NAPOLETANI, VOI SIETE ITALIANI!


"Napoletani, voi siete napoletani, napoletaaaaaani, voi siete napoletaaaaaani!". La "Curva Sud" romanista rivolgeva questo coro alla "Nord" laziale, a ogni derby capitolino. Nel coro c'era un immediato richiamo alla somiglianza dei colori - il bianco e l'azzurro - ma anche un riferimento esplicito alla sporcizia - siete sporchi come Napoli - problema endemico della città partenopea, magicamente trasformato in poesia da Pino Daniele: "Napule è na' carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a' sciorta".

Una violenta repressione ha poi trasformato gli stadi in sezioni distaccate del Rotary Club, popolate da signore austere che sorseggiano il thè sollevando la tazza col mignolo, uomini di mondo che applaudono con la compostezza dovuta alla prima della Scala, sul sottofondo del coro dell'Antoniano di bambini convinti di trovarsi in un luna-park, solo un po' diverso.

In ogni epoca, per un fortunato paradosso, il popolo è però più intelligente dei suoi governanti (che pure è stato il popolo a nominare). L'ironia napoletana toccò la vetta, quando, squalificato l'Olimpico per i cori razzisti (sic!) a un Roma-Napoli di Coppa Italia, la "Curva B" del San Paolo rispose la domenica successiva infliggendosi proprio quel repertorio di insulti che si sentiva rivolgere nei vari stadi d'Italia - "napoletani, noi siamo napoletani", "lavaci col fuoco, oh, Vesuvio lavaci col fuoco", "noi col sapone non ci siamo mai lavati" - in un apparente masochismo che in realtà esprimeva una sofisticata vis polemica contro una repressione politicamente premiante, ma ipocrita e inconcludente.


"Napoletani, voi siete napoletani", ma sul finire del 1860 sarebbe stato più corretto intonare "napoletani, voi siete... italiani!". I Borbone erano decaduti, le terre meridionali annesse al Regno di Sardegna, l'Italia prendeva forma, non sono geografica, ma anche politica, con l'impegno dei governanti a uniformare leggi, regolamenti e procedure.

L'apertura del primo discorso di Re Vittorio Emanuele II al primo Parlamento Italiano.

Il sistema postale era tra i settori interessati dal vasto e intenso processo di riforma dell'assetto istituzionale e il francobollo ne rappresentava il messaggero.
 
Con ormai alle spalle le vicende delle sorelle azzurre - la Trinacria e la Crocetta - i responsabili delle Poste dovevano ora progettare e attuare soluzioni definitive - per quanto di definitivo possa esserci a questo mondo - muovendo proprio da quegli aspetti esteriori, di facciata, che nella loro superficialità - nel senso letterale di "stare in superficie" - sono per ciò stesso i più visibili e immediatamente percepiti.
 
Al francobollo - lo strumento per coprire i costi del viaggio della posta - andava consegnata un'appropriata veste formale, un abito governativo adeguato. Il francobollo doveva ora indossare la divisa della nuova Casa Reale.


La riforma del servizio postale era dunque nell'agenda della nuova classe politica, sul piano amministrativo delle tariffe, ma anche nei termini propri di quegli oggetti - i francobolli - che ne rappresentavano la manifestazione tangibile.

Se un semplice atto di burocrazia era sufficiente ad attuare il tariffario sardo nel napoletano, anche l'avvicendamento tra francobolli avrebbe potuto procedere con naturalezza, almeno in astratto, in punto di teoria. Il Regno di Sardegna aveva emesso nel tempo quattro serie di francobolli, le prime tre con valori da 5, 20 e 40 centesimi, la quarta a spettro più esteso, dal 5 centesimi al 3 lire, passando per i pezzi intermedi da 10, 20, 40 e 80 centesimi. Nulla di più semplice, in teoria, che inviare a Napoli le necessarie provviste della cosiddetta IV di Sardegna (come i collezionisti l'avrebbero chiamata più tardi).
 
Facile solo in teoria, però. Perché dentro le istituzioni, nei gangli della burocrazie, dietro le leggi e i regolamenti, ci sono anche gli uomini e l'anche non è un inciso secondario.


Un campionario dei francobolli della IV emissione del Regno di Sardegna.

Nelle vicende postali delle Province Napoletane - compartimenti di Bari, Chieti, Cosenza e Napoli - si accavallano e s'intrecciano gli antagonismi tra i centri di potere di Napoli e Torino, accentuati dalla confusione istituzionale dovuta alla presenza di funzionari della Direzione di Torino presso la Direzione Generale di Napoli (da cui ordini e contrordini, conferme e smentite d'ogni sorta).

Il Barone Gennaro Belelli - Direttore delle Poste napoletane, dal settembre 1860 - aveva avviato in autonomia la stampa di nuovi francobolli in centesimi di lira italiana - di valore facciale 5, 10, 20, 40 e 80 - sulla falsariga dell'iconografia dell'ultima emissione sarda, senza alcun consulto preventivo con la Direzione Centrale piemontese.
 
Da Torino - siamo tra il gennaio e il febbraio del 1861 - il Direttore Giovanni Barbavara stigmatizzava quell'esuberante intraprendenza, censurava quella fuga in avanti, non solo per un discorso di gerarchie, ma soprattutto per il timore di possibili falsificazioni - vi sentireste di biasimarlo? - nonché per la discrasia tra la valuta dei francobolli (in centesimi) e la monetazione (in grana) ancora in uso nel napoletano.
 
Ma il Belelli, insensibile a questioni di protocollo, o forse sentendo di dovere più obbedienza alla luogotenenza napoletana che non al Governo di Torino, replicava che di lì a poco i nuovi francobolli sarebbero stati pronti all'uso. E in quegli stessi giorni, con atteggiamento paradossale solo all'apparenza - solo per chi non conosce le pulsioni dell'animo umano - rispediva a Torino un piccolo quantitativo di francobolli della IV di Sardegna provenienti dalla Direzione Generale, perché "il loro valore è indicato in lire e centesimi e conseguentemente non sarebbero da potersi agevolmente usare".

Quindi, secondo il torinese Barbavara, il napoletano Belelli aveva sbagliato a concepire francobolli in centesimi per luoghi dove circolavano ancora i grana, ma nel frattempo era giunto a Napoli un campionario di bolli sardi (pensando forse a una maggiore digeribilità dei centesimi "ufficiali" made in Sardegna, rispetto a quelli "ufficiosi" di Napoli), che il Belelli si era però premurato di restituire al mittente, perché indaffarato a stampare i suoi (pensando forse a una più agevole conversione dei napoletani dai grana ai centesimi, se quei centesimi avessero avuto l'odore del mare natio). Ragionamenti irreprensibili da entrambi i lati, non c'è che dire.

Il braccio di ferro tra Napoli e Torino si risolse con un atto d'imperio delle autorità piemontesi: il declassamento della Direzione Postale di Napoli, nel marzo del 1861, e la "messa a disposizione" del Barone Belelli, sostituito da Carlo Vaccheri, già da tempo nella città partenopea per ordine della Direzione Centrale, allo scopo di supervisionare il servizio postale del meridione.

E nel mezzo c'è un gustoso episodio di marca tutta napoletana, della serie "chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdàmmoce 'o ppassato, simmo 'è Napule, paisà!". Nella baraonda di centesimi italiani stampati a Napoli, di grana napoletani prodotti a Torino, di centesimi palleggiati tra Torino e Napoli, e delle preoccupazione comune, a Napoli e Torino di far accettare i centesimi a chi ragionava in grana, il Belelli se ne uscì con un proposta che avrebbe salvato grana, centesimi, Napoli e Torino. Io ormai li ho stampati, i miei francobolli in centesimi; e voi avete stampato i vostri, in grana; a Napoli nessuno calcola in centesimi, ma a Torino sì; e a Torino nessuno ha mai usato i grana, ma a Napoli non si sa pensare altrimenti; e allora... chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato... accattatevi i miei centesimi che io raccatto i vostri grana... simmo 'è Napule, paisà! Ma "Barbavara" non suona propriamente come un cognome partenopeo, e il Belelli mise finalmente a fuoco che ora... napoletani, voi siete italiani.

La stampa di quei curiosi francobolli - icona e moneta sarda, di produzione napoletana - fu sospesa il 3 aprile 1861; i funzionari procedettero rapidamente a un inventario puntuale e quasi due milioni e mezzo di pezzi - tra ordinari, varianti e mezzi lavorati - furono spediti all'Amministrazione Postale di Torino; altri furono distrutti, perché variamente difettosi.

La serie dei "centesimi napoletani".
Gli stereotipi sono simili alla IV di Sardegna,
ma le differenze si scovano facilmente:
le diciture sono più grandi e nette,
le perline più piccole e appariscenti,
l'effige sovrana è inclinata all'indietro.

Quei francobolli sono i "non emessi" delle Province Napoletane.
 
Il termine "non emesso" - nel gergo filatelico - indica quel valore postale equivalente ai francobolli regolarmente in circolo, di cui era già pronta una prima fornitura, e tuttavia mai distribuito (per le più varie ragioni). La denominazione è perciò corretta, vista la genesi e il decorso dei "centesimi napoletani", ma se già il "saggio Masini" era riuscito a passare per posta di straforo, per quale motivo una sorte analoga non poteva toccare anche a questi altri nuovi pezzi? Domanda retorica, ovvio.

Sono conosciuti quattro esemplari usati del 5 centesimi, uno del 20 e due del 40 centesimi (che in origine formavano una coppia, anche se adoperati a un giorno di distanza l'uno dall'altro) e uno dell'80. C'era una diatriba - non saprei dire se ancora in corso oppure risolta - sul numero dei 10 centesimi (tre o cinque?) che fa oscillare il conteggio complessivo dei "non emessi" tra undici e tredici esemplari.

I timori del Barbavara - sulle possibili frodi per dei bolli realizzati lontano dalla casa madre - erano qualcosa in più d'una semplice manifestazione ansiogena. I "non emessi" passati per posta furono con ogni probabilità trafugati durante le originarie operazioni di stampa, o nel corso delle procedure di conteggio successive al sequestro, e i profittatori li tennero nascosti per un po', prima di persuadersi a metterli in giro. Il primo uso conosciuto a Napoli è il 18 marzo 1862, ma il "primo giorno" assoluto è il 31 maggio 1861... a Torino! Se non proprio il mondo intero, sicuramente la neo-costituita Italia era già tutta un piccolo paese.


I non emessi  (usati) delle Province Napoletane: la serie più rara al mondo.
C'è un bell'episodio di folklore sui "non emessi", con leggere varianti narrative.
Nel primo dopo guerra, un collezionista - il Principe Pamphilj o il maggiore Levy? -
si trova a Londra nella bottega di un mercante di francobolli,
e in un album della IV di Sardegna vede un esemplare dissimile dagli altri,
isolato in una pagina dedicata, con accanto il contrassegno "forgery", falso.
Nella versione estesa del racconto, il collezionista si dimostra interessato all'acquisto
- probabilmente per avere un pezzo da usare come metro di confronto -
ma l'impiegata si rifiuta di cederlo per motivi reputazionali ("non vendiamo francobolli falsi")
e mantiene l'intransigente posizione dopo aver interpellato il titolare,
nonostante la generosa offerta di 5 sterline del collezionista.
Il presunto "forgery" sarà in seguito regalato dal mercante a un cliente italiano,
che lo cederà ad Alberto Bolaffi, che lo rivenderà tempo dopo.
Quel francobollo però non era falso.
Quel francobollo era... 
... l'unico 20 centesimi "non emesso" usato delle Province Napoletane!



Uno dei due esemplari conosciuti del 40 centesimi,
in affrancatura con un 5 centesimi del Regno di Sardegna.
L'esemplare si trovava sotto quello conosciuto usato sciolto
e al margine superiore manca proprio la parte del riquadro che si trova nell'altro. 

Se nel dietro le quinte del sistema postale meridionale andava in scena una nuova, improvvisata, sceneggiata napoletana, sul palcoscenico principale si marciava con pari intensità, in vista della rappresentazione ufficiale.

La stampa dei francobolli borbonici era teoricamente cessata nel dicembre 1860 (anche se forse si protrasse sino al gennaio 1861 e lo stock esistente continuò comunque a esser usato ancora a lungo); la Trinacria e la Crocetta erano state due meteore, di cui ora s'intravedeva solo la scia; nei territori del decaduto Regno di Napoli si preferì per varie ragioni mantenere il regime di luogotenenza - anche ben oltre l'unità d'Italia, sino ai primi di novembre del 1862 - ma i francobolli del nuovo Re non potevano più aspettare, il cronometro dei servizi postali batteva un ritmo più veloce del compassato tempo delle mediazioni politiche.

L'annessione del Regno di Napoli al Regno di Sardegna è così segnata dall'emissione dei francobolli delle Province Napoletane.

Il luogotenente Farini aveva istituito il servizio postale delle Province Napoletane col Decreto N. 156 del 6 gennaio 1861; l'emissione ufficiale - in moneta napoletana, tornesi e grana - fu curata a Torino da Francesco Matraire, che riprese il modello della IV di Sardegna; i valori da ½ tornese e da 1, 2, 5 e 20 grana furono emessi il 14 febbraio (e da lì a due settimane, l'1 marzo 1861, sarebbe stato esteso il regime tariffario sardo ai territori annessi a seguito dei plebisciti); apparvero dopo, a distanza di circa un mese, i valori da ½ grano e da 10 e 50 grana, a riprodurre la stesso spettro di valori facciali dei francobolli borbonici (con l'aggiunta del valore da ½ tornese, per stampe e giornali).

Una della quattro pentacolori note delle Province Napoletane.



Il 5 grana delle Province Napoletane.



Il 20 grana delle Province Napoletane.
Ex Collezione "Seta".



Il 50 grana delle Province Napoletane,
emesso il 17 marzo 1861, il giorno della proclamazione dell'unità d'Italia.

Di questi francobolli - pur ideati e realizzati per un uso circoscritto alle Province Napoletane - se ne conoscono impieghi anche il altre città italiane - Milano, Ascoli e alcuni centri minori - perché, di là della monetazione ormai desueta, erano giudicati a tutti gli effetti "italiani"; ebbero corso regolare anche nelle ex enclavi pontificie di Benevento e Pontecorvo; un uso eccezionale si ha in luogo dei valori del Governo Provvisorio di Toscana, presso la posta militare nel napoletano; esistono anche affrancature miste con i valori borbonici e con la Trinacria e la Crocetta.

Un esemplare da 5 grana delle Province Napoletane, usato a Torino.

La serie delle Province Napoletane fu infine sostituita dalle emissioni sardo-italiane dal primo ottobre 1862, con un periodo di grazia di due settimane, tollerata sino al 15 ottobre (da cui, anche in questo caso, interessanti affrancature miste tra le due serie di valori).

Borbone o Savoia, Napoli o Italia, grana o centesimi, ai falsari poco importava. Cambiano i pupi, ma il teatrino rimane lo stesso, avrebbero detto Al di là del Faro, in Sicilia. Che i francobolli recassero simboli borbonici, piuttosto che l'effige sabauda, non aveva grande rilevanza. I falsari perpetuarono la loro opera illecita con la stessa serenità e lo stesso pressapochismo (i falsi delle Province Napoletane sono distinguibili dagli originali per un profilo di Re Vittorio Emanuele ai confini della realtà, ma anche qui con più d'una variante, come per i "falsi di Napoli"). Furono risparmiati solo i bassi valori da ½ tornese, ½ grano e 1 grano (poco remunerativi) e l'alto valore da 50 grana (di più difficile smercio). Insieme alle falsificazioni, ovviamente, proseguirono anche le frodi postali.

Falso d'epoca da 10 grana delle Province Napoletane.



Una frode postale con francobolli delle Province Napoletane:
la parte già annullata del 10 grana venne grattata via
e il francobollo riutilizzato insieme a una coppia del 2 grana,
per affrancare la spedizione "assicurata".

Una chiosa del tutto personale.
 
L'emissione delle Province Napoletane la giudico tra le più intriganti al mondo, anche se nella tradizione filatelica non sembra vantare la stessa considerazione dell'emissione napoletana del 1858 né - a più forte ragione - della Trinacria e della Crocetta. Abbiamo sì splendide collezioni interamente dedicate - di Aldo GuerrisiGiorgio Colla e Raffaele Maria Diena - ma questi francobolli sembrano mancare di cantori e poeti, di celebrazioni e miti. I collezionisti delle "Province Napoletane" mostrano una tendenziale inclinazione verso una specializzazione spinta - sulle particolarità di stampa o sulle sfumature di colore - che mal si presta ad affascinare un pubblico generalista.

Un 2 grana delle Province Napoletane, con filetto di inquadrature superiore.

Eppure non servirebbe nessuna conoscenza o competenza specifica, per apprezzarne l'incommensurabile fascino.
 
I francobolli delle Province Napoletane sono gli unici al mondo - a mia conoscenza, emendatemi pure se non è così - a esser nati con la faccia di un Re e il (valore) facciale del Re precedente. Se il denaro - la moneta, come dicono gli economisti - è una tra le più alte espressioni di sovranità, anche il francobollo - come nota Franco Filanci - è un modo per dire qui comando io. I francobolli delle Province Napoletane esprimono così tutta la tensione dell'interludio dell'unificazione istituzionale, non meno travagliata delle battaglie sul campo per la conquista fisica dei territori meridionali, che non potrebbe mai apprezzarsi con una narrazione convenzionale. Qui, ora, comando io, dice il severo profilo del Re d'Italia. Qui comandiamo ancora noi, qui vigono usi e costumi napoletani, borbonici, dice la valuta - i tornesi e i grana - sotto l'effige di Vittorio Emanuele II.

I francobolli delle Province Napoletane: in pochi centimetri quadrati, un'intera enciclopedia di storia, una storia autentica, genuina, con tutti i suoi drammi e le sue contraddizioni.

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