COLLEZIONE "AQUILE E GIGLI"

"Quella cosa dice l'uomo essere bella 
cui le parti debitamente si rispondono, 
per che de la loro armonia resulta piacimento"
(Dante Alighieri, "Il Convivio", Capitolo V, 13)

"Aquile e Gigli" estende la Collezione "Brigata Estense", dal Ducato di Modena al contiguo Ducato di Parma.

La Collezione mostra la bellezza in filatelia, in accordo con due paradigmi, uno vistoso e scintillante, l'altro più misurato e definito nei contorni; ambisce a sensibilizzare il gusto del collezionista d'esperienza e a incuriosire il visitatore di passaggio; risponde all'auspicio - negli "Aforismi del dissenso", di Fausto Gianfranceschi - di "concentrare per quanto possibile intorno a me le emanazioni della bellezza del mondo che migliorano il mio umore e affinano la mia spiritualità".

Il suo stile è matematico. "Ma cos'è poi che ci dà la sensazione di eleganza in una soluzione, in una dimostrazione?" - è l'accattivante domanda di Henri Poincaré, a cui lui stesso dà la risposta più precisa - "E' l'armonia delle diverse parti, la loro simmetria, il loro felice equilibrio: in una parola, è tutto quello che introduce un ordine, quello che dà unità, che ci permette di vedere chiaramente e comprendere in un sol colpo l'insieme e i dettagli".

La Collezione si basa su simmetrie e proporzioni, su temi ricorrenti e rimandi reciproci, sullo stretto adattamento dei mezzi ai fini, affinché se ne possano cogliere l'armonia dell'insieme e la coerenza dei dettagli, e il primo impatto sia puramente emotivo, nel percepire la bellezza e sentirsene soddisfatti.

Nel caratterizzare la Collezione, la bellezza ne determina il contenuto culturale, in linea con l'intuizione di Giuseppe Prezzolini. "Senza ambire all'originalità assoluta e talvolta pericolosa e tragica del genio, la persona che vuol essere colta deve tendere ad avere almeno qualche reparto proprio suo, magari anche tecnicamente, che so io? un'epoca, una lingua, una materia, un personaggio, una letteratura, una raccolta o collezione, insomma qualche cosa di 'distinto' dagli altri".

E la dimensione culturale s'intreccia a una finalità pedagogica. "Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un'arma contro la rassegnazione, la paura e l'omertà" - è la posizione perentoria di Peppino Impastato - "All'esistenza di orrendi palazzi sorti all'improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il sol fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. E' per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l'abitudine e la rassegnazione, ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore".

Educare alla bellezza stimola e mantiene uno stato di meraviglia, sgrava la vita da tutto ciò che impedisce di goderla appieno, trae in salvo la frazione di mondo di cui siamo portatori. "Io non so se la bellezza salverà il mondo" - scrive il teologo laico Vito Mancuso - "Sono però sicuro che può salvare quel piccolo pezzo di mondo che è ognuno di noi. Nutrendosi di bellezza, il nostro io a poco a poco si libera da tutto quel magma incandescente e a volte marcescente il cui insieme denominiamo ego, spesso all'origine del cosiddetto male di vivere e di tanta sofferenza".
 
Per tutto ciò va qualificato il giudizio del critico d'arte Federico Zeri - estratto dal libriccino "I francobolli italiani" - per cui la lettura del francobollo "sotto il semplice profilo estetico [...] rimane sorda e cieca ai suoi connotati più validi e significativi", incapace di rivelare la "ricca (e potenzialmente infinita) serie di allusioni, simboli, riferimenti", il suo "essere un indicatore assai preciso di situazioni politiche e culturali".
 
Il giudizio di Zeri tocca "l'esclusivo aspetto grafico" - la scelta del soggetto e i tecnicismi di realizzazione - laddove la Collezione reinterpreta "il semplice profilo estetico" nella prospettiva del gusto nella selezione degli esemplari e nel loro accostamento, di un orientamento in cui confluiscono sensibilità, competenza ed esperienza.
   

La Collezione è divisa in due sezioni.
 
Le "Aquile" si concentrano sulla classica emissione ducale, nelle versioni cosiddette "senza punto" e "con punto" dopo le cifre; sono esclusi i segnatasse per giornali, e restano fuori anche gli errori tipografici, che pure rappresentano "i veri gioielli filatelici" (nell'opinione di Enzo Diena, segnalata da Sergio Santachiara nella prefazione al catalogo d'asta della Collezione "Ghirlandina").
 
I "Gigli" - per simmetria - accolgono la prima emissione dei francobolli ducali, nella tiratura iniziale del 1852 (su carta colorata) e nella successiva del 1853-55 (su carta bianca e con nuovi inchiostri); anche in questo caso sono esclusi i segnatasse per giornali (che non mostrano il giglio) e la serie del 1857 (a cui va peraltro riconosciuta una sua gradevolezza). 

E' stato l'oggetto stesso della Collezione a restringerne il perimetro: perché la bellezza si esalta nell'intimità e si diluisce nella moltitudine, perché "uno non può collezionare tutte le conchiglie belle della spiaggia; uno può collezionarne solo poche, e sono più belle se sono poche", con le lucide parole di Anne Morrow Lindbergh.
 
Per ogni pezzo sono indicati il pedigree, quando conosciuto, i principali riferimenti storico-postali, e occasionalmente alcuni risvolti folkloristici. Qualsiasi ulteriore precisazione avrebbe aggiunto poco alla comprensione di chi non vuole o non può capire, col rischio di togliere molto al piacere di chi ha già capito o anche solo intuito. Perché la bellezza - come la donna del Poeta - "dà per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender non la può chi no la prova".
 

 
In un'epoca fragile e superficiale, per quanto sembri banale, la bellezza rimane uno dei pochi lasciti sempiterni: attraversa i secoli, passa da una generazione all'altra e incarna una continuità storica di valore immenso.

La bellezza non è solo estetica: è ricerca, aspirazione, una scelta.

Collezioniamo l'autenticità che ci appartiene: noi siamo storie di bellezza.

 



Senza Punto

5 centesimi verde


 
 
Lettera da Modena a Carpi del 15 luglio 1853,
affrancata con un 5 centesimi annullato a sbarre, in nero,
con a lato il timbro a cerchio senza contorno di Modena.
Tariffa interna nel Cisappennino, per la prima distanza, primo porto.
  Ex Collezione "Estense" (Medaglia Oro Grande, Saluzzo, "Italia 98").
Riprodotta a pagina 65 del volume "Modena 1852-2002 - 150° anniversario dei francobolli estensi".

 

10 centesimi rosa





Firmato per esteso Giulio Bolaffi 

 

15 centesimi giallo



 
  Frammento di lettera raccomanda - da Modena - del 2 giugno 1858.
Ex Collezione "Ghirlandina".
 


Lettera da Modena a Bologna del 19 gennaio 1858,
affrancata con un 15 centesimi annullato col datario a cerchio "con capello", in azzurro, 
riportato al lato sulla soprascritta, su cui compare anche il bollo lineare "DOPO LA PARTENZA"
(apposto sulle lettere presentate all'ufficio postale quando il dispaccio era già partito).
Tariffa della Lega Austro-Italica di primo porto, per la prima distanza,
dal Ducato di Modena allo Stato Pontificio.
 
 
 
Lettera da Modena a Bologna del 3 novembre 1855,
affrancata con un 15 centesimi annullato con timbro a sei sbarre in azzurro.
Tariffa della Lega Austro-Italica di primo porto, per la prima distanza,
dal Ducato di Modena allo Stato Pontificio.

 

25 centesimi camoscio

 
Frammento di lettera raccomandata.
Le raccomandate pagavano un costo fisso aggiuntivo di 25 centesimi,
e il relativo francobollo a copertura veniva di regola apposto al verso della lettera.
L'esemplare è annullato col timbro "RACCOMANDATA", II tipo, di Reggio.
 
 
  
                                                        
                                Annullo rosso:                                          Provenienza:                                             Rombi rossi:
                    dall'1 al 22 giugno 1852.                          Tavola Bolaffi n. 871 (1976).                usati solo il 19 giugno 1852.
                                                                                                                                                                  Ex Collezione Caspary.   
                          
                                                                                
 
Lettera da Modena a Brescia del 26 maggio 1858,
affrancata con un 25 centesimi annullato col timbro a cerchio, in azzurro, ripetuto sulla soprascritta.
Tariffa della Lega Austro-Italica di primo porto, per la seconda distanza,
dal Ducato di Modena al Regno del Lombardo-Veneto.
Ex Collezione "Gi.Pi.".
 
 
 
Ex Collezione "Ghirlandina".
 
 
 
  Lettera da Guastalla a Milano del 27 novembre 1856,
affrancata con un 25 centesimi annullato col timbro a sei sbarre, in azzurro.
Tariffa della Lega Austro-Italica di primo porto, per la seconda distanza,
dal Ducato di Modena al Regno del Lombardo-Veneto.
Ex Collezione "Ghirlandina".


40 centesimi celeste

Annullo rosso: utilizzato dall'1 al 22 giugno 1852.
"... colore vivace e abbondanti margini da tutti i lati".
 
 
 
26 giugno 1852: primo giorno d'uso del bollo "a griglietta",
impiegato solo a Modena, fino al 13 luglio 1852.
Ex Collezione Caspary.
 

 
Provenienza: Renato Mondolfo,
cataloghi n. 9 (1967), 10 (1968), 11 (1969).


40 centesimi azzurro scuro

 

 

                                                 
                 Ex Collezione "Luxus":                                  Provenienza: Tavola Bolaffi n. 871 (1976).
    "truly a 'one in a million' example".                                "... per la sua eccezionale bellezza. 
                                                                                            E' uno dei migliori esemplari che conosco".
                                                                                             (Giulio Bolaffi)
 
 
 

 

Due lettere dell'archivio del Conte Leonardo Salimbeni
- deputato modenese del primo Parlamento italiano -
del 19 aprile e del 20 luglio 1855,
affrancate con il 40 centesimi e indirizzate a Torino (Regno di Sardegna).
Le lettere furono scritte dalla madre, a Nonantola, e postalizzate a Modena
- giacché Nonantola non disponeva di un ufficio di spedizione -
dove i francobolli furono annullati col timbro a sei sbarre, in azzurro,
e fu apposto il cerchio senza contorno, nonché il P.D. (Porto a Destino) 
a testimoniare il pagamento integrale della tariffa
stabilita dalla Convenzione col Regno di Sardegna dell'1 maggio 1855.
La prima lettera (del 19 aprile 1855) è appartenuta alla Collezione Provera.
La seconda lettera (del 20 luglio 1855)
è a pagina 77 del volume "Modena 1852-2002 - 150° anniversario dei francobolli estensi"
(e già riprodotta nella monografia "Modena - Francobolli e Annullamenti 1852-1863, a pagina 30) .

 

 

Con Punto

5 centesimi verde


 




 Frontespizio di lettera da Montefiorino a Modena del 14 aprile 1856,
affrancata con un 5 centesimi annullato col lineare riquadrato di Montefiorino.
Tariffa interna nel Cisappennino, per la prima distanza, primo porto.
Ex Collezione "Ghirlandina".

 

  Lettera da Modena a Carpi del 17 febbraio 1858,
 affrancata con un 5 centesimi annullato col datario a cerchio "con capello", in azzurro.
Tariffa interna nel Cisappennino, per la prima distanza, primo porto.
Riprodotta a pagina 77 del volume "Modena 1852-2002 - 150° anniversario dei francobolli estensi".
 


Lettera da Guastalla a Reggio del 2 giugno 1859,
affrancata con un 5 centesimi annullato "a sbarre", in azzurro,
con a lato il timbro a doppio cerchio grande di Guastalla.
Tariffa interna nel Cisappennino, per la prima distanza, primo porto,
Ex Collezione "Pedemonte".
Ex Collezione "Gi.Pi.".
Riprodotta a pagina 77 del volume "Modena 1852-2002 - 150° anniversario dei francobolli estensi".

 

5 centesimi verde oliva

affrancata con un 5 centesimi annullato a piccoli rombi in nero,
con a lato il datario a cerchio "con cappello", in verde.
 Tariffa interna nel Cisappennino, per la prima distanza, primo porto.
Ex Collezione "Ghirlandina"

 

Lettera da Massa Carrara ad Aulla per Veppo del 27 aprile 1857,
 affrancata con un 5 centesimi annullato col timbro a sei sbarre, in nero,
con al lato il doppio cerchio di Massa Carrara
e il bollo giustificativo a semicerchio "DOPO LA PARTENZA".
Tariffa interna nell'Oltreappennino, prima distanza, primo porto.
 
 
 
Le tre fogge del bollo postale "DOPO LA PARTENZA" del Ducato di Modena.
Il bollo aveva una funzione informativa di natura giustificativa:
veniva apposto per informare che la consegna della lettera all'ufficio di posta
era avvenuta successivamente alla partenza del dispaccio del giorno,
così da giustificare il maggior tempo richiesto per il recapito al destinatario.
 
 

"Alla posta un minuto prima delle 18", opera di George Elgar Hicks, del 1860,
ben esprime il trambusto nell'affollato salone della posta centrale di Londra, 
in prossimità dell’ultima levata per le partenze serali.

 

10 centesimi rosa


Lettera da Modena a Carrara del 22 ottobre 1857,
affrancata con un 10 centesimi annullato col timbro a piccoli rombi neri,
accompagnato dal datario a cerchio "con capello", in azzurro. 
Tariffa dal Cisappennino all'Oltreappennino, per la seconda distanza, primo porto.
Ex Collezione "Estense" (Medaglia Oro Grande, Saluzzo 1997).
Riprodotta a pagina 83 del volume "Modena 1852-2002 - 150° anniversario dei francobolli estensi".


40 centesimi azzurro scuro

                                                                       
                          Ex Collezione "Pedemonte".
                               Ex Collezione "Luxus".


1 lira bianco

 
 



Lettera da Carrara a Filadelfia (Stati Uniti d'America) del 3 giugno 1858,
affrancata per 1,40 lire, con 1 lira e un 40 centesimi, annullati con timbro a sei sbarre in nero.
Tariffa di primo porto, in vigore dall'1 maggio 1857 al 31 ottobre 1858.
La lettera fu inoltrata "per via di Sarzana" (bolli al fronte e al retro) 
sino a Genova (bollo del 4 giugno, al retro)
e da qui trasportata a Filadelfia con un piroscafo postale francese
(bollo a doppio cerchio in rosso "Sardaigne - Culoz 5 Jun. 58" al fronte,
bollo al verso "Paris - Calais 7 Jun. 58")
che la recapitò il 23 giugno (bollo in rosso al fronte "PHILADELPHIA 1858 JUN 23").
L'affrancatura sgravava il trasporto da ogni costo durante il tragitto
- come indica il bollo al fronte "P.D." (Porto a Destino) -
ma a destinazione l'ufficio postale di Filadelfia annotò una tassa di 21 centesimi
- bollo "21" a tampone, in rosso, al fronte - per la consegna ultima al destinatario.
Archivio Vito Viti.

Ex Collezione Provera.
Ex Collezione "Pedemonte"
(riprodotta a pagina 29 del volume "Capolavori filatelici della Collezione Pedemonte").

 




 


Carta colorata

5 centesimi giallo

 



                                                              
                                                                                                Angolo di foglio,
                                                                                                con spazio tipografico.


10 centesimi bianco

                                                             
                                                                                               "Greca" larga a sinistra.

 
 
 
 
 
Fascetta da Parma a Treviso, del 4 aprile 1854, affrancata con un 10 centesimi.
Tariffa della Lega Austro-Italica per il doppio porto delle stampe.
Ex Collezione "Chrysopolis".

 

15 centesimi rosa




Lettera da Parma a Cremona del 24 agosto 1856,
affrancata con un 15 centesimi annullato con timbro a doppio cerchio.
Tariffa della Lega Austro-Italica di primo porto, per la prima distanza,
dal Ducato di Modena al Regno del Lombardo-Veneto. 
La lettera è indirizzata a un'educanda del Collegio della Beata Vergine,
 fondato nel 1610 da Madre Lucia Perotti - e ancor oggi esistente -
per "fanciulle massimamente nobili, istruendole nello spirito, e nelle virtù cristiane,
e negli ornamenti nobili del leggere, scrivere, cucire e buone creanze". 
Dal testo interno: "voglio pregarti e raccomandarti mia cara Clementina [...]
di non lasciarvi sfuggire il tempo prezioso che vi trovate in educazione
con procurare di imparare tutti i studi e lavori che vi vengono insegnati,
e tu mettere attenzione anche nella musica perché poi te ne troverai contenta".

 

25 centesimi violetto

 
Provenienza: Asta Corinphila, 240, "Ducato di Parma"
                                                                                    
                                  
 
                                                
                                                                                    Ex Collezione "Alphonse"


40 centesimi azzurro

 
 
 
 



Carta bianca

5 centesimi giallo

                                                            
                                                                                               Ex Collezione "Pedemonte".


15 centesimi vermiglio

Lettera dell'11 maggio 1855, da Parma a Marcaria (Mantova),
affrancata con un 15 centesimi annullato con timbro lineare su tre righe.
Tariffa della Lega Austro-Italica di primo porto, per la prima distanza,
dal Ducato di Modena al Regno del Lombardo-Veneto.
Ex Collezione Provera.

  

25 centesimi bruno rosso

Ex Collezione "Pedemonte".                                                          Ex Collezione "Luxus".
 
 
 
 
Lettera da Parma a Milano del 10 aprile 1856,
affrancata con un 25 centesimi, annullato con timbro lineare su una riga.
Tariffa della Lega Austro-Italica di primo porto, per la seconda distanza,
dal Ducato di Parma al Regno del Lombardo-Veneto.
Provenienza: Asta Bolaffi del 9-10 ottobre 2024, lotto n. 270,
dalla "Selezione di affrancature 'horse in ligne' del dr. Giulio Bolaffi",
che ha firmato la lettera per esteso, "per la sua eccezionale bellezza".
La lettera è indirizzata a un membro dell'Istituto Lombardo,
creato nel 1797 dall'articolo 297 della Costituzione della Repubblica Cisalpina,
per "raccogliere le scoperte e di perfezionare le arti e le scienze".
Il Governo austriaco ne cambiò la denominazione
 in Imperial Regio Istituto del Regno Lombardo-Veneto di Scienze, Lettere ed Arti,
e nel 1838 la sezione veneta divenne indipendente cosicché si vennero a creare due Istituti
   (il veneto con sede a Venezia, il lombardo con sede a Milano).
Nel 1859, a seguito della Seconda Guerra di Indipendenza,
l'Istituto acclamò Alessandro Manzoni, nominandolo poi Presidente onorario.
 
 
 
Lettera da Parma a Firenze del 9 gennaio 1857,
affrancata con un 25 centesimi, annullato con timbro circolare.
Tariffa della Lega Austro-Italica di primo porto, per la seconda distanza,
dal Ducato di Parma al Granducato di Toscana.
La lettera è indirizzata ad Angelo Usigli,
"espulso dagli Stati pontifici per traffico di libri perniciosi"
- come si legge nel fascicolo 460 del 1840 del Consolato Generale di Toscana in Roma -
e poi editore, nel 1864, della pubblicazione in due volumi
"La storia d'Italia dal 1815 all'Unità narrata al popolo".
E' ben più di una curiosità folkloristica segnalare lo spiccato interesse filatelico
di Carlo Elia Usigli, figlio di Angelo, che si firmarva "negoziante di libri e francobolli".
Usigli conferì all'album una configurazione originale, con l'aggiunta del materiale più vario,
dai monogrammi agli stemmi delle città italiane, dai Re d'Italia alle celebrità nazionali.
E rivendicò con forza il suo approccio ecclettico,
in nome di un ampliamento dei temi e degli spunti culturali,
anche nei confronti dei filatelisti più ortodossi e rigorosi:
"le modificazioni da me ideate sembreranno forse inopportune ad alcuni puritani
che professano ex-cathedra la scienza filatelica, ma io non mi dispererò per così poco".
Il passo citato ha rilevanza pure sul piano strettamente lessicale,
perché per la prima volta - in Italia - si usa il termine "filatelia"
(laddove negli anni Settanta e Ottanta prevalevano il vocabolo "timbrofilia" e i suoi composti).
L'intraprendenza dell'Usigli - serve dirlo -  sconfinava anche in atteggiamenti censurabili,
in particolare con riguardo alla diffusione dei falsi, pur di riempire  le pagine del Nuovo Album.
Ne fa menzione lo storico commerciante Romolo Mezzadri, nelle sue "Memorie",
a proposito degli affari intrapresi col Conte Giulio Cesare Bonasi,
una figura del commercio filatelico "con una mentalità tutta sua speciale",
caratterizzata da una singolare, stupefacente disinvoltura.
 "Nella mia collezione mancavano i quattro migliori valori della 2a e 3a emissione 
dei quali combinai il prezzo che, come cliente assiduo,
egli mi praticò piuttosto basso, credo 15 lire per tutti e quattro,
che egli mi diede già puliti e, naturalmente, timbrati.
Io me ne tornavo a casa lieto e felice di potere finalmente vedere occupate quelle caselle,
i cui vuoti mi urtavano i nervi... filatelici tutte le volte che svolgevo i fogli dell'album,
quando, a Piazza Colonna incontrai il defunto signor Pio Fabri,
padre dell’amico Pompeo, già allora collezionista avanzato e molto intelligente,
al quale mostrai gli esemplari acquistati.
Egli mi disse subito che trattavasi di ristampe con timbrature false
fatte dall'Usiglio che aveva ceduto tutto il suo materiale al Conte...
Non volli sentire altro e corsi nuovamente da questi, che restò quasi meravigliato del mio risentimento,
volendo convincermi che, in una collezione, tanto valeva un francobollo staccato da lettera
quanto una ristampa eseguita sul punzone originale e poi timbrata".





 

Il Ducato di Modena? Un nome, una famiglia, una dinastia: gli Este.
 
L'aquila argentata in campo azzurro è l'originario stemma della famiglia estense,
documentato per la prima volta nel 1239 da Ludovico Antonio Muratori.
Vi saranno poi aggiunti la corona del marchese e il becco e gli artigli dorati.
 
La storia del Ducato di Modena inizia... a Ferrara. 
 
Nel 1288 il comune di Modena si sottomette spontaneamente al marchese di Ferrara Obizzo II d'Este, per porre fine ai conflitti tra i nobili locali; l'anno dopo anche Reggio si offre a Obizzo, che riporta Modena e Reggio all'amministrazione della signoria come feudatario dell'Imperatore, laddove Ferrara era un feudo papale, una dualità rivelatrice dell'accortezza degli Este verso i centri di potere dell'epoca - l'Impero e la Chiesa - che li caratterizzerà lungo tutti i loro sette secoli di vita.
 
La costante attenzione alle politiche matrimoniali - Ercole I sposato con Eleonora d'Aragona; Alfonso I con Anna Maria Sforza e in seguito con Lucrezia Borgia; Ercole II con Renata di Francia - allargherà la sfera d'influenza del casato sino mutuarne lo status, da capitani di ventura, soldati e cavalieri in una dinastia sovrana.
 
Il XV secolo ne vede la consacrazione - il 18 maggio 1452 l'Imperatore Federico III d'Asburgo concede il titolo di Duca di Modena e Reggio a Borso d'Este; il 14 aprile 1471 arriva il titolo di Duca di Ferrara, da parte di Papa Paolo II - seppur tra varie complicazioni per assicurare la stabilità della linea ereditaria del potere.
 
E proprio una controversia sulla legittimità dinastica condurrà alla devoluzione di Ferrara, nel 1598: Alfonso II d'Este muore senza una discendenza legittima all'interno del sacro vincolo del matrimonio, Papa Clemente VIII ricusa il successore designato da Casa d'Este e avoca il governo del territorio ferrarese.
 
Che Ferrara fosse in mano agli Este, ai Gonzaga o ai Savoia, aveva poca importanza per il Papa - interessato solo a ricevere l'obolo dalla casata al governo - ma impossessarsi di Ferrara significava far proprie le valli di Comacchio - ricche di miniere di sale, il cosiddetto "oro bianco" - scalzandole dalla giurisdizione dell'Impero: una semplice questione economica, dalla prospettiva della Chiesa.
 
Per gli Este, invece, la sua perdita fu una "lagrimevol tragedia" - con le parole di Ludovico Antonio Muratori - una ferita, mai rimarginata, che per colmo d'ironia si procurano da soli.
 
La linea di discendenza del Duca Alfonso I d'Este:
non ebbe figli dalla prima moglie, Anna Maria Sforza;
ne ebbe quattro dalla seconda, Lucrezia Borgia;
e due dall'unione (mai documentata come matrimonio) con Laura Dianti.
Finché fu in vita, Alfonso impose una linea di concordia e obbedienza filiale,
con esiti felici, si può dire, se nel terzo canto della terza edizione del "Furioso" (1532)
la sua volontà pacificatoria verso i maschi generati dalle due madri
compariva esplicitamente perfino nel vaticinio presagito dalla maga Melissa
al cospetto di Bradamante, tramite il quale Ariosto nominò i cinque figli del duca
senza alcuna distinzione e con identici elogi:
"Vedi d'Alfonso i cinque figli cari, 
alla cui fama ostar, che di sé il mondo
non empia, i monti non potran né i mari: 
gener del re di Francia, Ercol secondo
è l'un; quest’altro (acciò tutti gl'impari)
Ippolito è, che non con minor raggio
che'l zio, risplenderà nel suo lignaggio;
Francesco, il terzo; Alfonsi gli altri dui
ambi son detti. Or, come io dissi prima,
s'ho da mostrarti ogni tuo ramo, il cui
valor la stirpe sua tanto sublima,
bisognerà che si rischiari e abbui
più volte prima il ciel, ch'io te li esprima".

"Avvertite ciò che fate, perocché potrebbe avvenire che la Casa vostra desiderasse che vi fosse Don Alfonso".
 
Il laconico ammonimento del Papa farnese Paolo III avrebbe deviato il corso della storia, se fosse stato recepito.
 
Nel 1539, al rinnovo dell'investitura ducale, Ercole II d'Este - figlio di Alfonso I e Lucrezia Borgia - ottiene la concessione papale "pro se, et legitimis, et naturalibus per lineam masculinam a præfato Alphonso descendentibus", per i discendenti maschi legittimi e naturali, per linea di primogenitura, finché ve ne fossero stati.
 
Era una clausola innovativa, concepita per marginalizzare l

a struttura parentale e azzerare la potenziale concorrenza di un'altra figura della famiglia: l'insidia - agli occhi di Ercole II - aveva le fattezze di un consanguineo di appena undici anni, Don Alfonso.
 
Era nato il 10 marzo 1527 figlio dell'unione morganatica tra Alfonso I e Laura Dianti, la figlia di un berrettaio, detta Eustochia, che il Duca ebbe come amante dopo la morte di Lucrezia Borgia.
 
Il 18 aprile 1532 Don Alfonso fu legittimato dal cardinale Innocenzo Cibo, e nel 1533 dallo stesso padre, per non fargli soffrire la nascita illegittima. Al riconoscimento corrispose un cospicuo supporto materiale, in linea con i lasciti ereditari assicurati agli altri suoi figli: il feudo di Montecchio e numerose proprietà immobiliari - tra cui un palazzo a Ferrara, con 7.000 scudi d'oro per arredarlo - nonché un appannaggio di 60 scudi l'anno, "acciò honoratamente conservare la dignità e nobiltà della Casa d'Este".
 
La linea di discendenza di Don Alfonso:
sarà il figlio Cesare a vivere il trasloco degli Estensi da Ferrara a Modena.

I fratellastri di Don Alfonso - i figli del matrimonio tra Alfonso I e Lucrezia Borgia - mostrarono da subito un'aperta ostilità verso "il nostro illustrissimo bastardo". Ercole - una volta a capo del Ducato, nel 1534 - lo escluse dagli affari di governo, ne limitò l'attività al mestiere delle armi e a sporadiche missione di rappresentanza, e - non ultimo - lo volle tener fuori dalla linea successoria.
 
La sagacia del Papa farnese - "avvertite ciò che fate" - aveva allertato sui rischi di una disposizione così singolare, con cui si rompeva una consuetudine nelle modalità successorie che per oltre un secolo avevano portato  la trasmissione del patrimonio e del titolo signorile nella Ferrara estense, principalmente tra fratelli - legittimi o meno - secondo una pratica accettata dalla stessa Santa Sede (nella bolla del 1501 di Papa Alessandro VI si includevano tranquillamente "omnes praefati Herculis Ducis descendentes").
 
Tra il XV e il XVI era d'altra parte ordinario - per gli esponenti di un casato - avere dei figli fuori del matrimonio, in vario modo mantenuti all'interno della famiglia paterna, e utilizzati come figure pubbliche svolte, e volte persino elevati ai vertici della compagine familiare e all'esercizio del potere sovrano. E' celebre ed emblematico il "ne font point grant differance au pays d'Italie d'ung enfant bastard à ung légitime", di un incredulo Philippe De Commynes - al seguito di Carlo VIII nella Campagna d'Italia - che commentava sgomento l'amorale realtà delle strutture familiari più nobili, "je dis toutes ces choses pour monstrer ce qui n’est ensuyvoy de la mutation de ces mariages et ne scay qu'il en pourra encores advenir".
 
Ma in un epoca governata ancora da teorie procreative tardomedievali - in cui il matrimonio era un seminarium civitatis, nel quale il sangue materno contribuiva a elevare il rango sociale dei discendenti - era impensabile che l'altero nipote di un Papa accettasse di condividere col nipote di un confezionatore di berretti gli stessi spazi nella gerarchia socio-politica di una delle stirpi più vetuste della penisola italiana.

L'atteggiamento persecutorio del Duca finì col creare un'incertezza abilmente sfruttata da Papa Pio V, nel 1567, con la bolla "Prohibitio alienandi et infeudandi civitates et loca Sanctæ Romanæ Ecclesiæ", che trasferiva i pronunciamenti sulla discendenza nell'ambito delle successioni dei feudi della Chiesa, negava il subentro agli illegittimi e vietava nuove investiture.
 
Dal rinnovo dell'infeudazione ecclesiastica venivano esclusi anche i figli legittimati al di fuori del matrimonio per volontà paterna, dipendendo dall'autorità papale la possibilità di un loro riconoscimento. La morte del Duca Alfonso II - senza figliolanza, nonostante tre matrimoni - implicò dunque la devoluzione di Ferrara ob lineam finitam, che si sarebbe potuta evitare se solo Ercole II - come si congettura - non avesse occultato i documenti del matrimonio tra il padre e la Dianti.
 
 
La linea di discendenza del Duca Ercole II:
suo figlio Alfonso II prese le redini del Ducato nel 1559,
ma alla morte, non essendovi altri figli legittimi,
Ferrara entrò nei dominî dello Stato Pontificio.
 
Ma la perdita di Ferrara non fu dovuta solo all'irragionevole condotta di un altezzoso e miope esponente della casata. Vi influì anche una precisa scelta politica, perché un ramo legittimo degli Este comunque sopravviveva: Sigismondo I - nato nel 1433 da Niccolò III d'Este - era stato signore di San Martino fino al 1507, e aveva dato il via a una linea dinastica col figlio Ercole (1470-1523), il nipote Sigismondo II (1493-1561) e poi con Filippo I (1537-1592) e Carlo Filiberto I (1571-1652).
 
Già la semplice evoluzione dei nomi, tuttavia, chiarisce i motivi per cui la dinastia volle tenere il punto su Cesare, figlio di Don Alfonso: in neanche due secoli, il ramo degli Este di San Martino era transitato da nomi di chiara connotazione atestina - Sigismondo ed Ercole, nel solco dei Niccolò, degli Obizzo, degli Aldobrandino, degli Alfonso - a nomi di altrettanta evidente impronta sabauda - Filippo, Carlo Filiberto - a testimoniare lo slittamento sullo scacchiere piemontese e la commistione con Casa Savoia, che ne rendevano impossibile il controllo.
 
La questione successoria travagliò gli Estensi, dando origine a odi duraturi, pesanti vendette e ostinate ricerche di appoggi esterni, ma alla fine la spuntò il Papato: il 12 gennaio 1598 la Convenzione di Faenza consegnava Ferrara allo Stato Pontifico, e Cesare d'Este - il figlio di un "illustrissimo bastardo" - si vide obbligato a trasferire la Corte a Modena, da cui amministrò i nuovi Stati - i Ducati di Modena e Reggio, il Principato di Carpi, i territori di Frignano e Garfagnana e il feudo di Varano in Lunigiana - in virtù dell'investitura imperiale.
 
L'abilità diplomatica - tra il XVII e XVIII secolo - porterà all'acquisizione del Principato di Correggio (1635), del Ducato della Mirandola col Marchesato di Concordia (1711), della Contea di Novellara e Bagnolo (1737) e di gran parte della Garfagnana; arriverà poi il Ducato di Massa - con l'ambito sbocco sul Mar Tirreno - a seguito del pur travagliato matrimonio tra Ercole III e Maria Teresa Cybo di Malaspina.
 

 
Il 26 ottobre 1737 muore Rinaldo d'Este e il Ducato va in mano a Francesco III.
 
E' un periodo convulso: l'Europa viene da due guerre di successione - spagnola (1701-1714) e polacca (1733-1738) in cui Rinaldo si era dichiarato neutrale, pur sperando nelle vittorie degli imperiali - e un nuovo conflitto successorio sta per profilarsi.
 
Nel 1740 l'imperatore Carlo VI d'Asburgo muore senza discendenza maschile, e la sua primogenita Maria Teresa sale al trono d'Austria, a soli 23 anni. Francia e Prussia sfruttano la contingenza per sfidare il potere asburgico, sostenuto dalla Gran Bretagna e della Repubblica olandese. E' la guerra di successione austriaca, che andrà avanti sino al 1748 e coinvolgerà anche ai Regni di Spagna e Sardegna.
 
E il Ducato di Modena? Francesco appariva in intimità con la Francia, per via della moglie Carlotta di Borbone-Orléans, ma la corte transalpina trattava gli Estensi con supponenza, se non con ostilità. Vi era un'apparente cordialità anche con la Spagna - alleata della Francia - sebbene Francesco diffidasse di Elisabetta Farnese, per le sue ambizioni sulla penisola italiana, e soprattutto per l'ospitare a Madrid quel Pico della Mirandola che rivendicava il suo territorio - il Ducato di Mirandola - sottrattogli da Rinaldo I nel 1710, e cruciale per le mire espansionistiche degli estensi verso l'Oltrepò mantovano.
 
Anche Francesco si dichiara neutrale allo scoppio della guerra, ma la sua è una posizione attendista, che le disastrose conseguenze della politica del padre lo hanno ammaestrato sull'importanza di schierarsi, di prender posizione. Vuol solo capire chi può offrirgli l'accordo migliore in cambio dell'appoggio del suo esercito. Sarà però il fluire degli eventi bellici - più che una sua precisa volontà - a spingerlo verso la Spagna, a cui aveva ammiccato già all'inizio del conflitto.
 
"Questa è una grande occasione" - aveva rappresentato Francesco al suo diplomatico a Madrid - "si tratta di perdere affatto il Ducato della Mirandola e scarsa speranza di ricuperarlo, e di rimanere circondati per restante de' nostri stati da Spagnuoli con un giogo tale che di sovrani ci renderà soggetti. Qui bisogna gettarsi a nuoto e tentare quest'ultima strada e uscire da queste terribili circostanze... proponga e accetti tutto fuorché lo smembramento di alcuna minima arte de' nostri presenti stati".
   
Il delegato recepisce il messaggio, ma non si assume "la gloriosa responsabilità" di scrivere l'accordo, e Modena rimane in una posizione ambigua che si rivolta contro il Duca: la sua falsa neutralità viene scoperta dai piemontesi, che di prepotenza entrano in città e lo obbligano alla fuga.
 
Il Trattato di Aquisgrana - a conclusione della guerra, nel 1748 - restituisce gli Stati estensi a Francesco, ma lo lascia esposto al rancore austriaco da un lato, e a un desiderio di rivalsa dall'altro.
 
Nell'immediato non può che agire attraverso una politica matrimoniale, e chiede a Re Giorgio II d'Inghilterra - suo parente - un principe per l'unica nipotina, Maria Beatrice, di soli dieci mesi e futura erede. Il Sovrano inglese - legato all'Impero - suggerisce però un matrimonio austriaco, che dopo lunghe trattative è stabilito col trattato dell'11 maggio 1753: Maria Beatrice - a tempo debito - sposerà il terzogenito di Maria Teresa, l'arciduca Pietro Leopoldo; con un accordo segreto, poi, Francesco III designa l'arciduca come futuro successore degli Este in caso di estinzione della linea maschile della casata, con l'impegno ad assumere il cognome estense, mantenere i dominî separati dall'Austria e fissarvi la sua dimora. 
 
La morte improvvisa del secondogenito degli Asburgo-Lorena scompagina le carte della diplomazia: Pietro Leopoldo scala un gradino nella gerarchia successoria, e s'indirizza verso il Granducato di Toscana, la cui dote include l'infante di Spagna come promessa sposa.
 
Francesco III e la Corte austriaca seguono la linea di minor resistenza: firmano un nuovo accordo, che lascia intatte le clausole precedenti e sostituisce il nome di Pietro Leopoldo con quello del fratello minore Ferdinando (che all'epoca del primo accordo non era neppure nato).
 
 
Maria Beatrice d'Este e l'arciduca Ferdinando d'Asburgo.
  
L'Impero austriaco mette così un piede nel Ducato di Modena, e quando Ercole III - il successore di Francesco III, padre di Maria Beatrice - morirà nel 1803 senza eredi maschi, la tradizione estense si miscelerà con la storia austriaca: il 15 ottobre 1771 - dal matrimonio concordato tra Maria Beatrice e Ferdinando - nasce la linea dinastica degli Austria-Este, che proietta l'antico casato italiano ai più alti livelli dell'aristocrazia europea, ne amplia gli orizzonti familiari e sociali e gli consegna un blasone prima sconosciuto.
 

Il primo stemma degli Austria-Este.

Casa d'Este vanta una raffinata tradizione di collezionismo, che si è variamente intrecciata alle sorti del Ducato.
 
Spicca il nome di una donna: Isabella - la primogenita del Duca di Ferrara Ercole I - "liberale e magnanima" secondo Ludovico Ariosto; "suprema tra le donne" per Matteo Bandello; "la prima donna al mondo" nel saluto di Niccolò da Correggio.

E anche vero che la spiccata indole collezionistica - la sua "natura appetitosa" il suo "insaciabile desiderio di cose antique", la smania per "cose rare et excellenti" - la spinsero per tutta la vita a tenere atteggiamenti di "rara improntitudine" pur di arrivare il prima possibile sugli oggetti del desiderio, perché "le cose ne sono più care quanto più presto le havemo".
 
Le sue collezioni rimangono a ogni modo un esempio d'eccellenza di Kunstkammern, quelle stanze dell'arte - che avrebbero trovato diffusione nel Rinascimento - nelle quali si trovava ogni cosa, dalla più convenzionale e ordinaria alla più bizzarra e strabiliante, ma tutte sintomatiche di un interesse profondo per il mondo, del desiderio di comprenderlo nelle sue manifestazioni, di districarsi nei suoi misteri, attraverso l'organizzazione dei suoi oggetti.

L'eleganza di cui la Isabella d'Este riuscì a circondarsi, le mode con cui impose il proprio stile - "fonte e origine di tutte le belle fogge d'Italia" - e la stessa immagine di sé che offrì all'ammirazione dei contemporanei e alla memoria dei posteri, fecero sì che si avverasse il suo desiderio più intenso, affidato già a sedici anni a un'incisione su un gioiello: "finch'io viva dopo morte".
 

"Bellissimo nome è questo, il quale la sorte o la divinazione paterna pose;
perciò che 'Isa' ne la lingua greca (come sapete) suona, quanto ne la nostra 'Equale';
tal che così composto altro non dice che 'Equalmente et in ogni parte bella'". 
(Gian Giorgio Trissino, "I Ritratti", 1524)
 
All'ombra dello sfregio politico della devoluzione di Ferrara si consumò un dramma artistico, quando il nuovo legato pontificio si impossessò di buona parte delle collezioni estensi.
 
Ma gli Este - una volta Modena - si adoperarono per creare una capitale degna dell'epoca ferrarese, anche attraverso la ricostituzione delle loro collezioni d'arte.

Dal nucleo di opere salvate - tra cui la celebre Bibbia di Borso d'Este - il Duca Francesco I avviò a sua volta la requisizione delle migliori opere presenti nelle chiese del Ducato, e commissionò dipinti e sculture - famosi i suoi ritratti del Velàzquez e del Bernini - al punto che Charles de Brosses - in visita a Modena nel 1739 per il Grand Tour -  giudicava la collezione della famiglia d'Este come "la più bella che ci sia in Italia, la meglio tenuta, la meglio distribuita e la meglio ornata".
 
E la "collezione più bella che ci sia in Italia" si rivelò fondamentale per la sopravvivenza stessa del Ducato.
 
 
Il Mercato Nuovo di Dresda,
visto dalla Moritzstrasse, intorno al 1750.

La partecipazione di Modena alla Guerra di Successione Austriaca aveva implicato gravose spese militari e ulteriori costi per il mantenimento della Corte ripiegata a Venezia.
 
Il Ducato era sull'orlo della bancarotta, e fu una collezione a trarlo in salvo: da un alto il Duca Francesco III d'Este - con l'acqua alla gola - dall'altro il Re Augusto III di Polonia -  tra i più potenti e facoltosi sovrani  d'Europa - e in mezzo la collezione del Duca - costruita nel corso dei secoli - di cui il Re conservava "invidiosi ricordi" da quando l'aveva ammirata trent'anni prima. 
 
L'esigenza economica fagocita il valore artistico della collezione e il suo significato sentimentale: tra firme false e intrighi di corte, i cento quadri più pregiati della gallerie estensi sono caricati su cinque carrozze, e il 6 luglio 1746 partono da Modena alla volta di Dresda, al prezzo di 100.000 zecchini, equivalenti a circa 350 chili d'oro.
 
Il Ducato si salva, ma i capolavori di Raffaello, Giorgione, Parmigianino, Correggio e Caravaggio lasciano - per sempre - la penisola italiana.
 
L'arrivo di Napoleone - a inizio '800 - segna un nuovo saccheggio: beni archivistici e librari, medaglie e monete, e poi dipinti, busti, vasi, disegni, cristalli. La moglie Giuseppina manifesta lo stesso appetito: si impossessa di gran parte della collezione di cammei e pietre preziose custodita a Palazzo Ducale, dove aveva preso la residenza, e il resto lo lascia agli aiutanti di campo del marito che la accompagnavano.

Bandiera del Ducato di Modena, dal 1830 al 1859.

Il Congresso di Vienna - nel 1815 - ripristina il Ducato e lo assegna a Francesco IV d'Asburgo-Este, nipote di Ercole III; la madre Maria Beatrice conserva il Ducato di Massa e Carrara, che alla sua morte - nel 1829 - entrerà nei dominî modenesi (pur mantenendo una sua autonomia amministrativa).
 
L'inno del Ducato diventa il "Serbi Dio", canzone popolare austriaca e manifesto di un cattolicesimo totalitario (che tollerava solo una minoranza ebraica, confinata in un ghetto). 
 
Ribellioni e repressioni non risparmiano il più piccolo degli Stati della penisola, negli anni successivi alla restaurazione, e proprio intorno al Ducato di Modena si snoda una delle vicende rivoluzionarie più misteriose del Risorgimento.

Nella primavera del '26, tra gli esuli italiani a Parigi, fa la sua comparsa Enrico Misley, un avvocato modenese di bella presenza e parola facile, vanitoso e ambizioso, che sostiene di aver frequentato l'ambiente carbonaro, dove conserva parecchie amicizie.
 
Il movimento nazionale - secondo Misley - non aveva possibilità di successo, senza su un principe autorevole e risoluto disposto ad assumerne la guida, e fortunatamente questo principe c'era: Francesco IV di Modena.
 
Su Francesco - in effetti - i patrioti avevano già puntato gli occhi, per il suo sangue mezzo italiano, e perché nella penisola era nato e cresciuto, e si poteva ragionevolmente sperare che ne avrebbe fatto gli interessi.
 
Ma si erano ricreduti, dopo averlo visto all'opera: era stato lui a istaurare il regime più retrivo; era stato lui, al Congresso di Verona del 1822, a pronunciare una requisitoria così feroce contro i liberali, da indispettire persino il Cancelliere von Metternich; era suo il motto "Cristo in cielo, io quaggiù", sua la massima "meglio un innocente sulla forca che un reo in libertà", e sua la replica "un nido di Carbonari come il vostro paese è meglio che vada sommerso" alle richieste d'aiuto di Brescello dopo la piena del Po.
 
Ma secondo Misley si trattava solo di una maschera, di un modo di atteggiarsi per preservare i suoi alibi verso l'Austria. Lui - Misley - il Duca lo conosceva bene. Era stato tra i suoi uomini d'affari, si sentiva lusingato della fiducia accordatagli, e sognava di diventarne l'eminenza grigia. E giurava che il Duca - in cuor suo - covava l'amore per l'Italia.
 
Il comitato parigino rimase diffidente. Misley slittò allora sugli esuli di Londra, attraverso un fuoriuscito suo compaesano, Manzini, che  condusse a colloquio dal Duca, a cui riferì la disponibilità del comitato a spalleggiarlo nelle sue mire espansionistiche. E qui - forse - si originò l'equivoco: il Duca era solleticato dall'idea di appropriarsi della corona di Carlo Felice - Re di Sardegna - in cui vedeva il fine ultimo; Misley e i suoi, invece, la interpretavano come a un mezzo per unificarvi sotto l'intera penisola, con la collaborazione dei patrioti.
 
Dopo la copertura del Manzini, per accreditarsi meglio presso i liberali, Misley trovò l'avallo di una personalità ancor più insospettabile, un industriale di Carpi che già aveva conosciuto la prigione per carbonarismo: Ciro Menotti.


Uomo onesto, di un candore che sconfinava nell'ingenuità, anche Menotti si lasciò condurre dal Duca. Qualunque cose si dissero, di sicuro Menotti si gettò nell'impresa con ardore, e la portò avanti nella ferma convinzione di avere il Duca dalla sua parte. Se ne andò in giro - a Bologna, a Forlì, a Ravenna - per riallacciare i contatti e stabilire una linea d'azione comune. Dopo ogni viaggio, tornava a Modena a riferire, e il Duca lo ascoltava e approvava, o almeno non sembrava disapprovare. Forse  Francesco voleva strumentalizzare il moto rivoluzionario per accrescere i propri dominî, o forse mirava  a procurarsi informazioni per colpire con più efficacia al momento opportuno, o forse, chissà, era davvero in buona fede.
 
Di sicuro, però, la rivoluzione francese di luglio lo rimise in braccio al reazionarismo. Misley ne ebbe sentore: da Parigi piombò a Modena e un colloquio col Duca confermò tutti i suoi timori. Avvisò Menotti, che finse di non capire, un po' perché non voleva crederci, un po' perché i fatti gli dimostravano il contrario.
 
Che stesse preparando l'insurrezione era noto a tutti. La sua casa - nelle cronache dell'epoca - "parea una borsa di negozianti: chi andava, chi veniva sì di giorno che di notte, la scuderia sembrava uno stallatico. Tutte le armi da caccia a due, a quattro colpi, fucili, pistole trovate presso i mercanti di Modena furono comprate in pochi giorni. La città tutta e i paesi circonvicini echeggiavano rivoluzione. Le donne in molte case, senza riguardo, si occupavano di sciarpe tricolori e di coccarde". La polizia non poteva ignorarlo, eppure non interveniva. Quindi non c'erano pericoli. 
 
5 febbraio 1831: questo era il giorno. Gli insorti sarebbero scesi in piazza al grido "viva Francesco IV, morte ai suoi Ministri!", e le colonne dei congiurati si sarebbero intanto messe in marcia sulla città. Il Duca avrebbe fronteggiato i due corni di un dilemma: dichiararsi prigioniero della rivoluzione, oppure assumerne il patronato e marciarne alla testa alla conquista degli Stati di confine; e non v'era dubbio - per Menotti - che il Duca avrebbe scelto di marciare.

Ma la mattina del 3 febbraio accadde un evento inatteso: la polizia arrestò alcuni capi della congiura ed espulse dal Ducato alcuni sospetti, tra cui le personalità di maggior prestigio. Il colpo era grave per gli uomini raccolti in casa Menotti - una quarantina - convinti come lui di avere il Duca dalla loro parte. Ciro decise di precipitare gli eventi, forse per prevenire una  diserzione di massa, ma i soldati del Duca furono più rapidi: bussarono alla porta e intimarono la resa. L'abitazione era circondata, già sotto la mira dei cannoni prestati da Carlo Felice, e a dirigere l'operazione vi era il Duca in persona, inebriato dalla prospettiva di un massacro di "giacobini".

Persi per persi, i congiurati vollero vender cara la pelle, e risposero con un fuoco serrato che stese alcuni gendarmi. La fucileria durò parecchie ore. Menotti -  in un tentativo di scampo o di diversione - si mise a correre per i tetti, fu ferito e cadde per strada. I suoi compagni seguitarono a sparare finché il Duca diede la parola al cannone, che con due bordate demolì l'edificio e costrinse gli insorti alla resa.

Francesco riteneva di aver liquidato la rivolta, e chiese al governatore di Reggio di mandargli il boia, ma a palazzo, intanto, arrivavano notizie inquietanti: gruppi d'insorti marciavano su Modena dai paesi limitrofi, e i reparti regolari, anziché fermarli, se ne lasciavano disarmare. 
 
Il Duca sollecitò l'intervento austriaco, senza successo: il militare a cui aveva affidato l'ambasceria tornò a mani vuote, i rivoltosi lo avevano intercettato e gli avevano sequestrato la risposta del Generale Frimont, che peraltro era negativa, perché il comandante austriaco non poteva mandare truppe oltre i confini senza un esplicito ordine di Vienna, e perciò gli insorti seguitavano a marciare.
 
A Francesco non rimase che mettersi in salvo oltre il Po, ma insieme alla famiglia si portò dietro pure Menotti. La rivoluzione si trovò così, inaspettatamente, padrona della città: liberò i compagni di Ciro e gli altri detenuti, piantò il tricolore sulla cittadella, e istaurò un governo provvisorio a cui Reggio si dichiarò solidale.
 
Menotti era stato nel frattempo rinchiuso nella fortezza di Mantova. Francesco si trovava invece a Vienna, per sollecitare quegli aiuti che in prima battuta gli erano stati negati, e il 9 marzo poteva far rientro nella capitale, sulla scia delle baionette austriache. Il suo primo atto fu farsi riconsegnare l'illustre prigioniero. Lo rinchiuse in un carcere sorvegliato da un intero battaglione, e affidò l'istruttoria del processo al più malfamato giudice di Modena.
 
Il difensore di Menotti - assegnatogli dallo stesso tribunale militare - era un sottotenente di scarsa esperienza, ma leale e coraggioso. Impostò la causa sull'ipotesi più pericolosa, che poi era anche la più fondata: quella della connivenza dell'accusato col Duca. Sostenne che Francesco non aveva certo inteso servirsi di Menotti per procurarsi "un aumento di dignità e di dominio" - alludendo al trono di Sardegna - ma che Menotti invece proprio a ciò mirava, e lo aveva dimostrato conducendo l'impresa "con tanta imprudenza da non nasconderla all'occhio vigile della polizia, la quale ne conosceva già l'origine, l'andamento e le fila anche prima dello scoppio".

Le cose stavano così, e Menotti era spacciato proprio perché stavano così. Il diplomatico austriaco Marschall - in procinto di sostituire Werklein a Parma - ebbe il sentore di una sentenza capitale già scritta, e allertò Metternich a Vienna: Francesco si stava sovrapponendo al tribunale, sino a imporgli un verdetto la cui odiosità sarebbe ricaduta sull'Impero.
 
Non ci fu nulla da fare. Menotti andò al patibolo.
 
"Questo non è un Principe" - scrisse disgustato Marschall a Vienna, dopo l'ultimo tentativo fallito di avere la grazia - "ma un agente provocatore che istiga alla rivolta per divertirsi con le forche".
 
I tribunali lavorarono sino al 1837. Chiunque avesse avuto una parte nella congiura, anche minima, andò al banco degli imputanti. Ci passarono tutti, meno uno: Misley, mai condannato, neanche in contumacia.

Lo condannò invece l'opinione pubblica, come spia, e forse non lo era, ma lui non si preoccupò mai di liberarsi dello stigma. Il giudizio più preciso lo diede Mazzini, in una lettera alle madre. "Non v'è tanto da pronunciare spia quel signore, anzi nol credo tale, ma vi è tanto da pronunciarlo imbroglione e uomo non di veri profondamente radicati princìpi: e basta per tenersene discosti".
 
Francesco IV e Francesco V d'Austria-Este.

"Assumendo Noi per diritto di successione la Sovranità di questi Stati, ben siamo compresi dei doveri che la medesima impone alla Nostra persona, e tutte le Nostre maggiori sollecitudini saranno certo rivolte a promuovere il più possibile la felicità dei mentovati Nostri dilettissimi Sudditi, dai quali colla più lieta compiacenza dell'Animo Nostro pienamente Ci ripromettiamo ubbidienza, fedeltà e amore".

Le parole di Francesco V - il 22 gennaio 1846, quando a 26 anni sale sul trono di Modena - confermano una concezione paternalistica del governo, una visione del potere che se da un lato mira alla felicità dei sudditi, dall'altro ne esige l'ubbidienza, la fedeltà, l'amore.
 
Già nella prima giovinezza Francesco aveva maturato precise convinzioni politiche, espresse in una lunga memoria, secondo l'abitudine di fissare su carta i propri pensieri, le sensazioni e le esperienze. Vi sosteneva la necessità di una confederazione di Stati "indipendenti fra loro nell'interno e formanti all'esterno un sol tutto" - di fatto una lega internazionale sotto l'egida austriaca - "un'idea giusta, salutare", ribadirà in seguito, che però - nel percepito diffuso - rendeva Modena una provincia di Vienna e una roccaforte dell'assolutismo.
 
 
Le giuncuglie.
 
Il "Quaratotto" coinvolse anche il Ducato, in misura modesta ma caratterizzante.
 
La mattina del 19 marzo, nel tradizionale passeggio domenicale lungo i viali delle mura, spuntano fuori dei gruppetti di studenti con delle giunchiglie all'occhiello, fiori dai petali bianchi e corolla gialla, a evocare i colori dello Stato Pontificio di Papa Pio IX, che quattro giorni prima ha concesso la Costituzione. Si erano riuniti al Caffè Sandri, e ora sfilavano per le strade al grido "viva la libertà". Un drappello di Dragoni del Duca - il corpo militare addetto all'ordine pubblico - li aveva intercettati, avvertiti, minacciati, e infine aveva sciolto la manifestazione "a piattonate", schiaffeggiando i patrioti a colpi di sciabola dati con la parte piatta della lama.
 
La cosiddetta "rivolta delle giunchiglie" fu in sé effimera e inconsistente, come gli stessi fiori, ma preannunciava eventi di ben altra portata.
 
Da lì a poco arrivò la notizia della marcia da Bologna verso Modena di un gruppo di volontari intenzionati a dar man forte agli insorti. Il Duca emanò un editto col quale prometteva riforme e amnistie, nominò una reggenza provvisoria, e si rifugiò a Bolzano con la moglie Aldegonda. Ritornò nei suoi dominî il 10 agosto 1848, scortato dalla baionette austriache, che avevano avuto la meglio nella guerra contro i piemontesi.
 
Si mostrò ragionevole, per nulla vendicativo, e consentì a chi era implicato nella rivolta di lasciare il Ducato, o almeno è questa la versione prevalente, ma le promesse di riforme istituzionali rimasero lettera morta.
 
Il clima rimaneva teso. Il 16 novembre - nei pressi dell'osteria delle Tre Torri di Villafranca di Medolla - uno studente mazziniano gli sparò un colpo di fucile, mancandolo. Francesco dispose la costruzione in quel luogo di un oratorio circolare - come segno di devozione - oggi conosciuto come "Cappelletta del Duca".
 
 
La Cappelletta del Duca.

Gli eventi del '48 stimolarono una nuova consapevolezza, in Francesco V: non si poteva più andare avanti con l'altalena tra insurrezioni e repressioni, si doveva "concedere quello che si può allo spirito nazionale, dirigerlo, frenarlo negli eccessi, ma senza schiacciarlo".

Il Duca prospettava una federazione di Stati - inclusivi del Lombardo-Veneto, ancora una volta con l'adesione dell'Impero asburgico - e la formazione di un'armata a scopi difensivi. Solo così "si rendeva possibile con qualche dignità l'esistenza degli Stati italiani".
 
Era un'utopia, che soltanto la fede adamantina del Duca nell'Austria poteva giudicare attuabile.
 
Dipinto allegorico del 1860, sulla caduta degli Estensi. 
 
Napoleone III - scriveva il Conte di Cavour a Re Vittorio Emanuele, il 24 luglio 1858 - era "risoluto a sostenere la Sardegna con tutte le sue forze in una guerra contro l'Austria, a patto che la guerra avvenisse per una causa non rivoluzionaria e potesse trovare giustificazione dinanzi alla diplomazia e più ancora all'opinione pubblica di Francia e d'Europa".
 
Siamo a Plombières, una minuscola cittadina termale a est della Francia, destinata all'anonimato, se l'Imperatore francese e il Primo Ministro del Piemonte non vi si fossero incontrati in segreto, il 21 luglio 1858, per scatenare una guerra contro l'Austria e ridefinire la geopolitica della penisola italiana.
 
A Cavour serviva anzitutto un casus belli credibile. Propose la violazione austriaca dei trattati commerciali col Piemonte, ma l'argomento appariva debole; tirò in ballo l'occupazione austriaca della Romagna pontificia, ma Napoleone III teneva le sue truppe a Roma e non poteva certo pretendere il ritiro di quelle austriache da Bologna; dopo vario rimuginare, e un imbarazzo crescente per non aver "più da proporre nulla di ben definito", Cavour e Napoleone si misero a viaggiare idealmente per la penisola, "per cercarvi questa causa di guerra così difficile da trovare", sino ad arrivare nel Ducato di Modena - a Massa Carrara, per la precisione - dove finalmente trovarono  quel che cercavano "con tanto ardore".
 
"Dopo aver fatto all'imperatore una descrizione esatta di questo sventurato paese, di cui egli, del resto, aveva già un'idea abbastanza precisa, convenimmo di provocare un indirizzo degli abitanti a V. M. per chiedere la sua protezione nonché per reclamare l'annessione di questi ducati alla Sardegna. V. M. non accetterebbe l'offerta, ma, prendendo le parti di queste popolazioni oppresse, rivolgerebbe al duca di Modena una nota altera e minacciosa.  Il duca, forte dell'appoggio dell'Austria, risponderebbe in modo impertinente.
 
Dopo questo, V. M. farebbe occupare Massa e la guerra comincerebbe. Essendo il duca di Modena la causa della guerra, l'imperatore pensa che essa sarebbe popolare non soltanto in Francia, ma parimenti in Inghilterra e nel resto dell'Europa, dato che questo principe, a torto o a ragione, è considerato come il capro espiatorio del despotismo.
 
D'altra parte, non avendo il duca di Modena riconosciuto alcuno dei sovrani che hanno regnato in Francia dal 1830, l'imperatore ha meno riguardi da usare verso di lui che verso qualsiasi altro principe".
 
Gli eventi si incanalarono su altre traiettorie: la provocazione piemontese ci fu, senza passare per Modena, ma la malafede di Cavour rimase agli atti.
 
Come rimane agli atti il rifiuto di Francesco V - pur lusingato dalla proposta - di cingere la corona del Messico, nel 1861. "Riguardando io la piccola sovranità di Modena, più come un dovere che come un diritto, non ero in alcun modo disposto a rinunziarvi, nemmeno a fronte di qualsiasi compenso, fosse pure brillante, vantaggioso e lusinghiero".
 
11 giugno 1859:
Francesco V lascia per il Ducato, dopo la sconfitta degli austriaci a Magenta, 
seguito a Mantova da 3500 soldati, la cosiddetta "Brigata Estense".

A Villafranca - nel luglio 1859, a conclusione della Seconda Guerra di Indipendenza - l'Austria cedeva la Lombardia alla Francia, che l'avrebbe girata al Regno di Sardegna. Non poneva veti all'incorporazione del Ducato di Parma nel Regno sardo, ma il Ducato di Modena e il Granducato di Toscana dovevano tornare ai rispettivi Sovrani, che si sarebbero impegnati a promulgare un'amnistia e a concedere la Costituzione.  Napoleone III volle però inserire una clausola di salvaguardia: Francia e Austria si sarebbero sforzate di ripristinare sui loro troni il Granduca Leopoldo e il Duca Francesco, "salvo il ricorso alle armi". La rinuncia alla forza irrigidì Francesco Giuseppe, e tuttavia Napoleone fu irremovibile: si sarebbe provato in ogni modo a restituire la Toscana agli Asburgo-Lorena e Modena agli Austria-Este, ma niente interventi armati.
 
Quando ad agosto si aprì la conferenza di Zurigo, per la definitiva liquidazione delle pendenze, l'accavallarsi degli eventi aveva ormai tolto all'Austria ogni possibilità di manovra. Non solo l'Inghilterra, ma anche Russia e Prussia, sebbene con cautela, si mostravano propense ad accettare uno stato di fatto in sé cristallino: Modena, Parma, Toscana e Romagne avevano formato - già nel corso della guerra - dei regimi provvisori che non dovevano sottostare a limitazioni; ogni regime aveva sovrinteso all'elezione di un'assemblea; e ogni ogni assemblea aveva deposto le dinastie regnanti e chiesto l'annessione al Piemonte, incurante di ciò che avveniva sui tavoli diplomatici.
 
A Modena era arrivato Luigi Carlo Farini, un plenipotenziario del Re Vittorio Emanuele, nominato Dittatore delle Province Modenesi il 28 luglio 1859; avrebbe poi esteso la sua dittatura a Parma (18 agosto) e sarebbe stato incaricato del governo della Romagna pontificia (9 novembre); i territori sarebbero infine stati unificati sotto la denominazione di "Regie Province dell'Emilia" e il titolo di Dittatore mutato in Governatore (dall'1 gennaio 1860).

"Io intanto ho fatto il colpo. Ho cacciati giù i campanili, e costituito un governo solo" - scriveva il 30 novembre a a Michelangelo Castelli, amico stretto di Cavour, con cui aveva collaborato al giornale "Il Risorgimento" - "Ad anno nuovo da Piacenza a Cattolica tutte le leggi, i regolamenti, i nomi ed anche gli spropositi saranno piemontesi. Farò fortificare Bologna a dovere. Buoni soldati, buoni cannoni contro tutti che vogliano combattere la annessione.  Questa è la mia politica. E me n'impipo di tutti gli scrupoli. Senza impiccar me e bruciar Parma, Modena e Bologna, per Dio, qui non toman nè duchi nè preti. Mi lascio fare ancora per tre mesi, e poi discuteremo".

 


 
Il Ducato di Parma? Un poker di donne.
 
 Gulia "la bella", Elisabetta Farnese, Maria Luigia di Parma, Maria Luisa di Borbone-Parma.

 
Il Ducato di Parma nasce con la bolla papale del 16 settembre 1545: è un regalo di Paolo III - già Cardinale Alessandro Farnese - al figlio Pier Luigi, in un esercizio nepotistico del potere in contrasto con gli interessi nella penisola italiana dell'Imperatore Carlo V, che accusò il Papa di non pensare "ad altro che a voler far grande casa sua et accumular danari sotto pretesto di far cosa onorevole et utile per la cristianità".
 
Ma chi erano i Farnese? Da dove provenivano? Che storia avevano?
 
Le prime notizie risalgono intorno all'anno 1000: nascono come uomini d'arme al servizio del Papato, e il loro nome è mutuato dal castello "Castrum Farneti", situato nell'alto Lazio; spostano il raggio d'azione a Roma a inizio '400, con Ranuccio il Vecchio, che intrattiene rapporti progressivamente più stretti con le autorità ecclesiastiche, da cui riceve terre e fortezze; il matrimonio del figlio di Ranuccio con Giovanna Caetani - figlia del Duca di Sermoneta - sancisce l'entrata della famiglia tra le fila dell'aristocrazia romana, e i suoi membri cambiano fisionomia, da soldati a cortigiani; il nipote di Ranuccio - Alessandro Farnese - è nominato cardinale nel 1493, diventa Vescovo di Parma nel 1509, e culmina il suo percorso nel 1509 cingendo la tiara papale, sotto il nome di Paolo III.
 
Dietro un'ascesa spettacolare - da signorotti di campagna a famiglia di guerrieri e infine a dinastia di principi - troviamo una donna, e che donna: Giulia Farnese, Giulia "la bella" - nipote di Ranuccio, sorella di Alessandro - la dama più ammirata del Rinascimento, abilmente sfruttata dalla madre e dalla suocera, per le coltivare le ambizioni del casato.

 
La pasquinata del popolo romano ha tutta la malizia rivelatrice del modo con cui Alessandro giunse alla porpora: Giulia era l'amante del Papa Borgia - la "sponsa Christi" come fu ironicamente appellata - e al suo torbido legame passionale sono riconducibili le fortune del fratello - abrasivamente ribattezzato "Cardinal Fregnese" - e più in generale dell'intera famiglia.
 
"La bella" era un appellativo totalizzante: Giulia era "di tanta suprema bellezza che ogni un che la vedeva stimava in lei essere qualche parte di divinità" - nella descrizione del poeta Vincenzo Calmeta - ma di lei una non è arrivata una sola immagine - non un dipinto, una scultura, un rilievo, che la raffigurino con certezza - in una damnatio memoriae voluta forse dallo stesso Paolo III, con la distruzione di tutto ciò che la raffigurava, per far dimenticare l'imbarazzante sorella (che pure ci si è affannati a ricercare tra le dame con liocorno tramandate dalla pittura rinascimentale, da Raffaello a Perin del Vaga, da Domenichino a Luca Longhi).
 
L'unica raffigurazione ragionevolmente riconducibile a Giulia:
un busto color legno, probabilmente in gesso brunito, a imitare un bronzo,
che per stile di esecuzione è collocabile intorno al Settecento.
 Si trova nella Rocca Orsini di Vasanello, su un mobile basso del piano nobile,
in un ambiente conosciuto come "l'appartamento di Giulia",
perché era lì, nel castello di Vasanello (allora Bassanello)
che Giulia visse col marito subito dopo il matrimonio
(che non fu esattamente un esempio di passione coniugale:
il marito morì per il crollo del soffitto della camera da letto...
... mentre Giulia dormiva in un'altra stanza).
Giulia avrà probabilmente lasciato un suo ritratto nella Rocca
- prima di trasferirsi a Roma, alla Corte del Papa - 
  utilizzato poi da un autore ignoto come base per realizzare il busto
(e verosimilmente il ritratto sarà sfuggito all'asserita distruzione voluta dal fratello Alessandro,
trovandosi in una residenza periferica, al di fuori del dominio diretto dei Farnese).
 La congettura è avvalorata da un fatto paradossale:
"la bella" - in questa riproduzione - non appare poi così bella.
 Fronte alta e spaziosa, viso pienotto, borse evidenti sotto gli occhi,
zigomi marcati, naso piccolo e tozzo, guance rigonfie, labbra minute,
mento pronunciato e vistoso doppio mento, 
e collo taurino (per quanto nobilmente allungato);
 solo la moderata scollatura, nella sua luminosità e levigatezza,
lascia intravedere la Giulia per la quale papa Borgia impazziva.
Giulia, qui, non nasconde il suo essere un po' in là con gli anni (quaranta o giù di lì)
 e non manifesta quella bellezza abbagliante che in gioventù faceva parlare tutta Roma.
Ne abbiamo quindi un ritratto realistico, e questo è il punto:
 tutti i presunti ritratti di Giulia peccano di un'eccessiva idealizzazione,
- per attribuire al suo volto i lineamenti più nobili e puri,
alla ricerca di una perfezione di tratti di tipo classico -
e chiunque avesse voluto ritrarre Giulia a quasi due secoli dalla sua morte
avrebbe inevitabilmente riprodotto il mito di una bellezza ineguagliabile,
e non certo una matura signora corrucciata dal pronunciato doppio mento.
Qui - al contrario - Giulia è ritratta nella sua realtà di donna matura,
certamente bella, ma terrena, non una dea dell'Olimpo.
L'autore non l'ha plasmata imponendole dei canoni estetici predefiniti,
per mostrare una bellezza universale e condivisa, ma avendo sotto gli occhi la vera Giulia
- lo sguardo altero rivolto lontano, il petto che palpita sotto le pieghe rigogliose della veste,
la testa coperta da un velo che ricade agitato sulle spalle,
sostenuto da un fremito di vento cui "la bella" offre fieramente il viso -
a rispecchiarne il carattere, la personalità e il temperamento,
allorché, lontana dai fasti e dalle lusinghe della Roma papale,
si era ritirata nel castello di Carbognano, di cui era diventata Signora.
Niente di cui pentirsi, niente di cui vergognarsi:
non era finita, come qualcuno forse auspicava, a sgranare rosari in qualche convento.
Era ancora lì, al cospetto di tutti, orgogliosa del suo passato e di ciò che era stata,
fiera e appagata di aver contribuito al destino della sua stirpe. 
 
I Farnese regnano su Parma sino al 1731, alternando sette Duchi - Ottavio, Ranuccio I, Odoardo, Ranuccio II, Francesco, Antonio - e al loro nome si legherà una delle più importanti collezioni europee di opere d'arte, formata da pitture, sculture - artistiche e archeologiche - e poi disegni, libri, bronzi, arredi, cammei, monete, medaglie.
 
Nel 1714 il casato consegue un successo diplomatico destinato a reindirizzare le sorti del Ducato: Francesco - con i buoni uffici del suo ambasciatore in Spagna, Giulio Alberoni - dà la nipote Elisabetta in moglie al Re Filippo V di Borbone, rimasto improvvisamente vedovo di Maria Luisa di Savoia.
 
Gli eventi sono rocamboleschi e alla loro origine vi sono fatti ancor più singolari. 
 
A 18 anni Elisabetta è colpita dal vaiolo, e si arriva a temere per la sua vita; la ragazza è forte e si salva, ma il viso le rimane sfigurato dalle cicatrici, e la prospettiva di un matrimonio profittevole pare allontanarsi; e invece il matrimonio arriva proprio grazie alla bellezza sfiorita, ed è di gran lunga più vantaggioso delle previsioni.
 
Quando si apre la contesa per il ruolo di nuova consorte del Re di Spagna, se da un lato le candidate sono numerose e tutte più blasonate di Elisabetta, dall'altro Alberoni sa bene che la sposa deve avere il benestare della Principessa Orsini, dama di compagnia della Regina defunta, e ora stretta consigliera del Sovrano, in rapporti eccellenti con le diplomazie europee. Il Re ha un carattere oscillante, incline alla depressione, e la Orsini vuol preservare la propria influenza: una nuova Regina poco istruita, non particolarmente bella, e senza una famiglia dal passato glorioso, appare come la scelta ideale.
 
Elisabetta - informata della situazione - si cala nella parte ragazza semplice e provinciale, di fronte all'emissario spagnolo inviato a conoscerla: "una buona lombarda impastata di burro e formaggio", come Alberoni l'aveva presenta alla Corte spagnola. La recita funziona a meraviglia: sarà lei la futura Regina, e dopo le nozze per procura, è in viaggio per la Spagna.
 
La Principessa Orsini ha dato istruzioni precise: la nuova Regina va separata quanto prima dal suo seguito italiano, per entrare nel circolo dei dignitari spagnoli che lei stessa le ha assegnato; e ha pure sistemato gli alloggi reali in modo che le camere dei Sovrani siano separate, e per passare dall'una all'altra sia necessario attraversare le sue stanze.
 
Ma non appena Elisabetta arriva nel suono nuovo Regno, e la Principessa se la ritrova di fronte, intuisce che il carattere della Regina non è quel temperamento docile che le avevano dato a intendere: viene subito fuori quell'indole imperiosa che a lungo l'abate Alberoni e la madre avevano tentato di correggere, e si rivela - con le parole di Federico II di Prussia - "il cuore energico di un romano, la fierezza di uno spartano, la pertinacia di un inglese, l'astuzia di un italiano, la vivacità di un francese" di una "donna singolare" che "cammina audacemente al compimento dei suoi disegni", senza che nulla "sappia sorprenderla" o "arrestarla".
 
Se le Regine dell'epoca si accontentavano di influenzare le decisioni dei mariti con moine e sotterfugi, Elisabetta prende invece nelle proprie mani il governo del Regno, e ordina anzitutto l'arresto della Principessa, da scortare sino al confine con la Francia. Il Re è spiazzato, ma non trova la forza di opporsi, e se in passato si era lasciato manovrare dalla Orsini, ora a guidarlo è Elisabetta. 
 
Dedica i primi anni a consolidare il suo potere nel Regno, ma le nascite dei figli la spingono ben presto verso la politica estera, perché Filippo ha già degli eredi designati per il trono di Spagna dal primo matrimonio, ed Elisabetta vuole che la sua discendenza non sia da meno. Sfrutta ogni occasione disponibile, si districa con abilità tra le insidie e le incertezze dei giochi di potere, costruisce nuovi regni lì dove si sciolgono antiche alleanze, dichiara guerre e si mette alla testa degli eserciti, e alla sua morte avrà ridisegnato le cartine geografiche della penisola italiana e dell'Europa.
 

Quando l'ultimo Duca di Parma muore senza discendenza - pur avendo nominato come erede il "ventre pregnante" della moglie Enrichetta d'Este, a torto creduta incinta - Elisabetta rivendica l'eredita sul Ducato, forte di una linea di discendenza diretta. Trova la sponda della diplomazia europea, preoccupata del consolidarsi dell'egemonia asburgica nella penisola italiana, e favorevole alla creazione di un territorio eterodiretto dalla Corona spagnola come possibile contrappeso.
 
Non senza tribolazioni - il Papa aveva reclamato i diritti feudali della Chiesa sul Ducato e ordinato l'occupazione militare, preceduto peraltro dall'esercito imperiale - il primogenito di Elisabetta, l'infante Carlo Sebastiano, inaugura la supremazia del giglio borbonico su Parma.
 
 
Don Carlo entra a Parma il 9 ottobre 1732, ma nuovi e drammatici eventi renderanno il suo regno di breve durata.
 
La morte del Re di Polonia - nel 1733 - scatena una crisi successoria che rompe i già precari equilibri di potere. Ne segue una nuova guerra - la Guerra di Successione Polacca - con l'Austria contrapposta a Francia e Spagna, unite da un patto di famiglia borbonico.
 
Il conflitto volge a favore della coalizione franco-spagnola, ed Elisabetta vede realizzarsi il suo personale obiettivo: mettere le mani su Napoli e Sicilia - tramite il figlio Carlo - in virtù dei Trattati di Utrecht (1717) e dell'Aia (1720).
 
Carlo lascia Parma il 4 febbraio 1734, e porta con sé gran parte della collezione Farnese, di cui aveva acquisito la titolarità dalla madre (ci penserà poi suo figlio Ferdinando I a prelevare la parte restante, nel 1786). 
 
Ha inizio un intermezzo asburgico, che durerà sino al 1748, quando il Trattato di Aquisgrana metterà fine alla Guerra di Successione Austriaca - scoppiata nel 1740 - e riconsegnerà Parma ai Borbone, nella persona di Filippo I, fratello di Don Carlo.
 
La città conosce un periodo di splendore: sul piano sociale, grazie alla diffusa presenza di artisti e artigiani che le conferiscono una dimensione internazionale; sul piano politico, con  la soppressione del Tribunale dell'Inquisizione e l'assegnazione di beni del clero a istituti di beneficenza e di istruzione pubblica; sul piano culturale, col più elevato numero di abbonati alla "Encyclopédie" di Diderot e d'Alembert, dopo Parigi; sul piano urbanistico, tramite l'opera dell'architetto Ennemond Alexandre Petitot, a cui il Ministro Guillaume du Tillot affida il compito di intervenire sul tessuto urbano per conferire a Parma il mito di una nuova Atene d'Italia.
 
I Borbone restano provvisoriamente sul trono - col Duca Ferdinando I, figlio di Filippo - anche a seguito della conquista napoleonica, per far da paravento alle spoliazioni francesi.
 
E proprio l'arrivo di Napoleone rappresenterà la più impensabile delle sponde per la terza donna del Ducato: Maria Luisa Leopoldina Francesca Teresa Giuseppa Lucia d'Asburgo-Lorena, più semplicemente Maria Luisa d'Austria, destinata a divenire Maria Luigia di Parma.

Era nata nel 1791, figlia prediletta dell'Imperatore austriaco Francesco II. Visse un'infanzia spensierata, lontana dai trambusti originati dalla Rivoluzione francese, ma gli echi dei conflitti bellici la raggiunsero comunque, e l'arciduchessa sviluppò sentimenti via via più astiosi verso Napoleone Bonaparte, in cui arrivò a vedere la manifestazione dell'Anticristo.
 
"Le sorti penderanno dalla parte del babbo, e giungerà finalmente l'ora in cui quest'usurpatore verrà umiliato" - scriveva alla madre - "Forse Dio lo lascia arrivare a tal segno per privarlo, dopo che ha osato tanto, di ogni via d'uscita".

Le cose andarono in tutt'altro modo, perché le cose procedono sempre per vie loro proprie, invariabilmente diverse da quelle immaginate.
 
Napoleone vince la cruciale battaglia di Austerlitz nel 1805, e vince ancora a Wagram, nel 1809. L'Austria si arrende, e la pace è saldata con delle ovvie modifiche territoriali, ma anche con una meno scontata prospettiva di un matrimonio.
 
Da tempo il Generale divenuto Imperatore meditava il divorzio da Giuseppina, per l'impossibilità della consorte di dargli un erede, ma anche perché attratto da un'unione politicamente più redditizia. Le parentele tra regnanti contavano meno di quanto Napoleone sperasse, e tuttavia contavano: "Bella gerant alii, tu felix Austria nube" - gli altri facciano pure la guerra, tu, Austria, sposati felice - aveva sentenziato già nel XV secolo l'allora Re d'Ungheria
 
E l'Imperatore d'Austria aveva ora una figlia - Maria Luisa - se non proprio nello stato d'animo di sposarsi felice, sicuramente pronta "ad accettare tutto ciò che possa contribuire al benessere e alla pace dello Stato", a prestar fede alle parole del Cancelliere von Metternich.
 
Maria Luisa non sembrava invero così incline ad accettare tutto, anzi. "Nella gazzetta ho letto del divorzio di Napoleone dalla moglie" - scriveva al padre - " e debbo confidarLe, babbo caro, che la cosa mi ha seriamente allarmata: il pensiero che io possa esser nel novero di quelle che gli verranno forse proposte in isposa non è un'eventualità inverosimile, la qual cosa mi ha indotto a farLe una confessione, che affido al Suo cuore paterno".
 
Non era un'eventualità inverosimile, tutt'altro. Maria Luisa finì tra le pretendenti e - se così si può dire - sbaragliò la concorrenza di ben 18 rivali, ritrovandosi sull'altare col nemico di sempre, quel Bonaparte che da bambina aveva materializzato in un soldatino di legno da maltrattare.
 
I cattolicissimi Asburgo non si contentavano però di un'unione civile. Volevano anche - soprattutto - la consacrazione religiosa. Serviva perciò annullare il legame con Giuseppina, che tra lacrime e grida dichiarò di  "aver costretto" Napoleone a sposarla, e tanto basto al tribunale ecclesiastico per invalidare l'unione.
 
Per parte francese, l'arciduchessa fu sottoposta a un rito di purificazione: spogliata delle sue vesti, in una stanza che simbolicamente rappresentava l'Austria, transitò in una seconda stanza neutra, per giungere infine in una terza stanza dove fu abbigliata alla francese, una cerimonia che - nella memoria di Napoleone - la divertì così tanto da farla ridere tutta la notte.

Maria Luisa dà l'addio ai suoi fratelli, in Austria.
 

 
Maria Luisa viene accolta a Compiègne, in Francia.
 
 
Le nozze tra Maria Luisa d'Asburgo e Napoleone Bonaparte.
 
Dalla prospettiva di Napoleone la parentela con gli Asburgo trasformava la più antica e prestigiosa dinastia europea in un'alleata, o almeno non la rendeva più nemica.
 
Per Maria Luisa le cose stavano su un piano più spicciolo. "So che mi maritano già a Vienna col grande Napoleone" - aveva scritto all'amica Victoire de Poutet - "e se si dovrà fare, credo che sarò la sola che non se ne rallegrerà".
 
Neanche in Francia erano allegri: le sorelle e le cognate di Napoleone si rifiutavano di portare lo strascico "dell'Austriaca" - così la chiamavano, con lo stesso dispregiativo riservato alla prozia Maria Antonietta; i repubblicani la odiavano, perché nipote della regina ghigliottinata; i bonapartisti le preferivano Giuseppina; e i monarchici non le perdonavano di consegnare - con le sue nozze - una pseudo-legittimità alla casata dei Bonaparte.
 
Per quanto odiata, la nuova Imperatrice restò lealmente al fianco di Napoleone - con cui ebbe un figlio, proclamato enfaticamente "Re di Roma" - senza peraltro rinnegare le sue origini, e sforzandosi di conciliare stati d'animo che andavano polarizzandosi con la ripresa e l'intensificarsi dei conflitti tra Francia e Austria, tra il marito e il padre.
 
La capitolazione di Parigi - nel 1814 - mette Maria Luigia davanti a un bivio: da un lato invoca la protezione del padre, per sé e per il figlio; dall'altro, il marito le chiede di raggiungerla in esilio sull'Isola d’Elba. Prevale la voce del sangue (e forse della convenienza): Maria Luisa torna in Austria.

"Pur avendo voluto bene a Maria Luigia, ho amato di più Giuseppina" - scriverà un Napoleone amareggiato - e Maria Luigia dirà di lui che "non ha mai amato veramente, né amerà mai una donna". Code velenose di una relazione conclusa.


Il Congresso di Vienna la ricompensa col Ducato di Parma, usando l'espediente del "vitalizio" per preservare i diritti dei Borbone: Maria Luisa avrebbe regnato per tutta la vita, ma senza possibilità di trasmissioni ereditarie, perché suo figlio - si disse - era un riferimento per la rinascita del bonapartismo (sebbene fosse educato ormai da tempo come un arciduca austriaco, e chiamato addirittura Franz, anziché Napoleone II) al punto da impedirgli di seguire la madre nella penisola italiana (pur riconoscendogli il titolo formale di "Altezza Serenissima il Principe di Parma").
 
 
Dopo Marie Luise, arciduchessa austriaca, e Marie Louise, Imperatrice di Francia,
arriva Maria Luigia, Duchessa di Parma, con decreto del 29 febbraio 1816.
 
Maria Luigia arriva nel Ducato il 19 aprile 1816.
 
"Il popolo mi ha accolto con tale entusiasmo" - scriveva al padre - "che mi sono venute le lacrime agli occhi".

Il suo primo atto fu all'insegna di quella modestia che diverrà stile: scelse di abitare in una discreta palazzina settecentesca (ora distrutta) davanti all'ala orientale del Palazzo della Pilotta, ricevuta in eredità dai Borbone. Rifiutò invece la Villa del Giardino (oggi Palazzo Ducale) utilizzata dai Farnese come residenza galante: troppo lontana dal centro, troppo licenziosa per via di quegli affreschi che un tempo costituivano la cornice di chiacchierati festini lascivi.

"Ho nelle mani il modo di rendere felice quattrocentomila anime". In cuor suo, però, sapeva di non avere il piglio della Sovrana, di non possedere la caratura della nonna Maria Teresa, tra i maggiori protagonisti dell'assolutismo illuminato. Lasciò quindi governare i suoi favoriti, avendo cura di sceglierli per bene, e non era un'abilità da poco.
 
Al suo fianco c'era il Conte Adam Albert von Neipperg, con cui aveva intrecciato una relazione sentimentale dopo il ritorno a Vienna, per poi sposarlo con rito morganatico, e che domandò al padre di mantenere al suo fianco quando vide profilassi la reggenza di Parma. "Mi sarebbe estremamente utile per via dell'andamento della mia casa e anche perché mi fido di lui e perché mi piacerebbe avere [a Parma] uno di qui, visto che non voglio fare nuove conoscenze!"

Governò sempre lui, Neipperg, e se al principio doveva farlo sotto banco, alla scomparsa del "Serenissimo Consorte dell'Augusta Sovrana" - come la "Gazzetta di Parma" etichettò Napoleone con squisito tatto, nell'annunciarne la morte - poté assumere una veste ufficiale.
 

Neipperg conduceva il Ducato con un pugno d'acciaio dentro un guanto di velluto. Aveva portato a termine numerose e importanti opere pubbliche, altre ne aveva messe in cantiere, e si dimostrava un amministratore oculato.

Sotto il governo formale di Maria Luigia si costruirono i ponti sui fiumi Taro e Trebbia, e il cimitero della Villetta; fu restaurata l'Università che Napoleone aveva retrocesso al ruolo di Accademia; s'inaugurò il Teatro Ducale e fu istituito il Conservatorio; vide la luce il Codice Civile per gli Stati Parmensi, punto di riferimento per la storia del diritto italiano. Particolare attenzione fu rivolta alla lotta alle epidemie, alla protezione delle arti e alla condizione femminile; e la Duchessa si occupò talvolta personalmente del fabbisogno di poveri e ammalati.
 
Non si avvertì mai il bisogno di appesantire i controlli polizieschi, neanche dopo i moti di Napoli e Torino e la scoperta delle congiure carbonare nel Lombardo-Veneto. In un'epoca che faceva della forca l'ultima ragione, Parma era tra gli Stati che meno ne avevano drizzate. Alla cosiddetta "mancanza di libertà", il regime aveva supplito con l'umanità di una Sovrana affettuosa e materna, i cui "unico desiderio è di poter trascorrere qui la mia esistenza nella più gran tranquillità" e che preferiva allattare i suoi sudditi, anziché perseguitarli.
 
Maria Luigia si trovò così più stupita che impreparata di fronte alle fibrillazioni del 1831, peraltro indirizzate all'odiato barone von Werklein impostole da Metternich.
 
La Duchessa scoppiò a piangere, quando - affacciandosi dalla Reggia - vide un gruppo di uomini urlarle contro. "Spesso tutto questo mi sembra un brutto sogno dovuto alla febbre. Da ieri pomeriggio sono terribilmente sconvolta per via di Parma dove hanno preso parecchi ostaggi, tutti poveri tedeschi che avevo in casa: il mio giardiniere di Colorno, il mio confessore, addirittura anche un vescovo".
 
Per tutta risposta annunciò la sua partenza, ché in fondo si era sempre sentita un ospite, anche se amato.
 
La notizia si sparse e la popolazione confluì sotto il Palazzo Ducale, per supplicarla di restare. Il Primo Ministro e i consiglieri si adoperarono affinché la Sovrana non avesse contatti con la folla, e la convinsero che quella manifestazione di solidarietà era solo un tranello, che le avrebbero sicuramente sparato, non appena fosse stata a tiro.
 
Maria Luigia lasciò Parma, in direzione Piacenza, scortata dai suoi militi più fedeli. I sudditi si accalcarono sulle strade - vuoi per curiosità, vuoi per riconoscenza - e la Duchessa fu accolta a Piacenza con grande entusiasmo. Da lì scrisse al padre di trovare un altro impiego a Werklein, "che non può servire a nulla, ma può nuocere assai".
 
Rientrò a Parma l'8 agosto, e il popolo ne sarebbe stato felice, se la sua presenza non fosse stata sorvegliata da una guarnigione austriaca a presidio dell'ordine pubblico. Maria Luigia tagliò corto, e il 29 settembre 1831 proclamò un'amnistia generale per rasserenare gli animi di tutti.

Pragmatismo asburgico e vezzosità francesi, melomania e buona tavola, bellezza ed edonismo, leggerezza e commedia, Maria Luigia trasformò Parma in una Vienna in miniatura contornata da piccole Versailles.

"Spero che i Parmigiani non mi dimenticheranno" fu il suo ultimo auspicio.
 
Fu esaudita: a Parma c'è chi ancora la rimpiange.

 
Il Congresso di Vienna aveva stabilito la restituzione del Ducato ai Borbone - alla fine del vitalizio concesso a Maria Luisa - nella persona di Carlo II, parcheggiato nel frattempo nel Principato di Lucca ma già attivo nel negoziare sottobanco la revisione dei confini tra Toscana, Modena e Parma, da formalizzare non appena avesse messo piede nei territori parmensi.
 
Nel 1847 Lucca passò al Granducato di Toscana: i più pacati dicevano "ci hanno venduto come maiali", i più agitati volevano chiamare il popolo alle armi contro "il sopruso straniero", come se la Toscana fosse Austria; l'aristocrazia chiuse i portoni dei suoi palazzi e mise il lutto.
 
La fertile città di Guastalla fu trasferita nei dominî di Modena, in cambio del montagnoso circondario di Pontremoli e di una bella rendita in denaro. Il nuovo territorio di Carlo II prese il nome di "Ducato di Parma, Piacenza e Stati annessi", che il popolino - infastidito dallo scambio - storpiò in "Ducato di Parma, Piacenza e sassi annessi".
 
 
Il Ducato di Parma, prima della ridefinizione territoriale di Carlo II.
 
Carlo II si era costruito la fama di un Sovrano all'avanguardia, di larghe vedute, ma rimase silente davanti alla preghiera dei sudditi di concedere maggiori libertà. Stimò opportuno correre da Metternich a invocare il supporto austriaco a tutela del trono parmense, semmai fossero scoppiate delle rivolte. E Metternich esaudì la richiesta ancor prima che il Duca la formulasse: l'Austria - all'occorrenza - avrebbe fornito gli stessi aiuti materiali che si preparava a dare al Duca di Modena.
 
Per gli Asburgo si trattava di un piccolo, grande successo: piccolo, perché Parma era un guscio di castagna, territorialmente parlando; ma anche grande, perché Carlo, negli anni di Lucca, aveva dato parecchi batticuori ala Corte viennese con i suoi atteggiamenti di apertura politica, al punto che Metternich lo considerava un pazzo per tare ataviche, da tenere piantato a Vienna o comunque fuori dal suo Stato.
 
Carlo prese possesso effettivo del trono dopo l'avallo austriaco, ma da lì a poco "successe un Quarantotto".
 
Fu obbligato a scegliere tra la soppressione della rivoluzione e la concessione di riforme. Imboccò la via liberale: abbandonò Parma, si rifugiò in Sassonia, nel castello di Weistropp,  e rimise il potere a un Consiglio di Reggenza, col compito di stilare una Costituzione, ma col retro-pensiero di farne un espediente per preservare il trono per il figlio.
 
La confusione raggiunse l'apice quando il Consiglio annunciò un'iniziativa antesignana di quel rito di legittimazione che sarebbe poi stato istituzionalizzato nel processo di unificazione politica della penisola italiana: il plebiscito (per l'annessione di Piacenza al Piemonte) che sarà rielaborato nelle celebrazioni dell'unità nazionale per assegnare a Piacenza lo status di di "Primogenita del Regno d'Italia".
 
Il "Quarantotto" si concluse con la restaurazione della restaurazione: l'esercito austriaco diede talmente tanti schiaffi ai piemontesi - a Custoza, a Milano - da obbligarli all'armistizio, il 9 agosto 1848. Nell'aprile del '49 - dopo averle buscate pure a Novara - il Regno di Sardegna dichiarò la resa definitiva.
 
Il Ducato di Parma tornava - per via austriaca - sotto il dominio dei Borbone, e a Carlo II bastò aver preservato i diritti del casato, senza altro a pretendere sul piano personale: abdicò senza indugi, a favore del figlio Carlo III.
 
 
Un'accorata lettera del 14 Giugno 1824 di Carlo II
- scritta da Marlia, all'epoca residenza dei Duchi di Lucca
 in cui si esprime la preoccupazione per la salute dell'erede Carlo III,
e attenzione per la giovane moglie Maria Teresa di Savoia.
"Carissimo dottore, Vi prego di portarvi qui perché il Bambino è giallo,
e mia moglie li è sempre in pena: sono due giorni che ebbe molto profluvio di orine,
però a me pare che sia allegro. Vi prego di venire a cavare dall'inquietudine mia moglie".
 
Dopo un breve governo provvisorio austriaco - retto prima dal Generale D'Aspre e poi dal Barone Sturmer - Carlo III assunse ufficialmente la titolarità del Ducato di Parma, il 25 agosto 1849.
 
"Negli occhi leggevi la brutalità e la ferocia;
dal naso in giù, la faccia non era di uomo; assomigliava a una bestia;
credo che esseri di tal fatta non abbiano somiglianza nemmeno negli animali,
posti nell'infimo grado della natura"
(Descrizione di Carlo III di Borbone Parma, in un libello piemontese)
 
Cosmopolita e mondano, abile nelle lingue straniere e appassionato di viaggi, con un senso dell'umorismo grossolano e un carattere irrequieto; anticlericale e contrario alla pena capitale, senza alcuna simpatia per l'Austria - non si faceva problemi a definire "cariatidi rimbambite" gli esponenti delle Corte viennese - sebbene fosse imparentato con gli Asburgo e dovesse all'intervento austriaco la sua presenza a Parma.
 
Aveva sviluppato già da piccolo un interesse per la vita militare, ed esser stato un semplice soldato a Lucca - aver condiviso la quotidianità della caserma e le lunghe esercitazioni tra le pendici dell'Appennino - lo aveva reso ben voluto e considerato all'interno della compagine. 
 
Per migliorare il suo addestramento - nella speranza che vi si corrispondesse un raffinamento del carattere - il padre lo aveva spedito alla Scuola Militare di Torino, nel 1841, a 18 anni. L'esperienza fu pessima, e dopo un anno tornò alla base: "è partito di qui l'estate scorsa piuttosto arrabbiato con me e da allora non mi ha fatto sapere sue notizie" - scriveva Vittorio Emanuele - "Ma gli auguro ogni felicità, e anche buon senso, che però credo fermamente che non otterrà mai".
  
La passione militare di Carlo III lo portò ad ampliare l'esercito parmense sino a 5000 unità,
ben oltre le reali necessità del Ducato e delle stesse capacità finanziarie di sostenerlo.
Pure, in contrasto con le tradizioni dell'epoca, ispirate per lo più agli stili francese e austriaco,
Carlo concepì le uniformi del suo esercito guardando alla Prussia, lo Stato militare per eccellenza.
Arrivò a deliberare un prestito, da sottoscrivere obbligatoriamente,
per coprire le spese militari in vista di un'improbabile partecipazione alla Guerra di Crimea.
Per tutto ciò fu oggetto di critiche e ironie, ma la sua attenzione alle questioni militari,
per quanto maniacale, non andò mai a scapito di iniziative strutturali e istituzionali:
sotto Carlo III si registra l'introduzione del telegrafo, della ferrovia, dei francobolli,
dell'assicurazione obbligatoria contro gli incendi e di un'imprenditoria sul modello inglese.
Il potere finì comunque con l'accentrarsi nella segreteria di gabinetto
- alle dirette dipendenze del Duca e composta pressoché interamente da militari - 
che si arrogò competenze via via più estese, sconfinanti nella sfera propria dei vari dicasteri.
 
Il Duca Carlo III sarà pur stato autoritario, ma la sua Parma fu meno reazionaria della Napoli dei Borbone e della Toscana degli Asburgo-Lorena, governate dai suoi cugini, per non parlare di Modena: con la sua rozza mentalità da militare, poco duttile alle sottigliezze della politica, si rivelò più logico e in fondo più retto e lineare.
 
I sudditi nutrivano sentimenti contrastanti: la nobiltà lo trattava con diffidenza, i borghesi lo disprezzavano quanto lui disprezzava loro, ma era amato dalle classi popolari - contadini e mezzadri - che giudicò i più "fedeli al legittimo governo" e tutelò con disposizioni a loro favore nelle controversie sugli sfratti agrari.

La vita di Carlo III ha offerto lo spunto per il romanzo "Quell'antico amore", di Carlo Laurenzi,
portato poi in televisione nel 1981, con uno sceneggiato in cinque puntate.
La trasposizione televisiva soffre di diversi errori nelle divise militari,
ma lo scivolone più vistoso lo si registra in ambito postale:
  la ragazza sedotta dal Duca, quando ancora ne ignorava l'identità,
lo riconosce grazie a un immaginifico francobollo di Parma,
col profilo del Sovrano volto a sinistra, sormontato da un corona,
quando i francobolli del Ducato esibivano in realtà il giglio borbonico.
 
Questa singolare figura, che da bambino costringeva l'istitutore a sbattergli la testa sul tavolo per domarne l'indole ribelle, e che conservò atteggiamenti infantili anche nella maturità; questo aristocratico che si appisolava sulle poltrone alle feste alla Corte piemontese (perché "a Torino le feste fanno dormire"), che si divertiva a tenere in equilibrio delle porcellane sulle dita, senza mortificarsi quando gli cadevano per terra (tra lo sconcerto degli austeri sabaudi), e che alla Corte di Spagna scendeva da un piano all'altro lasciandosi scivolare sul corrimano della scalinata; quest'uomo semplice nei modi e facilmente avvicinabile, ma consapevole del suo rango al punto da usare il bastone da passeggio su chiunque gli mancasse di rispetto; questo Don Giovanni ottocentesco che talvolta si celava dietro i titoli di Marchese di Castiglione e Conte di Mulazzo; a questo Sovrano - che poteva vantarsi di non aver mai ordinato una condanna a morte, in un'epoca in un cui la forca lavorava di continuo nel resto della penisola italiana - toccò l'oltraggio di vedere scritte minacciose sui muri della sua città ("A morte Carlo III") e di finire assassinato in circostanze misteriose.
 
"Mio Dio, sono spacciato: mi hanno pugnalato".
 
Ventiquattro ore dopo le campane rintoccavano a lutto.
 

La notizia dell'assassinio del Duca di Parma Carlo III di Borbone,
sulla "Gazzetta Provinciale di Brescia" di martedì 11 aprile. 

Domenica 26 marzo 1854, Carlo lascia il Palazzo verso le quattro del pomeriggio, per la solita passeggiata. Lo accompagna il suo aiutante di campo, il Conte Bacinetti.
 
Incrocia la moglie, seduta in carrozza ad ascoltare un concerto all'aperto. Le rivolge un saluto e procede oltre. Dopo circa due ore si riavvia verso il Palazzo. Passa per la strada Santa Lucia (oggi via Cavour!) davanti alla chiesa, e si ferma a chiedere l'identità di una bella ragazza avvistata alla finestra. Saluta due soldati che gli passano accanto, e...  due uomini avvolti in mantelli lo avvicinano: uno lo urta e gli trafigge la pancia con una lama triangolare, e poi fuggono in direzioni opposte, trovando riparo tra la folla.
 
Il Duca cade a terra in una pozza di sangue, con la lama ancora nello stomaco. "Mio Dio, sono spacciato: mi hanno pugnalato".
 
Viene sollevato, tenuto per braccia e gambe, e riportato al palazzo. Non un solo lamento, mentre i medici gli curano la profonda ferita. Chiede solo se la sua vita sia in pericolo, e gli viene assicurato - mentendo - che non lo è. Poi sviene.
 
Le ultime ore sono una sofferenza continua, che gli dà consapevolezza del destino infausto a cui sta andando incontro. Lo vive con una forza e una rassegnazione che - nell'opinione dei più - lo riscattano  da tutte le debolezze della sua vita. "Mi sto preparando per un lungo viaggio".
 
Riceve l'estrema unzione e riesce a vedere per l'ultima volta moglie e figli, prima di spirare alle cinque e mezzo del 27 marzo.
 
Aveva persino trovato la forza di una lettura politica dell'evento, in um momento di lucidità. "Questo è un regalo di Mazzini".
 
Intervento dei soldati ducali al Caffè Ravazzoni, covo parmense di mazziniani.

Tre secoli dopo l'assassinio del Duca Pierluigi Farnese, nel 1547, un altro attentato al potere sconvolgeva Parma.
 
Ma se del primo evento se ne conoscono sia i responsabili che le motivazioni, intorno al secondo danzano ancora numerose ombre: il processo - concluso nel 1857 - non individuò alcun colpevole, a tutt'oggi si procede per congetture, e l'alone di mistero ha trasformato Carlo in un personaggio da romanzo, come documenta la vasta letteratura - per lo più popolaresca, ricca di fantasia - fiorita sull'argomento.

Fu arrestato il sellaio Antonio Carra - un mazziniano - dieci giorni dopo l'attentato; cadde in più d'una contraddizione, ma riuscì lo stesso a sostenere con successo la sua presunta innocenza, e fu rilasciato; fuggì a Genova, e da lì s'imbarco per l'Argentina; una volta in salvo, scrisse una lettera al Governo di Parma, in cui ammetteva di essere l'autore dell'omicidio, mostrando un atteggiamento anomalo rispetto agli anarchici dell'epoca, che rivendicano fieramente i loro atti nei tribunali e li usavano per divulgare le loro idee.
 
Permaneva un'interrogativo: era un complotto mazziniano in grande stile o l'incontrollato gesto isolato di un folle?
 
Due agricoltori parmigiani - emigrati in Corsica - testimoniarono di aver saputo del regicidio a Bastia, sette ore prima che avvenisse, e gli inquirenti diedero corpo all'ipotesi di un complotto architettato da gente ben al di sopra di Carra. Trovò spazio pure la strana deposizione della Contessa Brigida Galli Leoni di Piacenza, tre settimane dopo il delitto: riferì di aver orecchiato dell'attentato del Duca in un crocchio di giovanotti disinvolti e ben vestiti, e di aver finto di allacciarsi uno stivaletto - armeggiandovi per una decina di minuti - per poter ascoltare sino alla fine. Gli inquirenti cincischiarono, e si reindirizzarono sulla pista del mazziniano isolato, forse per timore di ritrovarsi in un ginepraio ingestibile: le trame del complotto coinvolgevano forse personaggi illustri della Corte parmense, forse addirittura la Duchessa. 
 
La legge del pugnale sovrascrisse il tribunale: il giudice istruttore Antonio Gabbi fu accoltellato mortalmente alla schiena, nella notte del 12 giugno; di lì a poco, il Colonello Paolino Lainati e all'Auditore di Giustizia Gaetano Bordi rimasero gravemente feriti. Indagare sui mandanti dell'attentato  significava - in definitiva - mettere in gioco la propria vita.
 
Negli ambienti influenti di Parma - a processo archiviato - si fece strada una convinzione: la congiura era partita da Torino, sorretta da esponenti di spicco sia parmigiani che piacentini - capitanati dal Conte Ferdinando Douglas Scotti, fedele dignitario della Duchessa - che si erano avvalsi della manovalanza mazziniana locale per l'esecuzione del delitto.
 
Ma Torino - all'epoca - era sinonimo di Camillo Benso Conte di Cavour, e la sua ombra - sebbene con ricostruzioni da verificare - si allunga fatalmente sul regicidio di Carlo III.
 
Di sicuro la vulgata piemontese aveva fatto dei Borbone di Parma l'emblema dei cattivi sovrani austriacanti, e quindi della "questione italiana", per legittimare l'espansione della monarchia sabauda nella pianura padana. Già nel 1856 - a conclusione della Guerra di Crimea - Re Vittorio aveva dato indicazioni precise a Cavour, impegnato sui tavoli negoziali del Congresso di Parigi. "Secchi l'Imperatore finché basti. Dia i Principati all'Austria e anche al diavolo se li vuole, ma si faccia dare quello che voglio". Vale a dire il Ducato di Parma e Piacenza, di Maria Luisa di Borbone.
 
Dopo la morte di Carlo III, il giudice militare austriaco Kraus indagò sui legami tra i congiurati di Parma e i fuoriusciti dal Ducato rifugiati a Torino, con lo scopo di dimostrare la torbida convivenza e i taciti accordi tra gli Stati Sardi e i rivoluzionari. La tesi rimase indimostrata, e per il Piemonte fu una salvezza: Napoleone III - con cui era in procinto di allearsi, in quella che sarebbe stata la Seconda Guerra di Indipendenza - non avrebbe mai accettato di schierarsi al fianco di un Regno che spalleggiava e proteggeva figure consimili a quelle che avevano attentato alla sua vita e tenevano il suo apparato di sicurezza in perenne tensione.
 
 
"Chi scrisse questi capitoli non si propose di fare né una storia, né un romanzo.
Che cosa dunque si propose di fare? – domanderà il lettore.
1.° Metter fuori alcune osservazioni sui fatti narratigli dal suo amico parmigiano,
testimonio in parte di vista...
2.º Dimostrare, con scene tolte dal vero e dialogizzate 
dietro la conoscenza dei personaggi di questo dramma, fra 'l tragico e 'l bernesco,
che l'assoluto, illimitato potere, in piccolo paese massimamente, e su piccole masse di popolazione,
è necessaria fonte di tirannide.
3°. Che la pazienza dell'oppresso ha un confine,
e che talvolta egli guarda in faccia all'oppressore dicendo:
Eppure anche tu devi essere fatto d'ossa, e di carne come son fatto io;
e più di tutto dimostrare che chi tollera a lungo e paziente ogni maniera d'insopportabili soprusi,
talvolta solleva la fronte e si vendica terribile d'insulti molto minori"
 
Cosa fu il regicidio di Carlo III di Borbone, Duca di Parma? Una vendetta privata? Un complotto di Corte? Un delitto politico? E quale ruolo giocò sua moglie, la Duchessa Luisa Maria di Berry? Fu una spettatrice del dramma o era a conoscenza dei sanguinosi maneggi?

Di certo la Duchessa aveva una personalità forte e una lingua tagliente. Le piaceva farsi strada tra gli intrighi, e teneva un suo partito, ostile al marito, verso cui aveva già ordito delle trame per screditarlo. Non pianse la morte del consorte, e parve anzi rallegrarsene: l'annunciò ai sudditi senza alcuna manifestazione di dolore.
 
Aveva raggiunto i venticinque anni ancora nubile, una situazione singolare per una Principessa del suo tempo. Fu la Duchessa di Angouleme - nel 1845 - a organizzare il suo matrimonio con Carlo, all'epoca Principe ereditario di Lucca, unico figlio maschio del Duca regnante. I due si conoscevano bene: erano cugini e avevano trascorso diversi estati insieme vicino a Froshdorf, in Austria.
 
Carlo rimaneva riluttante: aveva quattro anni meno di lei, non gradiva la prospettiva di legarsi a una parente, e all'epoca non condivideva nemmeno l'ideologia del suo entourage, il partito legittimista. Ma suò padre andò giù piatto: il Ducato di Lucca versava in gravi difficoltà economiche, serviva un matrimonio con una dote cospicua, e non vi era tempo per filosofeggiare sull'apprezzamento della sposa; e se la ragion di Stato non fosse stata sufficiente, se avesse battuto a vuoto nel suo animo, lo minacciò di tagliargli i fondi, di lasciarlo indigente; il Principe calò la testa, perché non poteva far altro.
 
Per diversi anni la vita matrimoniale fu tutto sommato felice, e la coppia ebbe quattro figli. Dopo ogni gravidanza la Duchessa tendeva a ingrassare, perse di avvenenza, e lo sfiorire della bellezza si accompagnò a un deterioramento dei rapporti coniugali, per conclamarsi quando il Duca intraprese una relazione pubblica con la Contessa Emma Guadagni.
 
 
La Duchessa di Parma Luisa Maria, con i suoi quattro figli.

La morte di Carlo rappresentò per la Duchessa la liberazione dal giogo di un uomo che ormai la disprezzava.
 
Prese la reggenza del Ducato in nome del figlio Roberto, di soli 6 anni: congedò i collaboratori reazionari del marito e li sostituì con figure più votate all'interesse pubblico; ridusse il corpo militare a circa 1500 effettivi, abrogò la coscrizione e il prestito forzoso; istituì le scuole elementari e medie, e riorganizzò l'Università con l'introduzione di nuove facoltà e il ritorno in cattedra di docenti di fama di liberale; rimise in ordine le finanze, senza rinunziare a opere pubbliche (come le case popolari di via della Salute); al suo nome si lega la nascita della Cassa di Risparmi, la prima banca della capitale; e se ne conserva memoria anche per fatti più semplici, la presenza a un battesimo, a un matrimonio, a una festa, con cui segnò un rapporto personale con le famiglie parmensi, non solo aristocratiche.
 
Ma tutto ciò passò in sordina - nella narrazione storica e nel percepito diffuso - al punto che in tanti la confondono ancor oggi con Maria Luigia, a cui attribuiscono i meriti di Luisa Maria.
 
Sicuramente le indagini sull'assassinio del Duca conferirono una colorazione fosca alla reggenza della Duchessa, l'avvolsero in un latente ma diffuso clima conflittuale, anche per la sistematica presenza dei militari austrici a Parma (che sarebbero sloggiati solo nel 1857, su pressione dell'Inghilterra, mantenendo peraltro un presidio a Piacenza).
 
Nel luglio del 1854 - appena quattro mesi dopo l'assassinio del Duca - una giovane a cui morde la coscienza si reca sino a Sala Baganza, dove Luisa Maria trascorre l'estate, per informarla di un'imminente rivolta mazziniana: serpeggia un malumore per il rincaro del pane, e i rivoluzionari sono conviti che la popolazione li seguirebbe, se scoppiasse un tumulto; il piano prevede di incendiare il Teatro Regio nella notte, così da attirare le guardie, lasciare sguarnite le caserme e altri luoghi sensibili, e facilitare il moto dei rivoltosi; si vuole prendere anche il controllo della Torre del Duomo, per dare il via all'insurrezione col rintocco delle campane; tutto si basa sull'effetto sorpresa, ma proprio per ciò il piano è vulnerabile, se si prendono le necessarie contromisure.
 
La Duchessa presta fede a ogni parola e agisce di conseguenza: i soldati occupano per primi il Teatro e la Cattedrale; i ribelli non rinunciano però all'azione, e sparano comunque dai Caffè Bersellini e Ravazzoni; il Colonnello Curtarelli - che nei moti del 1831 protestava in piazza contro Maria Luigia - fa arrivare un cannone e ordina di sparare sulle vetrine dei due locali; i ribelli sono costretti alla fuga;  altri spari rimbombano in strada San Michele verso sera, forse in risposta a un rigurgito rivoluzionario o forse solo per un errore delle guardie; un tal Carlo Guellio muore in una caserma, riconosciuto come complice dell'omicidio del giudice Gabbi; due soldati sono fucilati il giorno successivo, colpevoli di aver fraternizzato con gli insorti; il bilancio sarà di oltre venti morti, una cinquantina di feriti e centinaia di arresti.
 
Il 6 agosto il Consiglio di Guerra condanna a morte Emilio Mattei, Luigi Facconi e Adorni Cirillo - tre filo-mazziniani - assieme al calzolaio Pietro Bompani e al negoziante Enrico Barilla. A chi le consiglia clemenza, la Duchessa risponde inferocita "io pure vesto a bruno, io pure ho a pregare per mio marito! così vestano essi, così preghino"; e per acquietare il figlio Roberto - impaurito dallo spettacolo di una donna in lacrime a implorare la grazia - additò quegli uomini come gli assassini di suo padre, il Duca, non meritori di alcuna pietà. O questa - almeno - è la ricostruzione postuma degli eventi, da una fonte filo-piemontese.
 
Dei tre condannati, solo il Barilla vede la pena commutata in 20 anni di lavori forzati. Gli altri sono fucilati su un bastione della Cittadella. L'ultimo a morire è Mattei. Ha una gamba in cancrena, a causa delle ferite riportate negli scontri, e arriva al patibolo in barella. Viene issato così come si trova, e il plotone fa il suo lavoro.
 

Nessuno più di Luisa Maria desiderava chiudere col passato e ripristinare la tranquillità, ma tutto il sangue di quel periodo le ricadde addosso come una maledizione.


"Il Ducato di Parma, essendo la base d'operazione dell'armata nemica, non è possibile impedire che, anche da parte nostra, non accadano ostilità".
 
Cavour liquidò così - col suo stile diretto, sporcato dall'italiano approssimativo - le proteste di Luisa Maria per l'invasione del Ducato di Parma, nonostante la sua posizione di neutralità nella guerra tra i franco-piemontesi e gli austriaci.

Ci fu un po' di andirivieni: la Duchessa si rifugiò a Mantova, ma fu riportata nei suoi territori dai soldati pochi giorni dopo, il 4 maggio, accolta dai sudditi in festa ("Hanno voluto trascinare la mia carrozza sin presso i Cappuccini e si ostinavano a condurmi fino al palazzo"); lasciò di nuovo il Ducato il 9 giugno, stavolta definitivamente, dopo la Battaglia di Magenta, non prima di aver emanato un proclama col quale dichiarava di "riserbare pieni ed illesi" i suoi diritti, e ricordare alla popolazione che "dappertutto e sempre mi rimarrà grata nel cuore la memoria di Voi".
 
Tra l'11 e il 12 marzo 1860 si tenne il plebiscito per l'annessione del Ducato al Regno di Sardegna, che diede un esito favorevole con una maggioranza pressoché totalitaria.
 
La scomparsa del Ducato causò da lì a poco un declino demografico, da cui seguì una crisi sociale ed economica.
 
"Il pubblico ricorre col pensiero a quei tempi in cui abbondavano gli uffici e la Corte spendeva, tempi che si ricordano da molti non senza qualche compiacenza, poiché del passato si sogliono ripetere le cose liete piuttosto che le tristi e dolorose" - scriveva nel 1865 l'avvocato Carlo Verga, prefetto di Parma, al Ministero dell'Interno - "La città di Parma, come altre volte si è osservato, è forse quella fra tutte le italiane, che nel nuovo ordine di cose, per esser spoglia di propri spedienti e di forze locali, ebbe più a soffrire ne' materiali interessi. Il visibile e continuo deperimento rattrista e commuove questa popolazione".

 

 
Nel luglio del 1848 la Battaglia di Custoza pone fine alle velleità piemontesi di espansione territoriale: l'Austria rientra in possesso di Milano, si ricostituisce il Regno del Lombardo-Veneto, e i Duchi di Parma e Modena sono restaurati sui loro troni. "Gli Stati di Modena, di Parma e la città di Piacenza" - recita l'articolo 3 dell'armistizio di Salasco - "verranno sgombrate dalle Truppe si S.M. il Re di Sardegna tre giorni dopo la Notificazione della presente".
 
A distanza di un anno - il 3 luglio 1849 - l'Austria stipula una Convenzione postale con i Ducati di Modena e Parma, "[p]ersuasi che  a facilitare ed a mantener vive le relazioni commerciali fra i Loro Stati, possa giovare la soppressione di quei impedimenti che nascono dalle tasse vigenti per le corrispondenze, e dal diverso metodo che regola gli Uffici postali dei tre Governi".

La Posta era all'epoca uno snodo cruciale per il funzionamento di uno Stato, e si caricava di significati istituzionali ben oltre il servizio di consegna della corrispondenza, sino a testimoniare e sugellare legami politici e sociali tra i territori che collegava.
 
Già l'articolo 1 della Convenzione - nell'affermare che la "uniformità di sistema nel servizio del Posta-lettere" fra Austria, Modena e Parma - presumeva l'impegno dei Ducati ad "adottare e fare loro prorpj i relativi regolamenti e tariffe esistenti nel Regno del Lombardo-Veneto", e lasciava trasparire la connotazione culturale dell'iniziativa, il suo essere un mezzo di affratellamento tra genti vicine e lontane; e al tempo stesso si voleva ribadire la stretta dipendenza dei Ducati italiani dal centro di potere austriaco, quando all'articolo 6 si stabiliva che "[a]ltre Convenzioni con Stati Italiani non potranno farsene senza accordo comune".
 
L'attuazione veniva peraltro subordinata a "una ulteriore officiale pubblicazione" - come si legge in calce al testo - "[n]on avendo potuto entro il termine stabilito predisporsi fra le Direzioni Postali dei tre Stati quanto è necessario all'eseguimento".
 
Dal luglio del 1849 corre un periodo d'incertezze - forse inevitabile, considerata l'avanguardia dell'iniziativa - e si assiste a un continuo scambio di note tra i Governi austriaco e modenese, col primo che pressa per la messa in opera degli accordi, e il secondo a chiedere continui chiarimenti sulle modi e tempi di entrata in vigore.
 
L'Impero trovò un interlocutore più risoluto nel Granducato di Toscana, con cui stipulò la "Convenzione fondamentale per la Lega Postale Austro-Italica" il 5 novembre 1850 - e messa in atto nell'aprile del 1851 - a cui poi aderirono anche Parma e Modena (rispettivamente il 27 settembre e il 29 ottobre del 1851) e infine lo Stato Pontificio (il 30 marzo 1852).
 
Nelle premesse ritornavano argomenti di più ampio respiro, rispetto al mero tecnicismo postale: l'iniziativa era animata "dal desiderio non solo di moltiplicare i rapporti intellettuali e commerciali fra i loro Stati colla diminuzione delle tasse postali, e col renderne più semplici ed uniformi le tariffe, ma volendo anche offrire agli altri Governi italiani l'occasione di procurare ai loro sudditi i grandi vantaggi derivanti dalle sopraddette facilitazioni".


La Convenzione si basava sull'uso di uno strumento nuovo - il francobollo - che ribaltava la logica di pagamento del servizio postale: non più alla consegna della corrispondenza, a carico del destinatario (o del mittente sino al confine, secondo le tariffe dello Stato di partenza, e poi del destinatario per la parte restante del tragitto, secondo le tariffe dello Stato di arrivo) ma al momento stesso della spedizione, quindi a carico del mittente, e senza riguardo ai confini geografici, con abolizione dei diritti di transito, anche per incentivare le spedizioni e accrescerne il volume.
 
Il francobollo si configurava perciò come una "moneta franca", internazionalmente accettata, per ridurre i costi del servizio postale e semplificarne le tariffe; col beneficio della retrospettiva lo si può annoverare tra le più importanti semplificazioni burocratiche della storia, un esempio di innovazione sociale consapevole, precursore della comunicazione globale, fondamentale per far compiere un salto di efficienza ai rapporti postali e non solo.
 
"Il pagamento del porto" - si legge all'articolo 12 della Convenzione tra Austria e Modena - "si effettuerà mediante applicazione di Bolli giustificativi l'affrancazione, volgarmente detti Franco- bolli", e "chi vorrà spedire lettere, stampo, e campioni, col mezzo delle poste" - si precisava all'articolo 13 - "attaccherà al margine superiore dell'indirizzo, in modo sicuro, bagnando la materia tenace che si trova stesa sulla parte rovescia del Franco-bollo, uno e tanti Franco-bolli, quanti occorrono per ragguagliare col loro valore la tassa di affrancazione secondo la distanza ed il peso".
 
Ma questi oggetti "volgarmente detti Franco-bolli" serviva produrli, e sulla loro realizzazione pesavano questioni delicate, sia tecniche che istituzionali.
 
Nel maggio 1850 il Direttore delle Poste Estensi segnalava al Ministro degli Esteri la necessità di Vienna di sapere "se debba 1'Amministrazione Austriaca provvedere verso bonifico della relativa spesa, la confezione di quei bolli che devono applicarsi alle lettere" e "se questa Direzione Generale sia disposta a conservare le impronte dell'I.R. Aquila sui bolli destinati per l'uso di codesti Stati oppure se bramansi muniti dello Stemma ducale".
 
Le autorità modenesi tennero il punto sulla rappresentazione dello stemma ducale - l'aquila estense - in omaggio a una tradizione secolare:
 
"... colla sola differenza dello stemma che per noi sarebbe l'Aquila Estense, e colla indicazione dell’approssimativo corrispondente valore a centesimi italiani" (Ministro degli Esteri al Duca Francesco V, 18 maggio 1850);
 
"... trasmettere alla più volte ricordata Direzione Superiore in Verona il disegno dello Stemma da noi adottato" (Ministro degli Esteri al Direttore Generale delle Poste, 18 maggio 1850);
 
"... manca solo il disegno dello stemma estense che dalla pregiata nota 18 maggio 1850 sembrami rilevare che 1'Е. V. avrà la compiacenza di trasmettermi" (il Direttore Generale delle Poste al Ministro degli Affari Esteri, 30 maggio 1850);
 
"... il numero di bollini occorrente al consumo dei nostri uffizi Postali, conformandoli a quelli della Monarchia Austriaca, però collo stemma Ducale [...] anche i bollini da Lettere per Modena, nei quali dovrà essere impresso a vece dello stemma Imperiale, lo stemma Ducale di cui unisco un disegno" (il Ministro degli Affari Esteri al Ministro residente di S. M. I. R. Ap., 17 luglio 1850);
 
"Finalmente, quando non si opponesse direttamente ai fini a me ignoti del suo Governo l'ammettere che sui francobolli Estensi figurassero le Armi Ducali, anziché una testa ideale, io troverei opportuno di insistere nella prima idea, già comunicatale con mia lettera del 30 agosto 1850" (Ministro degli Affari Esteri al conte Allegri, Ministro d’Austria presso la Corte Estense).
 
E alla fine - superando anche i timori austriaci per le vignette facilmente falsificabili - i francobolli modenesi accolsero lo storico simbolo della famiglia Este: un'aquila ad ali raccolte, sormontata da una corona racchiusa tra due tralci d'alloro, legati in basso da un nastro, e inquadrata in un rettangolo con degli ornati ai due lati verticali, la scritta "Poste Estensi" in maiuscoletto sul lato superiore, e l'indicazione del valore sul lato inferiore tra due ornati angolari.
 
Modena non aveva però una propria moneta. Dopo il 1796 - dall'arrivo di Napoleone - non se ne erano più coniate. "Circolano per i mercati e per le botteghe monete d'ogni specie dei limitrofi paesi, e specialmente la lira austriaca, la lira di Parma, i bajocchi e qualche paolo romano" - riporta "L'Almanacco Etrusco", nell'edizione del 1857 - "I contratti si fanno sempre a lire italiane", ma a volte "il prezzo si fissa a lire italiane e si effettua in lire austriache".
 
La valuta dei francobolli si adattò alla cosiddetta "lira italiana" - chiamata anche "lira metrica" o "francese" -, divisa in 100 centesimi; i valori postali ebbero un facciale di 5, 10, 15, 25, 40 centesimi e 1 lira, assecondando la "savia osservazione" del Governo austriaco di andare oltre, per non invogliare le falsificazioni.
 
D'interesse è la descrizione del "modo col quale furono qua formati i francobolli", reperibile nel carteggio tra il Direttore delle Poste Estensi e il Direttore delle Poste Toscane (ché la procedura esecutiva dei francobolli modenesi doveva prendere a riferimento ciò che si era già realizzato del Granducato).
 
"1. Fissato l'emblema che si vuole rappresentare sul francobollo, bisogna farne eseguire un disegno accurato della grandezza esatta del francobollo.

2. Su questo disegno un abile incisore in acciaio fa un conio, del quale, poiché è stato temprato, si rileva (per mezzo del bilanciere col quale si coniano le monete) una matrice in rame, uguale a quelle che servono per la fabbricazione dei caratteri da stampa.

3. Fatta questa matrice, un esperto fonditore di caratteri ne rileva quel numero di clichés che occorrono; poi mette a questi clichés lo zoccolo per mezzo d'un’apposita macchinetta, uguale, fuorché nelle dimensioni, a quello di cui si servono per la formazione dei caratteri o tipi.

4. Postovi lo zoccolo, questi clichés sono divenuti altrettanti tipi coi quali si può comporre col metodo ordinario una pagina, nella quale entrino 200, 250 o 300 francobolli; e posta in torchio e distesovi l’inchiostro di quel colore che si vuole, se ne tira il numero di fogli che si desidera.

5. La carta devo essere filogranata distintamente, per meglio tutelarli dalle contraffazioni.

6. Siccome poi i francobolli devono essere di diversi prezzi, cosi per non essere obbligati a fare tanti conii, matrici ecc. quanti sono i prezzi stessi, ovvero ricorrere ad altri mezzi lunghi, incerti e costosi, si può ordinare all’incisore di fare il conio di cui si parla al n.° 2, mancante di quella parte del medesimo, nella quale si vuol far cadere l’indicazione del prezzo; e si ordinano poi tanti punzoni di acciaio temprato quanti sono i prezzi, dai quali punzoni si rilevano le matrici e da questo i tipi come si è accennato di sopra pel conio grande al n.° 3. Se nonché per questi non si fanno prima i clichés, ma si gettano in un sol fiato, come le lettere da stampa ordinarie.

7. Questi tipi, indicanti i prezzi, saranno di una tal dimensione che possano entrare esattamente nel vuoto lasciato nel conio, com’è si è detto di sopra, e che quindi è stato ripetuto nei tipi per mezzo del medesimo formato. Un tipografo comune li adatta per la composizione della pagina, come abbiamo detto di sopra al n.° 4.

8. Nel foglietto qui unito di n.° 1 vedesi una prova del francobollo toscano senza prezzo, in quello di n.° 2 una prova del medesimo col prezzo.

9. Fatta la tiratura dei fogli, contenenti ciascuno il medesimo numero di francobolli, un cartolaro vi distende a tergo con un pennello gomma comune sciolta; ed asciutti e pressati che siano, si adoprano senz'altro
".

Il primo passo - "eseguire un disegno accurato della grandezza esatta del francobollo" - fu affidato all'incisore Tomaso Rinaldi, "dietro sua dichiarazione di riconoscersi capace di eseguire con precisione le matrici dei francobolli Estensi che dovranno portare l'aquila Estense", come si legge in un'annotazione del Ministro delle Finanze.
 
"Tomaso Rinaldi nacque a Villa Santa Caterina, presso Modena, il 21 dicembre 1814.
Figlio di poveri agricoltori, non poté essere avviato agli studii, ed ebbe mediocre coltura;
ma per virtù d' ingegno e per forza di volontà, acquistò ben presto molta abilità nell'arte dell'orefice,
segnalandosi come cesellatore, più assai che come incisore a bulino,
e fu tenuto in pregio dalla Corte Estense,
per incarico della quale eseguì parecchi lavori importanti.
Vinse il concorso,
indetto nel 1847 dalla Società d'Incoraggiamento per le Belle Arti in Modena, 
per una medaglia da distribuire agli artisti che si distinguevano nelle Esposizioni promosse da essa.
Altri pregevoli lavori del Rinaldi sono: un vaso d'argento cesellato, con figure, 
che fu premiato alla Esposizione di Firenze del 1861,
e una statuetta rappresentante Benvenuto Cellini,
sbalzata a cesello, con emblemi, fregi e genietti nella base;
eseguì pure un ricco ostensorio, parecchie placchette ecc.
Il Rinaldi morì a Modena, l'8 ottobre 1877"
(Emilio Diena) 
  
La stampa avvenne presso la Regia Tipografia Camerale Estense, in fogli da 240 esemplari - suddivisi in 4 gruppi da 60, separati da un filetto verticale e un doppio filetto verticale - con inchiostro nero per tutti gli esemplari, su carta a macchina variamente colorata e senza filigrana, a eccezione dell'esemplare da 1 lira, su carta a mano bianca e filigranata con la lettera "A" - l'iniziale dei fabbricanti della carta, Pietro e Agostino Amici - "per meglio tutelare dalle contraffazioni" l'alto valore.
 
Gli esemplari da 5, 10 e 40 centesimi conobbero due composizioni, una "senza punto" dopo le cifre e l'altra "col punto"; il valore da 1 lira fu realizzato sempre "col punto".
 
L'artigianato di produzione determinò una varietà di sfumature di colore, associabili alle composizioni e al periodo d'utilizzo: il 40 centesimi celeste è limitato alle tirature iniziali, ed è sempre "senza punto"; il 5 centesimi verde oliva è sempre "con punto". 
 
Un foglio completo da 240 esemplari - in 4 gruppi da 60 - del 5 centesimi verde oliva.
Ex Collezione "Ghirlandina".
 
 
 
 
Sin dagli albori della filatelia si è data rilevanza agli errori tipograifici dei francobolli di Modena:
il leggere "CNET" invece di "CENT", oppure "CENE" sempre in luogo di "CENT",
 oppure vedere una "N" coricata invece che dritta o "49" anziché "40"
ha destato la curiosità di numerosi filatelisti di tutto il mondo.
Lettere coricate, lettere o punti posposti, lettere invece di cifre,
e cifre invece di lettere, e poi mancanze di lettere o punti,  caratteri capovolti
e ancora mancanza del listello sotto la composizione o doppio listello o listello spostato da un lato,
con conseguente abbassamento di lettere cui è venuto a mancare il sostegno,
 formano un insieme e di errori e varietà che  rappresentano "i veri gioielli filatelici",
nell'opinione di Enzo Diena, segnalata da Sergio Santachiara nella prefazione alla "Ghirlandina".
 
Parma seguì da vicino le vicende di Modena. Se ne ha testimonianza nella comunicazione del Ministro degli Affari Esteri al Ministro austriaco residente nel Ducato modenese: "si è qui riflettuto che siccome la moneta legale modenese è egualmente che nello Stato di Parma la lira italiana, così era indispensabile che i due Ducali Governi si intendessero previamente assieme per combinare la più opportuna approssimativa riduzione in tale moneta delle tasse austriache prescritte dalle disposizioni 26 marzo 1850 sulla affrancazione obbligatoria mediante bollini".
 
La vignetta fu scelta tra le proposte di Paolo Toschi, direttore dell'Accademia delle Belle Arti parmense. 

Paolo Toschi fu tra i protagonisti della vita artistica e culturale del Ducato di Parma, nel XIX secolo.
 Studiò presso l'Accademia di belle arti di Parma, con risultati eccellenti.
Nel 1807 - con alcuni amici - fondò la Società parmense degli incisori all'acquerello,
ma già nel 1809 l'iniziativa ebbe termine, quando Toschi si trasferì a Parigi
sulla spinta di "alcune disgrazie di famiglia" (probabilmente la morte del padre)
ma anche per il desiderio di specializzarsi nell'arte dell'incisione.
La sua fama acquisì presto una dimensione europea,
 testimoniata dalle nomine nelle principali accademie di belle arti europee:
Venezia, Bologna (1826), Milano, Torino, Berlino (1827), 
Copenaghen, Firenze, Napoli (1831), Parigi (1832), Roma e San Pietroburgo (1833).
Negli anni parigini maturò il progetto di realizzare una scuola d’incisione nella sua città natale,
e in vista del rientro a Parma si ritrovò protagonista di un rocambolesco recupero
di alcune opere d'arte trafugate dal Ducato nel periodo napoleonico:
 "mi portai al Museo [il Louvre] con sette o otto facchini e tre barelle
con diversi panni da letto e della corda.
Là profittando della confusione e dello sbigottimento nel quale erano tutti gli impiegati del Museo
feci staccare i sette, otto o dieci principali nostri quadri" per poi farli spedire a Parma,
millantando un improbabile sostegno militare prussiano.
Rientrato a Parma, nel 1819, fonda la scuola superiore d'incisione,
e "ben presto la nostra Scuola fu frequentata da nazionali e da esteri".
Vi trova spazio una prassi didattica tesa a valorizzare l'individualità degli allievi:
"io credo commetterebbe un grande errore chi senza por mente
a quella diversità d'indole e di disposizioni
volesse far camminare tutti gli allievi ad un passo uniforme come coscritti militari".
Prende avvio - con gli allievi - una mastodontica opera di riproduzione delle opere del Correggio,
che lo porta a indebitarsi sempre più, per la mole di materiale acquistato.
 La Duchessa Maria Luigia salda ogni pendenza, 
con la condizione che il Governo di Parma trattenga le lastre di rame incise.
 La sua adesione di lungo corso agli ideali liberali e risorgimentali
gli costò il posto di Direttore dell'Accademia delle Belle Arti
"per cattiva condotta politica", con le parole del Duca Carlo III, nel 1849.
A sua difesa si mosse dall'Inghilterra il Principe Alberto, grande amico del Duca di Parma,
e nel 1850 Toschi fu reintegrato nel ruolo.
Morì improvvisamente nel suo studio il 30 luglio 1854,
"in conseguenza d'un accesso d'apoplessia che lo coglieva in mezzo a' dolori
che una gravissima malattia di vescica cominciava a recargli",
nella narrazione di una lettera del genero.
 
.
 
 
I disegni di Paolo Toschi, a lapis, per la realizzazione dei francobolli di Parma.
Ex Collezione "Chrysopolis". 
 
La scelta si orientò sul giglio borbonico, racchiuso in un cerchio e sormontato dalla corona e contornato in un doppio rettangolo, con due greche ai lati verticali, la dicitura "STATI PARM"(ENSI) in alto e l'indicazione del valore in basso.

Donnino Bentelli incise il conio. Era il direttore della Zecca di Parma dal 1841, raccomandato per quel ruolo da Pietro Giordani, Ministro di Maria Luigia, che lo presentava come un "meccanico mirabile, calligrafo elegantissimo", "modestissimo anzi umile", "facile all'imparare qualunque cosa".

Dalla matrice ricavata dal conio originale, senza indicazione del valore, si produssero i cliché in ottone da usare per la stampa tipografica; i valori nella parte inferiore erano punzonati a mano, con inevitabili piccole differenze.

La serie contemplava i facciali da 5, 10, 15, 25 e 40 centesimi, stampati dalla tipografia Rossi-Ubaldi in fogli da 80 esemplari - divisi in 4 blocchi da 20 - senza filigrana.

Le tirature iniziali - del 1852 - erano con inchiostro nero su carta diversamente colorata a seconda del valore; nel 1854 si sperimentò una nuova stampa - con inchiostri colorati su carta bianca - per i valori da 5, 15 e 25 centesimi (il 10 centesimi non è distinguibile, avendo la carta bianca già nelle prima tiratura) con un esito che spesso mortificava l'eleganza dell'incisione.
 
Un foglio completo da 80 esemplari - in 4 blocchi da 20 - del 5 centesimi giallo.
Ex Collezione "Chrysopolis".
 
 
 
 
La più classica varietà di stampa - registrata sul 15 centesimi - è il tête-bêche:
una delle impronte fu posta capovolta e così risultò che nella stampa un francobollo di margine
- e precisamente il 9° esemplare del blocco inferiore sinistro -
venne stampato al rovescio, dando luogo a paia con gli esemplari capovolti fra di loro. 
La varietà è estremamente rara, sia perché la composizione fu sollecitamente corretta,
sia perché lo scarso uso di paia del 15 centesimi implicò un ritaglio degli esemplari adiacenti,
e di conseguenza il venir meno della percezione fisica della varietà.
Lo specialista riesce talvolta a individuare l'esemplare capovolto senza che sia in paio con altro,
e riesce persino a stabilire se lo stesso francobollo proviene dalla composizione corretta.
 Si conosce un foglio quasi completo del 15 centesimi con la varietà tête-bêche.
e tre paia in tutto - fra  orizzontali (due) e verticali (uno) - su lettera.
 
 
 
La cosiddetta "greca larga" è il più classico difetto di cliché dei francobolli di Parma: 
 è un ispessimento appariscente di una o entrambe le greche della vignetta
- ben oltre la fisiologica differenza implicita nella produzione artigianale -
senza che le parti del disegno centrale - alla stessa altezza delle greche, risultino deformate.
La varietà si riscontra su tutti i valori (del 1852, del 1855) a eccezione del 5 centesimi (del 1855).
a stretta a 
L'1 giugno 1852 entravano in circolo i francobolli di Modena e Parma, e la Convenzione postale diventava operativa anche nei Ducati.
 
In un'Europa ottocentesca ad alta frammentazione geografica, politica, sociale - con tante monete e misure quanti erano i confini - la Lega Austro-Italica creava un territorio (postale) compatto, con condizioni uniformi e semplificate, tariffe basse e tempi veloci: una flat-rate (postale) per agevolare le corrispondenze e concorrere allo sviluppo economico e sociale.
  
  
La Convenzione - che conobbe declinazioni speciali con i singoli Stati - ruotava introno agli articoli 4 (che commisurava il costo del servizio postale alla distanza tra località e al peso delle lettere), 5 (con cui si stabiliva l'esecuzione dei conteggi nella valuta dell'ufficio di spedizione), 11 (per introdurre lo standard dell'uso del francobollo) e 12 (sulla disciplina delle lettere insufficientemente affrancate o non affrancata affatto).
 
Realizzò risparmi mediamente superiori al 50%, rispetto al sistema precedente.
 
Una lettera da Modena (Ducato di Modena) a Pesaro (Stato Pontificio)
pagava in precedenza 20 centesimi sino al confine e ulteriori 18 bajocchi,
per un costo complessivo - in valuta pontifica - di 22 bajocchi.
Una lettera nella stessa classe di distanza secondo la Convenzione
- la III, da Carrara (Ducato di Modena) a Roma (Stato Pontificio) -
pagava ora solo 40 centesimi, con un risparmio di oltre il 60%. 



La Convenzione realizzava risparmi apprezzabili anche in caso di affrancature insufficienti.
Questa lettera da Parma (Ducato di Parma) a Bologna (Stato Pontificio) rientrava nella II distanza,
e avrebbe perciò dovuto pagare 25 centesimi, laddove è affrancata soltanto per 15.
 Mancavano dunque 10 centesimi, come da indicazione in alto a sinistra,
a cui si doveva sommare una sovrattassa fissa di 15 centesimi in valuta locale (segnalati sotto il 10)
per un costo aggiuntivo di 25 centesimi addebitato dal Ducato di Parma allo Stato Pontificio,
e poi tradotto in 3 bajocchi dallo Stato Pontificio per recuperalo dal destinatario. 
Il costo finale veniva quindi diviso in 15 centesimi per il mittente e 3 bajocchi per il destinatario,
laddove nel precedente sistema il mittente avrebbe pagato 30 centesimi e il destinatario 9 bajoicchi.
 
I francobolli ducali nascevano in un contesto istituzionale di ampio respiro - la spedizione della corrispondenza tra gli Stati della Lega - ma finirono con l'avere anche una dimensione locale.
 
Dall'1 giugno al 3 settembre 1852, a Modena, rimasero in vigore le tariffe del Regolamento postale del 1847, e in questo interludio vi sono ancora poche lettere affrancate;  dopo la pubblicazione  del nuovo "Regolamento sulla Posta lettere" - in cui si spiegavano i modi d'uso dei francobolli - le tariffe si rimodularono sugli accordi postali austro-italici e l'affrancatura diventò obbligatoria.
 
Il cosiddetto "primo porto" (lettere di peso inferiore a 8,75 grammi) dirette entro la "prima distanza" (10 leghe germaniche, circa 75 chilometri) pagava 5 centesimi; il "secondo porto" (peso tra 8,75 e 17,5 grammi) ne richiedeva 10, così come un "primo porto" per la "seconda distanza" (oltre le 10 leghe) e un "primo porto" con dentro de denaro (indipendentemente dalla distanza); 25 centesimi era il costo fisso aggiuntivo per le raccomandate e le ricevute di ritorno; i cosiddetti "campioni senza valore" richiedevano 15 centesimi ogni 35 grammi.
 
Nel dicembre del 1854 Modena ratificava una Convenzione postale col Regno di Sardegna, entrata poi in vigore l'1 marzo 1855. La Convenzione rendeva possibile - tra l'altro - spedizioni transoceaniche tramite la mediazione sarda, e proprio il più piccolo dei Ducati ci ha lasciato la testimonianza più corposa e significativa di queste esotiche corrispondenze a lunga percorrenza, con l'archivio Vito Viti.
 
A destra: la locandina americana dell'opera "Il Trovatore", di Giuseppe Verdi,
rappresetata per la prima volta a Roma, nel 1853, e negli Stati Uniti nel 1855.
A sinistra: una lettera da Carrara a Philadelphia, dell'archivio Vito Viti, del primo periodo tariffario.
All'inizio (marzo 1855) la tariffa standard per la corrispondenza diretta negli Stati Uniti 
- sino al porto di sbarco, a mezzo dei piroscafi inglesi - era fissata in 1,90 lire,
e sulle lettere compariva il bollo "P.P." (Porto Parziale).
Successivamente (aprile 1857) il Regno di Sardegna ridusse il costo a 1,50 lire, 
a cui si dovevano aggiungere 10 centesimi di tassazione modenese, per una tariffa finale di 1,60 lire.
Da lì a breve (maggio 1857) la tariffa si riduceva ancora, a 1,40 lire,
intendendosi ora pagata fino a destinazione,
e il timbro "P.D." (Porto a Destino) sostituisce il timbro "P.P.".
 
Il Ducato di Parma seguiva gli stessi standard (di porti e distanze) ma declinati in modo appena diverso: per la "prima distanza" servivano 15 centesimi, per la "seconda" ne occorrevano 25, con un porto tarato sui 17,5 grammi; la tariffa di 5 centesimi regolava la spedizione delle stampe; la tariffa da 10 centesimi si applicava alle spedizioni entro il circondario.
 
 
Il Ducato di Parma era diviso in cinque province,
che corrispondevano ad altrettanti Distretti postali, ognuno con i suoi uffici:
Parma (con Colorno, aperto l'1 gennaio 1857);
Piacenza (con Castel San Giovanni e Monticelli d'Ongina, aperto l'1 gennaio 1857);
Borgo San Donnino (con Fiorenzuola);
Pontremoli (con Villafranca, chiuso il 31 dicembre 1852, e Bagnone, aperto l'1 gennaio 1853);
Borgotaro (con Berceto, aperto l'1 agosto 1857).
Gli uffici avevano in dotazione due annullatori muti (griglietta e losanga)
e diversi timbri con data (lineari, cerchio piccolo, doppio cerchio ovale),
oltre a timbri accessori (assicurato, per consegna, P.D., francobollo insufficiente, dopo la partenza).

"Giustamente la grande guerra viene chiamata 'guerra mondiale', e non già perché l'ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo".
 
La riflessione malinconica di Joseph Roth sulla Finis Austriae, a conclusione della Prima Guerra Mondiale, può forse trovare delle cause remote in eventi delle apparenze più circoscritte: due Ducati plurisecolari che si dissolvono perché coinvolti giocoforza in una guerra tra Francia, Piemonte e Austria, e due serie di francobolli dal "raffinato arcaicizzante" - come li avrebbe definiti lo storico dell'arte Federico Zeri - che vanno fuori corso il 31 luglio (a Parma) e il 15 ottobre (a Modena) del 1859.
 
Tramonta un mondo fatto di uffici postali e stazioni per il cambio dei cavalli, di incisori protagonisti della scena artistica (Bentelli a Modena, Toschi a Parma), di Duchesse in fuga (Maria Luisa) e soldati fedeli (la Brigata Estense).


Nuovi monarchi (piemontesi) sono alle porte, e con loro arrivano nuove tariffe e nuovi francobolli (con l'effige di Re Vittorio Emanuele, a Parma; con lo scudo crociato sabaudo, a Modena).

Perché una nuova nazione si costruisce anche così, attraverso lettere e valori postali, che continuano a portare con sé tante vicende, a tramandare storie di Stati e Imperi, di antichi Ducati che svaniscono, di nuovi Regni che sorgono.

 

        Riferimenti bibliografici        

EMILIO DIENA

I francobolli del Ducato di Modena
(Edizioni Vaccari - "Ritrovati")

 

ALBERTO DIENA

Gli Antichi Stati Italiani e le loro prime emissioni - Ducato di Modena
("Il Collezionista - Italia Filatelica", n. 2, febbraio 1951)

Gli Antichi Stati Italiani e le loro prime emissioni - Ducato di Parma
("Il Collezionista - Italia Filatelica", n. 5, maggio 1951)

 

PAOLO VACCARI

Modena - Francobolli e annullamenti, 1852-1863
(Banco San Geminiano e S. Prospero)

 

EMILIO DIENA, PAOLO VACCARI

Ducato di Parma - Raccolta di studi
(Edizioni Vaccari - "Ritrovati")

 

MAURO ORLANDI

(Collezione presentata a Saluzzo, "Italia 98")

 

LILLIANO LAMBERTI

(Collezione presentata a PHIL-Italia 4.0, maggio-giugno 2023)

 

GABRIELE SERRA

Indagine conoscitiva sulle affrancature che regolarono la componente modenese del carteggio Vito Viti
("Vaccari Magazine", n. 6, 1991, pp. 52-55)

 

LORENZO CARRA

L'influenza Austriaca e la realizzazione dei francobolli Estesi
(in "Modena 1852-2002: 150° Anniversario dei Francobolli Estensi" - Edizioni Vaccari)

 

THOMAS MATHÀ

La prima "Flat-Rate" postale in Italia: Lega Postale Austro-Italica
(Istituto di Studi Storici Postali di Prato, "Colloqui 2019")

 

INDRO MONTANELLI

L'Italia unita - Da Napoleone alla svolta del Novecento
(Edizioni BUR)

 

LIDIA RIGHI GUERZONI

Francesco V duca di Modena
(in "Modena 1852-2002: 150° Anniversario dei Francobolli Estensi" - Edizioni Vaccari)

 

BLOG "TESORI DI CARTA"

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