GIULIO ATTRAVERSO ALBERTO

Nessun figlio è a proprio agio nel parlare in pubblico di un suo genitore - soprattutto se dello stesso sesso - per l'incessante accavallarsi di stati d'animo antitetici, virtualmente impossibili da conciliare e armonizzare. Amore e affetto, ammirazione e devozione, gratitudine e emulazione, ma anche litigi e incomprensioni, confitti e contrapposizioni, frustrazioni, silenzi e fratture. Le emozioni più varie, di pari intensità e segno opposto, si miscelano e si amalgamano, a formare un coacervo di sentimenti di cui non è mai facile distillare l'essenza. Ogni figlio è imbarazzato nel parlare di un proprio genitore, perché sente il pericolo di eccedere in un senso o nell'altro, di esser conciliante o intransigente, di non riuscire a essere giusto.

Un figlio è invariabilmente sotto pressione, nel parlare di suo padre, e se il padre si chiama Giulio Bolaffi allora le difficoltà aumentano e si amplificano, perché le già grandi complessità della dimensione privata si aggrovigliano con le ulteriori complessità della vita pubblica, della notorietà, del peso dell'istituzione Bolaffi, ben oltre l'ambiente filatelico. Ricordare e raccontare diventano esercizi sfiancanti, prove di resistenza.

Alberto Bolaffi - col suo "Giulio Bolaffi: un padre raccontato dal figlio" - si cimenta coraggiosamente in questo esercizio, che finalizza in modo impeccabile grazie a un intelligente espediente narrativo, favorito da fattori contingenti, anche se non tutti piacevoli.

Alberto Bolaffi parla pubblicamente di suo padre, di Giulio Bolaffi, ma sceglie di "ricordarlo nella sua veste di imprenditore filatelico" (p. 1) più che nel ruolo familiare di genitore, "guardandolo con quell'ammirazione che è riuscito sempre a destare fra tutte le persone da lui conosciute" (p. 35) più che con l'intimità propria di un figlio.

La clausola di stile - strumentale a smorzare la tensione emotiva, a guadagnare in lucidità espositiva -  è favorita da un singolare intreccio di situazioni personali, del padre e del figlio, venate di tristezza e malinconia.

Da un lato c'è, da parte di Giulio Bolaffi, l'innato "pudore nell'esternare non certamente l'affetto ma tutto quanto ricadeva nel troppo personale" (p. 1). D'altro c'è la prolungata distanza fisica di Alberto da suo padre, dall'infanzia sino alla gioventù, prima per i tragici eventi della seconda guerra mondiale, poi per una sofferta scelta educativa, influenzata da un grave lutto familiare. "Posso dire di d'averlo conosciuto veramente solo quando alla fine della guerra mi comparve davanti vestito da militare, con parabellum al collo, e mi venne detto: 'E' tuo padre'. Non l'avrei riconosciuto; ero bambino e, durante la guerra, per quasi due anni ero rimasto separato da lui" (p. 8). La scomparsa prematura della moglie di Giulio Bolaffi, sul finire della guerra, condizionò pesantemente le scelte successive della famiglia. Alberto Bolaffi, col beneficio della retrospettiva, si definisce un figlio "un po' indipendente, irruente, cresciuto senza il tenero freno di una madre"; e Giulio Bolaffi, pur "disposto a capire le piccole e grandi marachelle che un figlio in giovane età può combinare", valutò per lui opportuno, "dopo molte esitazioni", un percorso formativo lontano da casa, in un collegio svizzero, dove Alberto rimase sino all'età di 19 anni (pp. 8-9). "I nostri rapporti rimasero stretti anche se ci vedevamo di rado: lui mi scriveva ogni qualvolta i suoi numerosi impegni lo consentivano. [...]. Io non sempre rispondevo, perché tutto sommato non avevo tanta voglia di dedicarmi a questo genere di incombenze" (p. 9).

Non sono ovviamente mancati, negli anni, momenti intimi e occasioni di stretto contatto, di incontri e confidenze, tra padre e figlio: una vacanza a Sestriere, subito dopo la guerra; i rientri dal collegio per le vacanze di Pasqua, spesso coincidenti con la Fiera di Milano, con il "momento magico" del pranzo insieme (p. 10); la lunga convivenza sotto lo stesso tetto, "in una casa accogliente dove però si avvertiva l'assenza di una figura femminile" (p. 10) perché Giulio Bolaffi "non si risposò, nel ricordo di una donna che aveva certamente molto amato ma anche, forse... perché era troppo indaffarato con i suoi francobolli" (p. 12). Ma la mancanza di un'assidua frequentazione tra padre e figlio, di un ripetuto contatto tra Giulio e Alberto Bolaffi, in una fase della vita particolarmente delicata per plasmare i rapporti umani, cristallizza in Alberto più la figura generale dell'uomo nella sua interezza, che non quella particolare e limitata, per quanto rilevante, del genitore. "Tantissimi sono i ricordi che mi legano all'uomo, un po' meno quelli relativi al genitore" (p. 1).

Quel che ne viene fuori è un racconto fair, asciutto e essenziale, e pur accattivante, ricco di spunti, di inviti alla discussione e alla riflessione.


Giulio Bolaffi era un "sognatore", che preservò sempre l'atteggiamento propositivo di "un giovane aperto a nuove sfide e iniziative" (p. 1).

Era "continuamente proiettato verso il futuro" (p. 2), "con una gran voglia di vivere, di fare e soprattutto conscio di non avere compiuto tutto quello che avrebbe potuto attuare" (p. 1).

Era "un uomo solare e un padre generoso" (p. 10), che "si commuoveva sempre di fronte alle difficoltà del prossimo, e nutriva la convinzione che chi conduceva una vita fortunata non doveva inorgoglirsi, ma al contrario essere ancor più attento nel soccorrere i bisognosi [...] sempre però nel più assoluto anonimato" (p. 28).

Un uomo "eccezionale anche nei modi" (p. 12), "assolutamente corretto come dimostrato nel corso di tutta la sua vita" (p. 18), "innamorato della sacralità dei valori della famiglia" (p. 13), "perché amava la tradizione e ancor di più l'ordine morale nella più ampia accezione del termine" (p. 14).

Aveva alle spalle una tradizione ebraica, senza essere però "un religioso in senso fanatico", animato piuttosto dalla convinzione che "da tutte le religioni si può cogliere un identico messaggio morale che deve essere indirizzato anzitutto nei confronti della solidarietà verso il prossimo e nell'onestà di comportamento" (p. 14).

Madre Natura gli aveva negato qualche centimetro di altezza, donandogli però un fisico prestante, atletico, che conservò negli anni e gli permise di cimentarsi in numerosi sport (pp. 14-15, 44-45). Giulio Bolaffi "godeva di buona salute, che diventò malferma solo negli ultimi anni della sua vita" (p. 11), in cui peraltro "è rimasto lucido e consapevole della realtà" (p. 1).

Giulio Bolaffi a bordo del transatlantico Queen Elizabeth.
I viaggi negli Stati Uniti, in nave, erano una delle sue rare occasioni di vacanza. 

Giulio Bolaffi è sinonimo di filatelia, è un tutt'uno con la filatelia, Giulio Bolaffi e la filatelia si definiscono reciprocamente. Quel sognatore proiettato verso il futuro vedeva "un futuro che si chiamava esclusivamente filatelia e nei confronti del quale non si era mai posto né si poneva limiti o traguardi" (p. 2).

Sul lavoro era "molto esigente, pretendeva il massimo da tutti [...] dando però l'esempio e dimostrando grande generosità" (p. 32).

Fu un visionario, un precursore, anticipò il divenire del collezionismo in modo colto, moderno e intelligente. Fu tra i primi a vedere nel francobollo "un oggetto di incommensurabile valore antiquariale" (p. 16), una dimensione recentemente ripresa dall'ingegner Giacomo Avanzo, nella presentazione del Catalogo Sassone 2018, e indicata come il futuro stesso della filatelia ("Crediamo nella filatelia, potrà andare avanti come antiquariale; sarà la filatelia del XXI secolo").

Giulio Bolaffi entrò in contatto con numerose personalità di spicco della società, politici, imprenditori, banchieri, capitani d'industria, liberi professionisti (pp. 20-27, 34-35), e naturalmente con tutto il gotha dell'universo filatelico (pp. 28-32), ma ebbe a cuore anche la propaganda culturale e la divulgazione di massa, realizzate con un'attività editoriale di pari importanza a quella commerciale. "Il Collezionista" era oggetto d'ironia, nei discorsi di famiglia, "dicendo che la rivista era il suo 'figlio prediletto'", per il quale, tra l'altro, "trascurò importanti opportunità di lavoro" (p. 33).

Tutti coloro che hanno avuto contatti professionali con Giulio Bolaffi, a ogni livello, "hanno avuto la fortuna di scoprire la filatelia attraverso la più alta cattedra di cui si possa disporre" (p. 24).

Il prestigioso attestato del Roll of Distinguished Philatelists, rilasciato a Giulio Bolaffi.

"Il mercante di successo, il valoroso partigiano, l'uomo che conduceva una vita rigorosa e agiata" (p. 27) non fu risparmiato da esperienze di vita drammatiche.

Conobbe l'onta di un'ingiusta carcerazione, per essersi trovato suo malgrado in mezzo a una lotta di potere all'interno del Banco di Sicilia, a cui era legato da un importante affare, la cessione di un complesso filatelico poi noto come Collezione "Mormino". Anche in carcere, tuttavia, venne trattato "con estrema deferenza", "interpellato col suo titolo universitario", "circondato da ogni possibile riguardo", e non certo per un fatto di maniera, ma "per il senso di autorevole serenità e onestà che anche in quella tristissima circostanza emanava la sua persona" (p. 27). Era lui, Giulio Bolaffi, per colmo di coraggio, a consolare il figlio Alberto. "In quel periodo andavo regolarmente a trovarlo, ed era lui che cercava di rincuorarmi" (p. 26).

Rischiò seriamente la vita, in un incidente d'auto causato in parte dalla sua generale distrazione alla guida (perché invariabilmente assorto nei suoi pensieri di lavoro) ma in maggior misura dallo stato viscido della strada. "Uscito di strada e sprofondato nel 'Re dei Fossi', a causa della pressione dell'acqua non riusciva ad aprire le portiere; e solo dopo aver rivolto l'ultimo pensiero alla sua giovane famiglia e a Dio, quando l'acqua arrivò fino al soffitto dell'abitacolo fece un ultimo tentativo e le porte per effetto della compensazione si spalancarono come d'incanto. Quando la macchina venne recuperata era tappezzata di francobolli oramai inservibili" (p. 32).

Era d'origine ebraica, e non serve spiegare cosa significava essere ebrei in Italia dopo la promulgazione delle leggi razziali, anche per chi, come Giulio Bolaffi, "fu fascista perché i tempi lo imponevano, perché aveva un'azienda e delle responsabilità, una famiglia da proteggere", per chi fu fascista "[a]bbastanza per poter gestire tutto questo", come riconosce onestamente Alberto in una intervista a "La Repubblica".

Col precipitare degli eventi - lo racconta Mario Pisano - Giulio Bolaffi si adoperò sin dal principio "per garantire rifugio, soccorso e assistenza a persone che correvano rischi immediati ma che non avevano mezzi per tentare l'espatrio" e successivamente "prese contatto con i nuclei partigiani", con audacia e senza remore, "tanto che da Torino i nazifasciti spiccarono un mandato di cattura nei suoi confronti" (pp. 48-49).

L'esperienza partigiana - a posteriori gloriosa e giustamente celebrata - non mancò di dargli profonde amarezze, mentre si svolgeva. Giulio Bolaffi si teneva fuori da "conflitti e divergenze sulla concezione del tipo di guerra da attuare [...] preferendo continuare nell'opera di reperimento di carte di identità e salvacondotti falsi per aiutare i perseguitati, di approvvigionamento di generi alimentari, di reclutamento dei partigiani". Questa sua indole non fu sempre apprezzata tra le varie formazioni della Resistenza, con cui "si trovò spesso in conflitto" (p. 49), e persino i suoi successi sul campo scatenarono "invidie e gelosie all'interno dello stesso movimento partigiano" (p. 54). Non ebbe freni nell'insorgere contro le gerarchie, che "mal sopportava", "scavalcando anche in qualche caso i vertici tornesi del Comitato di Liberazione Nazionale", quando la drammaticità delle circostanze lo imponeva (pp. 49, 54).
Il suo temperamento, impossibile da domare, gli valse la qualifica postuma di partigiano ribelle.

    Il libro "Giulio Bolaffi. Un partigiano ribelle"
è basato sui nove quadernetti che Giulio Bolaffi  scrisse nei 403 giorni da partigiano in Val di Susa,
dal 18 maggio 1944 al 26 giugno 1945 col nome in codice di Aldo Laghi,
"nei quali annoterà giorno per giorno gli ordini di servizio, 
gli avvenimenti lieti e tristi, anche i più minuti",
e di cui aveva soltanto accennato ai figli, che li ritrovarono tra le sue carte, dopo il decesso.
"Quadernetti di difficile lettura in quanto colmi di iniziali e nomi di battaglia, 
utilizzati dal Comandante Laghi per motivi precauzionali, 
e che soprattutto la figlia Stella ha voluto decrittati e pubblicati",
un'operazione tutt'altro che banale e che ha imposto
"un'intensa collaborazione con una grafologa, una storica e un giornalista" (p. 51) 

Questo affresco di Giulio Bolaffi è a prima vista sopra le righe, il classico eccesso di elogi tributato a una persona cara scomparsa; ma ne troviamo ricorrenti e circostanziate conferme se andiamo a fondo nella lettura, nelle testimonianze raccolte nella terza parte del libro, che convalidano l'immagine di un uomo fatto di una pasta speciale, una rara mistura di signorilità e discrezione, correttezza e professionalità, generosità e passione (come emerge ancor meglio nel volume L'antiquario filatelico, edito da Poste Italiane, nel 1991, in occasione dell'emissione del francobollo dedicato ad Alberto e Giulio Bolaffi).

Il francobollo italiano commemorativo di Alberto Senior e Giulio Bolaffi.

Questa austera figura di gentleman piemontese - per tutti il dottor Bolaffi, persino per la nuora Nicoletta, moglie di Alberto (p. 79) - possedeva peraltro un sofisticato senso dell'ironia "e le sue pungenti definizioni per indicare fatti e persone vengono ancora oggi tramandate alla Bolaffi" (p. 13).

Ne possiamo scorgere alcuni bagliori tra le pagine del libro. Giulio Bolaffi chiamava "compagni di collegio" i carcerati con cui divise la prigionia (p. 28) e "amici del mattino" le persone più bisognose del suo quartiere, a cui si dedicava fattualmente nelle primissime ore della giornata (p. 74) come si prodigò del resto per i partigiani con cui aveva combattuto, che chiamava "i miei Patrioti" (pp. 28, 33, 62-63) e per gli stessi galeotti a cui era stato ingiustamente accomunato. Le mogli dei collezionisti - notoriamente d'ostacolo alla passione filatelica dei mariti - erano amabilmente definite "quelle della contraerea" (p. 94).

Giulio Bolaffi - come recita uno dei paragrafi del ricordo del figlio Alberto - era davvero un "uomo quasi di altri tempi" (p. 12).

La "testimonianza" della segretaria di Giulio Bolaffi.



Gabriella Foà è l'istruttrice, "eroica e fedele", che con "coraggio e dedizione" (p. 48)
accudì e allevò i figli di Giulio Bolaffi, Stella e Alberto,
dalla malattia della madre e per l'intero periodo partigiano di Giulio.
Il fatto che Stella e Alberto abbiano continuato a chiamarla "zia Graziella"
è dovuto "al profondo senso di riconoscimento che il loro padre aveva saputo infondere" (p. 86).

Questa mia sommaria ricostruzione del personaggio Giulio Bolaffi vuol essere un invito ad andare oltre, a indagare in profondità un semplice identikit, con la lettura del contribuito originario del figlio Alberto e di tutto il volume.

Quello su cui voglio invece fermarmi, insieme a voi, sono alcuni estratti precisi del profilo, che danno la dimensione della cultura (filatelica) di Giulio Bolaffi e dei suoi insegnamenti (sul collezionismo in particolare, sul saper stare al mondo in generale).

Giulio Bolaffi era un brillante conferenziere
e nei suoi incontri col pubblico sapeva coinvolgere anche gli estranei alla filatelia.

Commenti

Post popolari in questo blog

KU FU? DALLA SICILIA CON FURORE

LO STRANO CASO DI BENEVENTO E PONTECORVO

SEMIOFORI