FRATELLI D'ITALIA - Collezionare il Risorgimento


La Matematica rimane inarrivabile. La Matematica è brutta, noiosa, inutiledifficile, incomprensibile, ma soprattutto terrorizza sino a paralizzare, induce una sudditanza psicologica senza eguali, che ne fa un caso unico tra le materie scolastiche. La Matematica è inarrivabile, nella scala del disgusto degli studenti di ogni ordine e grado. La Storia, però, viene subito dopo. Tutte quelle date, quei luoghi, quei nomi, tutti quegli eventi lontani nel tempo, sgranati uno dopo l'altro in un noiosissimo rosario di lezioni, tenute da professori magari anche preparati, ma geneticamente incapaci - come in Matematica - di alleggerire la materia, di colorarla, di farla sentire una cosa viva, frammista alla vita, all'esperienza, ai drammi di ogni giorno.

Eppure noi dipendiamo dall'una come dall'altra, dalla Matematica come dalla Storia. Noi dipendiamo dalla Storia, dalla millenaria stratificazione delle scelte dei politici del passato, dalle alleanze e dai conflitti sui tavoli diplomatici, dalle vittorie e dalle sconfitte sui campi di battaglia, dalle conquiste e dalle cessioni di territori, da una gloria antica che ancora ci esalta, da tragedie remote che ancora ci imbarazzano, dalla resistenza alle sventure che ci ha fatto grandi, dall'arroganza dei successi che ha rivelato la nostra miseria. E poi la Storia è dappertutto, lascia tracce ovunque - nei nomi delle strade, nei monumenti, nelle piazze - a richiamare quotidianamente il passato, a conferirgli un'attualità permanente, perché in fondo quel passato siamo noi, per interposta generazione.

Gli storici - oggi - hanno spogliato la Storia di ogni significato metafisico, trascendente o soprannaturale. Eppure la Storia, come la Matematica, rimane ammanta di poteri simbolici eccezionali. La Storia - per lunga e illustre tradizione - è stata rappresentata come un soggetto autonomo, un'entità dotata di un'esistenza propria, di una sua volontà. Continue allusioni ci suggeriscono che la Storia sia molto più di quella sequela di fatti, azioni e persone, che pure la compongono. La Storia produce, causa, determina, condanna, assolve. Ci sono idee, intenzioni e decisioni che si collocano al di fuori della Storia, oppure al margine della Storia, e altre che sono invece al centro della Storia, che appartengono a un disegno della Storia. La Storia è maestra, levatrice, fucina, laboratorio, motore. E poi c'è il corso della Storia, che richiama il corso del fiume, come se gli eventi, una volta incanalati in una direzione, non possano più ammettere sviluppi diversi da quelli decisi dalla Storia.

Rimane a ogni modo un'ignoranza enorme, in Storia come in Matematica, soprattutto in Italia. Il nostro Paese ignora beatamente il suo passato nazionale. La maggioranza degli italiani non sa una riga in più di ciò che ha imparato a scuola, e meglio sarebbe dire di ciò che la scuola gli ha insegnato, perché è ancora tutto da verificare quel che è rimasto dell'insegnamento scolastico in età adulta.

Controllatelo da voi, se l'affermazione vi sembra esagerata o ingenerosa. Domandate a parenti, amici e conoscenti, non già di darvi una visione critica dell'unità d'Italia - che so io, su come sia stato possibile fondare il processo su quattro figure, Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi, Mazzini, che semplicemente si detestavano l'un l'altro - o di restituirvi un'interpretazione di ampio respiro degli eventi militari e delle loro conseguenze - che so io, il ruolo dell'Inghilterra nella "Spedizione dei Mille", o degli eserciti di Francia e Prussia nelle Guerre d'Indipendenza -, no, ci mancherebbe. Adagiatevi pure sul minimo sindacale, nella vostra interrogazione. Collocatevi a quel livello sotto il quale non è proprio possibile scendere. Chiedete - semplicemente, modestamente, umilmente - di dare una struttura temporale agli eventi del Risorgimento, di disporli in sequenza sulla linea del tempo. Viene prima la Seconda Guerra di Indipendenza o la "Spedizione dei Mille"? La "Presa di Roma" o l'unità d'Italia? Il Veneto o Trento e Trieste? Chiedete, chiedete pure, e sentirete cose che vi faranno piangere d'orrore, se non vi faranno crepar dal ridere.


Siamo smarriti nel presente, scrutiamo con timore il futuro, e ignoriamo allegramente il passato. Viviamo in un continuo oggi, preoccupati del domani, senza badare a ciò che è stato ieri. Il passato sembra superfluo, un di più, schiacciati come siamo tra gli affanni del presente e le incertezze del futuro.
 
Ma è quel di più che fa tutta la differenza tra viver come bruti o seguire virtù e conoscenza, e quel che di più che può funzionare come una lente magica, come un microscopio o un cannocchiale, con cui focalizzare il presente e scrutare il futuro.

(Corriere della Sera, mercoledì 21 agosto 2019)

Perché studiare Storia? Semplicemente perché non abbiamo scelta.

Ogni nostro ragionamento si adagia sulla linea del tempo, e il tempo è una dimensione suscettibile di assumere tre macro-modalità: passato, presente, futuro. Il futuro è sulle ginocchia di Giove, nei miti dell'antica Grecia, del doman non v'è certezza, scriveva il poeta di ieri, e di domani nessuno lo sa, canta il poeta di oggi, tutti a rimarcare intorno all'indeterminatezza di quel che ci attende, alle limitate possibilità di analizzarlo. Il presente è qui e ora, un continuo divenire caotico e contraddittorio che scivola via da ogni parte, con buona pace di quella schiera di figure specialistiche - economisti, politologi, sociologi - che si affannano a capire la contemporaneità, con esiti mortificanti. E il passato? Anche il passato è un gran caos e in fondo non ha più logica delle nostre vite, in cui ogni giorno abbozziamo un percorso, tra paure e speranze, senza sapere cosa accadrà.

Anche il passato non sembra dunque vantare maggior pregio del presente e del futuro, ma almeno un vantaggio in più lo offre, rispetto al presente e al futuro: il passato è finito. Sparta contro Atene, l'antica Roma, l'Imperatore Costantino, le Invasioni barbariche, il Medioevo, il Rinascimento, la Rivoluzione Francese, Napoleone, il Congresso di Vienna, il Risorgimento, il Regno di Italia, il Fascismo, la Prima e la Seconda Repubblica, sono tutte cose finite, concluse, ferme, immodificabili, e perciò potenzialmente conoscibili.

Anche lo storico è dunque incerto come ogni altra figura professionale, avvolto in un turbine di eventi di complessa decifrazione, che tuttavia sono cristallizzati, solidificati, bloccati, monolitici. Questo tratto esclusivo del passato, questa sua prerogativa, dà conforto allo storico e lo rassicura, gli offre la possibilità - da usare con grande accortezza metodologica - di disporre i fatti in sequenza, immaginarne una logica sottostantecostruire una narrazione plausibile.






 
La Storia deve tenere assieme due esigenze in conflitto:
proporre una narrazione sistematica, strutturata e consequenziale,
senza attribuire ai fatti più logica di quella che verosimilmente avevano,
rappresentare in modo ordinato e preciso ciò che è accaduto,
senza confondere l'ordine e precisione del racconto con l'inevitabilità degli eventi.
La miscellanea di fatti e personaggi del Risorgimento italiano
mostra a esempio quanto poco vi fosse di preordinato nell'intero movimento,
e quanto sia ingenuo vedere nello nello sbocco finale il suo esito inevitabile.
Il Risorgimento non obbedì a un "piano", ma fu piuttosto una complessa dinamica
con sviluppi e conclusioni a volte anche molti distanti dalle intenzioni originarie,
in cui il caso e la fatalità giocarono un ruolo assai più invasivo
di quanto più tardi piacque affermare a molti dei suoi protagonisti e interpreti.
Quando il processo arrivò a conclusione, quando il fatto era cioè diventato un mondo conchiuso,
i compilatori ebbero gioco facile nel volgersi indietro e spiegare l'intera sequenza di avvenimenti
attribuendogli una coerenza molto più forte di quella che poteva avere nel suo svolgersi.

La Storia è interamente alle nostre spalle. La Storia non è più qui, in prima istanza "non rileva più", e questa sua "irrilevanza" mette lo storico in una posizione privilegiata, gli consegna un formidabile vantaggio informativo. Lo storico sa già come andrà a finire e può nutrire almeno una speranza di individuare le correnti di fondo sotto la superficie degli eventi, può tentare di isolare la volontà dei protagonisti, le contingenze della situazione, i capricci del caso. Lo storico - se non si illude che a ogni istante è accaduto tutto e solo ciò che doveva accadere - può giungere a una comprensione molto profonda dei fatti del passato. Può farlo anche perché l'irrilevanza attuale di quei fatti gli permette di prender visione di lettere private, di documenti riservati, di relazioni segretate, di interi archivi all'epoca inaccessibili e ora di pubblico dominio. Lo storico - da questa prospettiva - ne sa immensamente di più di un'epoca, rispetto a chi in quell'epoca ci viveva. Ne sa di più perché conosce origini, sviluppi e esito dei fatti, e può interpretarne la dinamica con l'ausilio di una messe di informazioni solo ora disponibili.

Ma da un'altra prospettiva, non meno rilevante, lo storico ne sa infinitamente meno dei contemporanei di un'epoca, e non ha alcuna possibilità di colmare o ridurre questa sua mancanza di informazione. Quando un atto accade, la sua totalità è irrimediabilmente persa, smarrita, e quel che rimane è solo una ricostruzione, per definizione parziale e inserita a posteriori in un sistema di senso più ampio. Lo storico smarrisce molte cose, e sicuramente perde irrimediabilmente la parte più accattivante: le emozioni, le paure, le speranze. Perché gli stati d'animo - emozioni, paure, speranze - dipendono da un fatto speculare al punto di forza dello storico. Dipendono dall'ignoranza, dal non sapere. L'ignoranza è un valore aggiunto, quando si vogliono capire quei sentimenti che ispirano le azioni e in definitiva determinano i fatti, ma che per lo storico rimangono sfuggenti. "Darei un anno di vita per sapere cosa pensava un contadino medievale, quando si svegliava la mattina", confessa il Professor Barbero.

Per certi versi lo storico ne sa dunque molto di più, ma per altri infinitamente meno, di chi in quella realtà ci stava dentro, di chi quella realtà la viveva giorno dopo giorno, di chi sentiva come cronaca quel che noi oggi insegniamo come Storia. Da questo angolo di osservazione in chiaroscuro - ora privilegiato, ora deficitario - l'opera dello storico, la Storia, ci offre la visione delle cose, mette in prospettiva il mondo, i suoi valori e le istituzioni, per renderci cittadini più consapevoli del nostro passato comune, più inseriti nel processo sociale, con i suoi diritti e doveri, le sue libertà e limitazioni. E il tema della visione - nella Storia - ha due precise declinazioni: re-visione e pre-visione.


La re-visione è il riesame del passato, la verifica di ciò che si conosce o si pensa di conoscere, quando si avverte la necessità di affinamenti e ritocchi, di precisazioni e qualificazioni, che possono anche condurre a estese rivisitazioni. Grazie alla re-visione le nostre conoscenze si aggiornano, si ampliano, acquistano in verosimiglianza, diventano più attendibili. "La conoscenza del passato" - scrive lo storico March Bloch - "è una cosa in fieri, che si trasforma e si perfeziona incessantemente".

La re-visione guarda al passato - a come il passato è stato raccontato, con l'idea di perfezionarne la narrazione - ma spesso è ispirata dal presente, nella misura in cui le nostre passioni di oggi stingono su fatti dell'epoca. Non tutti gli eventi della Storia - anche se emozionanti - sono capaci di farci vibrare. "Sparta contro Atene" è un'avventura straordinaria, affascinante, ma riusciamo a parlarne con distacco, con freddezza, senza avvertire il prepotente impulso di schierarci, di parteggiare per l'una o per l'altra. Lo stesso sentimento di neutralità lo abbiamo verso le "invasioni barbariche" (che i popoli germanici chiamano più sobriamente "emigrazioni"). Se ne può discutere con serenità, senza accalorarsi. Ma se parliamo del Risorgimento o della Resistenza, ecco svanire di colpo tutta quella bella e  ovattata atmosfera da salotto. Quegli eventi - correttamente narrabili al trapassato remoto - risvegliano un mondo di sentimenti - odio, amore, rabbia, appartenenza, repulsione, indignazione, rancore - come fossero accaduti appena ieri, come se li potessimo coniugare al tempo presente. La canzone "Bella ciao" - per dire la cosa più banale - è ormai un inno planetario contro ogni genere d'oppressione, vera o presunta, una colonna sonora buona per ogni occasione di rivalsa, dal suo ambito elettivo, la festa del 25 aprile, alle suppliche dei migranti, ai cori in chiesa, passando per il Parlamento Europeo, sino alle rivendicazioni dei professori in Cile. E non è solo un fatto di maggiore o minore vicinanza temporale, rispetto all'oggi. Anche l'Imperatore Costantino - siamo nel terzo secolo dopo Cristo - anima, agita e fa discutere, invoglia a prendere posizione: in che mondo vivremmo, oggi, se Costantino non avesse posto fine alle persecuzioni dei cristiani? La Rivolta del Vespro - 31 marzo 1282 - vive nell'animo di ogni siciliano, e offre un illustre precedente con cui filtrare gli avvenimenti di oggi, spinge a parlare dei nuovi vespri.

Un sottile filo rosso lega pertanto l'attività di re-visione all'uso politico della Storia: la re-visione della Storia come strumento per il dibattito politico odierno, per giustificare le passioni e risaldare le tesi di oggi, con quell'oggi in continuo movimento, con passioni e tesi in continua evoluzione, e con la Storia pronta ogni volta a offrirsi di sostenerle.

Guardiamo a un fenomeno evergreen, sebbene vecchio di oltre un secolo: il brigantaggio. Aldo De Jaco, sponsorizzato dagli "Editori Riuniti" del Partito Comunista, pubblica nel 1970 il libro "Il brigantaggio meridionale - Cronaca inedita dell'unità di Italia" (riproposto poi nel 1980, come omaggio ai lettori del quotidiano "L'Unità"). Il libro nasce in un'epoca animata da una precisa volontà: denunciare la repressione dello Stato. Gli storici vicini al Partito Comunista sentivano particolarmente il tema del ruolo dello Stato , e gli faceva gioco enfatizzare l'incapacità dello Stato di allora di risolvere adeguatamente i problemi riaffiorati subito dopo l'unificazione, di risolverli come si conviene a uno Stato che non sia esso stesso un covo di briganti. Il problema - per esser chiari - non stava nell'annessione o nella lotta di popolo, ma nell'incapacità dello Stato di reagire in modo diverso da come reagì - fucilando, fucilando, e ancora fucilando - e quella critica localizzata nel passato diventava il passepartout per un atto di accusa nel presente, alla classe dirigente italiana degli anni '70. Oggi abbiamo una diversa sensibilità. L'inadeguatezza della politica nel rispondere alle istanze del popolo - sull'eco dei contadini che chiedevano la terra e furono invece repressi - sembra ormai passata di moda. Oggi la prospettiva dominante - altrettanto ideologica - è piuttosto quella di un Regno delle Due Sicilie invaso dallo straniero, e per di più di un Regno felice e prospero, prima dell'invasione, a sostenere le spaccature odierne tra Nord e Sud, a giustificare le richieste di federalismi e autonomie, a spiegare le diverse prevalenze dei partiti nelle varie regioni italiane.

Questa attualità della Storia - il fatto che la Storia sia trasposta al presente, per ravvivare idee, passioni e volontà di oggi - è un fatto positivo, se si mantiene nella sua fisiologia. I conflitti culturali - se non degenerano - riescono a rendere il senso di un argomento - storico e attuale - molto meglio di una generica e asettica esposizione. "Se noi riusciamo a creare il polo A e il polo B, attraverso i quali scocca una scintilla, il lettore dovendo scegliere se ha ragione il polo A o il polo B capisce meglio ciò di cui si sta parlando. Il conflitto è una cosa che delimita i campi, che focalizza l'attenzione", scrive Paolo Mieli, cogliendo un punto capitale.



La pre-visione è azione complessa, non solo da realizzare tecnicamente, ma prima ancora da intendere correttamente nel suo significato filosofico, a causa di micidiali fraintendimenti sulla struttura del linguaggio.

La lingua italiana non contempla parole sinonimiche. Ogni parola ha un suo significato, distinto dal significato di tutte le altre, a volte nettamente, a volte solo per sfumature, ma in ogni caso distinto, separato. Prevedere - in particolare - è cosa molto diversa da predire, sebbene i due termini siano spesso assimilati, erroneamente percepiti equivalenti.

La Storia non può pre-dire ciò che accadrà, non può dir prima ciò che non è ancora stato detto, non può indovinare il futuro, perché nella Storia non ci sono leggi, non ci sono automatismi, non ci sono certezze.

La Storia può però insegnare a pre-vedere, a vedere prima, a stare sulla specula come la vedetta romana, a prepararsi al futuro, perché la Storia non avrà leggi, ma possiede ancora un'infinità di ricorrenze, di assonanze, di similitudini.

La Storia è l'insieme di tutti i fatti accaduti nel mondo, dalla sua origine sino a ... ieri. Nulla è estraneo alla Storia: dai tradimenti di coppia alle dichiarazioni di guerra tra Stati, dal ragazzino che marina la scuola alle grandi architetture istituzionali, la Storia è l'insieme di tutto ciò che è stato fatto da sempre nel mondo intero, da chiunque vi abbia messo piede. La Storia siamo noi, nessuno si sente escluso, canta De Gregori. Alcuni fatti saranno più rilevanti di altri - per aver segnato un'epoca e condizionato le successive, per aver determinato orientamenti e impresso direzioni, per aver caratterizzato modi di essere, di pensare e agire - e saranno principalmente questi i fatti su cui si appunterà l'attenzione. Ma tutti i fatti - a prescindere dalla loro rilevanza - si possono censire, organizzare e strutturare, e la Storia è esattamente questo: un catalogo di comportamenti, una collezione di esempi, un compendio di lezioni, su cui ragionare, riflettere e interrogarsi, nella presunzione che - dopo così tanto tempo -  le n esperienze formino un campionario non solo esaustivo del passato, di quel che è già accaduto, ma anche rappresentativo del futuro, di quel che potrà accadere. Il se e il quando rimangono incerti, non sappiamo se e quando certe cose si verificheranno di nuovo, come non possiamo sapere in anticipo - per dire - l'esito del lancio di un dado, di un giro di roulette, di una partita di calcio, di una mano di poker, o di una prova di esame, ma lo spettro delle possibilità - almeno quello - rimane ben definito (i numeri da 1 a 6, per il dado; da 0 a 36 per la roulette; "1", "X", "2", per una partita e così di seguito) e anche essere l'assegnazione delle probabilità ai vari casi può essere sufficientemente delineata.

La Storia - con la sua collezione di esempi, di precedenti - ci offre un moltiplicatore di esperienze, diventa un ideale regolativo, una bussola con cui orientarci nella confusione del mondo. Sapere di vivere un'esperienza già vissuta da altri, magari non risolve tutto, però sicuramente aiuta. Siamo sempre al buio, ma abbiamo una carta in più per inquadrare quel che accade oggi e quel che è ragionevole attendersi domani.


Un ragazzo di buona famiglia, di una famiglia per bene, a modo, come ce ne sono tante, anche se lui, il ragazzo, è forse un po' irrequieto, tenuto d'occhio dalle forze dell'ordine, più per precauzione che per altro. Un giorno lo fermano, lo portano in caserma, lo interrogano, prima con le buone poi con le cattive, e a ogni modo senza mai alcun rispetto. Lo spingono a confessare, ma il ragazzo resta in silenzio, non per reticenza, ma perché non saprebbe proprio dire cosa si aspettino di sentire i militari. Forse - chissà - uno schiaffo potrebbe fargli tornare la memoria. Forse uno schiaffo non basta. Forse ne servono due. O forse tre. Forse serve qualcosa in più degli schiaffi. Forse - anzi sicuramente - servono metodi più decisi. E sono pugni e calci a chi non può difendersi, a chi resta inerme a subirli. Forse ora ricorderà. Probabile. Ma ora non può più confessare, semmai avesse ricordato. E' morto. Di schiaffi, pugni, calci, violenze, torture. Pazienza. Forse è stata una tremenda ingiustizia, un'aberrante prepotenza, ma in fondo era solo uno sbandato, e il mondo è ora un posto migliore, senza di lui. Insabbiamo tutto e proseguiamo. Così, almeno, pensano i militari.

Ma stavolta non va così, perché la famiglia - una buona famiglia, per bene, a modo, senza alcuna colpa, e in compenso con tanta sfortuna - vuole giustizia, e la vuole a ogni costo, al costo di subire il tormento di ricostruire gli eventi nei più cruenti dettagli, di riviverli e avvertirne tutto l'orrore. La famiglia andrà avanti finché non avrà giustizia, anche al prezzo di scontrarsi col perbenismo dell'opinione pubblica, con la superficialità delle critiche, con la violenza degli insulti. La famiglia marcia verso la verità, e le istituzioni fanno muro. I militari si spalleggiano l'un l'altro, si coprono reciprocamente, si proteggono a vicenda. Omertà e reticenze, e poi verbali manomessi e referti medici alterati, per far risultare colpe inesistenti, per attenuare atti tremendi. C'è in gioco molto più del giudizio su un probabile abuso. Qui balla la credibilità dell'Arma, dello Stato, delle Istituzioni. Valori assoluti, imprescindibili, da difendere per principio. Se la famiglia vuol andare avanti a ogni costo, ebbene, troverà un'opposizione anch'essa pronta a resistere a ogni costo, pur di preservare il suo buon nome. Morirò prima di arrendermi, è il grido di battaglia di entrambe le parti.

Tribunali, processi, giudici, avvocati, testimoni, periti; e poi ancora bugie e omissioni, false deposizioni e tanti, troppi, "non ricordo". Si prosegue a oltranza, muro contro muro, da una parte e dell'altra, costi quel che costi. Morirò prima di arrendermi. Tutto è lecito, tutto vale, per tenere il punto e difendere la posizione, per demolire la posizione avversaria. Non è più un processo. E' una guerra. Morirò prima di arrendermi. Saltano fuori le fotografie del ragazzo. Un viso tumefatto, massacrato, un corpo martoriato. E inizia a soffiare il libeccio di una domanda: conviene - è opportuno e utile - condannare in tribunale chi ora sembra realmente colpevole, col rischio di trasformare la sentenza in una condanna simbolica a un'intera gloriosa istituzione, che ne uscirebbe così irrimediabilmente screditata?      

E' "il caso Stefano Cucchi", giusto? 


Sì, sembra proprio "il caso Cucchi", anni 2009-2019, anche se io avevo in testa il "caso Poliarco", anni 1628-1631.



Il catalogo offerto dalla Storia - serve esserne consapevoli - non è di immediata consultazione né di facile lettura. Occorre un'applicazione metodica per maneggiarlo correttamente, per riconoscere somiglianze e differenze tra passato e presente, tra la situazione di ieri e quella di oggi, per capire se in che misura le si possano avvicinare, assimilare, sovrapporre. Anche perché la storia non si ripete mai perfettamente uguale, e se le strutture permangono, e sono prevedibili, i dettagli si moltiplicano, e restano unpredictable, e a volte sono proprio i "dettagli" a fare tutta la differenza.



Più di qualsiasi difficoltà tecnica di corretta comparazione, e in realtà più d'ogni altra cosa, pesa però l'atavica presunzione di credersi un'eccezione, che si manifesta in quattro parole letali: questa volta è diverso.

Non importa quanto grande sia il numero n delle esperienze censite dalla Storia nel corso dei millenni. La maggior parte di noi continuerà a credersi l'esperienza n+1, la nuova esperienza non ancora catalogata. Historia magistra vitae degenera così a un luogo comune tra i tanti, magari con una nobile origine - il "De Oratore" di Cicerone - ma niente di più. Nessuno impara dalla Storia, perché nessuno vuole imparare, perché le lezioni della Storia sono difficili da applicare, perché la Storia è una scuola a cui nessuno si sottomette volentieri. La Storia non aiuta vivere meglio, o a evitare errori, "anche perché quelli che prendono le decisioni e fanno gli errori la Storia non la conoscono" - osserva rassegnato il Professor Barbero - "e quelli che invece la conoscono stanno a vedere, attoniti e disperati, mentre gli errori vengono rifatti".

L'esasperazione dell'individualità impedisce di mettere a frutto le lezioni della Storia - fosse anche la più banale: non bisogna invadere Russia! - e può falsare il senso stesso della Storia, alterarne la logica costruttiva, sino all'errore più clamoroso: confonderla con la memoria.


La Storia è una scienza perché soggiace a precisi meccanismi di controllo delle affermazioni. Questi meccanismi - a rendere il senso in modo immediato - si riducono a una domanda: e tu come fai a saperlo?

Garibaldi salpò da Quarto, presso Genova, nella notte tra il 5 e il 6 maggio del 1860, sui piroscafi "Piemonte" e "Lombardo" della società di navigazione Rubattino, con poco più di mille volontari al seguito. E tu come fai a saperlo?

Cialdini ordinò la distruzione di Casalduni e Pontelandolfo, nell'agosto de 1861, come atto di rappresaglia per il massacro di 45 soldati dell'esercito italiano da parte dei briganti. E tu come fai a saperlo?

Mazzini trascorse gran parte della sua vita da esiliato o da fuggiasco. E tu come fai a saperlo?  

Questa domanda assilla lo storico, lo martella -  e tu come fai a saperlo? e tu come fai a saperlo? e tu come fai a saperlo? - sin  quando non riceve una risposta accettabile. Fare Storia significa non solo narrare i fatti del passato, ma precisare contestualmente per quali vie e in quali modi si è arrivati a conoscerli, e per quali ragioni si nutre la ragionevole sicurezza di una soddisfacente corrispondenza tra la narrazione odierna e la realtà dell'epoca. I libri seri di Storia, fatto 100 il numero di pagine, ne hanno almeno 20 occupate da note, con cui l'autore si premura di precisare come a fa a sapere quel che scrive, offrendo al lettore la possibilità di verificare da sé, in autonomia, se lo desidera o ne sente la necessità.

Nessuno di noi era lì, quando Garibaldi salpò da Quarto, quando Cialdini ordinò di radere al suolo le due città del beneventano, quando Mazzini si dava alla fuga. Gli eventi storici non ci sono più, sono passati, quindi inaccessibili alle nostre più immediate facoltà percettive. La Storia va costruita, e meglio sarebbe dire ri-costruita, sulla base delle fonti - documenti ufficiali, lettere private, verbali, libri, scritti, testimonianze - che vanno esse stesse rintracciate, selezionate e consultate con vigile senso pratico. "Quando si fa una ricerca di archivio" -  annota il Professor Barbero - "si vanno a cercare le fonti dove è più probabile trovarle e si va avanti fino a quando non si è raccolta abbastanza roba per avere un'idea chiara di che cosa è successo".

C'è, e rimane, un'invisibilità della Storia, perché le fonti non sono mai esaustive, perché sono sempre meno quanto più si risale indietro nel tempo, e perché possono essere eccessive e ridondanti quando invece ci si avvicina ai giorni nostri, rispetto all'obiettivo di realizzare una narrazione attendibile di ciò che è accaduto. E' però già tanto sapere che ci sfugge molto, avere la consapevolezza di questa ombra che si allunga sulla nostra conoscenza, per non illudersi di stare in un'artificiale luce del mezzogiorno.


Un "caso di scuola" su usi e abusi delle fonti.
Il maremagnum di Internet sputa fuori uno scritto su "miti e realtà della Spedizione dei Mille".
Una slide è dedicata a una (presunta) affermazione di Garibaldi sui suoi compagni di viaggio,
un giudizio sprezzante e ingeneroso, pronunciato addirittura nel neonato Parlamento.
Viene anche fornita la tornata della seduta parlamentare: 5 dicembre 1861.
 Peccato che il verbale della seduta non segnali neanche la presenza in aula di Garibaldi!
 Com'è possibile uno scivolone così clamoroso?
Com'è possibile citare una fonte storica, senza averla di fatto mai consultata?
Dov'è documentata questa affermazione di Garibaldi, ammesso l'abbia mai fatta?
Si rimane sconcertati, a cercare le risposte tra le pagine di Internet.
C'è chi arriva a raccontare di un Garibaldi che irrompe in Parlamento e inveisce contro i "Mille",
senza che nulla sia mai stato verbalizzato, per ovvie ragioni di opportunità.
Ma qual è allora la fonte?
Tu come fai a sapere che Garibaldi ha pronunciato quella frase?   
Da qualche parte dovrà pur trovarsi scritta... o no?

Scava e cerca, spulcia e spunta, alla fine la fonte salta fuori.
  Aldo Mola è il primo a collocare la frase tra virgolette,
ad attribuirla a Garibaldi, a contestualizzarla nella seduta del Parlamento italiano,
nel suo libro "Storia della massoneria italiana" (edizione Bompiani).
  Mola non si esime peraltro da un severo giudizio sull'atteggiamento di Garibaldi,
dice chiaramente che il Generale ha avuto poco rispetto per i suoi compagni d'arme,
e ogni spirito critico, desideroso di andare sino in fondo, dovrebbe allora dubitare.
Quant'è verosimile, a pochi mesi dalla "storica impresa",
che Garibaldi si pronunciasse in modo così abrasivo verso i suoi compagni,
e con i suoi fidati a Genova a raccogliere fondi per la liberazione del Veneto?
 E quant'è verosimile che gli stessi compagni così etichettati
lo abbiano poi seguito in Aspromonte, nella Terza Guerra di Indipendenza e infine a Mentana?

Scava e cerca, spulcia e scartabella, finiamo con lo sbattere su "I Mille",
l'opera scritta direttamente da Giuseppe Garibaldi. 
E cosa troviamo nella narrazione dell'Eroe dei Due Mondi? 
Un'affermazione sospettosamente simile alla frase sotto indagine, 
che ne ricalca la struttura e la scelta delle parole, solo che... 
... è riferita ai governanti e agli uomini di potere, non ai Mille! 
E non è ancora finita.

  Ancora "I Mille", ancora Garibaldi,
che parla dei governanti come di "birbanti o minchioni - piuttosto arcibanti".
Sono le stesse parole - "birbanti e arcibanti" - che ritroviamo nel libro di Aldo Mola...
... affibbiate però ai componenti della Spedizione!

Credi alla metà di ciò che vedi, e a nulla di ciò che ti raccontano.
Mantieniti scettico.
Non smettere mai di domandarti "e tu come fai a saperlo?",
fin quando la verità non ti sembra altamente probabile.

Recuperare le fonti è il primo passo, parziale e preliminare, perché poi le fonti serve soppesarle, graduarle per importanza e attendibilità, e infine raccordarle, armonizzarle e sintonizzarle, per fare Storia. Nulla di più ingenuo - per capirsi - che attingere ai diari di Napoleone sulla Battaglia di Waterloo, per sapere come andò realmente. Eppure - accidenti! - Napoleone era lì, lui sì che c'era a Waterloo, e chi meglio di lui potrebbe parlarci del reale andamento delle cose? Proprio lui, Napoleone, è invece la persona meno adatta, come i bollettini di Cadorna sono la fonte più inattendibile sulla disfatta di Caporetto, e a dirla tutta nessuno singolarmente preso può dare la versione reale delle cose, perché il singolo - che pure bisogna trovare il modo di interrogare, per conoscere le cose - può solo restituirci la sua memoria.

La memoria è la facoltà intellettiva di ricordare propria del genere umano, di ogni singolo individuo. La memoria è inseparabile da colui che ricorda, è cioè individuale, in uno con chi sta ricordando, e quindi abbiamo una pluralità di memorie, soggettive e molteplici, fondate sulle esperienze vissute dai singoli, dai ricordi personali che ne trattengono, collocati nella sfera del sacro.
 
La memoria - per dirlo in modo speculare, al negativo - non può mai essere condivisa, sebbene lo slogan della memoria condivisa è onnipresente nelle analisi degli intellettuali, nei discorsi dei politici, nelle rivendicazioni dei movimenti, nei dibattiti sulle identità nazionali. La memoria non può mai essere condivisa, perché l'attentato di via Rasella non potrà mai essere ricordato allo stesso modo dai figli dei tedeschi uccisi e dai partigiani attentatori, sebbene si stia parlando dello stesso evento. La memoria - al più, nella migliore delle ipotesi - può essere pacificata, se un'ampia maggioranza concorda sulla dinamica di certi eventi e sul loro significato, oppure - caso più verosimile - se ognuno continua a preservare i suoi sentimenti e a celebrare i suoi eroi, ma tutti restano sufficientemente lucidi nella lettura dei fatti, da evitare litigi e contrapposizioni continue.

La memoria attinge alle emozioni; è sentimentale - individuale, parziale, selettiva, intima - perciò non assoggettabile a nessuna attività rigorosa di accertamento, ricostruzione e interpretazione; si radica nei luoghi, nei gesti, nelle immagini, negli oggetti; va incontro a errori, equivoci, dimenticanze; tende a compiere generalizzazioni indebite (un singolo fatto diventa la chiave di lettura di eventi su scala maggiore) e ad assolutizzare (laddove servirebbe invece relativizzare, preservare lo spessore comparativo).
 
Ma proprio per ciò la memoria fa grande presa su tutti noi. La paura di una madre nel sapere suo figlio arruolato in un Gruppo di Azione Patriottica durante la Resistenza; le lacrime di una ragazza violentata dai partigiani; i racconti dei sopravvissuti di Auschwitz; il dolore dei familiari dei condannati alle fosse ardeatine. Tutte queste storie suscitano emozioni, batticuori, palpitazioni, e sono tutte storie che meritano di esser ascoltate e meditate. Ma che a nessuno salti in testa di mettere queste o altre persone su un palco, consegnargli un microfono, invitarle a parlare delle loro esperienze individuali, e poi dire "questa è la Storia!".

Solo una narrazione pluri-esperenziale può dare la piena comprensione degli eventi passato. Soltanto l'ampiezza della prospettiva può restituire un'idea sostanzialmente condivisa di ciò che è accaduto. Solo la ricchezza delle interpretazioni può stemperare i conflitti e permettere di intravedere una logica. Fare Storia significa sollevarsi sopra un fatto isolato per abbracciare con uno sguardo inter-soggettivo i singoli eventi, organizzarli in un contesto, il loro contesto, e collegarli in funzione del clima - culturale, sociale, politico, economico - in cui sono maturati.

La Storia filtra la pluralità delle memorie con la metodologia della ricerca scientifica; ricompone esperienze diverse; pesa, soppesa e poi media. Lo storico può anche schierarsi, se lo desidera, perché anche lo storico avrà inevitabilmente le sue idee, la sua visione del mondo, il suo senso del bene e del male. La rilevanza sta tutta nel fatto che non si vedere, non si deve capire (anche se la propria posizione ideologica produrrà inevitabilmente dei residui). La cosiddetta oggettività della Storia - in contrapposizione alla soggettività della memoria -  è tutta e solo nell'onestà intellettuale dello storico, nel suo impegno a non venir meno al vincolo metodologico per cui, se la memoria è divisiva, la Storia deve invece riunire, e se ognuno rimane libero di custodire i suoi ricordi individuali, la Storia deve permettere di "raccontarci" in una dimensione collettiva, per sentirci popolo, nazione, gruppo, per creare un'unità sopra le ineliminabili differenze.

  Renata De Lorenzo è un'accademica del filone "mainstream".
Il titolo del suo libro - Borbonia Felix - rimane peraltro venato di ambiguità:
non si capisce se sia  solo un semplice escamotage commerciale,
per adescare quei lettori desiderosi di  una versione revisionista,
e proporgli poi un contenuto convenzionale (peraltro di notevole interesse);
oppure se sia una stilettata verso i cosiddetti "neo-borbonici",
attraverso il riutilizzo ironico di uno dei loro slogan ricorrenti.
Ma è il sottotitolo a rivelare la posizione ideologica.
Il libro parla del Regno delle Due Sicilie... alla vigilia del crollo.
Il "crollo"?
Non sarebbe stato più appropriato, tecnicamente più preciso, dire "l'invasione"?
Parlare di "crollo" - oh, la forza di una parola! - trasmette l'idea dell'inevitabile,
sussume l'evento storico sotto una precisa convinzione ideologica:
il Regno era alla vigilia di un crollo,
e che sia stata la Spedizione dei Mille a provocarlo, è solo un accidente della storia,
perché sarebbe crollato comunque, a prescindere, Garibaldi o non Garibaldi.
Stanno così le cose? E' questa la realtà dei fatti?
E, se pur fosse, com'è potuta "crollare" una dinastia che regnava dal 1734?
Localizzarsi "alla vigila del crollo" è una scelta tecnica, di metodo,
che finisce però con l'avere anche risvolti ideologici,
perché aprire una finestra sul biennio 1859-1861,
con vaghi accenni a quel che è accaduto prima,
significa dare risalto alle condizioni interne del Regno,
e mettere in sordina le continue sollecitazioni esterne
a cui era stato sottoposto nel corso del decennio 1848-1858.



Un titolo asciutto, preciso, neutro,
privo di qualsiasi colorazione ideologica,
specchio fedele del contenuto del libro.
La "Premessa" dell'autore ne svela con discrezione l'orientamento,
che si mantiene peraltro equilibrato, lucido, lontano dagli spigoli.
Non si nega che il Regno delle Due Sicilie fosse prossimo a un crollo,
che sia "imploso per la mancata modernizzazione delle sue strutture",
"ormai preda di un inarrestabile processo di decomposizione interna",
ma con un'analisi storica puntuale e rigorosa
"di una documentazione proveniente dagli archivi diplomatici",
 si dà anche conto, con un linguaggio piano e chiarezza espositiva,
di quella "lunga e costante azione di logoramento della grandi 'Potenze marittime' ,
che, dalla metà del XIX secolo, tentarono di trasformarlo in una colonia economica
e in un avamposto strategico funzionale alla loro strategia mediterranea".
Il "crollo" del Regno delle Due Sicilie,
che a leggere "Borbonia Felix" sembra una morte naturale,
prende i contorni di un assassinio per avvelenamento, nelle pagine di Di Rienzo:
 non più un esaurimento fisiologico imputabile principalmente a dinamiche endogene, 
ma l'esito di una metodica azione di indebolimento condotta dall'esterno,
con ovvi riflessi sulla stabilità interna, al punto da dare l'impressione di un "crollo"
se ci si colloca in prossimità della Seconda Guerra di Indipendenza e della spedizione garibaldina.




Chi parla di "memoria" non sempre è consapevole di maneggiare un termine scivoloso
e, quando ne è consapevole, tende spesso a giocare sull'ambiguità,
così da abbracciare un insieme di significati più ampio e complesso.
L'applicazione del termine "memoria" alla Storia
serve solo a creare un'analogia con la facoltà mnemonica,
da avvicinare la Storia alla pratica quotidiana di memorizzare ed elaborare i ricordi.
Ma la Storia è l'esito dell'applicazione di complessi metodi di indagine
e il brutale termine "memoria" non è mai direttamente applicabile all'opera degli storici.
La ricostruzione storica non corrisponde mai ad alcun singolo ricordo,
e neppure a una mera sommatoria o sovrapposizione di ricordi.
La ricostruzione storica è una narrazione originale,
prodotta in base a un esame critico del complesso delle fonti,
 in cui i singoli ricordi sono solo il materiale grezzo di partenza.
Che poi le ricostruzioni scientifiche elaborate dagli storici
possano anche servire alla società "per ricordare"
è un semplice sottoprodotto della storiografia,
del metodo di indagine proprio degli eventi del passato. 

Il popolo italiano ha parecchia memoria e gravi deficit storici, non conosce la Storia, ma non dimentica nulla; è fatto di tenori e prime donne, non di cori, di solisti e non di orchestre.
 
E' difficile fare Storia in Italia, far accettare la vocazione universalistica della Storia, la sua impostazione intellettuale e laicizzante. E' difficile proporre una lettura del passato nazionale capace di oltrepassare la pluralità di memorie. Intorno alla Storia ufficiale c'è tutto un fiorire di anti-storie e contro-storie, rese accattivanti attraverso atteggiamenti pregiudizialmente polemici.

Il problema non è solo italiano, ma in Italia siamo più testoni che altrove.

Siamo un paese ancora giovane - poco più di 150 anni - che fatica a percepirsi e a esser percepito in modo uniforme. Siamo un Paese esasperante, scoraggiante, dilaniato da emotività contrapposte. Siamo italiani, ma abbiamo anche una prepotente - prevalente? - identità regionale, e a volte persino cittadina. Siamo italiani, ma siamo rimasti napoletani, torinesi, milanesi, siciliani, romani, veneti, fiorentini, bolognesi, ognuno col suo dialetto e il suo campanile, tutti sprovvisti di una solida coscienza unitaria.

Siamo variegati, frazionati, litigiosi, spaccati, divisi. Lo siamo sin dalla nascita, dalla nostra genesi, a intensa e persistente conflittualità: guerre continue e violazioni di norme internazionali, astuzie diplomatiche e espedienti di bassa cucina, accondiscendenza coi forti e prepotenza coi deboli, e poi la sistematica presenza - ora in punta di fioretto, ora a colpi di sciabola - di una pluralità di potenze straniere - Francia, Inghilterra, Prussia - a indirizzare il processo di unificazione, a concederne i nullaosta, a rendere possibili fatti e cose altrimenti irrealizzabili.

Siamo diventati parte di una nazione comune in un modo obiettivamente ingarbugliato, e il fatto che l'Italia sia stata realizzata in questo modo continua ancor oggi a pesare sulla coscienza del Paese e sulla sua immagine internazionale. Siamo ancora lontani dall'essere "una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor", di cui scriveva il Manzoni. "Perché non siam popolo, perché siamo divisi" ce lo portiamo dietro addirittura nell'inno nazionale.

Non è solo folklore, non sono forzature, stereotipi o luoghi comuni. E' una realtà storicamente documentabile. Scrive Renata De Lorenzo: "La 'appartenenza debole' del popolo italiano a una patria e a una nazione comune influisce sulla storiografia, attenta a sottolineare l'assenza [...] dei tanti parametri individuati a lungo come caratterizzanti di un processo identitario a livello europeo e mondiale. Sono mancati idonee borghesie, forme di imprenditorialità, adeguate nobiltà e classe dirigente, sentimento di appartenenza alle istituzioni, un vero partito conservatore una adeguata vitalità culturale, ortodossi comportamenti liberali, una consapevole società civile". Dice ancora un insospettabile Professor Barbero: "Non c'è dubbio che la Prima Guerra Mondiale è un momento in cui l'Italia ha fatto un grosso passo avanti verso l'essere una comunità nazionale coesa, è una delle tappe, cinquant'anni dopo l'unificazione, che hanno spinto l'Italia verso l'essere più di prima una comunità". Come a dire che abbiamo vissuto un'anticamera di mezzo secolo prima di iniziare a sentirci una comunità, una nazione unita.

"L'Italia non è che un'espressione geografica"

Le critiche al processo di unificazione risalgono nel tempo, portate avanti da intellettuali di diversa e opposta matrice - Fortunato, Oriani, Sturzo, Cusin, Salvemini, Gobetti, Gramsci -, in una riflessione sistematica poi diventata parte integrante del patrimonio culturale dello Stato nazionale. Più in generale, la genesi elitaria dello Stato unitario, la critica alla conquista regia, la questione meridionale, la qualificazione politica e sociale del brigantaggio sono a lungo rimaste - sono tuttora? - un fascio di problemi irrisolti, nel discorso degli storici di professione.

D'altra parte - lo registra Gigi Di Fiore - un insieme di contingenze ha favorito la persistenza di narrazione convenzionale di stampo "mitologico", poi difficile da emendare e qualificare, almeno per il grande pubblico, quando finalmente sarebbe stato possibile. "Negli anni successivi all'unità d'Italia, tutti i documenti e le testimonianze più diffusi erano dettati da chi aveva vissuto da protagonista vincente il processo storico risorgimentale. Per questo motivo , la stampa che contava, i rapporti diplomatici, i libri di memorie, i ricordi pubblici, venivano tutti piegati alle ragioni di chi aveva plasmato l'Italia liberale [...]. Passati gli anni della monarchia liberale, a guidare ancora una giovane Italia arrivò il fascismo, con la sua ideologia statuale accentratrice, che trovava nel mito nazionalistico, insieme con quello della Roma imperiale, una delle sue ispirazioni ideali. Un mito costruito anche attraverso l'assoluta esaltazione del Risorgimento".

Sino al secondo dopoguerra, insomma, sarebbe stato difficile esaminare con rigore uno dei capitoli più intricati della storia della penisola, e conveniva piuttosto presentare eroi in sequenza, tacerne i conflitti, piallare le contraddizioni degli eventi. Dall'opportunità ideologica a semplificare si è poi passati alla convenienza pratica a stilizzare fatti e personaggi. Qualche luogo comune e molte omissioni, e poi retorica e schematismi, sono tutti passaggi obbligati per volgere l'unità d'Italia in una forma spedita, adatta a un pubblico vasto. Ancora nel 2003 Giorgio Gaber denunciava a suo modo l'assenza di identità del nostro Paese ("Non è per colpa mia, ma questa nostra patria non so che cosa sia"), confessava il suo debole coinvolgimento emotivo ("Arrivo all'impudenza di dire che non sento alcuna appartenenza"), ma salvava incondizionatamente il Generale della "Spedizione dei Mille" ("E tranne Garibaldi, e altri eroi gloriosi, non vedo alcun motivo per essere orgogliosi").

Il contrappasso della semplificazione sta nel fatto che una tradizione nazionale - una percezione stabile e radicata della storia risorgimentale - non si può formare senza una visione critica degli avvenimenti. La più spassionata dichiarazione d'amore - giusto o sbagliato, questo è il mio Paese! - non è materialmente possibile, se oltre alle cose giuste non si conoscono anche le cose sbagliate, se il processo di formazione culturale, in un malinteso senso di persuasione, si mantiene unidirezionale e monocorde: "l'unico modo per celebrare l'Italia sarebbe quello di restituirle tutta la sua storia tutti i suoi eroi, valorizzare tutte le antiche tradizioni, riconoscere la diversità dei popoli che la compongono", scrive Elena Bianchini Braglia, curatrice della ristampa di un libello di un agente segreto di Cavour.

Il Risorgimento italiano ripropone così i due modi alternativi di fare Storia, i due sistemi di pensiero, le due scuole filosofiche, che ritroviamo già al principio della disciplina, nei primi due storici della nostra tradizione, Erodoto e Tucidide. Per il primo la Storia si occupa dei grandi fatti, dei grandi eventi, da celebrare e propagandare, per creare la gloria di una dinastia, di un popolo, di uno Stato, e per questa via concorrere a formare e preservare l'identità nazionale. Per il secondo la Storia ha il compito formalmente più modesto, ma sostanzialmente più educativo, di tenere traccia ordinata delle cose che son successe in passato, e di cui sarà bene ricordarsi in futuro, quando si dovranno prendere delle decisioni, senza lodare aprioristicamente niente e nessuno, ma con l'obiettivo primario di capire il più possibile.

Cavour, il politico.
Mazzini, l'ideologo.
Vittorio Emanuele II, il Re.
Garibaldi, il soldato.



"Noi abbiamo preso Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele, Mazzini, e li abbiamo messi tutti insieme;
credo ci siano anche francobolli che li ritraggono tutti e quattro insieme.
E comunque, se uno va in giro, in genere Corso Vittorio Emanuele fa angolo con Piazza
Mazzini.
A nessuno viene in mente che se
Vittorio Emanuele avesse potuto mettere le mani su Mazzini 
lo avrebbe fatto impiccare, probabilmente"
(Alessandro Barbero)



"Se un Ministro deve sapere quando dimettersi, un Re deve capire quando è ora di abdicare"
 (Cavour su Vittorio Emanuele)



"Adesso Cavour è fuori dai piedi ma spero che se ne vada ancora più lontano.
Pagherei un milione di franchi purché partisse per l'America"

(Vittorio Emanuele su Cavour)


"Se Garibaldi persevera in quel cammino funesto in cui si è messo,
entro una quindicina di giorni andremo a ristabilire l'ordine a Napoli e a Palermo,
anche a costo di gettare tutti i garibaldini a mare"

(Cavour su Garibaldi)


"Lei, Signor Conte, preparava una guerra fratricida... 
Stavate progettando una guerra fratricida"
(Garibaldi su Cavour)



"Ingrata volpe!"
(Garibaldi su Vittorio Emanuele)



"Ma angelo mio, che razza di gente..."
(La Regina Maria Adelaide a Vittorio Emanuele,
alla notizia dell'ingresso di Garibaldi tra le file dell'esercito regio)




Le origini dell'unità di Italia, volendo, si possono sospingere sempre più indietro nel tempo (ne troviamo tracce nei versi di Dante e negli scritti di Machiavelli); precisa però i suoi contorni solo nei primi decenni dell'Ottocento, con un forte movimento di opinione, con un insistente riferimento culturale alla nazione italiana, alla sua indipendenza, pur all'interno di un ampio spettro di soluzioni istituzionali (liberali o democratici? unità nazionale o confederazione? monarchia o papato?); si realizza, infine, con una sequenza di azioni militari complesse, dapprima ravvicinate (1859, 1861) e poi più rarefatte (1866, 1870, 1918), direttamente influenzate, indirettamente sollecitate o passivamente accettate dalle grandi Potenze internazionali. Ne seguono complicazioni in fase narrativa, non solo nella preliminare ricomposizione della cronologia, ma anche nella successiva fase di elaborazione dei fatti, per tradurli in un punto di partenza intellegibile del divenire nazionale. Così, nella percezione degli italiani, non c'è mai stata una sola Italia, un'immagine comune nella quale gli italiani potessero ricomporre le loro molteplicità, ridurle a sintesi, sentirsi affratellati per elaborare una comune coscienza civica.

Già alla vigilia del Risorgimento la parola "Italia" si correlava a una molteplicità di intuizioni sul concetto di nazione, sulle forme della politica, sull'organizzazione dello Stato - in poche parole: su ciò che dovevano essere l'Italia e gli italiani - e dopo l'unificazione l'antagonismo ha sfiorato la guerra civile. Le storie italiane - più di altre - sembrano irriducibili a una storia comune, come quelle trecce di fili colorati che non formano mai un colore uniforme, ma in cui la gradazione cromatica di ciascun filo si mantiene nitida nell'intreccio. Persiste ancora un sentimento di incompiutezza, se non di rimpianto, nell'ipotetico confronto tra ciò che è stata ed è l'Italia unita, e quel che avrebbe potuto essere se fosse prevalsa l'una o l'altra corrente all'interno del Risorgimento. Un popolo sottoposto a un continuo ripensamento della propria identità nazionale finisce chiaramente per smarrirla o per avere un atteggiamento schizofrenico.

L'oggettività resta un miraggio. Però, una volta accertata e riconosciuta l'impossibilità di essere totalmente oggettivi, servirebbe provare a esserlo comunque, impegnarsi il più possibile per rimanere lucidi nell'analisi ed equi nel giudizio. E invece, quando si è proclamato che l'oggettività non esiste, ecco abbandonare allegramente ogni canone di ragionevolezza. Entra in circolo lo scetticismo e gli increduli prendono piede. Prevalgono le richieste di giudizi etici o politici - chi aveva ragione e chi torto? chi è il carnefice e chi la vittima? qual è l'ideologia buona e quella nefasta? - rispetto all'esigenza di una narrazione condivisa di un vissuto comune. E via alla giostra dei disincanti, alla derisione di chi è stato così stupido da credere in qualcosa, all'annuncio - tra il lugubre e il gioioso - che tutto è stato nascosto, e nulla si potrà mai svelare. Vai pure, scatena il tuo pregiudizio, il tuo preconcetto, la tua visione di parte, la tua ideologia, perché tanto siamo tutti uguali e nessuno può essere oggettivo.

Diciamolo subito, allora: qui si crede, non solo nella possibilità di censire i fatti con esattezza, ma soprattutto nella possibilità di combinarli per costruire un romanzo collettivo, e sia pure un teatro di passioni. Ma c'è di più, ovviamente. Il Risorgimento è ormai scandagliato in ogni anfratto. L'alfabetizzazione scolastica rimane di una sciatteria deprimente, ma chi abbia tempo e voglia di studiare il periodo "1815-1871", dal Congresso di Vienna a Roma Capitale, può oggi accedere facilmente a una produzione letteraria sterminata, probabilmente sovrabbondante, che copre l'intero spettro di posizioni metodologiche (ricerca avanzata, didattica standard, divulgazione) e pure ideologiche (perché non è più vero che la Storia la scrivono i vincitori, e ormai da secoli anche gli sconfitti posseggono i loro cantori, i loro retori, i loro poeti). Internet, qui come altrove, ha poi provocato un'esplosione dei punti di accesso alla conoscenza, ha reso drammatico il problema inverso, non più rintracciare sorgenti di informazione, ma sbarazzarsene, vagliare la consistenza di ogni contributo per evitare di incappare in riferimenti scadenti, inutilizzabili, al di sotto degli standard storiografici minimali. Aggiungere ancora qualche pagina web sarebbe una manifestazione di presunzione, se ritenessi di poter fare qualcosa di meglio, e sarebbe un'impresa inutile se mi accontentassi di fare qualcosa di ordinario, perché non posseggo il genio necessario al primo caso né il mestiere richiesto dal secondo. Ma la finalità è un'altra.

Qui si crede nella possibilità di far parlare gli oggetti, di raccontare una storia attraverso gli oggetti. Qui si ha fede nei semiofori, negli oggetti portatori di significati, da strappare non solo al loro uso comune, ma da togliere pure dalla naftalina del puro collezionismo, per farne uno strumento di formazione, di divulgazione, di propaganda culturale. Noi, qui, estrarremo una scheggia di realtà dal conteso storico della comunicazione - francobolli, lettere, giornali, timbri - e la piegheremo a un'intenzione narrativa, con l'idea di stimolare la fantasia dei collezionisti, di offrirgli una lettura alternativa, originale, della loro antica passione, e con l'ulteriore ambizione di dilatare l'uditorio, di coinvolgere un pubblico vario, eterogeneo, lontano dal mondo del collezionismo ma sensibile alla Storia, per fargli scoprire la magia degli oggetti filatelici, il loro potere nel riproporre il gusto delle grandi narrazioni.

Questo sarà il nostro racconto dell'unità nazionale: un'evasione dai confini della filatelia, con l'idea di dare un senso nuovo ai reperti filatelici, di tracciare un sentiero nuovo o di ripercorrerne uno antico con occhi diversi, sulla scia dell'emozione dello storico dilettante, di chi si diletta con la Storia, attraverso la filatelia.


Semiofori

Tutto tornò come prima, ma nulla fu più uguale a prima

E successe un Quarantotto!

Il Grande Tessitore


 

 

 

CI VEDIAMO IL 17 MARZO ...

... IL GIORNO DELL'UNITA' D'ITALIA

Commenti

  1. Vi invito a osservare la carta geografica della penisola nel 1859, o meglio, la rappresentazione che ne viene data nell'immagine utilizzata per le celebrazioni del 150° anniversario dell'unità nazionale. I Ducati di Modena e Parma sono scomparsi, annessi d'imperio al Granducato di Toscana. Non c'è speranza.

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  2. Trovate facilmente - su Youtube - il servizio delle "Iene" sull'impreparazione storica e culturale dei nostri politici sul giorno dell'unità d'Italia. Questo "buco di conoscenza", in sé piccolo, è in realtà gravissimo: perché attraverso quel buco si scorge un'ignoranza molto più vasta e profonda, in linea di principio inconciliabile con un ruolo di governo del Paese.

    Ma la cosa più divertente è un'altra, e non la trovate su Youtube. Ve la racconto io, ché ne conservo ancora nitida memoria.

    Giugno 1990. L'Italia ospita i Mondiali di Calcio. Esordiamo contro l'Austria, e una giornalista dell'allora Telemontecarlo se ne va in giro per Roma a raccogliere speranze, paure e pronostici dei tifosi italiani. Incrocia un gruppetto di signori in una piazzetta, e ci si ferma a chiacchierare. Uno di loro se ne esce così: "Caporetto, Caporetto ... per gli austriaci sarà una Caporetto, li conciamo per le feste, come abbiamo fatto a Caporetto, ... Caporetto, Caporetto ...". Sorride soddisfatto, di gran gusto, e poi a agita le braccia, simulando una scarica di botte su un austriaco immaginario. Il servizio termina e si ritorna in studio. I due conduttori - uno era Massimo Caputi - si guardano in silenzio, perplessi, per qualche secondo. Poi Caputi fa all'altro: "Ma a Caporetto non abbiamo perso?".

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