TROVERANNO ALTRI PALMA

IL CARTEGGIO SACCHI-MILON

1868-1870

"E così finisce la storia, del brigante ci resta a memoria.
Cari signuri l'avete capito, delinquente nisciun c'è nato".

"Alla fine del 1863, represso il brigantaggio grazie alla legge Pica, rimane la guerriglia". Beata lei, Professoressa De Lorenzo, convinta che nel 1863 il brigantaggio fosse ormai ridotto a una semplice guerriglia.

"Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un'implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l'opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un'altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti dall'idea di andare a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo".

Le parole di Emilio Visconti Venosta - Ministro degli Esteri del Regno d'Italia - sono datate 19 dicembre 1872; documentano una tensione persistente, in quei territori italiani che un tempo furono le Due Sicilie; esprimono il timore verso un movimento potenzialmente capace di riannodare le fila; testimoniano la percezione di un fenomeno suscettibile di rigenerarsi a ogni momento.
 
 "Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore ..."
 
"... e Ninco Nanco deve morire perché si campa putesse parlare,
e si parlasse putesse dire qualcosa di meridionale ...
... e Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare,
e il Sud è terra di conquista e Ninco Nanco nun ce po' stare".

"E per sconfiggere il brigantaggio e inaugurare l'emigrazione,
bisogna uccide il coraggio e Ninco Nanco è meglio che muore.
Perché lui è nato zappaterra e ammazzarlo non è reato,
e dopo un colpo di rivoltella l'hanno pure fotografato".

"E la sua anima è già distante, ma sul suo volto resta il sorriso,
l'ultima sfida di un brigante, quant'è bello murire acciso".
(Eugenio Bennato)

Cos'era il brigantaggio? Un rifiuto generalizzato del Risorgimento e dei valori nazionali o la scomoda eredità del malgoverno borbonico manovrata dai legittimisti? Una forma estrema di lotta di classe o la conseguenza dell'inettitudine al comando dei nuovi governanti? Quanto giocarono alcune scellerate decisioni politiche e quanto derivò dalla disillusione del mondo contadino sulla possibilità di un riscatto sociale?

Il cosiddetto brigantaggio politico durò sicuramente a lungo, se ancora nel dicembre del 1867, alla Camera dei Deputati, Massimo d'Azeglio denunciava le convivenze tra i briganti e i Borbone: "A Roma, per effetto della Convenzione di settembre, si mantiene un covo di reazionari, i quali lavorano a reagire sul resto d'Italia e sull'Europa, onde ristabilire le cose nelle condizioni in cui erano prima del 1860 [...]. Nessuno potrà negare che a Roma i Borboni alimentano il brigantaggio, e col denaro del quale dispongono mirano a riprenderci le province meridionali e a rompere l'unità nazionale".

Gli stessi funzionari borbonici registrarono dati e elaborarono statistiche sul brigantaggio ben oltre lo scioglimento del Governo in esilio, per fornire materiale ai pubblicisti e tener vivo il dibattito politico. Nel 1868 uscì il "Calendario de' quotidiani fatti d'arme fra indigeni, ed invasori", che documentava la degenerazione sociale causata dalle "sataniche arti della rivoluzione" e mostrava la pervicacia dei legittimisti nel tenere il punto.
 
Una vignetta satirica della storica rivista inglese "Punch" (24 agosto 1861).
 Papa Pio IX è "il vero capo dei briganti", raffigurato nell'atto di distribuire fucili alle bande.
 
 
 
Caricatura di Francesco II di Borbone (1866).
Il Re decaduto è abbigliato da brigante, 
con i simboli vaticani sul classico berretto a cono.



Una coccarda usata dai briganti, con la corona e il giglio borbonico.

L'intreccio tra lotta politica e dinamiche sociali, tra rivolta legittimista e movimenti popolari, portò con sé contraddizioni imbarazzanti. La reazione armata era la protesta spontanea dei napoletani - sulla scia di un banditismo storicamente a difesa della dinastia - ma gli osservatori internazionali rimasero perplessi davanti alle continue notizie dei tristi maneggi di Francesco II per foraggiare le orde brigantesche. L'eventuale ritorno dei Borbone non poteva passare per una guerriglia inaffidabile e squalificante sul versante diplomatico. Se pure la contro-rivoluzione avesse trionfato "in un reame sconvolto da cima a fondo" - annotò Pietro Calà Ulloa - il Re non avrebbe comunque potuto "reggere i suoi popoli con Ninco Nanco o Chiavone". Occorreva un cambio di rotta nella propaganda legittimista, capace di spostare gli equilibri internazionali.
 
L'argomentazione istituzionale diventò più raffinata, e se ne trova la più lucida formulazione nella "Analisi politica del brigantaggio" del Capitano Tommaso Cava de Gueva, pubblicata nel 1865. Nel trauma politico, quando i vincoli sociali sono distrutti, "ciò che si appella col vocabolo di brigantaggio, bisogna ripartirlo in tre classi, cioè reazionari puramente politici, reazionari briganti, e masnadieri grassatori". Se "la reazione fa la guerra col sistema delle guerrillas", perché vi è costretta, perché non può procedere altrimenti, allora è inevitabile che il conflitto lasci spazio a figure liminari - di estrazione popolare, quindi incapaci di frenare i propri istinti - che compiono violenza per semplice desiderio di vendetta. Questi sono i "reazionari briganti". C'era poi una "classe di malfattori per professione", distinta dal resto del corpo sociale, autentici banditi abili nell'approfittare della fase di destabilizzazione. Questa è la patologica criminale, e qui si appuntava l'accusa, non più centrata sul tema inflazionato della guerriglia, ma sull'aumento fuori controllo di furti e omicidi nelle statistiche criminali: un Governo incapace di "prontamente rimettere l'ordine pubblico dopo un cataclisma o una rivoluzione" è un Governo "inetto, ignorante ed iniquo", inadeguato a garantire la sicurezza pubblica e privata dei cittadini.
 
Il movimento popolare arrivò a capire - con fatica, in modo confuso - di avere interessi indipendenti dalle istanze dell'aristocrazia reazionaria, di vantare ragioni che oltrepassavano - e di molto - la rivolta legittimista e il sogno di un ritorno della dinastia. Lo dice bene il brigante Cipriano La Gala, proprio a un inviato del Borbone: "Tu hai studiato. Sei avvocato. E credi davvero che noi fatichiamo per Francesco II?".
 
Album fotografico della banda Masini, carcere di Potenza, 1866.
Il celebre fotografo Alphonse Bernoud è il probabile autore di queste "carte de visite".
L’album è conservato a Napoli, presso la Biblioteca Nazionale e il Museo di San Martino.
 
La manualistica scolastica racconta di un brigantaggio agli sgoccioli dopo il 1865, e invece disponiamo oggi di un carteggio che ne documenta la persistenza e la diffusione, anche se con bande a ranghi ridotti.
 
Il Generale Gaetano Sacchi fu nominato Comandante della Divisione militare di Catanzaro nel 1866, e incaricato nel 1868 della repressione del brigantaggio nelle Calabrie. Lo affiancò il Colonnello Bernardino Milon, ex militare borbonico passato all'esercito piemontese nel 1861, fautore di misure di estremo rigore. La sua posizione era riassunta in un comando brutale: "atterrite queste popolazioni".
 
Dal 1868 al 1870 vi fu una fitta corrispondenza tra il Generale Sacchi e il Colonnello Milon: 247 lettere - un centinaio di Milon a Sacchi, una cinquantina di risposte di Sacchi a Milon - che rivelano tutta la crudeltà della lotta tra lo Stato e i briganti, ma anche l'asprezza dei conflitti tra il Parlamento e l'Esercito, e le contrapposizioni all'interno dell'Esercito stesso.

Domenico Straface - soprannominato Palma - è il più famoso brigante di quest'epoca. Basso, robusto, ma con tratti signorili e dal portamento maestoso, "spinto al malandrinaggio da insinuazioni malvagie dei tristi", scriverà un giornale di Catanzaro nel commemorarlo. Saggio, scaltro, audace, spietato coi prepotenti e inesorabile con i traditori, accondiscendente e generoso con la popolazione. Sapeva leggere e scrivere, e componeva poesie per manifestare la sua infelicità e il rimpianto per una vita tranquilla. Incarnò la figura del brigante galantuomo: l'eroe romantico, il vendicatore dei poveri, il Robin Hood delle Calabrie. "Io sugnu amicu de li poverelli, a chi fazzu lu mantu, a chi u cappiellu" - io sono amico dei poverelli, a chi faccio il manto, a chi il cappello - era il suo ritornello. Stilava proclami per passione e li firmava Il Re della montagna, e Re, a suo modo, lo era davvero. Aveva una conoscenza capillare del territorio, su cui sapeva spostarsi con straordinaria destrezza. Godeva di una vasta e fitta rete di manutengoli. Contadini, pastori, boscaioli, e persino borghesi, erano sempre pronti a fornire armi, cibo, indumenti, informazioni e ospitalità - ricompensati coi denari delle azioni di brigantaggio. E poi il controspionaggio, quelle guide locali in teoria di supporto ai soldati piemontesi, e nei fatti eccellenti nel depistarli, nell'allontanare il pericolo da Palma e la sua banda.
 
"Il Palma ... cerca sempre di amicarsi due classi sociali, cioè la contadinesca e la classe molto ricca" - osservò il Luogotenente Mugnai - "la prima perché se ne serve nella campagna, la seconda perché la teme e ne è protetto, ed al contrario sfoga tutti i suoi delitti contro la classe agiata la quale non gli giova nella campagna, né ha la forza sufficiente per distruggerlo". La sua banda è "una vera potenza, a cui tutti s'inchinano o per amore, o per forza".

"Sono il capo dei briganti, inseguito, braccato,
ma sono il vero napolitano e quell'altro è un rinnegato.
Son l'erede di Robin Hood e difendo i disperati
dallo Stato della vergogna, con l'aiuto degli affiliati.
Sono il capo dei briganti, sono stato scomunicato
e combatto la guerra santa nell'anonima del peccato. 
Sono il capo dei briganti, protettivo, spietato,
disprezzato, osannato, ingiuriato, temuto ...".


"Onorevole Signore
Vengo con questi miei pochi versi a farvi
conoscere essere compiacente mandarmi
cinquecento piastre perché mi trovo
sprovvisto di denaro come ancora mandarmi
sei canne di mordiglione incastorato altre
sei canne di castoro verde lauro e sono
Palma era imprendibile. Sfuggiva a tutti gli inseguimenti, evitava ogni agguato, non cadeva in nessuna trappola. Lo accompagnava un'aura di magia, di invincibilità. Le sue imprese trasfiguravano nel leggendario. Oltre 400 soldati lo circondarono nel Bosco Morto, presso Mandatoriccio, il 26 marzo 1865, ma Palma riuscì a fuggire e salvarsi. Raddoppiò la posta a Zinga, nel crotonese: malconcio, affamato e ferito alle gambe, riuscì a sottrarsi all'accerchiamento di circa ottocento militari. Ebbe persino l'audacia di assistere a una rappresentazione nel teatro di Rossano, stracolmo di militari, tra cui il Colonnello Milon.

Nel 1868 la famiglia De Rosis rifiutò di consegnare del denaro a Palma, e il brigante reagì da brigante: sequestrò il figlio, Alessandro de Rosis, e lo trattenne per 36 giorni sino al pagamento del riscatto. In quei 36 giorni Alessandro de Rosis seguì suo malgrado la comitiva per i boschi e le montagne della Sila, e trovò modo di tenere un diario, che rappresenta una porta di accesso privilegiata al mondo del brigante Palma e dei suoi compagni.

La banda Palma contava appena una dozzina di persone, molto diversa da altre bande lucane che si atteggiavano a compagnie militari. La banda camminava a gruppetti, sparpagliati e ben mimetizzati. Alcuni andavano in perlustrazione, altri facevano da avanguardia, c'era chi stava in mezzo e chi rimaneva nelle retrovie. Gli spostamenti avvenivano la notte, secondo un principio di buon senso: schivare le vie battute e le distese aperte, preferire i boschi e le valli. Palma era il solo a conoscere l'itinerario, e lo svelava ai compagni solo a frammenti, tappa dopo tappa. C'era un imperativo, in caso di avvistamento di soldati: nascondersi e evitare il pur minimo scontro a fuoco. "Se vuole regnare lungamente, a due cose specialmente deve badare: a evitare gli scontri, e ove non possa evitarli a tenersi sulle difese. Così appunto mi son regolato sempre io, e mi son trovato assai bene. Se questi boschi potessero parlare vi direbbero che tutti quei briganti che andarono in cerca di scontri, non fecero mai lunga campagna. Uno scontro è come una partita allo zicchinetto, o si vince o si perde, colla differenza che in questo si perde denaro ed in quello la vita. E poi ancorché uno se ne esca vincitore si attacca addosso la vendetta dei superstiti".

Ci vollero anni, e terra bruciata ovunque, per far cadere Palma nell'immensa rete costruita per catturarlo. Della sua morte - il 12 luglio 1869 - abbiamo due versioni, accomunate dal tradimento del compare Pietro Librandi, attratto dalla taglia e spaventato dalla possibile accusa di complicità. In una versione Librandi uccise Palma con un colpo di rasoio, mentre lo radeva. In un'altra Palma morì nel bosco di Macchia Sacra, in uno scontro a fuoco  con un gruppo di carabinieri, indirizzati dal Librandi. Quel che rimane - di là della verità dei fatti - è il più macabro dei trofei: la testa del brigante.

"Ill.mo Sig. Generale ...
La testa di Palma mi giunse ieri al giorno verso le sei e mezzo.
E' una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese.
La testa l'ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito,
e chieggo a lei se vuole che la porti costì per farla imbalsamare,
non essendo capace nessuno di fare qui tale operazione.
Nel caso affermativo me lo faccia prontamente sapere ...
Si sono fatte delle fotografie della testa, 
e se riescono bene gliene spedirò un certo numero".
(lettera del Colonnello Milon al Generale Sacchi, 15 luglio 1869)

Il 17 marzo 1861 una storia finiva e un'altra iniziava, per il Mezzogiorno - come avevano preso a chiamarlo i piemontesi - e per l'intera penisola. L'entusiasmo scemava, la paura acquistava spazio, cresceva la consapevolezza che il legno storto da cui proveniva il Regno d'Italia potesse trasformarsi in materiale combustibile. Già Napoleone III - nella lettera a Vittorio Emanuele del 12 luglio 1861, con cui la Francia riconosceva finalmente il Regno d'Italia - aveva sottolineato l'importanza della gradualità nelle trasformazioni politiche, l'opportunità di una adeguata fase preparatoria alla  costruzione di una nuova Nazione, la necessità di armonizzare prima gli interessi, le idee e i costumi, per concludere con una contrapposizione tra unité e union - "l'Unité aurait du suivre et not précéder l'Union" - degna di approfonditi studi linguistici.
 
Vent'anni dopo, nel marzo del 1881, Edmond Desfossés scriverà un pamphlet sul conflitto tra Roma e Parigi per il controllo della Tunisia. Prima di rivendicare il protettorato sulla regione africana - argomentava l'opuscolo - il Governo italiano avrebbe dovuto "colonizzare il suo Mezzogiorno". Perché l'Italia non poteva pretendere di compiere una missione civilizzatrice sull'altra sponda del mare, quando l'industria e l'agricoltura delle sue province meridionali languivano nella più penosa inattività, quando centomila cafoni lasciavano ogni anno la loro terra alla ricerca di pane e lavoro nelle Americhe, e quando "le lazzaronisme et la camorra règnet à Naples, comme la mafia en Sicile, et, un peu partout, le brigandage s'exerce pour se maintenir au meme degré de force".
 
"Noi abbiamo tolto gli uomini, ma ho la ferma convinzione che le Calabrie troveranno altri Palma,
se le cause materiali e morali che ingenerano il 
brigantaggio non siano combattute
dallo sviluppo del benessere materiale e morale di queste popolazioni".
(Generale Gaetano Sacchi)

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