AMICI DI TUTTI, NEMICI DI NESSUNO

IL REGNO DELLE DUE SICILIE

(ALLA VIGILIA DELL'INVASIONE)

8 novembre 1830 - 4 maggio 1860

"Il mio popolo non ha bisogno di pensare:
io m'incarico di aver cura del suo benessere e della sua dignità".
(Re Ferdinando II di Borbone)

Cosa sono state le Due Sicilie tra il 1815 e il 1860, dal Congresso di Vienna sino all'invasione garibaldina?

Cos'è stato il Regno dei Ferdinando e dei Francesco, conquistato dai Borbone nel 1734, perduto per un istante nel 1799, poi per un decennio dal 1806 al 1815, e infine restaurato come Regno delle Due Sicilie, sino al sua scomparsa nel 1860?

"Il mio popolo obbedisce alla forza e si curva:
ma guai s'egli si raddrizzasse sotto gl'impulsi di questi sogni,
che sono sì belli nei sermoni dei filosogi ed impossibili in pratica!
Coll'ajuto di Dio, io darò al mio popolo la prosperità
e l'onesta amministrazione cui ha diritto,
ma io sarò re solo e sempre".

"Nobili e popolani convivevano sotto il cielo della stessa dolente rassegnazioneLe differenze di censo erano marcate e si vedevano: quelli avevano di più di tutto, mentre questi dovevano arrabattarsi tutto il giorno per mettere insieme il pranzo con la cena. Però stavano, gomito a gomito, senza conflitti, come se quelle condizioni fossero state decise da un destino che non poteva essere messo in discussione.

Anche il re poteva essere indifferentemente uno di loro.

Napoli restava una città mediterranea: colorata, talvolta sporca, tiepida anche nei giorni di freddo, cordiale, avvezza a impicciarsi dei fatti altrui ma anche disposta all'ospitalità. Fra la gente era tutto un rincorrersi di urla e di grida, per salutarsi, per offrire merce, per informarsi della salute dei parenti o pregare per una cortesia. Tutto a cielo aperto, senza segreti né vergogne. Spaghetti e mandolino, Pulcinella e il Vesuvio (con un filo di fumo) erano, già allora, le immagini un po' stereotipate che disegnavano gli umori e il carattere della gente.

Era una città di esagerazioni, contrasti ed eccessi, che si esprimeva con un surplus di decibel e con un gesticolare da teatro. Sarebbe da dire che era un popolo ottimista: non aveva nulla, non invidiava nessuno e restava prigioniero della sua gioia di vivere. Si faticava, si cantava, si pregava san Gennaro durante le feste comandate, si attendeva il carnevale che portava l'albero della cuccagna con qualche prelibatezza da mangiare.

Borboni cercarono di compiacere il loro popolo senza governarlo".

Lorenzo Del Boca fotografa un popolo stagliato in un tempo ciclico e perpetuo, felicemente chiuso in sé stesso, affezionato alle sue tradizioni, compiaciuto del suo folklore, per sua fortuna sprovvisto di un'educazione politica altrove pagata a caro prezzo. Nel Regno non mancava la modernità - negli insegnamenti universitari, nelle società economiche, tra gli imprenditori -, ma sicuramente non vi fu mai una cultura della modernità, una prospettiva progettuale, una spinta costante alla modernizzazione delle istituzioni, della legislazione e delle infrastrutture.

"Ferdinando II e il suo governo giudicavano queste libertà assolutamente superflue, una perdita di tempo, un chiacchierare a vuoto, un ostacolo anzi alla ricchezza, all'incoraggiamento industriale, al progresso" - annota Alberto Mario Banti. "Il 'borbonismo' era tutto qui: disprezzo e irrisione per l'ingegno, per gli scrittori, gli uomini di cultura, il giornalismo intelligente, e interesse solo per alcune innovazioni tecniche (così era stato per la ferrovia del 1839, l'illuminazione a gas di Napoli e altre piacevoli comodità) e incoraggiamento dall'alto a iniziative economiche utili. Volendo essere obiettivi, il metodo di governo dei Borbone poteva anche apparire, con il suo proclamato buon senso, con la bonomia di padre di famiglia impersonata dal re, un modo di essere vicini alla gente, di aderire alla realtà del paese [...]. Ferdinando II, i suoi amici nobili e i suoi consiglieri si sentivano umanamente e politicamente vicini ai lazzaroni, alla plebe e ai preti ignoranti (condividendo la loro volgarità, le loro spesso ciniche battute di spirito, i lazzi e le buffonerie di un 'napoletanismo' scherzoso ma intellettualmente finto e disonesto) che non alla borghesia in ascesa. Ritenevano non necessarie alla società le persone istruite, tranne, dicevano, i medici per curare gli ammalati e gli ingegneri per costruire le case [...]. Nel regno persino una struttura portante come le forze armate risentiva della diffidenza del re nei confronti di una possibile crescita culturale dei militari".

Nel Regno delle Due Sicilie - osserva Renata De Lorenzo, con piglio critico - "il sovrano ha cercato di identificarsi col primo ministro, in un regime personale che annulla qualsiasi tentativo di creare una direzione collettiva e non dà spazio ai collaboratori e alle burocrazie nelle decisioni essenziali". Il Re incarna il potere, e il Regno è incapace di esprimersi senza il suo Re, che "governa quindi sulla base di un paternalismo che parte dall'entourage familiare e si estende alla nazione, offrendo ai suoi sostenitori gli spunti per evidenziare l' 'amore' della plebe per i propri sovrani; è una scelta che comporta l'isolamento, la separazione da quei sudditi che aspirano a forme di partecipazione basate sul costituzionalismo, lo sfasamento nel confronto con l'Europa". Le stesse eccellenze del Regno - la navigazione a vapore, le ferrovie, l'esercito - "appartengono al campo dei primati e degli investimenti straordinari che tuttavia spesso subiscono una stasi successiva", non evolvono cioè in normalità, non dispiegano un benessere diffuso alla portata dei più.

Il Mezzogiorno italiano - nella percezione europea - era uno straordinario museo a cielo aperto, abitato però da un popolo barbaro e incivile, il celeberrimo "paradiso abitato da diavoli" - con l'immagine coniata dal Professor Omeis, nella prolusione accademica del 1707 - che sarà un motivo ricorrente nei diari e nelle corrispondenze dei visitatori stranieri. Lo spettacolo delle meraviglie artistiche e naturali era adombrato dalla sensazione di un'endemica arretratezza istituzionale, di un'inadeguatezza della classe dirigente, di un degrado culturale, morale e persino antropologico dell'intero popolo.

Questo giudizio oltrepassò i pur obiettivi dati di fatto, per trasformarsi un pre-giudizio, e il pregiudizio politico e sociale si saldò col pregiudizio anti-cattolico, verso un  Regno poco solcato da strade, ma seminato di chiese, conventi, monasteri e santuari. Gli eccessi religiosi - la devozione di San Gennaro a Napoli, la fastosa e paganeggiante processione in onore di Santa Rosalia a Palermo - apparivano la testimonianza vivente della nefasta influenza del Papato, del suo sinistro potere nel soggiogare le masse, nel tenerle in una situazione di soggezione e subalternità. Il sentimento religioso penetrava nella società rurale e urbana, ma anche nell'esercito e nelle amministrazioni, a testimoniare una tendenza tutta napoletana all'esasperazione del culto, dei riti, delle commemorazioni, sui cui pesava un malcelato giudizio di bigottismo se non di superstizione. Il Cancelliere austriaco von Metternich riteneva impossibile una rivoluzione nel Regno, perché quello meridionale - diceva - "è un popolo mezzo barbaro, di un'ignoranza assoluta, di una superstizione senza limiti, ardente e passionale come lo sono gli africani". Lo stesso Ferdinando II - nella narrazione di Benedetto Croce - aveva confidato a un diplomatico che proprio lì, nella sua  Napoli, "cominciava l'Africa".

E' sufficiente tutto questo a definire i Borbone di Napoli "la negazione di Dio eretta a sistema di governo", a giustificare l'annientamento di una dinastia secolare e la scomparsa di un Regno millenario?

"... gli studiosi che hanno promosso una revisione della vicenda del processo unitario [...] 
sono 'professori di storia' e non dilettanti allo sbaraglio, adepti di qualche congrega neo-borbonica.
E per farlo basterà qui ricordare i nomi
di Paolo Macry, Roberto Martucci, Paolo Malanima, Salvatore Lupo.
Nessuno di loro, certo, ha tessuto le lodi del buon governo di Ferdinando II,
ha paragonato lo sviluppo industriale del Regno del Sud a quello dell'Inghilterra,
ha preteso di fare della capitale borbonica una città moderna,
simile per il suo sviluppo urbanistico a Londra e Parigi.
Gli storici revisionisti non hanno alimentato il mito della Borbonia felix,
ma hanno ricordato che nessun'altra parte d'Italia meritò quell'appellativo".



"... se i bilanci degli altri Stati italiani (Piemonte in testa)
segnavano il profondo rosso, con grande difficoltà a ottenere prestiti dall'estero,
i titoli sovrani delle Due Sicilie erano ritenuti un investimento sicuro in tutte le piazze europee. [...].
I titoli napoletani prima del 1861 pagavano il tasso più basso (4,3%)
140 punti in meno delle emissioni piemontesi che rappresentavano il 44% del debito unitario.
Forzando un paragone, si potrebbe dire che il Regno di Napoli
economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona.
Del resto [...] Napoli era la sola metropoli della Penisola.
E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale,
anche se soprattutto concentrata nel settore pubblico,
un'agricoltura prospera che esportava i suoi prodotti in Europa e negli Stati Uniti,
porti ben attrezzati e una forte marina commerciale".



"La più recente storiografia tende a rivalutare l'opera politica e sociale dei Borbone
durante il periodo in cui essi regnarono a Napoli e in Sicilia.
In effetti per un certo tempo dopo la loro caduta conseguente all'azione garibaldina,
la maggior parte degli storici mise in cattiva luce i sovrani
imputando loro parecchie inefficienze amministrative,
e soprattutto accusandoli di praticare nei confronti dei loro sudditi
un regime pesantemente poliziesco.
Non è compito nostro indagare e formulare giudizi concernenti la seconda accusa,
ma per ciò che riguarda le inefficienze amministrative
non ci pare che l'operato dei Borbone sia stato completamente negativo,
almeno per quanto riguarda i servizi postali di cui ci occuperemo in questa sede".
(Andrea Corsini)

La negazione di Dio eretta a sistema di governo è un'espressione del politico inglese William Ewart Gladstone. Nella sua semplicità, nella sua esagerazione, nella sua enfasi retorica si rivelò di un'efficacia denigratoria travolgente. Diventò il tormento dei Borbone. Rappresentò il manifesto sotto cui riunire tutti i nemici della dinastia.

Le Due Sicilie - al centro del Mediterraneo - erano uno snodo cruciale per ogni strategia politica, commerciale e militare. Lo sapeva l'Inghilterra, desiderosa di riconquistare quella posizione di vantaggio acquisita nel 1806 e poi accresciuta tra il 1811 e il 1815. Lo sapeva pure la Francia, intenzionata a recuperare un ruolo di prestigio sullo scacchiere internazionale.

Gli interessi delle due principali Potenze europee nel Regno delle Due Sicilie - le loro azioni congiunte e a tratti concorrenziali contro i Borbone, dalle schermaglie diplomatiche al supporto economico e militare dei rivoluzionari - giocarono una parte decisiva nella caduta di un Regno che forse sarebbe caduto ugualmente per esaurimento fisiologico, per mancanza di ammodernamento delle strutture politiche, sociali e economiche, ma che sicuramente non è morto di morte naturalenon è morto nel suo letto.





Luigi SettembriniProtesa del Popolo delle Due Sicilie, 1848.
"Palmerston aveva finanziato, utilizzando fondi riservati del Tesoro britannico,
una spedizione per liberare Luigi Settembrini [...],
Silvio Spaventa e Filippo Agresti condannati a morte nel 1849,
la cui pena era stata commutata nel carcere a vita
da scontare nell'ergastolo dell'isolotto di Santo Stefano.
L'operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento,
ma anche quel tentativo dimostrò, comunque,
quale fosse il rispetto di Londra per la sovranità dello Stato borbonico
e come la ferma volontà dimostrata da Ferdinando II
di rivendicare l'autonomia del suo Regno nelle grandi scelte di politica estera
fosse prossima a ricevere un'esemplare punizione.
Punizione che i governi alleati avrebbero giustificato,
servendosi di motivazioni completamente strumentali,
tutte concentrate sulla politica interna delle Due Sicilie,
nell'impossibilità di usarne altre motivate da reali giustificazioni giuridiche
attinenti la violazione del diritto internazionale".
(Eugenio Di Rienzo)



Luigi Settembrini, Napoli 1813-1876.
Educato dal padre a idee liberali, esponente di spicco della setta "Unità italiana",
autore del pamphlet "Protesa del Popolo delle Due Sicilie" (pubblicato in forma anonima).
Arrestato nel 1849, condannato a morte e poi graziato, con la pena commutata in ergastolo.
da scontare sull'isola di Santo Stefano, dove rimarrà sino al 1859.
Ne viene quindi disposta la deportazione negli Stati Uniti,
ma il figlio Raffaele riesce a far dirottare la nave in Inghilterra.
Settembrini torna libero insieme ad altri 67 condannati, tra cui Carlo Poerio,
e rimarrà a Londra sino al momento dell'unità di Italia.
Un aneddoto grottesco - narrato da Benedetto Croce - ne restituisce la volubilità d'animo.
Settembrini insegnò nell'Università di Napoli dal 1861, per poi diventarne rettore.
Avvertì un rammarico crescente per il dissolversi dei costumi napoletani dopo l'unificazione,
sino a rispondere nel modo più improbabile agli studenti che lamentavano
l'iniquità della distribuzione dei fondi scolastici e la pertinenza di alcuni regolamenti:
"Colpa di Ferdinando II!
Se avesse fatto impiccare me e gli altri come me,
non si sarebbe venuto a tutto questo!".



Carlo Poerio, Napoli 1803 - Firenze 1867.
Liberale moderato, impegnato nel trasformare la monarchia, da assoluta in costituzionale.
Sorvegliato dalla polizia borbonica, come elemento sospetto, viene arrestato nel 1837, 1844 e 1847.
Figura di riferimento nei moti del 1848 che portano alla concessione della Costituzione.
E' membro del governo costituzionale di Napoli,
prima come Direttore Generale di Polizia, poi come Ministro dell'Istruzione,
per rassegnare infine le dimissioni a seguito dei fatti del 15 maggio,
quando le tensioni tra il Sovrano e il Parlamento danno origine a una rivoluzione popolare.
Condannato a 24 anni di carcere duro, dopo la restaurazione della monarchia assoluta.
Nel 1859 la pena è commutata in una deportazione negli Stati Uniti d'America,
ma la nave è dirottata in Inghilterra, e da lì Poerio ripara in Piemonte,
dove prende attivamente parte alla vita politica del nascente Regno di Italia.
"La polizia borbonica era corrotta e tirannica,
ma l'aspetto peggiore dell'amministrazione napoletana consisteva nella lentezza della giustizia,
come abbiamo riscontrato in tutti i casi in cui erano coinvolti cittadini britannici.
Gli oppositori politici erano spesso detenuti per anni in attesa del processo
e questo fu, appunto, il destino di Poerio.
Ma le torture alle quali Poerio, si dice, sia stato sottoposto
 furono, a mio parere, inventate di sana pianta.
Nessun individuo, trattato in maniera tanto disumana,
avrebbe potuto ristabilirsi così rapidamente in soli tre mesi 
e apparirmi in così florida salute, come Poerio
che, quando mi fu presentato, nel 1859, alla Camera dei Lords dal Conte di Shaftesbury,
venne da me scambiato per un giovane Pari reduce da una salubre villeggiatura".

Borbone di Napoli erano di per sé pacifici, quieti, ostinati fautori del principio di neutralità. L'abate Galiani - tra i più geniali sostenitori della dinastia - ne aveva magistralmente teorizzato i fondamenti nell'opera "De' doveri de' Principi neutrali verso i principi guerreggianti e di questi verso i neutrali", del 1782. Re Ferdinando II - salito al trono l'8 novembre 1830 - ne diventò il migliore interprete politico. Re Ferdinando non covava ambizioni espansionistiche. Desiderava al più una razionalizzazione del suo Regno, col recupero dell'isola di Malta e l'annessione delle enclave di Benevento e Pontecorvo. Concepì sin da principio le Due Sicilie - con le celebri parole di Benedetto Croce - come un Regno "nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé" e "fin dai primi anni di regno, guardingo e abile, si avvicinò alla Francia, si liberò della tutela dell'Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso l'Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell'Impero".

Ma le prescrizioni teoriche dell'abate Galiani e l'intransigenza politica di Re Ferdinando prospettavano scenari istituzionali complessi da governare, per un Regno a un tempo troppo piccolo per intraprendere una politica estera autonoma e troppo grande non urtare gli interessi di altre Potenze europee.

La cosiddetta Prima Guerra Carlista - nel 1834 - è lo strappo iniziale in rapporti internazionali destinati a lacerarsi nel tempo. Le Due Sicilie si tengono neutrali nel conflitto per la successione al trono di Spagna, col risultato di indispettire un po' tutti, Vienna, Berlino, San Pietroburgo, ma anche Parigi e soprattutto Londra, stanca delle velleità di autonomia dei Borbone, della (presunta) arroganza di una dinastia percepita ancillare nel gioco degli equilibri europei.

La posizione geografica del Regno riempiva il conflitto ideologico di interessi materiali. Rilevava - già allora - la dimensione economica. La bilancia commerciale britannica pendeva verso la Sicilia. Vino, olio d'oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla. E poi lo zolfo - usato per preparare la soda artificiale, l'acido solforico, la polvere da sparo - che copriva il 90% della richiesta mondiale.

"Signori, Loro hanno ascoltato la nota del Ministro d'Inghilterra;
oggi trattasi di decidere la questione
se di debba o no cedere alle pretenzioni ed alle minacce ci dirigono;
si tratta di una questione d'onore e di dignità.
Io per me sono pronto a respingere le une come le altre ...
Vi sono taluni che ci consiglierebbero di cedere, 
ma sanno cosa guadagneressimo con ciò,
oltre alla perdita della dignità ed alla macchia dell'onore?
Bisognerebbe assoggettarsi alle instancabili richieste dell'Inghilterra ...
Quello che ho operato riguardo al contratto degli zolfo era nelle mie facoltà
e non vi è in esso manco un'ombra di violazione di trattato.
E' un diritto sovrano innegabile il fare quanto richiede la prosperità ed il benessere dei popoli.
Gli Inglesi guadagnavano tanto al commercio de' zolfi sol pregiudizio dei nazionali,
che non vogliono vedere diminuire il lucro loro, e perciò vogliono imporci la legge.
Potevo e volevo accomodare spontaneamente l'affare,
ma non lo posso più sotto l'imperio dell'altrui minacce:
sarebbe discreditarmi ...
La fermezza è il partito che ci conviene contro ingiuste pretensioni".

"La Gran Bretagna, attraverso le famiglie dei suoi capitani d'azienda, aveva un'influenza economica spropositata nelle province attorno a Palermo" - scrive Lorenzo Del Boca. "Fra le imprese che gestivano con maggior profitto, c'era quella dell'estrazione dello zolfo, le cui miniere sull'isola, venivano considerate fra le più ricche e, essendo a cielo aperto, le più facili da sfruttare.

Lo zolfo, allora, valeva quanto l'uranio oggi e più della metà del prodotto estratto in Italia meridionale prendeva la strada del mare, diretto a Londra, per i bisogni della corona e dell'industria anglosassone.

In un primo tempo, i Borboni avevano garantito agli inglesi una sorta di monopolio. Poi, avendo compreso che quegli accordi commerciali erano dannosi per la loro famiglia e per lo Stato, avevano tentato di introdurre qualche elemento di concorrenza affidando una parte di concessione ai francesi di Marsiglia della compagnia Taix e Aycard.

Era stato lord Palmerston il primo a protestare per un atto che considerava una specie di esproprio, e l'aveva fatto con il tono del padrone che esige riparazione piuttosto che con quello del governante che chiede ragione al collega. I rapporti si erano guastati. Re Ferdinando, alla festa del suo compleanno, con una quantità di ospiti stranieri, non aveva salutato la delegazione inglese presente alla cerimonia. E aveva riservato le sue attenzione ai russi, lasciando intendere che là avrebbero potuto approdare gli interessi politici e finanziari del Sud Italia.

La guerra economica aveva rischiato di diventare una guerra guerreggiata. Erano state mobilitate le flotte e almeno 12.000 soldati si erano preparati a intervenire. Alla fine, per le premure degli Stati della Santa Alleanza, un giurì d'onore incaricato di occuparsi della questione si era pronunciato, il 21 luglio 1840, per un ripristino delle condizioni di monopolio industriale a favore degli inglesi.

Risolto sulla carta, quel contenzioso aveva però lasciato uno strascico di rancore e diffidenza che un documento non poteva cancellare.

I rapporti fra i due governi erano del tutto compromessi e nessun atto formale di amicizia o di reciproco rispetto avrebbe potuto rabberciare ciò che - definitivamente - si era rotto".

Nel 1836 le imprese francesi Taix e Aycard organizzarono un cartello per strappare il monopolio dell'estrazione dello zolfo a un blocco di imprese inglesi che ne beneficiava storicamente a fronte di un canone irrisorio. Nel gennaio del 1837 la Consulta dei Reali Domini diede parere favorevole ma non unanime alla proposta francese, stretta tra il desiderio di spuntare un maggior profitto dalla concessione e il timore di ritorsioni da parte dell'Inghilterra. L'ambasciatore inglese a Napoli stigmatizzò la decisione con una protesta ufficiale a tutto campo, che poneva all'attenzione questioni di diritto, di economia, di diplomazia: "il consenso all'accordo proposto dalle aziende francesi non solo avrebbe costituito una violazione della convenzione del 1816, tale da arrecare un serio danno ai diritti dei sudditi inglesi" - si legge nella nota di inizio febbraio - "ma avrebbe anche rischiato di deteriorare le amichevole relazioni tra i due Paesi sviluppatesi fino a questo momento con reciproco vantaggio". La replica del Ministro degli Esteri napoletano - nel giugno 1838 - fu altrettanto netta: "ogni Governo è padrone delle sue azioni sino a che non offendano i diritti propri perfetti di un altro Stato e quando non sia stretto a quest'ultimo, con obbligazione, come dicesi, esterna e perfetta". Era iniziata la Sulphur War, la Guerra degli Zolfi, combattuta su ogni fronte: economico, militare, diplomatico.

Il 3 aprile 1840 la flotta inglese riceve l'ordine di intercettare un naviglio napoletano, dirottarlo verso Malta e trattenerlo sin quando il Governo di Sua Maestà non avrà soddisfazione. Da lì a pochi giorni una squadra navale inglese esegue una manovra intimidatoria nel Golfo di Napoli. Altre formazioni navali salpano intanto da Corfù verso Capo Santa Maria, per allargare all'Adriatico e allo Ionio il raggio d'azione di una guerra di corsa che porterà alla cattura di quindici vascelli borbonici. Ferdinando II non sembra intimorito. Dispone il divieto di salpare e attraccare nei porti del Regno, per tutte le navi inglesi. Trasferisce un contingente di 12.000 uomini in Sicilia, per  presidiarne le coste. Invia circolari a Prussia, Austria e Russia, e ne invoca l'intervento per impedire più violente azioni di rappresaglia da parte degli inglesi.

Il Cancelliere austriaco von Metternich tenta una conciliazione, senza successo, e serve l'opera di mediazione del Re francese Luigi Filippo per scongiurare l'apertura di un conflitto militare. Londra la spunta, Napoli molla la presa. L'accordo di luglio - pur giudicando le pretese inglesi "suggerite da improba avidità" - obbliga Re Ferdinando ad abrogare il monopolio concesso al trust Taix-Aycard e a risarcire i danni subiti dalle imprese britanniche e francesi.

Nuovi accordi commerciali tra Londra e Napoli, reciprocamente vantaggiosi, permisero di ricomporre le relazioni economiche, ma non accadde altrettanto per le relazioni diplomatiche, che si mantennero tanto corrette nella forma quanto fredde nella sostanza. Di là del fatto economico - pur rilevante - si intravedevano già logiche politiche e rapporti di forza. Londra e Parigi, nel rifiutare la mediazione dell'Austria, avevano indirettamente segnalato l'intenzione di ridimensionare il ruolo delle Potenze reazionarie nella penisola, di privare la Monarchia napoletana del suo più autorevole sostegno internazionale, di denunciarne pubblicamente lo stato di sovranità limitata.

"La Gran Bretagna non ha alleati, amici o nemici eterni, ma soltanto interessi permanenti,
il perseguimento dei quali costituisce l'unico dovere imprescrittibile per ogni suddito inglese".
(Henry John Temple, III Visconte Palmerston, 1 marzo 1840)

La Primavera dei Popoli era durata solo un anno, quell'anno, il 1848, in cui l'Europa sembrava esser andata sottosopra. Il movimento era partito dalla Sicilia, gravido di speranze e ambizioni, e alla Sicilia era ritornato, appesantito da frustrazioni e disillusioni. Azione e reazione.

L'inizio è travolgente. Ferdinando II concede la Costituzione e schiera le sue truppe al fianco degli eserciti "italiani" - Sardegna, Toscana e Pontificio - nella Prima Guerra di Indipendenza. La Sicilia coltiva velleità separatiste, rincuorata dal sostegno degli inglesi. Londra è pronta a schierarsi al fianco dei siciliani, se la scelta del popolo cadrà su un Governo a guida di un membro di Casa Savoia, in alternativa alle candidature del secondogenito di Ferdinando II e del figlio del Granduca di Toscana (avanzata dalla Francia). Poi la svolta inattesa. Il Papa si defila improvvisamente dalla guerra e Re Ferdinando ne raccoglie tutte le implicazioni, spingendole sino alle conseguenze ultime. Richiama in patria l'esercito appena giunto sulle rive del Po, scioglie il Parlamento e la Guardia Nazionale, forma un nuovo Governo, proclama lo stato d'assedio e si riappropria di Napoli con una feroce azione repressiva. La Sardegna si tira fuori dalla questione siciliana. Carlo Alberto ha già preso troppe sberle dagli austriaci, per immaginare di entrare in conflitto anche con i Borbone.

La Sicilia sembra ora alla mercé di Francia e Inghilterra, entrambe allettate dalla prospettiva di trasformarla nel proprio santuario da cui controllare il Mediterraneo. La Francia è favorevole alla creazione di un'entità repubblicana, in vista della formazione di una Lega di Stati Sovrani affrancanti dal protettorato austriaco, che possa contrastare le tendenze egemoniche del Piemonte e degli Asburgo. L'Inghilterra ripiega su una posizione più cauta, dopo aver inizialmente incoraggiato il progetto separatista. Sponsorizza un regime costituzionale e un ampio ventaglio di autonomie, con l'idea di trarre vantaggi immediati rispettosi della balance of powers mediterranea, e nella prospettiva di accrescere la sua influenza economica, radicare il proprio condizionamento politico, e inibire l'ingresso dell'Isola nell'eventuale sistema di alleanze tra regimi liberali italiani auspicato dalla Francia.

Lo stallo istituzionale e la complessità della situazione internazionale volgono a tutto vantaggio di Re Ferdinando, il legittimo Sovrano, che avvia il suo programma di reconquista. Prima Messina, poi Catania e infine Palermo tornano sotto il dominio borbonico, a seguito di una campagna militare che varrà a Ferdinando l'appellativo di "Re Bomba", per la violenza dell'azione repressiva e in special modo per il cannoneggiamento ininterrotto sulla città di Messina. Nel maggio 1849 la Sicilia è domata e ricondotta sotto il dominio del Regno.

Alla delusione per lo sviluppo degli eventi segue la rabbia per l'ipocrisia degli inglesi. "Il gabinetto di Sua Maestà non aveva mai mancato di consigliarvi un accomodamento con il vostro legittimo Sovrano per evitare la triste situazione alla quale la vostra ostinazione vi ha condannato". Lord Palmerston liquida così i siciliani che gli chiedono conto del voltafaccia inglese, ma il suo doppio gioco è tutto nella nota del settembre del 1849, indirizzata al Ministro degli Esteri napoletano. "La rivoluzione siciliana" - nell'opinione inglese - "era stata provocata dal malcontento generale, antico, radicato, causato dagli abusi del governo borbonico" e "qualora Ferdinando II avesse [...] perseverato nella sua politica di oppressione, il Regno Unito non avrebbe assistito passivamente a una nuova crisi tra il governo di Napoli e il popolo siciliano".

  Ferdinando II amava dire che il suo Regno era difeso
per tre lati dall'acqua salata e per il quarto dall'acqua santa:
il mare come barriera naturale, lo Stato Pontificio come bastione istituzionale.
Nel 1848 l'Inghilterra aveva però indebolito l'argine dell'acqua salata,
con la sua indebita ingerenza negli affari della Sicilia.
I fatti del 1849 insinuarono poi dubbi sull'inviolabilità dell'acqua santa.
I mazziniani avevano deposto il Papa nel novembre del 1848,
e proclamato la Repubblica Romana nel febbraio del 1849.
  Ferdinando smaniava per marciare sui territori pontifici,
ma l'onere e il privilegio della riconquista di Roma spettava alla Francia,
secondo quanto tacitamente convenuto tra le Potenze cattoliche.
  Re Ferdinando iniziò ugualmente la sua personale guerra di liberazione,
stimolato dall'inatteso successo delle bande repubblicane all'assalto transalpino.
La congiuntura sembrò favorire una possibile alleanza militare tra Napoli e Parigi,
ma la Francia riprese l'esclusiva dell'operazione e obbligò l'esercito borbonico a ripiegare.
 Ne approfittò Garibaldi, che incalzò le truppe napoletane con una serie di guerriglie
per far intendere che il Borbone era stato cacciato da Roma in virtù del valore delle sue armi,
e non - come effettivamente era avvenuto - per il diktat di Napoleone III.
Parigi alla fine prevalse sui mazziniani, sputando anche una vittoria politica:
presidiare parte dei domini pontifici significava costituire un avamposto francese sulla penisola,
 controbilanciare la presenza austriaca e proporre la Francia come referente della politica italiana.
La Monarchia napoletana - a conclusione del 1848-49 - aveva sì recuperato tutti i suoi territori,
consolidato il suo potere all'interno del Regno e liquidato l'opposizione liberale,
ma la particolare dinamica degli eventi era un chiaro segnale sui pericoli all'orizzonte. 

Il 4 ottobre 1853 scoppia la Guerra di Crimea, "una guerra assurda, incomprensibile e inutile" - commenta Alessandro Barbero - "combattuta dalle due grandi potenze occidentali, l'Inghilterra e la Francia, le due potenze liberali, contro l'Impero degli Zar, l'Impero più reazionario che ci sia".

Il conflitto cambia presto fisionomia, dilata i suoi significati da operazione militare circoscritta a offensiva diplomatica di ampio respiro. Parigi e Londra cavalcano il pericolo russo, lo strumentalizzano, sino ad attirare Vienna nell'orbita dell'alleanza occidentale e portarla a sottoscrivere - nell'agosto del 1854 - un progetto di "pace punitiva" da sottoporre alla Russia: se lo Zar accetterà senza condizioni, senza negoziare i termini della pace, allora si porrà fine alla ostilità, altrimenti anche l'Austria dovrà imbracciare le armi contro il suo alleato storico, avendone in cambio la garanzia di uno status quo inalterato nella penisola italiana. L'accordo tra Francia e Austria - quel patto di reciproca astensione dagli affari italiani - non aveva avuto nulla di cordiale. Le pressioni bonarie avevano presto lasciato il posto a intimidazioni esplicite. Napoleone III aveva minacciato l'ambasciatore austriaco di "faire insurger l'Italie" - di scatenare un movimento rivoluzionario di vasta portata, esteso a Napoli, Parma, Modena e Toscana - se l'Austria avesse preferito rinsaldare l'alleanza con la Russia.

L'Imperatore Francesco Giuseppe indovina la mossa ma sbaglia i tempi, la sua decisione arriva tardi rispetto allo sviluppo degli eventi. Lancia l'ultimatum alla Russia nel dicembre del 1855, quando il Regno di Sardegna era sul campo di battaglia già da vari mesi - belligerante nell'alleanza franco-britannica da aprile - e la caduta di Sebastopoli - a settembre - aveva già indirizzato l'esito del conflitto. La presa di posizione di Vienna convince sì lo Zar a una resa incondizionata, ma la credibilità e l'autorevolezza dell'Impero sono compromesse agli occhi di vincitori e vinti, e i diplomatici austriaci percepiti come interlocutori marginali al tavolo delle trattative di pace.

Il Congresso di Vienna è al capolinea. La Francia non è più un gigante incatenato, e può ora manifestare le proprie ambizioni espansionistiche. La Russia è estromessa dal direttorio delle grandi Potenze, ripiega su una politica revisionista, e indebolisce di conseguenza l'asse con gli Asburgo. L'Austria si ritrova così isolata nel voler preservare l'assetto geopolitico della Restaurazione, anticamera del progressivo sfaldarsi del suo predominio nella penisola.

E gli Stati italiani? A nessun Sovrano erano sfuggite potenziali conseguenze del conflitto sugli equilibri internazionali, ma le scelte furono diverse e piuttosto polarizzate. Solo il Piemonte scese sul campo di battaglia, e volle anzi l'esclusiva, inibendo lo slancio de Ducato di Parma, che pure era disposto a schierare il suo piccolo ma agguerrito esercitoIl Ducato di Modena, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio preferirono rimanere semplici spettatori, pur parteggiando apertamente per la Russia.

E poi le Due Sicilie, la Corte di Caserta, amici di tutti e nemici di nessuno. Re Ferdinando era consapevole della strumentalizzazione del conflitto, del pretesto della difesa della civiltà europea contro la barbarie orientale per riconfigurare la penisola. Sapeva di Napoleone III, della sua capacità di ricattare l'Austria con la prospettiva di una rivoluzione italiana, spalleggiato o almeno non ostacolato dall'Inghilterra, e incentivato dal Regno di Sardegna. Stessa consapevolezza del Governo piemontese, dunque, ma diverso atteggiamento. Napoli e San Pietroburgo erano storicamente legati da vincoli politici e relazioni commerciali, e Ferdinando conservò perciò una posizione di benevola neutralità, per non spezzare accordi economici profittevoli, per puntellare l'alleanza con gli Stati reazionari, per non dare pretesti a insurrezioni interne o a iniziative delle Potenze occidentali contro la sua sovranità.

Napoli respinse sistematicamente gli inviti di Londra e Parigi a schierarsi al loro fianco, arrivò persino a imbarazzare Vienna coi suoi ostinati rifiuti e i tentativi di dissuaderla dal partecipare all'alleanza franco-inglese, e fatto più rilevante stabilì misure economiche restrittive verso Francia e Inghilterra, e di riflesso a sostegno della Russia. Re Ferdinando non poteva fare di più per prendere le parti dello Zar Nicola, che pure lo sollecitò ad affiancarlo, avendone in risposta un rifiuto motivato dal desiderio di evitare lo scontro con l'Austria. Re Ferdinando poteva prendere posizione - e prese posizione - solo implicitamente, con embarghi, blocchi e divieti, suscitando le proteste a decibel crescenti di Francia e Inghilterra.

Nell'agosto del 1855 la crisi diplomatica toccava il suo apice. Il Primo Ministro inglese Lord Palmerston denunciava che "nonostante la distanza geografica che separava i due Stati, l'influenza russa su Napoli era progressivamente cresciuta fino a diventare predominante" e "il Regno Borbonico aveva dimostrato sfrontatamente al sua ostilità alla Francia e all'Inghilterra vietando l'esportazione di merci che il suo stato neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare". Questa "palese violazione del diritto internazionale" era poi aggravata dal fatto di essere "perpetrata da un governo che si era macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea".

La resa di Sabastopoli, di lì a poco, avrebbe segnato il successo militare delle Potenze occidentali, ma la controffensiva diplomatica contro il Borbone era partita ben prima.

Lord Palmerston aveva preteso il licenziamento del Direttore di Polizia del Regno di Napoli, colpevole di un'offesa al Segretario della Legazione inglese durante una rappresentazione teatrale. L'ambasciatore britannico - insoddisfatto dei chiarimenti ricevuti - aveva quindi utilizzato quel trascurabile episodio per persuadere il collega francese a stilare una nota congiunta con cui richiamare il Governo di Napoli ad atteggiamenti più accorti. La protesta diplomatica precisava che "i passi del gabinetto francese e britannico non sono dettati dal desiderio d'imporre a una Potenza straniera la linea di condotta da seguire ma che il modo di procedere adottato dal Governo napoletano verso persone di ogni ceto appariva così crudele, arbitrario, ingiusto, da non poter essere passato sotto silenzio e da dover essere considerato in aperto contrasto con i principi dell'umanità", per poi puntare all'autentica ragione del dissidio, quelle "prove inconfutabili della volontà di favorire, sino al punto permessogli dalle circostanze, gli interessi della Russia a danno degli Alleati".

Anche la Francia trovava il pretesto di appiccicarsi con Napoli per una pinzellachera: la mancata risposta del comandante della piazza di Messina al saluto della corvetta francese Gorgone, nel giorno del genetliaco di Napoleone III. Parigi ventilava l'adozione di severe misure di rappresaglia, in assenza di un'adeguata riparazione dell'offesa subita. Le scuse ufficiali non bastarono e l'ambasciata francese si preparò a smobilitare. Ne approfittò il cosiddetto partito murattiano - i nostalgici di Gioacchino Murat, che ne rivendicavano il trono delle Due Sicilie per il secondogenito Luciano - con la pubblicazione dell'opuscolo "La Question Italienne, Murat et les Bourbons". Napoleone III sembrava appoggiare il movimento, che avrebbe dato garanzie costituzionali e sarebbe comunque stato preferibile all'autoritarismo dei Borbone. Lo stesso Cavour, pur giudicandola una "mauvaise solution", riteneva bisognasse accettarla, se mai avesse preso consistenza.

L'attacco diplomatico di Londra e Parigi trovava così la sponda della propaganda, che con una micidiale triangolazione rinviava alla possibilità di un attacco militare giustificato da ragioni economiche. L'ambasciatore inglese - il 20 agosto 1855 - rappresentava che "il governo di Sua Maestà non poteva non tener conto dei sentimenti dell'opinione pubblica e dei circoli politici britannici perfettamente rispecchiati nella stampa londinese", col richiamo a un articolo del "Times" in cui si accostavano le tensioni tra Londra e Napoli ai dissidi tra Stati Uniti e Giappone, e se ne suggerivano gli stessi rimedi. Così come gli statunitensi avevano vinto con la forza le resistenze giapponesi a una penetrazione commerciale, allo stesso modo la Gran Bretagna non poteva tollerare l'esistenza di "un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia".

Servì l'intervento diretto e esplicito della Regina Vittoria per bloccare il passaggio dall'intenzione all'azione: "Se veramente 99 Napoletani su 100 sono insoddisfatti del loro Governo (come sostiene Lord Palmerston) non è irragionevole ipotizzare che una nostra dimostrazione navale possa spingerli a sollevarsi. Ma se questo accadesse e se il Re di Napoli fosse detronizzato, alla presenza della nostra flotta e delle nostre truppe, la nostra posizione diverrebbe eccessivamente umiliante e del tutto insostenibile".

Ferdinando alla fine accettò solo di liquidare il comandante della piazza di Messina - la disputa non era forse nata a causa di un suo sgarbo? -, ma rimase fermo, irremovibile, nella sua politica economica restrittiva verso Francia e Inghilterra. Il Ministro degli Esteri francese prima sospirò, poi scosse la testa, e infine ordinò al suo ambasciatore "di non insistere ulteriormente nelle trattative, perché l'Imperatore reputa ormai come non più percorribile la strada della diplomazia per ricondurre il governo di Napoli a un atteggiamento di ragionevolezza".


    "L'opinione pubblica europea è perfettamente informata
del barbaro sistema di politica interna adottato dal gabinetto borbonico,
al quale si è aggiunta l'inspiegabile ostilità
manifestata da questo stesso ministero contro le Potenze occidentali.
  Ferdinando si trova in una condizione di cui è impossibile non riconoscere la gravità.
Egli è minacciato dalle passioni rivoluzionarie che fermentano in Italia
e, tra tutti i regnanti della Penisola,
è colui contro il quale si è sollevato l'odio più accanito e più duraturo.
In questa situazione sarebbe stato necessario adeguare la sua politica al massimo di prudenza.
Al contrario la Corte di Caserta ha impiegato uno zelo singolare per aggravare le sue difficoltà,
per accrescere il malcontento interno, per infierire contro il suo popolo [... e]
ha adottato una sorda e tenace avversione nei confronti di Francia e Inghilterra,
adottando misure commerciali dannose per gli alleati. [...].
Ancora una volta, Ferdinando II ha scelto di utilizzare, all'interno dei suoi domini,
una politica violenta, eppure incapace di garantire la sopravvivenza della sua dinastia.
Una politica analoga è stata adottata anche sul piano internazionale,
quando la Monarchia delle Due Sicilie,
invece di limitarsi a preservare il suo sacrosanto diritto di neutralità,
non è riuscita a contenere i sentimento di una puerile aggressività.
Questa serie di passi falsi ha impedito di raggiungere
un accomodamento soddisfacente con le due Potenze occidentali 
che si sono ripromesse di saldare nel futuro i conti con il Piccolo Stato
che ha osato ripetutamente sfidarle".
(Charles de Mazade, analista della "Reveu des Deux Mondes",
nel resoconto della situazione internazionale del 30 settembre 1855)

Re Ferdinando aveva lanciato i suoi dadi e corso i suoi rischi: aveva scommesso sulla frantumazione dell'offensiva dei coalizzati sulle fortezze di Sebastopoli, sulla precarietà dell'intesa franco-britannica, sul patrocinio statunitense della causa napoletana finalizzato a estendere l'influenza americana oltre lo stretto di Gibilterra.

Tutte le scommesse si rivelarono perdenti, e con l'apertura del Congresso di Parigi - il 25 febbraio 1856 - arrivò il conto da saldare. Il Ministro degli Esteri francese respinse bruscamente la richiesta di Ferdinando di accogliere una delegazione napoletana al vertice parigino: "il comportamento delle Due Sicilie negli Affari d'Oriente non può consentirgli di far udire la propria voce nelle negoziazioni rivolte a stabilire i termini della pace". Aveva invece titolo a parlare il Regno di Sardegna, nella persona di Camillo Benso Conte di Cavour, che avviò la sua raffinata macchina da guerra contro il Regno di Ferdinando, un'opera minuziosa, studiata, sistematica, che evoca una delle prime scene del "Faust" di Goethe: "E veramente succede con la fabbrica dei pensieri proprio come col telaio del tessitore: dove una pressione del piede basta a mettere in moto migliaia di fili, e la spola passa e ripassa in su e in giù, e i fili scorrono invisibili, e un colpo solo genera mille collegamenti".

Cavour riuscì a far registrare tra le conclusioni del Congresso le proteste del Regno Sardo contro l'occupazione austriaca delle Legazioni Pontificie. Concentrò l'attenzione della diplomazia europea sulla sua "Note sur les affaires d'Italie", in cui esponeva "i mezzi per arrivare alla ricostruzione politica della Penisola". Indusse Francia e Gran Bretagna a rompere le relazioni diplomatiche con le Due Sicilie. Sollecitò il Regno Unito a servirsi non verbis sed verberibus, per ridurre a ragione Re Ferdinando. Arrivò a ipotizzare - qui senza successo - di reindirizzare il sodalizio franco-piemontese contro la Russia in un'alleanza contro l'Austria, di allargare i confini piemontesi sino a Parma e Modena, e addirittura di immaginare un colpo di mano su Palermo.

L'aggressività di Torino, il suo giocare ai margini della correttezza istituzionale, suscitò l'irritazione della delegazione russa, che minacciò di abbandonare il tavolo delle negoziazioni se il dibattito non fosse rientrato nei temi in agenda. Il serrato botta e risposta - tra chi sosteneva di voler solo "condannare l'inopportuno e impolitico rigore adoperato da alcuni Governi contro i loro sudditi" e chi replicava che certe posizioni sembravano mirare a "eccitare la febbre rivoluzionaria piuttosto che a ridurla" - si adagiava infine su una linea relativamente morbida: prescindere - nelle conclusioni ufficiali delle trattative - da "tutto ciò che maggiormente poteva tornare a discredito dei Governi messi in stato di accusa", ai quali il Congresso avrebbe tuttavia comunicato - in via riservata - l'intero dibattito della sessione. Il sentimento anti-borbonico lasciava però tracce nel comunicato finale, in cui si sosteneva che "la maggior parte dei Plenipotenziari non ha punto disconosciuta l'efficacia di un sistema mite e clemente per gli Stati italiani e segnatamente per quello di Napoli".

Cavour rintuzzava l'attacco, stavolta non avendo riguardo neanche alla forma: "poco ormai poteva sperarsi dalla diplomazia" - disse rivolto agli inglesi - e i tempi erano ormai maturi "per praticare altri espedienti" verso la Corte di Caserta. Londra rimase fredda, rispetto a una proposta così tranchant, e altrettanto gelida si dimostrò Parigi quando le venne reindirizzata, ma il solo fatto di aver potuto usare una formulazione testuale così ardita, così sfacciata, testimoniava inequivocabilmente il pericoloso isolamento in cui si trovavano i Borbone di Napoli

La diplomazia napoletana alzò la voce, formalizzò le sue proteste, e di fronte a una replica ormai stereotipata - "la responsabilità di quanto accaduto non poteva addossarsi solo a Cavour e che in ogni modo il Regno di Napoli poteva cavarsi d'impaccio a condizione di concordare con le Potenze le riforme che intendeva adottare" -, ribadì la sua posizione e precisò orgogliosamente "che il Re di Napoli aveva la coscienza di governare i suoi popoli in conformità ai dettami della giustizia e del dovere; che ne gli assalti sfrenati della stampa internazionale ne le dichiarazioni del Congresso lo potranno mai indurre a mutare la forma del suo Governo; che egli era disposto ad affrontare qualunque abuso di forza anziché scendere a patto con la Rivoluzione; che tutte le Legazioni del Regno avevano ricevuto precise disposizioni d'impegnarsi per far palese ai Gabinetti europei la trama eversiva ordita da Cavour".

Lo scontro prendeva quota a tutti i livelli, politico, diplomatico, ideologico. La Francia ricordava alle Due Sicilie il suo status di media se non di piccola Potenza, il suo obbligo morale a imboccare un cammino di riforme gradito ai grandi d'Europa, l'impossibilità per Ferdinando di ignorare le indicazioni di Francia e Inghilterra, che "sempre si studieranno di dispiegare il proprio influsso sul suo Regno". Nei salotti inglesi si battagliava a colpi di sarcasmi. Lord Palmerston stuzzicava il delegato napoletano sulla situazione di Carlo Poerio - condannato nel 1849 a 24 anni di carcere duro - e ne riceveva una risposta burlesca, scanzonata. Il Primo Ministro replicava che le condizioni dei prigionieri politici nel Regno di Napoli "non era materia di scherzo ma costituiva un affare serio e grave di cui il vostro Governo conoscerà tra breve l'importanza". Il delegato napoletano ostentava la sua meraviglia, e domandava provocatoriamente "perché la sedicente magistratura d'Europa s'intestardisca a occuparsi delle nostre faccende e si dia pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi senza avvertire il bisogno di tastare il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi dell'ottima salute nostra".

"Il Reale Governo non domanda di avvicinarsi ad alcuna Potenza.
Esso mette ogni studio per stare bene con tutti,
a condizione però che nessuno s'ingerisca negli affari della sua interna amministrazione".
(Re Ferdinando II di Borbone)

Non era più tempo di consigli amichevoli. Londra a Parigi passavano a comunicazioni di ben altro tenore. La Francia rimproverava a Ferdinando di "aver abusato di quei mezzi di repressione che, invece di assicurare tranquillità e fiducia, forniscono nuovi argomenti di successo alla propaganda rivoluzionaria"  e gli intimava "di arrestarsi sulla rovinosa via per cui procedeva, per impedire in tempo utile che la quiete di Italia e la pace d'Europa non ne soffrissero grave detrimento". L'Inghilterra andava giù piatta, con un autentico ultimatum: se Napoli non avesse mutato radicalmente la sua politica, per placare le inquietudini dei Gabinetti europei, "la Gran Bretagna avrebbe cessato di metter in pratica, in ordine al Regno delle Due Sicilie, la massima che alcuna Potenza straniera non ha il diritto di intromettersi negli affari interni di un altro Stato".

Re Ferdinando non arretrava di un pollice: "nessun Governo ha il diritto di immischiarsi negli affari degli altri" - mandava a dire - "e molto meno di giudicare con modi impropri la sua amministrazione, e specialmente la sua giustizia"; richiamava poi la doverosa prudenza in eventuali cambiamenti di rotta, giacché "prima di usare atti di clemenza, bisogna pensare che questa genia è per la maggior parte incorreggibile"; e concludeva con un ribaltamento dell'accusa, ricordando che "se sino a questo momento il Re ha potuto usare la sua indulgenza, ora, Egli non può più esercitarla per colpa di tutti i passi che fanno i Governi protettori di questa gente. Usar indulgenza sarebbe, infatti, un incentivo a nuove perturbazioni e il mio Governo non può da sé preparare nuovi moti al Paese".

Vienna e San Pietroburgo tentavano una mediazione. Soprattutto la Cancelleria russa - ora impegnata in una marcia di avvicinamento al regime bonapartista - raccoglieva l'invito della Francia a convincere Ferdinando "a cedere in qualcosa". L'ambasciatore napoletano a Mosca si sentiva dire "che non poteva considerarsi un umiliazione cedere ai reclami di due Grandi Potenze marittime e che la Russia non poteva soccorrerlo, se non con il suo appoggio morale, trovandosi essa nella condizione di dover mantenere la sua amicizia con la Francia e l'Inghilterra persino se esse procedessero ad atti ostili verso le Due Sicilie". Servivano - come minimo - una promessa scritta di riforme istituzionali e una dichiarazione di intenti per "scarcerare spontaneamente Settembrini, Spaventa e Poerio", e soprattutto occorreva un atteggiamento conciliante per "gratificare l'amor proprio dell'Imperatore dei Francesi". Parallelamente la diplomazia parigina inviava segnali distensivi: se solo Ferdinando II avesse voluto inviare un messaggio personale a Napoleone III, per domandare la gentilezza di trovare una soluzione amichevole della controversia, l'Imperatore "sarebbe immediatamente divenuto il suo avvocato presso la Regina Vittoria e avrebbe risolto la questione senza che la Monarchia napoletana si trovasse a essere offesa nella sua dignità".

Napoli alzava ancora una volta un muro di indifferenza e intransigenza, nella convinzione che gli allettamenti di Napoleone III mirassero solo a sostituire l'influenza francese a quella austriaca nei propri reami: "un mio assenso alle condizioni fatte del Governo francese" - ribadiva Ferdinando -"sarebbe un atto di debolezza compiuto a danno dell'indipendenza della mia corona e a vantaggio del partito rivoluzionario".

Per ogni tentativo di mediazione andato a vuoto, per ogni proposta di accomodamento rispedita al mittente, l'asticella della tensione si alzava di una tacca. Londra e Parigi presero sul serio la possibilità di un'azione dimostrativa congiunta nel Golfo di Napoli. Cavour provò a infilarci anche una fregata della marina sarda, senza successo e con sua grande irritazione, ma ancora con la speranza che quell'atto di forza avrebbe contribuito a provocare "la guerre à l'Autriche dans un temps plus ou moins éloigné" e di conseguenza un "acheminement vers l'indépendance et l'agrandissement du Piémont".

Neanche la prospettiva di un conflitto militare serviva a far arretrare Ferdinando, che per tutta risposta preparava la mobilitazione della sua flotta, mentre Russia e Austria intensificavano la propria azione conciliatrice verso Francia e Inghilterra per dissuaderle da un'iniziativa che, se attuata, avrebbe rischiato di degenerare in una guerra europea dagli sbocchi imponderabili.

Alla fine - con disappunto di Cavour - le due Potenze europee ripiegarono da una soluzione militare (dimostrativa nelle intenzioni, ma imprevedibile negli effetti) alla più severa delle misure diplomatiche: il ritiro degli ambasciatori. Londra non usava perifrasi: "il Governo della Regina non reputava più conveniente mantenere rapporti diplomatici con uno Stato che si ostinava a non volersi togliere da un contegno condannato da tutte le nazioni civili". Più sfumata la posizione di Parigi, che esprimeva il proprio rincrescimento per l'insensibilità della Monarchia napoletana "alle sollecitazioni leali fatte dalla Francia nell'interesse generale dell'Europa", e rinnovava l'invito a scarcerare i prigionieri politici per evitare la rottura definitiva tra il Secondo Impero e le Due Sicilie.

Ma Ferdinando continuava a vedere le cose in modo speculare: non era il suo Regno ad aver offeso Francia e Inghilterra, ma esattamente il contrario, per cui le proposte di riavvicinamento dovevano partire dalla Corte di San Giacomo e dal Gabinetto delle Tuileries. Gli stemmi delle due ambasciate smisero così di sventolare nel cielo di Napoli. I diplomatici tornavano a casa, dopo aver precisato che i Governi di Francia e Inghilterra "non intendevano procedere ad atti ostili, non volendo fornire pretesti a quanti cercassero di far crollare il trono delle Due Sicilie, ma che anzi erano disposti a riannodare l'antica amicizia con la monarchia di Ferdinando II, non appena questi si fosse mostrato disposto a tutelare i suoi veri interessi, inaugurando una politica meno oppressiva".

Non erano parole di circostanza. Parigi si adoperò in vario modo per trovare un appianamento - prima con la mediazione di Papa Pio IX, poi con la sponda della Corte di Madrid - così come Londra - col coinvolgimento del Re del Belgio - ma sempre senza successo. Ferdinando opponeva invariabilmente la stessa argomentazione - "il governo delle Due Sicilie non intende modificare in nulla la sua organizzazione politica" e "essendo state Francia e Inghilterra le prime a rompere le relazioni diplomatiche, spetta a esse muovere i primi passi per riannodarle" - trovando a questo nuovo giro il plauso tanto inaspettato quanto interessato di Cavour.

Il Grande Tessitore era scivolato nel pessimismo, vedeva sfaldarsi le sue trame, avvertiva più d'un dubbio sulle intenzioni di Londra e Parigi di farsi carico di un riordino della politica italiana favorevole al Piemonte. Iniziava a temere un'insurrezione napoletana - promossa dai mazziniani o dal partito di Murat - con serio pregiudizio per i disegni di Casa Savoia. Bisognava rigirare le cose, dare una smazzata alle carte, se necessario cambiare compagni di gioco. I Borbone e i Savoia - a guardar bene - erano le uniche dinastie "italiane". Avevano entrambe l'interesse a alzare un fronte comune per opporsi alla deriva eversiva. Dovevano entrambe rivendicare la propria autonomia verso le grandi Potenze europee, chiunque esse fossero, Francia, Inghilterra o Austria.

L'arrischiata mossa del Conte lasciava esterrefatto l'ambasciatore napoletano a Torino, che ne rappresentava i contenuti a Re Ferdinando con manifesta diffidenza: "Giorni or sono, discorrendo meco, il Conte di Cavour mi disse le seguenti parole: 'Il vostro Sovrano ha fatto un'assai brillante figura, ha ben profittato delle circostanze, ha sciolto a suo profitto un nodo assai intricato. Ora dovrebbe vendicarsi delle Potenze che lo hanno annoiato, come di quelle che lo hanno mollemente assistito, e avvicinarsi al Piemonte. Dico ci come individuo privato. Non è il Ministro degli Affari Esteri che vi parla. Napoli e Piemonte, ben uniti, darebbero la legge all'Italia'. Risposi come ne' decorsi avevo una volta risposto a Massimo D'Azeglio ed un'altra volta a Dabormida: non essere Sua Maestà, Dio Guardi, lontana dal Piemonte, ma il Piemonte da Sua Maestà; non essere i Reali domini sede di alcun nemico del sovrano di Sardegna, non esservi in Napoli officine occulte e riconosciute di calunnie sistematiche e di macchinazioni alla rivolta contro gli Stati di S.M. Sarda. [...]. Do conto di questo fatto al nostro Augusto Padrone per fedeltà di narrazione e non perché meriti a mio avviso quanto detto dal Conte di Cavour alcuna grave attenzione. Il Piemonte è nel momento troppo dilaniato dai partiti, dalle pretensioni delle Potenze, da influenze di ogni genere, dall'odio dell'Austria, dai debiti, dalle tasse esuberanti. Il suo contatto è infine troppo pericoloso, per cattive massime religiose e di politica, per non dover concludere che da più stretti vincoli con questo Regno, anziché da guadagnare qualcosa, vi sia invece molto da perdere".

"Il Reale Governo non domanda di avvicinarsi a nessuna potenza.
Esso mette ogni studio per stare bene con tutti, a condizione però 
che nessuno si ingerisca negli affari della sua interna amministrazione".
(Re Ferdinando II di Borbone)

8 dicembre 1856, un giorno drammatico nella storia del Regno: l'attentato a Re Ferdinando II.

"Agesilao Milano gli sferrò un colpo di baionetta dritto in pancia e solo per uno di quei casi di cui è ricca la storia non lo aprì in due" - scrive Lorenzo Del Boca.

"Era un giovane di diciannove anni che aveva studiato nel collegio italo-greco di Sant'Adriano, dove venivano ospitati i giovani delle colonie albanesi della Calabria citeriore. Già allora - ragazzo - con i fratelli Oloferne e Temistocle Conforti, era stato 'segnalato' per qualche irrequietezza nei confronti della casa reale. Nella scuola non c'erano 'cattivi maestri' e nemmeno fermenti liberali evidenti, ma quei tre - con nomi impegnativi - organizzarono una loro piccola rivoluzione privata. La sera, mettevano in scena dei processi alle statue del re, le condannavano, non facevano mancare il conforto religioso di un attore vestito da cappellano e poi sparavano a quei blocchi di marmo lavorato per eseguire la sentenza.

Vennero scoperti e finirono nella mani dei giudici che, per ciascuno di loro, decretarono pene severe. Il re, con atto di indulto, cancellò quelle indecisioni per non sembrare troppo vendicativo. 'Aggraziato', registrò il verbale della polizia che fu redatto a proposito di Agesilao Milano. Il quale, dopo l'esperienza del carcere e del tribunale, fece fatica a inserirsi nella vita di tutti i giorni. Bighellonò, per qualche tempo, tirando a campare, poi, essendo stato 'estratto' suo fratello Ambrogio per il servizio militare e potendo presentarsi lui per sostituirlo, indossò la divisa della settima Compagnia del terzo Battaglione dei Cacciatori di linea.

La gendarmeria - che i liberali descrivevano come occhiuta e opprimente - non fu in grado di mettere insieme il pezzo di carta che portava la domanda di arruolamento dell'interessato con un altro pezzo di carta che lo riguardava, giacente in tribunale, dove la futura recluta appariva come un pericoloso sobillatore. Così il fucilatore delle statue del re venne messo assai vicino al re in carne e ossa".

L'8 dicembre 1856 lo Stato Maggiore dei Borbone è schierato a Campo di Marte per assistere a una parata militare. Agesilao Milano esce dai ranghi al galoppo, percorre poche decine di metri in direzione del Re e gli sferra un colpo di baionetta dal basso non appena se lo ritrova a tiro. La lama sbatte sulla fondina della pistola e ferisce Ferdinando solo di striscio. I militari immobilizzano l'attentatore, che non avrà modo di ritentare l'affondo. Condanna a morte, col laccio sulle forche. Ci penserà poi Garibaldi, al suo ingresso a Napoli, a fare giustizia a modo suo, col riconoscimento di un vitalizio di 30 ducati mensili alla madre e una dote di 2.000 ducati alle sorelle di Agesilao.

"Non bisogna dimenticare che i rivoluzionari fanno la guerra col pugnale alla mano
e che mirano a sconvolgere l'ordine sociale.
Né si può ignorare che la mano di questi assassini è diretta da uomini scellerati
che cospirano, in piena libertà, sul suolo inglese e francese.
Occorre, poi, considerare che l'amministrazione napoletana si comporterebbe ben diversamente,
se nel suo territorio si cospirasse apertamente contro la Regina Vittoria o contro Napoleone III,
e che essa non lascerebbe libero corso alle invettive 
di una stampa quotidianamente nemica di questi Sovrani.
Invece le navi inglesi e francesi, che incrociano sulle nostre coste,
accordano ospitalità ai più spietati rivoluzionari e forniscono loro munizioni e armi.
Gli agenti consolari di Francia e Regno Unito
eccitano il nostro popolo alla rivolta con discorsi violenti. 
Il Governo del Re è a conoscenza che di recente giunse dall'Inghilterra denaro in Sicilia,
dove, per turbare l'ordine costituito, si fanno circolare voci di prossimi sbarchi di truppe britanniche.
E, dopo tutto ciò, si pretenderebbe pur anco, che il nostro Sovrano si mostrasse clemente
verso i principali strumenti delle segrete macchinazioni ordite dai Gabinetti di Londra e Parigi?
Nel proteggere costoro, Francia e Inghilterra non cercano, certo, il bene dell'Europa,
ma mirano ad aumentare il numero dei loro satelliti per abbattere l'edificio del nostro Regno.
E' da lungo tempo che, grazie all'azione di agenti stranieri, soprattutto francesi,
si lavora per corrompere, a prezzo di moneta, la fedeltà delle nostre milizie.
Ciò passa il limite di ogni decenza e viola apertamente il diritto pubblico d'Europa.
Proprio in ragione di ciò, devo quindi dichiarare, per ordine espresso del Re,
che egli, accada pure quel che dovrà accadere, non intende recedere
da quelle posizione d'intransigenza nella quale è stato costretto ad arroccarsi".
(Luigi Carafa, Ministro degli Esteri delle Due Sicilie, 20 marzo 1857)

Il tentato regicidio di Ferdinando II modificò l'atmosfera politica. Tutti gli attori in gioco percepirono un interesse collettivo nello strappare il Regno delle Due Sicilie all'emarginazione internazionale in cui era precipitato. La Corte di Caserta sfruttò la congiuntura favorevole, e nel gennaio del 1857  sottoscrisse un Trattato con l'Argentina per confinare sul Rio della Plata i condannati per delitti politici, mutuando analoghe iniziative già intraprese da Francia e Inghilterra (che avevano commutato la pena inflitta agli oppositori interni in un domicilio coatto nelle colonie). In territorio argentino sarebbe quindi sorta una colonia di sudditi napoletani, mandati lì a spese del Regno e accolti dalla Repubblica con un pezzo di terra, strumenti da coltivare e somme di danaro. Da un lato ci si sarebbe disfatti di soggetti pericolosi, dall'altro avrebbero avuto fine le querimonie e le proteste del "mondo civile" sulle centinaia di detenuti per ragioni politiche.
 
Sebbene  Lord Palmerston perseverasse nel suo tono polemico - giudicando la proposta insufficiente per riallacciare le relazioni diplomatiche, "perché le carceri napoletane, una volta svuotate, sarebbero state nuovamente riempite con nuove vittime della tirannia dei Borboni" - la percezione dei fatti era bruscamente mutata. Alla Camera dei Lords l'opposizione aveva denunciato apertamente l'oltranzismo e l'intransigenza della strategia di Palmerston verso la penisola, "troppo prodiga di promesse verso il Piemonte, pregiudizialmente ostile verso le Due Sicilie e soprattutto del tutto contraria ai principi del diritto internazionale per aver voluto interrompere i rapporti diplomatici con un Sovrano che si era macchiato della sola colpa di aver rifiutato i consigli di un altro Stato circa l'amministrazione del suo Regno". La Francia guardava con favore alla misura ipotizzata da Napoli, ma voleva conferire una più vivace colorazione politica a quel gesto di generosità di Ferdinando, da presentare all'opinione pubblica come un modo "per soddisfare le richieste dei Gabinetti di Londra e Parigi". Anche la Russia scendeva nell'agone del delicato confronto istituzionale. Suggeriva al Governo borbonico di rimanere freddo verso l'Inghilterra sino al perfezionamento della convenzione con l'Argentina, e di attendere le reazioni d'oltremanica prima di compiere qualunque passo. Consigliava invece una pattuizione esplicita con la Francia, che avrebbe dovuto far rientrare immediatamente il proprio ambasciatore a Napoli, a seguito della partenza dei prigionieri.

Ma Ferdinando non voleva darsi pena di così sottili argomenti politici, non era nelle sue corde avventurarsi nell'esercizio defatigante della diplomazia internazionale. Qualunque ingerenza nel Regno - nell'opinione del Re - sarebbe stata strumentale a "proteggere la birbanteria e la rivoluzione" e a soddisfare le "insopportabili pretese di Potenze straniere", la cui "politica obliqua e insincera" non meritava poi tutta questa attenzione.

Il Trattato con l'Argentina, a ogni modo, non entrò mai in vigore. Solo i prigionieri più giovani e animosi, interpellati sull'opportunità di emigrare, risposero che sarebbero andati ovunque, per uscir di galera. I più anziani protestarono energicamente. "Perchè tanta spesa e tanto incomodo per farci morire in America o per viaggio?" - chiese polemicamente Poerio - "Lasciateci morire in galera". E ancora Poerio, all'Intendente di Avellino che consigliava ai prigionieri politici di chiedere la grazia al Re, mantenne la sua posizione intransigente "Noi attendiamo giustizia, ditelo al Re".
 
Le cose sembrarono sistemasi da sé all'inizio del 1858, con la caduta del "Governo Palmerston" e la cessione del testimone al conservatore Lord Derby. Londra imprimeva una svolta nella politica verso le Due Sicilie, per ristabilire, insieme alla Francia, un ordinario modus vivendi. Nell'agenda del nuovo Governo inglese - in una prospettiva di riconciliazione - c'era la ricerca di una soluzione amichevole alla "vicenda Pisacane".

Nel giugno del 1857, a Genova, il patriota socialista Carlo Pisacane si era imbarcato sul "Cagliari", un piroscafo di linea, con un ventina di altri sovversivi. Il gruppetto ambiava a scatenare una rivolta nel Regno delle Due Sicilie, col benestare di Mazzini, e il parere contrario di Garibaldi. Il piano prevedeva il dirottamento del piroscafo a Ponza, la liberazione dei prigionieri politici lì rinchiusi, e infine la presa di Sapri, al confine tra la Campania e la Basilicata, una zona ideale per attendere i rinforzi in vista della marcia su Napoli. Lo sbarco a Ponza avvenne secondo i piani, così come la liberazione di oltre trecento detenuti, peraltro in minima parte condannati per reati politici, e per lo più teppaglia comune. La spedizione puntò quindi su Sapri, come da programma, ma al suo arrivo non trovò nessun popolo desideroso di libertà. C'erano solo contadini ostili e spietati - opportunamente allertati dalle autorità borboniche - che falci alle mani operarono un piccolo massacro: sterminarono una ventina di rivoltosi e ne imprigionarono un centinaio, consegnandoli ai gendarmi. Carlo Pisacane e gli altri superstiti si diedero a una fuga rocambolesca. Ripiegarono a Sanza, ma trovarono un'accoglienza altrettanto feroce, da cui questa volta Pisacane non uscì vivo. Chi non si salvò dall'ira popolare trovò la cattura e il giudizio del tribunale, al principio una condanna a morte, poi tramutata in una pena all'ergastolo.

Il procuratore del Re aveva propagandato l'idea di una nuova invasione straniera - "le spedizione dello straniero di gente armata, nello scopo di promuovere la ribellione, non sono nuove nel nostro reame: ne fu sempre infelice il successo, e pur ciò non fu bastevole ad impedirne che altre ne fossero eseguite" - e sebbene quasi tutti gli imputati fossero in realtà originari delle province napoletane, l'atto di accusa coglieva involontariamente una verità. Il "Cagliari" era un piroscafo del Regno di Sardegna, e Cavour ne pretendeva la restituzione. Il suo equipaggio accoglieva poi due macchinisti inglesi, arrestati dalla gendarmeria napoletana, e di cui il Regno Unito reclamava l'immediata scarcerazione, unitamente a un adeguato indennizzo economico per ingiusta detenzione. L'appianamento della questione fornì una nuova prova dell'improntitudine della diplomazia di Napoli - che alla fine dovette cedere alla pretese di Londra e Torino - e più in generale ripropose temi di lotta politica per i quali qualunque evento poteva funzionare da volano.

"Amici di tutti, nemici con nessuno, indipendenti.
Perché tale deve essere ogni Stato e soprattutto il nostro
che per la sua posizione geografica ne ha diritto più d'ogni altro ...
Rinunciare a questo sistema di saggia politica,
sarebbe tradire gli interessi del Paese e comprometterlo
senza che vi sia nulla da sperare".

Un evento gioioso, tutto interno alla Monarchia borbonica, contribuì indirettamente al disgelo tra Londra e Napoli: il matrimonio tra il primogenito di Re Ferdinando, il Duca di Calabria Francesco II, e la Principessa Maria Sofia di Baviera, sorella della leggendaria Sissi d'Austria. Il Governo inglese aveva rinnovato la richiesta di scarcerazione dei detenuti politici, con contestuale trasferimento negli Stati Uniti, e questa volta Ferdinando acconsentì. La concomitanza col programmato evento nuziale gli consentiva di presentare quella decisione come un atto di benevolenza, un autonomo gesto di clemenza, giustificato dal desiderio di accantonare ogni inimicizia in vista delle nozze del figlio.

L'Atto Reale di Grazia - emanato nel gennaio del 1859 - si accoppiava però con una nuova disposizione repressiva: un Consiglio di Guerra avrebbe sommariamente processato tutti i sudditi sorpresi ad attentare alla sicurezza del Regno e - in caso di accertata colpevolezza - avrebbe disposto la confisca di ogni loro bene, per ricompensare i delatori.

Se Vienna e San Pietroburgo enfatizzavano l'adeguatezza della coppia di misure, per contemperare la stabilità del Regno con una politica più moderata verso i suoi oppositori, Parigi pretendeva pure la manifestazione della volontà napoletana di ripristinare gli antichi rapporti, mentre Londra - indifferente a mere questioni di protocollo - dava peso solo alla disposizione restrittiva, giudicata "tanto incomprensibile, quanto inaccettabile", "una violazione permanente del precedente sistema giuridico", "una misura peggiore dello stato d'assedio".

La propaganda anti-borbonica riprendeva vigore, all'interno del Regno Unito. L'opinione pubblica inglese accusava Napoli di aver smantellato "the regolar laws of the country", di aver fatto regredire la propria politica interna a uno stato in cui "the only measure of right or wrong has been the absolute will of the King", in contrapposizione con l'apprezzabile regime liberale del Governo di Torino, di cui si giustificavano il bellicoso programma di riarmo e le ambizioni territoriali. I politici britannici assecondavano il sentimento popolare, ma se da un lato dichiaravano di vedere nel regime borbonico "un sistema politico che ripugna e fa orrore a tutte le nostre convinzioni morali", dall'altro escludevano di trasformare il proprio giudizio di valore in un grimaldello per scardinare il Regno Due Sicilie, di cavalcare l'opinione pubblica per giustificare un ricorso alle armi - da parte del Piemonte o della stessa Inghilterra - per raddrizzare torti reali o immaginari: "il Popolo inglese non nessun diritto di immischiarsi negli affari interni di un altro Stato".

Il contegno di Londra si inquadrava in una strategia finalizzata a evitare lo scontro tra l'Austria e la coalizione franco-piemontese e a preservare così la configurazione geopolitica stabilita dal Congresso di Vienna. L'ultimatum austriaco al Piemonte - il 23 aprile 1859 - vanificava la mediazione inglese, che tuttavia riusciva ancora a strappare una serie di successi: far decadere de facto, se non de jure, il Trattato segreto del 1815 tra Vienna e Napoli, che obbligava i Borbone a soccorrere militarmente gli Asburgo in caso di conflitto; impedire a San Pietroburgo di impiantare una stazione di rifornimento nel porto di Brindisi, che, se realizzata, avrebbe sottratto all'Inghilterra il dominio sull'ingresso nell'Adriatico; bloccare le manovre di Cavour orientate a rasserenare i rapporti tra Napoli e Torino, nella prospettiva di un'alleanza militare contro l'Austria.

L'azione di tutela del Regno Unito non era ovviamente un omaggio disinteressato alla volontà di Ferdinando di conservare una perfetta neutralità. La questione italiana - vista da Londra - perdeva la sua specificità, per confondersi nel più complesso problema del controllo del Mediterraneo. L'opinione pubblica francese - a cavallo tra il 1858 e il 1859 - aveva sponsorizzato un'alleanza con la Russia per ridimensionare il peso dell'Inghilterra, sfruttando le occasioni offerte da un'eventuale modifica dell'assetto della penisola italiana. La probabile sconfitta dell'Austria avrebbe ora implicato l'estensione dei confini del Regno Sardo sino alle coste venete, e favorito l'antico disegno russo di penetrare nelle "acque calde", spostando i rapporti di forza sul mare a favore di Parigi. Il moto rivoluzionario toscano - nell'aprile del 1859 - rese lo scenario qualcosa di più d'una semplice ipotesi. Rimaneva però incerta la miglior linea d'azione da parte dell'Inghilterra, per preservare la sua forza nella nuova contingenza.

L'ambasciatore inglese a Torino suggerì al proprio Governo di armonizzare gli interessi del Regno di Napoli e del Regno d'Inghilterra, nel rispetto del desiderio di libertà dei popoli italiani, così da sminuire il peso politico della Francia nel Mezzogiorno della penisola. Serviva agire come "a guarantor of Italian liberties against possible French intrigues", sostenere il movimento moderato nel faticoso cammino verso le riforme costituzionali, in vista di un'ormai probabile fine dell'egemonia austriaca. Il  Regno borbonico era il crocevia del programma. Se Ferdinando II avesse abdicato - o se, "in un caso più fortunato", fosse scomparso di scena - il nuovo Sovrano avrebbe potuto raccogliere l'adesione delle forze liberali del Regno, instaurare una monarchia costituzionale, "riconciliarsi con l'Italia e l'Europa", e col "sostegno della Gran Bretagna" alzare un muro contro le mire espansionistiche della Francia. Per contro, la latitanza politica di Londra avrebbe potuto provocare gravi danni. Parigi avrebbe consolidato la propria posizione grazie alla vittoria sull'Austria, e Napoli sarebbe probabilmente caduta in nuovo moto rivoluzionario, se, come ci si aspettava, i Borbone avessero continuato a disinteressarsi della riorganizzazione del proprio Regno. Qualsiasi scenario - a quel punto - avrebbe posto il Re di Napoli alla mercé della Francia. Ferdinando, tra essere detronizzato da Luciano Murat o accettare il protettorato di Napoleone III, si sarebbe rassegnato al minore dei mali, e le coste meridionali sarebbero diventate un'immensa base militare per le operazioni della flotta francese.

Il Governo di Londra accolse malamente i disegni del proprio diplomatico. Li considerò semplicemente funzionali alla subdole manovre del Piemonte. L'ambasciatore stesso - nella percezione diffusa - era solo un puppet nelle mani del Governo di Torino, e negli ambienti governativi inglesi si ironizzò parecchio su "quel cialtrone di Cavour che pretende di mettersi a capo del movimento costituzionale italiano, dopo aver tante volte calpestato, sotto i suoi piedi, lo Statuto di Carlo Alberto". Londra rimase allineata all'Austria nell'orientamento di preservare le decisioni del Congresso di Vienna, fermamente contraria a una svolta filo-piemontese della propria politica, e soprattutto determinata a dissuadere il Regno borbonico a unirsi alla coalizione franco-sarda, se mai ne avesse avuto l'intenzione, se mai Francesco II avesse ribaltato la politica paterna una volta salito al trono, magari sotto le pressioni degli zii Leopoldo e Luigi, entrambi in odore di liberalismo, o sedotto dalle macchinazioni dell'infaticabile Conte di Cavour.

"Mi è stata offerta la corona d'Italia ma non ho voluto accettarla;
se io l'avessi accettata, ora soffrirei il rimorso di aver leso i diritti del Sommo Pontefice.
Signore, vi ringrazio d'avermi illuminato ...
Lascio il Regno ed il trono come l'ho ereditato dai miei antenati".

22 maggio 1859: Re Ferdinando II di Borbone scende dal trono, depone la corona, lascia lo scettro, consegna il Regno al suo successore. Scompare - nelle parole del Ministro spagnolo Salvador Bermudez de Castro - colui che "solo, senza Camere, senza consiglieri, del tutto refrattario a far partecipi delle proprie decisioni i suoi ministri, era stato il braccio e la mente dello Stato, aveva conservato la pace per 29 anni, ripreso la Sicilia senza invocare l'aiuto straniero, risanato il Tesoro e creato un forte esercito e un eccellente armata di mare". Scompare - nello sprezzante commento del "Times" di Londra - colui che "durante la vita fece scorrere parecchie lacrime" e ora "poche ne saranno sparse per la sua morte". Scompare - per gli oppositori come per i sostenitori - un modello di Stato, una figura tenuta in vita dall'amore di alcuni, resa immortale dall'odio di altri. Scompare - in prospettiva - l'unico attore in grado di governare con autorevolezza il momento più delicato del Regno, quando i piani cospirativi iniziavano a manifestarsi, e si accavallavano eventi politici della massima gravità.

Francesco II di Borbone è il nuovo Re delle Due Sicilie. Giovane, esposto agli intrighi di corte e all'influenza nefasta della reazionaria matrigna, mal valutato dai circoli europei per la sua fragilità caratteriale e l'inesperienza politica, denigrato dalla stampa inglese con l'appellativo di "King Bombino". Era lui - ora - a dover decidere.

Il passaggio di consegne apriva in astratto un ventaglio di possibilità. Il nuovo Re avrebbe potuto confermare l'intransigente politica paterna oppure segnarne la fine e assecondare le tendenze liberali. Numerosi ministri e ambasciatori affollarono la Corte di Napoli in quel maggio del 1859, ufficialmente per porgere gli auguri a Re Francesco, nei fatti per influenzare il Sovrano: chi per richiamarlo a tenere la barra dritta sulla politica della reazione, chi per persuaderlo a cambiare rotta. Vienna inviò il suo diplomatico più autorevole, per scongiurare possibili manovre anti-austriache. Londra e Parigi si predisposero a ripristinare i rapporti diplomatici, sulla scia del discorso della Regina di Inghilterra al Parlamento: "avendomi il Re delle Due Sicilie annunziata la morte del Re suo padre ed il suo innalzamento al trono, giudicai conveniente di concerto con l'Imperatore dei francesi, di rinnovare le mie relazioni diplomatiche con la corte di Napoli interrotte durante il Regno precedente". Il Piemonte spingeva per un'alleanza contro l'Austria, amnistie generalizzate e riforme politiche a tutto campo.

Re Francesco II - pur strattonato da ogni parte - non ebbe incertezze: l'eredità paterna era il bagaglio irrinunciabile da cui riprendere e proseguire l'amministrazione del Regno, l'isolamento dalle vicende esterne e la ferma resistenza all'interno - preservare lo status-quo, tenersi nella più stretta neutralità, non concedere aperture costituzionali - rimanevano i capisaldi intorno ai quali modulare ogni possibile scelta politica.

L'Austria ne prendeva atto con soddisfazione, e Francesco Giuseppe inviava un messaggio personale al nuovo Sovrano, per cementarne ulteriormente i già saldi orientamenti. "L'obiettivo dichiarato della guerra rivoluzionaria intrapresa contro il mio Impero è di alterare il sistema territoriale fissato dal Congresso di Vienna. Questo fatto evidenzia, con estrema chiarezza, che i nostri passati, mutui interessi sono ora diventati identici in questa infausta congiuntura. Io desidero, dunque, che l'intimità dei nostri rapporti risponda alla comunanza dei pericoli che ci circondano".

L'Impero asburgico stressava la sua posizione difensiva, il trovarsi impegnato nel conflitto contro Francia e Piemonte, non solo per difendere i propri legittimi diritti nella penisola, ma sopratutto per tutelare la stabilità generale, la fede nei Trattati, i principi fondamentali dell'ordine politico. La neutralità napoletana era un punto nodale del programma austriaco e per conservarla - nell'opinione di Vienna - serviva ricomporre i rapporti tra Londra e Napoli, con qualche passo spontaneo di Re Francesco sulla via di una pur minima revisione dei sistemi amministrativo e giudiziario, per non offrire facili pretesti ai focolai rivoluzionari. "E' facilmente prevedibile che Francia e Sardegna si adopereranno con ogni strumento per coinvolgere le Due Sicilie in un ruolo attivo nella guerra ingiusta che questi Stati hanno ingaggiato contro di noi. Francesco II, come noi speriamo, saprà resistere a queste profferte, con la stessa fermezza che il suo predecessore ha impiegato fino all'ultimo respiro per respingere le prevaricazioni dei Paesi stranieri. [...]. Ma noi desideriamo, inoltre, che il Sovrano, senza naturalmente rinunciare alla sua libertà d'azione, s'impegni a ristabilire dei buoni rapporti con il governo britannico, adottando dei miglioramenti del suo regime che, per essere utili, dovranno, in ogni caso, emanare spontaneamente dalla volontà reale. In questo modo, se l'Inghilterra vorrà non disconoscere i suoi più evidenti interessi politici, non potrà non concedere al Regno di Napoli il suo appoggio contro le pretese con cui le potenze belligeranti non mancheranno di importunarlo [...] noi abbiamo già preparato il terreno a Londra per facilitare questo approccio".

L'argomentazione austriaca impiegava un elemento di pura logica: "che il Governo di Sua Maestà britannica [...] si sia ormai convinto, a rigor di logica, dell'impossibilità di domandare, allo stesso tempo, a Francesco II la neutralità di Napoli e dei grandi cambiamenti all'interno del suo Regno, dato che obbligarlo a concedere la Costituzione equivarrebbe a spingerlo, malgrado la sua volontà, nelle braccia o piuttosto sotto i piedi della Francia la quale non esiterà a servirsi delle istituzioni parlamentari per favorire la restaurazione murattiana o per costringere il giovane Sovrano a entrare in guerra contro l'Austria e quindi per trasformare, nell'una o nell'altra evenienza, la Monarchia delle Due Sicilie in una 'Polonia del Mediterraneo' destinata a sparire dal novero degli Stati sovrani".

Sarebbero bastate poche misure moderatamente liberali - nelle previsioni di Vienna - per sanare la frattura con Londra e persuadere l'opinione pubblica che nulla di più si poteva pretendere da Napoli, senza alterarne quella posizione di neutralità che la stessa Londra auspicava. La visione austriaca scontava però un limite notevole: imponeva troppa logica a cose politiche che mal la sopportano. Londra non mancò infatti di insistere con richieste di interventi estesi e profondi - atti di clemenza, abolizione delle leggi repressive, rimpasto di Governo, concessione della Costituzione - sebbene in un clima negoziale più disteso rispetto al passato. La pletora di interessi in gioco trovò infine il suo punto di equilibrio nella nomina del Principe di Satriano, Carlo Filangieri, a Presidente del Consiglio e a Ministro della Guerra (in un Governo che vedeva pure esponenti dell'ala progressista alle Finanze, all'Interno e ai Lavori Pubblici). Filangieri era l'unica personalità politica di livello delle Due Sicilie, nel giudizio della diplomazia internazionale. La sua figura non mutava lo stato delle cose nella percezione di Vienna - intenzionata a bloccare anche la più remota ipotesi di un avvicinamento di Napoli alla colazione franco-piemontese - e acquietava i pruriti di Londra, che decideva di riallacciare ufficialmente i rapporti diplomatici con la Monarchia borbonica.

Dal Regno del Lombardo Veneto al Regno di Napoli,
"Alla Sacra Reale Maestà di Ferdinando II Re di Napoli e delle Due Sicilie".
Dopo il 1848-49 il Regno delle Due Sicilie rafforza il legame col Pontefice,
con l'Austria dell'Imperatore Francesco Giuseppe e con la Russia,
in una parola con l'Europa più tradizionalista e reazionaria.
Ma le alleanze prendono forma anche con le scelte matrimoniali,
in una sorta di corrispondenza tra unioni sentimentali e strategie politiche.
Le studiate parentele garantiscono prestigio, rafforzano le intese, suggellano una pace, 
ma a volte provocano anche inaspettate e perduranti situazioni di imbarazzo, 
 come per la cuginanza tra Re Francesco e l'antagonista Vittorio Emanuele.
La prima moglie di Ferdinando è infatti Maria Cristina di Savoia,
una scelta che proietta idealmente il Re di Napoli in una dimensione nazionale.
La "Reginella Santa" morirà proprio nel dare alla luce il primogenito Francesco,
e Ferdinando prenderà allora in sposa Maria Teresa d'Asburgo,
a segnalare una precisa posizione ideologica, di matrice conservatrice.
  Il  successivo matrimonio tra Francesco e Maria Sofia
confermerà la volontà di Napoli rinsaldare i legami con le Potenze reazionarie,  
e sarà pesantemente criticato dal mondo liberale europeo, soprattutto inglese e francese.

Nuovi eventi battevano minacciosi alle porte del Regno: la sconfitta austriaca a Magenta, il 4 giugno; l'abbandono del Ducato di Parma da parte di Maria Luisa di Borbone, il 9 giugno; l'insurrezione delle città pontificie di Bologna e Ferrara; la resa di Francesco IV a Modena, l'11 giugno; la formazione estemporanea di provvisorie rappresentanze politiche locali favorevoli all'annessione al Piemonte. E poi, oltremanica, il ritorno al potere di un Governo liberale, guidato dal più implacabile nemico della dinastia napoletana, Lord Palmerston, che sceglieva come Cancelliere dello Scacchiere un'altro irriducibile avversario dei Borbone, William Ewart Gladstone.

Il nuovo Governo conservava lo stesso obiettivo - garantire il dominio dell'Inghilterra nel Mediterraneo, sorvegliando con raddoppiata attenzione l'evoluzione dello scenario politico della penisola -, ma cambiava bruscamente registro in materia di politica estera. Ridimensionava l'ostilità latente verso il Regno di Sardegna, originata dall'intesa franco-russa in cui era finita risucchiata la politica di Torino. Sminuiva l'importanza dell'intesa con Vienna, cosicché anche la neutralità di Napoli - nel nuovo contesto - non era più un fatto dirimente. Re Francesco II era ora libero di scegliere tra la non belligeranza (favorevole all'Austria) e l'entrata in guerra (favorevole alla causa nazionale del Piemonte). L'abbandono di una strong view lasciava campo libero ai disegni di Torino e Parigi. Cavour e Napoleone ripristinavano le ordinarie relazioni diplomatiche, con l'idea di sfruttare i buoni uffici delle componenti liberali della Monarchia borbonica per persuadere il Re a sganciarsi da Vienna e allearsi anche solo simbolicamente col Piemonte, anche solo promuovendo un ammodernamento delle istituzioni.

La coda della Seconda Guerra di Indipendenza sarà un valzer continuo tra le diplomazie, ognuna stretta tra timori e speranze, alla ricerca della controparte migliore con cui dissipare gli uni e dar corpo alle altre, e tutte pronte a prendersi e a lasciarsi, a danzare insieme per qualche passo prima di cambiare partner, in un'affannosa sintonizzazione col proprio interlocutore. Napoli dava ampie rassicurazioni di neutralità all'Austria, senza riuscire tuttavia a placarne le inquietudini, ché la forza imperiosa delle cose avrebbe ancora potuto condurre a un'adesione forzata di Re Francesco II al conflitto in corso. Londra seguiva a una linea di prudenza, teneva una posizione attendista, ma non mancava di pungolare Napoli sulle riforme, ben disposta a concedere tutto il tempo necessario, pur consapevole che "neutrality and Constituition at Naples are incompatible". E poi l'incrollabile ottimismo di Torino sulla possibilità di portare Napoli dalla propria parte, le parallele manovre di Napoli per avvicinarsi alla Francia in chiave anti-piemontese e anti-britannica, le crescenti perplessità della Francia sull'essersi lasciata trascinare dal Piemonte nella guerra contro l'Austria, il dubbio che tutto si potesse risolvere in situazione a vantaggio esclusivo dei Savoia, e la possibile contromossa di coinvolgere le Due Sicilie in un'alleanza politica più vasta, comprensiva della Russia. Nessuno scenario sembrava inverosimile, e tutto sarebbe potuto accadere, in quell'estate del 1859. Le cose erano sorprendentemente fluide. Neanche l'Armistizio di Villafranca - l'11 luglio - riusciva a stabilizzare completamente la situazione, a fare un'ecatombe di possibilità e lasciare in piedi un unico corso della storia.

Napoli - in particolare - era un ricettacolo di germi di disordine "che non davano segni di sé solo per paura e incoerenza", diagnosticava lucidamente l'ambasciatore austriaco. Dì li a poco sarebbe arrivato l'ammutinamento dei reggimenti svizzeri, sino a quel momento punta di diamante dell'esercito borbonico, la prima linea che in più d'una occasione - e la repressione del 1848 ne era solo l'esempio più evidente - aveva risolto i momenti più difficili. La rivolta degli elvetici inflisse un duro colpo all'immagine e alla forza del Governo. I settori politici ostili alla dinastia la interpretarono come il segno di una virata: "... che qualcosa di sospetto già stesse erodendo le fondamenta del Regno, lo si era avvertito già [...] nell'estate del 1859, quando si ribellarono le quattro compagnie di soldati svizzeri, che rappresentavano un'istituzione, una sicurezza per l'esercito borbonico" - racconta Gigi Di Fiore. "Quei militari chiamati 'tatò' dai napoletani, erano entrati al servizio di Francesco I di Borbone nel 1825, dopo la partenza dei soldati austriaci, troppo costosi per le casse dell'erario. Furono firmate delle convenzioni, rinnovabili, con i cantoni elvetici, riconoscendo paghe particolari a quei soldati di professione e ai loro ufficiali, concedendo loro le possibilità di conservare la religione protestante e di impartire gli ordini in tedesco. Privilegi, spesso materia di gelosie tra gli ufficiali napoletani. Gli svizzeri si rivelarono una forza inarrestabile in due occasioni: nei tumulti tra le strade di Napoli nel maggio 1848 e nella guerra per la conquista della Sicilia del 1848-49. Nel luglio 1859, accadde a Napoli qualcosa di strano. La convenzione con i cantoni elvetici era in scadenza. In Svizzera si era deciso che i battaglioni elvetici non avrebbero più potuto esibire le bandiere cantonali di origine. Alcuni soldati rumoreggiarono, temevano di perdere la cittadinanza e diritti legati al vincolo con la madrepatria. Dei quattro reggimenti svizzeri tre erano acquartierati a Napoli, uno a Palermo. Fu una parte del 3° reggimento a ribellarsi, l'agitazione esplose il 7 luglio 1859. Li fronteggiarono i loro commilitoni del 3° reggimento del 13° cacciatori svizzeri. Si sparò tra il terrore delle gente. Alla fine, i morti furono 21, con 49 feriti, 9 dispersi e 231 prigionieri. Si disse che in quegli incidenti vi fosse la mano ispiratrice dei comitati liberali in contatto con il Piemonte. Sospetti, privi di certezze, ma di sicuro chi più di altri decise di usare la mano pesante nel reprimere la rivolta fu il generale Nunziante, che appena un anno dopo avrebbe tradito. Fu proprio lui, con il Principe Ischitella e in parte il Generale Filangieri, a convincere il Re a sciogliere i reggimenti svizzeri diventati un pericolo interno. Uno dei pilastri militari dell'esercito borbonico, compatto e omogeneo oltre che ben guidato, veniva abbattuto".

Il vulnus nell'apparato militare napoletano preannunciava una nuova tensione nel quadro politico. Se una larga parte dell'opinione pubblica aveva riconosciuto l'avidità e l'egoismo del Piemonte - l'astuzia di Cavour nell'amplificare a proprio vantaggio gli esiti della guerra, col conseguente ridimensionamento delle Due Sicilie, addirittura a rischio di scomparsa, a seguito di ulteriori piani di espansione - la marea montante della rivoluzione italiana alimentava il desidero di veder instaurato anche Napoli un regime parlamentare, sulla scia delle pressioni di Napoleone III.

Re Francesco - sostenuto da gran parte dei suoi consiglieri - oppose ancora una volta un netto rifiuto, si trincerò dietro la fallimentare esperienza liberale del 1848 per negare il ripristino di riforme che all'epoca si erano rivelate solo fonte di malumori e sommovimenti, semplici misure di facciata, benefiche in teoria, ma di fatto contrarie all'ordine e alla quiete pubblica. Il Re conservava intatti i principi della monarchia assoluta, dimostrava di voler preservare il suo potere e la sua indipendenza di giudizio, sebbene le rivolte nella penisola, le pressioni degli agenti francesi e inglesi, la corrente d'opinione liberale, nonché un nuovo focolaio insurrezionale in Sicilia, rendessero progressivamente più problematico tenere la posizione.

L'intransigenza di Re Francesco conduceva a uno strappo con Filangieri, che per due volte minacciò le dimissioni. "Satriano è sicuramente un uomo dotato e provvisto di grandi meriti, che possiede una posizione unica nel suo Paese e una grande reputazione all'estero, e il suo ritiro dagli affari pubblici costituirebbe un grande inconveniente in questo delicato momento", annotava timoroso l'ambasciatore austriaco. Lo scontro al vertice della Monarchia napoletana sprigionava tutta la tensione politica tra l'accettare una protezione di cui si sarebbe diventati succubi e il conservare un'autonomia gravida di rischi: se Francesco II avesse battuto la strada delle riforme, assecondando i desiderata di Parigi, le Due Sicilie sarebbero entrate nell'orbita francese, un riposizionamento ideologico che poteva interpretarsi ora come una limitazione di sovranità, ora come un baluardo per contrastare la spedizione garibaldina, di cui iniziava a circolare voce.

A Zurigo si consumavano intanto le inutili formalità diplomatiche per la chiusura del conflitto, tutte decisioni politiche abbondantemente superate da una dinamica degli eventi ormai irreversibile e manifestamente favorevole all'estensione territoriale del Regno di Sardegna, per quanto irrituale fosse stata la condotta del Governo di Torino.

Nel gennaio 1860 l'Inghilterra esprimeva addirittura la sua simpatia per l'azione del Piemonte, sotto la condizione - tanto pomposa quanto pleonastica - che l'ingresso delle truppe piemontesi nei nuovi territori non avvenisse "until its several States or Provinces shall have by a new vote of their assemblies, after a new election, solennely decladred their wish as to their future destiny". Se il programma di Cavour - questionabile quanto si vuole - era culminato nella liberazione della penisola "from Austrian tyranny", allora si poteva presumere un pari impegno in futuro per evitare un ingresso di prepotenza della Francia nelle Due Sicilie o nello Stato Pontificio.

Ma proprio la rinuncia della Francia ad arginare le pretese del Piemonte - in cambio della Savoia e della Contea di Nizza - era fonte di preoccupazione per i vari Stati europei, e in primis per la Corte di San Giacomo, timorosa che la mossa francese preludesse a un piano espansionistico di Napoleone, a un avventurismo militare emule delle scorribande dello zio, dagli esiti potenzialmente catastrofici. Per altro verso, però, Londra non aveva convenienza a incrinare i rapporti con Parigi. Preferì allora prenderla alla larga, scelse una via indiretta per frenare l'aggressività della politica estera bonapartista: l'avvicinamento al Piemonte sabaudo.

Se dopo la riconfigurazione dell'Alta Italia l'Inghilterra si era dichiarata rispettosa della volontà del popolo delle Due Sicilie - sia che volesse restare sotto i Borbone, sia che intendesse sottomettersi al "dominion of the King of Sardinia" - ora il reale orientamento veniva esplicitato. Torino aveva consegnato i suoi destini a Parigi, e Londra aveva tutto l'interesse a mostrarsi un alleato altrettanto affidabile, per preservare la sua influenza politica e economica nella penisola, soprattutto in vista dell'apertura del Canale di Suez, che avrebbe fatto del meridione italiano uno snodo geografico di assoluta rilevanza.

"L'avversione non pur d'Italia, ma d'Europa"


"Salvatore Maniscalco conosceva bene la sua isola. La sua gente. Era uno 'sbirro' che veniva dal popolo. Del siciliano aveva la dignità, l'orgoglio, la diffidenza" - così Gigi Di Fiore fotografa il Capo della Polizia in Sicilia, undici anni di servizio, protagonista indiscusso sotto due Re, tre Luogotenenti, tre Ministri di Sicilia e Napoli e svariati direttori, uno degli uomini più rappresentativi del regime. "Lo avevano bollato come 'sgherro dei Borbone', ma in realtà dietro questa definizione c'era tutto il timore dei delinquenti verso uno che il suo mestiere di direttore di polizia a Palermo sapeva farlo bene. Con metodi drastici e duri, soprattutto con i gruppi di delinquenti organizzati. Quelli che a Palermo qualcuno chiamava 'picciotti di maffia' ".

Padrone di sé, colto, educato, zelante, attento alle novità - favorì l'uso e la diffusione dei francobolli, sull'esempio dell'iniziativa inglese -, di giorno Capo della Polizia, di notte studioso di diritto, araldica, strategia militare, criminologia e storia. Uomo di fiducia della Casa Reale, introdotto nei gangli dell'ambiente siciliano, capace di reprimere ogni rivoluzione con qualsiasi mezzo, ma anche consapevole della situazione di tensione sull'Isola. "Direttore di Polizia presso il ministero luogotenenziale a Palermo nel 1851, già distintosi per la violenza e il ricorso a criminali di professione quali 'collaboratori' della Polizia, è abilissimo, grazie a una fitta rete di spie nell'isola e all'estero, a scoprire e smontare le trame cospirative nonché nella lotta contro terribili bande armate che agiscono nella Sicilia interna, soprattutto occidentale" - scrive Renata De Lorenzo. "Nel 1859 Maniscalco è il punto fermo contro tutti i fermenti generati nell'isola dalle notizie provenienti dai campi di battaglia del Nord. Da militare, percependo il clima non favorevole per la monarchia, cercherà di spingerla alla moderazione, nella consapevolezza che l'attività di prevenzione, tramite le spie e la repressione, non era sufficiente e che era necessaria anche una politica riformatrice".

Rimase lucido nelle sue analisi anche sotto la pressione degli eventi, con Garibaldi e i suoi che incalzavano l'Isola. Scriveva in quei giorni a Filangieri: "La Sicilia non vuole l'annessione al Piemonte e si è servita come mezzo ad altro fine del nome di Vittorio Emanuele [...]. La gente onesta e dabbene è spaventata dalla rivoluzione e per timore la plaude e l'appoggia. Si aspettano ulteriori sbarchi di emigrati e l'anarchia sarà completa in tutta la Sicilia". Fedele prima a Ferdinando e poi a Francesco, ma anche pragmatico: "all'arrivo dei Mille, mette in salvo la famiglia su una nave diretta a Napoli, rimanendo al suo posto accanto al generale Lanza, nuovo luogotenente" - scrive ancora Renata De Lorenzo. "Dopo la presa di Palermo raggiunge Napoli per andare il 28 luglio in esilio, prima ad Avignone e poi a Marsiglia. Qui coordinerà i legittimisti europei per ristabilire sul trono Francesco II e, fallita questa possibilità, assumerà una posizione autonomistico-federalista, rimanendo un simbolo della fedeltà ai Borboni".

"Senza Maniscalco, i Borboni avrebbero perduto la Sicilia, appena dopo la morte di Ferdinando II", commenterà lo storico Raffaele de Cesare. "Se Maniscalco non fosse stato siciliano, e polizia tutta siciliana la sua, gli strumenti per mandarlo all'altro mondo non sarebbero mancati".

Gli strumenti non sarebbero mancati e non mancarono. Il 27 novembre 1859, una domenica, Maniscalco si avviava verso Cattedrale a Palermo, per partecipare alla messa delle undici con la famiglia. Una piccola folla gli si accalcò intorno, quando un'uomo, approfittando della confusione, lo accoltellò per poi dileguarsi. Maniscalco forse se lo aspettava. L'ambasciatore inglese gli aveva riferito di  alcuni agenti di Mazzini sbarcati in Sicilia per ucciderlo, e di confidare che il Re avrebbe provveduto a sua moglie e ai suoi figli, se mai fosse caduto vittima di un attentato. Re Ferdinando non ebbe bisogno di prendersi in carico la famiglia Maniscalco, perché Maniscalco sopravvisse, ebbe un aumento di stipendio e la "Gran Croce di Francesco I", e pur debilitato volle condurre personalmente le indagini per la cattura del suo attentatore. Lo scovò e intravide una realtà allarmante. Non era - come ci si aspettava - un idealista o un esaltato. Era Vito Farina, per i più "Farinella", uno dei tanti camorristi di Palermo che frequentavano i palazzi aristocratici e si prestavano a essere la longa manus del potere baronale. L'obiettivò diventava perciò l'individuazione dei mandanti, della rete di protezione intorno a "Farinella", giacché era inverosimile che un mafioso avesse agito in solitudine e senza una valida ragione. "Farinella", sotto tortura, rivelò i nomi. Ne uscì fuori un quadro inquietante. L'episodio restituiva l'immagine di una città fatta di intrecci e complicità tra gli esponenti dell'alta aristocrazia e la malavita organizzata, una città in cui la legalità vacillava sotto il peso di una criminalità accettata come fatto ordinario.

L'attentato a Maniscalco - chiunque fossero i mandanti - denunciò la profonda differenza tra le situazioni del Regno al di qua e al di la del Faro. A Napoli l'opposizione era frastagliata, divisa, male organizzata, tenuta efficacemente sotto sorveglianza dagli apparati repressivi. In Sicilia, sullo sfondo di numerosi e fluidi orientamenti politici, il Governo borbonico era il nemico comune di autonomisti, liberali e nazionalisti, che avevano mostrato un'elevata e crescente capacità organizzativa.

"Palmerston e Gladstone hanno commesso l'errore  
di mettere in discussione i diritti sovrani di uno Stato dispotico
senza considerare che, anche un régime absolu, possedeva le identiche prerogative
di una Repubblica o della stessa Inghilterra
di difendersi contro gli avversari che lo volevano rovesciare con la violenza [...].
Giusto o sbagliato che fosse, Ferdinando II, soprannominato 'Re Bomba',
aveva una tale cattiva reputazione che tutto era lecito contro di lui,
ma, se si esclude questo sentimento largamente diffuso nell'opinione pubblica britannica,
una spedizione armata diretta contro il suo Regno costituiva una misura assolutamente illegittima
da parte di un Paese neutrale come l'Inghilterra".
(James Howard Harris, III Conte di Malmesbury)

I siciliani erano degli aficionados delle rivoluzioni. L'Isola era insorta contro l'inviso Governo dei Borbone nel 1820, nel 1837 e nel 1848, ma già nel decennio 1806-1815 vi erano stati parecchi malumori, quando Ferdinando I era ripiegato in Sicilia, sotto la pressione di un nuovo assalto di Napoleone, vivendo quella permanenza più come un esilio che non come la legittima presenza di un monarca nel suo Regno. Le istanze di separazione e indipendenza diventavano ogni volta più marcate, sostenute dal corredo simbolico di una Nazione siciliana da opporre alla Nazione napoletana.

Il 4 aprile 1860, a Palermo, un gruppo di patrioti mazziniani è pronto a una nuova sommossa. Anche la nobiltà è disposta a partecipare, se le cose dovessero andare secondo i piani. I capi dei rivoltosi si barricano nel convento francescano di Santa Maria degli Angeli, conosciuta come "Gancia", e da lì, con un suono di campane, lanciano il segnale della rivolta. Ma le autorità ne sono state segretamente informate, e i ribelli sono accerchiati ancor prima di poter uscire dalle proprie abitazioni. Chi non è ucciso sul posto, sarà giustiziato in seguito. Il capi, barricati nel convento, riescono a tenere botta per diversi giorni, sostenuti dalla solidarietà dei frati e dal sentimento dell'opinione pubblica. La notizia trova larga diffusione sulla stampa, presso le cancellerie estere, nei dispacci consolari. La narrazione assume toni epici: "al monastero della Gancia un piccolo numero si difese contro battaglioni interi, e soli sei furono i prigionieri, salvandosi gli altri".

L'operazione, nel risolversi in nuovo clamoroso fallimento, rappresenterà anche la scintilla per innescare numerose altre rivolte, ma soprattutto assumerà una colorazione politica, un ponte tra la solita guerriglia locale, a cui le autorità erano ormai abituate, e l'imminente guerra nazionale, con valori e significati di ben altra portata, a cui il Governo di Napoli era totalmente impreparato.

"Un pugno di faziosi si dimena nelle tenebre e nel mistero
e fa intendere che si prepara ad un colpo di mano,
ed è generale in tutta l’isola l'aspettazione di un movimento in Palermo
che trascinerebbe in caso di successo tutte le popolazione,
siccome avvenne nel gennaio del 1848.
I facinorosi di tutta l'isola hanno gli occhi fissi su questa città
e credono che non si indugerà a levarsi lo stendardo della rivolta.
Si fanno sempre più calzanti le voci di uno sbarco di emigrati in Sicilia.
Io non saprei se ci fosse un desiderio od una realtà,
ma i faziosi fanno grande assegnamento su questo ausilio".
(Paolo Ruffo, Principe di Castelcicala)

"Sire, la situazione dello spirito pubblico in Palermo desta serie inquietudini
e vi è a temere fra qualche giorno la sedizione.
Io non sono per mia natura facile ad allarmarmi
e non so con tinte fosche aggravare una situazione per sé stessa pericolosa,
 stante le perturbazioni che desolano l'Italia.
Non imploro provvedimenti
avendo Vostra Maestà data alle autorità di questa parte dei Reali Domini
forza e potere sufficiente per la incolumità dell'ordine pubblico.
Aspiro solo a far certa V.M. che Palermo è in preda a una febbre rivoluzionaria.
Vostra Maestà deve essere persuasa che ciascuno farà il suo dovere"
(Salvatore Maniscalco)

Il 5 aprile le autorità governative dispongono la chiusura degli uffici pubblici di Palermo, incluso il servizio postale. La città rimarrà isolata sino al 12 Aprile, stretta nel cerchio di un cordone militare. Il mare è l'unico collegamento con l'esterno.

Il 6 aprile scoppiano rivolte a Monreale e Boccadifalco, sedi di guarnigioni borboniche.

L'8 aprile la città Messina - già sotto stretta sorveglianza - è in stato di assedio.

Il 10 aprile i mazziniani Rosolino Pilo e Giovanni Corrao sbarcano in Sicilia, tra Messina e il Capo di Torre Faro, incitando le popolazioni alla resistenza, in attesa di Garibaldi.

I proclami borbonici minimizzano gli avvenimenti, ma le autorità militari sono costrette ad arretrare. Entra in gioco la Guardia Nazionale Siciliana - un'istituzione del 1848 formata da milizie cittadine, con l'incarico "della conservazione dell'ordine pubblico e della sicurezza delle persone e delle proprietà" - che prende il controllo della sicurezza nelle città siciliane, eccetto che a Palermo, Messina e Catania, massicciamente presidiate da guarnigioni borboniche.

C'è un clima di sfiducia e paura, di sospetto e diffidenza, di ostile attesa. Le città si svuotano, le botteghe rimangono chiuse, le strade sono deserte. C'è uno scollamento tra lo Stato e la società locale. I Borbone appaiono totalmente delegittimati, incapaci di difendere i propri sudditi, buoni solo a terrorizzarli. Spionaggio e tradimento diventano prassi. Anche i settori meno politicizzati prendono posizione contro la dinastia e il vincolo di fedeltà alla monarchia è messo in discussione - e a volte già consumato - persino all'interno degli apparati istituzionali.

Ai primi di maggio - si legge in una lettera di quei giorni - "la bandiera tricolore sventola da per tutto, la Guardia Nazionale e da per tutto ordinata, il dazio sul macino non si paga. Dove sono i soldati, ivi la compressione, dove i soldati non sono, ivi l'indipendenza".

"Io ero in Caprera quando mi giunsero le prime notizie d'un movimento in Palermo:
notizie incerte, or di propagante insurrezione, ora annientata alle prime manifestazioni.
Le voci continuavano però a mormorare d'un moto;
e questo, soffocato o no, aveva avuto luogo.
Ebbi l'avviso dell'accaduto dagli amici del continente.
Mi richiedevano le armi e i mezzi del millione di fucili:
titolo che s'era dato ad una sottoscrizione per l'acquisto d'armi.
Rosolino Pilo, con Corrao, si disponevano a partire per la Sicilia.
Io conoscendo lo spirito di chi reggeva le sorti dell'Italia settentrionale
e non ancora desto dallo scetticismo in cui m'avevano precipitato 
i fatti recenti degli ultimi mesi del 1859, sconsigliavo di fare,
se non si avevano nuove più positive dell'insurrezione.
Gettavo il mio ghiaccio di mezzo secolo nella fervida, potente risoluzione di 25 anni. 
Ma era scritto sul libro del destino!
Il ghiaccio, la dottrina, il pedantismo seminava il vano di ostacoli
la marcia incalzante delle sorti Italiane!
Io consigliavo di non fare, ma per Dio! si faceva;
ed un barlume di notizie annunciava 
che l'insurrezione della Sicilia non era spenta.
Io consigliavo di non fare?
Ma l'Italiano non dev'essere ove l'Italiano
combatte per la causa nazionale contro la tirannide?
Lasciai la Caprera per Genova;
e nelle case de' miei amici Angier e Coltelletti
si cominciò a ciarlare della Sicilia e delle cose nostre.
A villa Spinola, poi, in casa dell'amico Augusto Vecchi,
si principiò a fare dei preparativi per una spedizione".
(Giuseppe Garibaldi)

Rancori, insofferenze, speranze, tornaconti, ragioni e torti. Sistemi di valori politici e morali funzionavano da giustificazioni ideologiche per alimentare conflittualità di ben altra natura, risalenti nel tempo, e una pluralità di segnali preannunciavano la volontà di scatenare un'offensiva militare alla Monarchia napoletanaI Governi europei erano sfiduciati e insofferenti verso i Borbone, in modo ormai irreversibile. Già al Congresso di Parigi, nel 1856, le discussioni di corridoio avevano avuto tra i temi ricorrenti il rovesciamento del trono di Napoli. Cavour scriveva apertamente "di far esplodere una sommossa antiborbonica", "di gettare in aria il Bomba", e se dopo di allora imbracciare le armi era rimasta solo un'ipotesi, ora l'eventualità della guerra apparteneva a pieno titolo all'orizzonte delle possibilità.

"Mancava solo un soggetto disponibile a fare il 'lavoro sporco', un personaggio carismatico capace di incanalare i fermenti patriottici e ammantare di idealismo un'impresa che avrebbe di fatto servito su un piatto d'argento il Meridione alla corona sabauda - e ai famelici interessi britannici" - scrive Lorenzo Del Boca. "E chi poteva incarnare questo ruolo meglio di Giuseppe Garibaldi?".

"Nel Regno molto si fece per restaurare le cose, poco per le idee [...].
 Ferdinando credé bastargli il fatto; poco lavorò alla vittoria della reazione morale, 
quella che non con arme di ferro ma con la face delle verità si consegue [...].
Pagò d'aver vinto, godente incontrastata potestà, plaudito da' sudditi,
suppose quello stato non poter mancare, non pensò all'avvenire [...].
Temuti gli uomini di testa, s'andò cercando la mediocrità perché più mogia;
non si volle e non si seppe cercare i migliori e porli ai primi seggi [...];
e per non fidarsi in nessuno, e non aver bisogno d'intelletti,
fu ridotta a macchina l'amministrazione e il governo [...].
La nave dello Stato non provveduta di piloti andò in tempo di calma più anni barcollando;
poi al primo buffo, non trovandosi in mano esperta al timone, senza guida affondò".
(Giacinto de' Sivo)

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