, tra pieno e vuoto, tra vero e falso.


L'etimologia blinda il valore della bellezza, invoglia a ricercarla con assiduità, conferisce precisione al legame indissolubile tra l'aspetto superficiale e il contenuto morale.
 
Esiste una connessione di idee tra bellobene. Il latino bellus è il diminutivo di un'antica forma di bonus, che salda il bello e il buono in una complicità tra il "fare bene le cose" e "fare le cose belle".
 
La bellezza come sintomo, segno, prognosi di una possibilità: quella di tornare a regalare al mondo una cultura, una speranza, un futuro.


La bellezza è "una gioia per sempre", recita l'Edimione di John Keats, e nell'evocazione della gioia - il più impetuoso e vitale dei sentimenti, fortemente corporeo e insieme profondamente spirituale - c'è una sfida al tempo, l'azzardo di un patto con la permanenza, in cui la bellezza possa dischiudersi e rinnovarsi in eterno.  

La bellezza "accresce il suo fascino e mai nel nulla si perderà", ma al suo fascino serve essere preparati, seppur indirettamente, chiamando a raccolta il meglio di noi.

La bellezza è "rifugio quieto e sonno pieno di sogni dolci", ma è un rifugio da raggiungere, conquistare e proteggere, è un sonno pieno di sogni per chi fa riemergere dal subconscio una rielaborazione coerente della ricchezza delle sue esperienze di vita.  

La bellezza è sacra e profana, turba e consola, ispira e paralizza, e poi riscalda e raggela, e dopo tanto tribolare si mostra finalmente per quel che è: "tranquillo respiro e salvezza".

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