COLLEZIONE "AL DI QUA DEL FARO" - Re Vittorio è alla stazione!

"Il nostro Paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli dell'Europa
perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira.
Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati,
non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi"
(Re Vittorio Emanuele II, dal "Discorso della Corona" al Parlamento Subalpino, 10 gennaio 1859)
 
Vittorio Emanuele II di Savoia è il primo Re d'Italia.
 
E' una figura di stazza inferiore rispetto a CavourGaribaldi, ed è anche il personaggio per cui è più vistoso lo scarto tra la leggenda costruita dalla propaganda e l'uomo rivelato dalle sue carte private e dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto.
 
Vittorio Emanuele è per tutti il Re galantuomo, un appellativo forgiato già quand'era vita, anche se chi gli stava accanto ogni giorno ne aveva tutt'altra opinione.

Nel 1867 il Ministro degli Esteri inglese è a Firenze - capitale del Regno d'Italia - e registra i pareri dei Ministri italiani sul loro Re. "Mi dissero che era ipocrita e ignorante, un intrigante che nessun onest'uomo poteva servire senza danno per la sua reputazione. Tutti sono d'accordo nel giudicare il Re un imbecille. E' un disonesto che mente con tutti".

Che fosse ignorante è probabile, i giudizi dei suoi insegnanti lo confermano. "E' sempre addormentato, lavora poco o nulla. Lavora con somma noia e indolenza". Vittorio seguiva un programma severo, con una scaletta militaresca, sosteneva pure gli esami e ovviamente veniva promosso, ma poi i suoi maestri apponevano delle note impietose a margine dei verbali. "Può dirsi che il principe, agli esami, non ha risposto nulla di nulla".

Non solo la sua scarsa cultura, ma anche l'aspetto fisico e gli atteggiamenti in società erano motivi d'imbarazzo.

"Ha in sè qualcosa di selvaggio, di pittoresco, che non manca di grandezza, e fa pensare a un Re unno, a un capo barbarico", annotava lo scultore Carlo Marocchetti.

Per il diarista inglese Charles Greville, Re Vittorio "sembra un capo di eruli o di longobardi, il tipo più depravato e dissoluto del mondo", non proprio il miglior biglietto da visita per il più alto esponente di una Casa Reale. Altro giudizio sferzante lo si registra nel corso della sua visita a Londra: "il Re è di modi molto bruschi, e dice qualsiasi cosa gli passi per la testa, la sua conversazione è certo molto originale e spesso buffa per quanto rozza e militaresca al massimo grado".

I commenti alla Corte di Napoleone III, in Francia, sono dello stesso tenore. "Il suo comportamento è molto rozzo e si racconta che dica cose irripetibili". Re Vittorio - per dire - confida all'Imperatrice Eugenia di adorare Parigi perché... le parigine non portano le mutande! "E' un cielo azzurro che si è aperto ai miei occhi".

Vittorio è in effetti un uomo di appetiti robusti, con innumerevoli relazioni sentimentali e figli illegittimi sparsi ovunque. Già nei primi anni del suo regno girava la voce che aveva davvero saputo essere il padre del suo popolo, una battuta così ben attagliata al personaggio, che potrebbe averla diffusa lui stesso.

Sicuramente è uno che parla senza pensare, perché tanto lui è il Re e può dir quel che vuole. "Chi è in fondo questo Napoleone III?" - esternò proprio davanti all'ambasciatore francese. "E' l'ultimo dei sovrani d'Europa. Un intruso fra noi. Farebbe bene a ricordarsi chi è lui e chi sono io, che rappresento la più antica dinastia regnante". E quando realizzò di aver esagerato, e tentò di rettificare, incontrò tutta la flemma del diplomatico transalpino: "Vostra Maestà voglia scusarmi di non aver potuto sentire una sola delle parole che ha pronunciato".

Un altro diplomatico francese ne stigmatizzava l'ego. "Sua Maestà Sarda ama vantarsi. E' poco amica della verità, e per di più assai indiscreta. In ogni occasione parla delle sue venti ferite [in guerra] e fa volentieri il racconto favoloso dei pericoli che ha corso, sia in guerra che a caccia. Ognuno sa tuttavia, che pur essendo coraggioso, e persino temerario, il Re di Sardegna è stato raramente ferito. Quanto alle fortune amorose, ne parla con una franchezza e una disinvoltura, che non sono degne del suo soprannome di galantuomo. Il fatto più singolare è sì che spesso confonde i successi avuti con quelli che avrebbe voluti avere".

Un altro diplomatico ancora registrava un contegno tutt'altro che regale. "Mangia una sola volta al giorno, ma abbondantemente, e preferisce i cibi grossolani e popolari. Quando è costretto ad assistere a un banchetto ufficiale a un pranzo di corte non svolge nemmeno il tovagliolo, non tocca cibo, con le mani appoggiate sull'elsa della sciabola, esamina i convitati senza cercare di nascondere l'impazienza e la noia". 

Questo era Vittorio Emanuele, l'uomo chiamato a negoziare con Massimo d'Azeglio e con Cavour, a decidere sull'atteggiamento da tenere con Garibaldi, e che nel suo ruolo pubblico di Re difficilmente sapeva essere diverso dall'uomo che era nella vita privata.

C'è almeno un caso in cui si arriva a un urto frontale tra i due profili. Re Vittorio è rimasto vedovo e se ne auspica un nuovo matrimonio con una principessa inglese, nella logica dell'antico regime, di unioni parentali pilotate da opportunità politiche. Cavour gli tiene una lunga lezione sul modo di comportarsi in quell'ambiente puritano e formalista, e il Re si adegua come meglio può: si accorcia i baffi di dieci centimetri, indossa abiti meno trasandati del solito e mangia senza storie quel che viene servito nei pranzi ufficiali. Ma i modi bruschi non riesce proprio a celarli: finisce con l'offendere involontariamente il Principe consorte Alberto, e quando gli chiedono cosa lo abbia più colpito di Londra, fa il nome di una damigella della Regina Vittoria. Ogni prospettiva tramonta, infine, quando interpellano l'ipotetica futura moglie, la principessa Mary. "Sono convinta che è una brava persona, ma questo non basta a compensare la sua mancanza di principi e di buone maniere. E come potrei mai rispettare e stimare un uomo così totalmente grossolano, uno che non ha neppure la cortesia e la raffinatezza di un gentiluomo per compensare le sue debolezze?".

Di là di questi aspetti - che pure non sono semplice folklore, perché i modi e la buona educazione di un Re hanno una rilevanza politica - rimane un fatto della più grande importanza: Vittorio si ritrovò in una posizione di potere in un momento delicatissimo, e tutto sommato riuscì a non perdere la testa, a non cedere alle tentazioni e a prendere le decisioni giuste.

"Io procurerò di sbarrare la via di Torino,
se non ci riesco e il nemico avanza, ponete al sicuro la mia famiglia e ascoltate bene questo.
Vi sono al Museo delle armi quattro bandiere austriache
prese dalle nostre truppe nella campagna del 1848 e là deposte da mio padre.
Questi sono i trofei della sua gloria.
Abbandonate tutto, al bisogno: valori, gioie, archivi, collezioni,
tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete in salvo quelle bandiere.
Che io le ritrovi intatte e salve come i miei figli.
Ecco tutto quello che vi chiedo; il resto non conta"
(Re Vittorio Emaunuele II a Costantino Nigra)

Vittorio Emanuele diventa Re di Sardegna nel 1849, a 29 anni, dopo il disastro della Prima Guerra di Indipendenza, che obbliga suo padre Carlo Alberto all'abdicazione e all'esilio. Vittorio eredita un esercito umiliato dalle catastrofi di Custoza e Novara, e un Regno sotto schiaffo di un Impero d'Austria trionfante. E tuttavia ha una fermezza che diventerà un punto fisso della propaganda risorgimentale. Si crea l'immagine di un giovane Re capace di tenere in piedi quel poco di rappresentanza parlamentare che esiste nel suo Regno, in grado di respinge le pressioni del Maresciallo Radetzky per abolire lo Statuto e ripristinare una monarchia assoluta.

E sì che a Vittorio sarebbe convenuto assecondare i reazionari, dare un colpo di spugna alle novità e tornare all'antico regime. Confessa all'ambasciatore francese che suo padre Carlo Alberto "ingannava tutti col suo regime deplorevole", che "il fantasma dell'indipendenza italiana è stato fatale al nostro sventurato paese". All'ambasciatore austriaco dice cose ancora più terribili. "I democratici? Canaglie! Schiacciarli come mosche, impiccarli tutti quanti". Perché Vittorio Emanuele aveva questa singolare capacità, che lo rendeva ipocrita nella percezione dei suoi Ministri, ma riusciva a salvarlo in numerose circostanze: dire a ognuno quel che voleva sentirsi dire, per fare poi quel che voleva lui.

Vittorio ha però anche tanto buon senso, non è un fanatico. Gli piace regnare, ma si rende ben conto che fare il tiranno gli provocherebbe più fastidi del governare come Re liberale. E' ostile alla democrazia, ferocemente antisocialista, ma è pure contrario al potere della sciabola dei governi reazionari. Poi ovviamente manda l'esercito a Genova, con tanto di cannoni, quando scoppia la rivoluzione mazziniana - "se riesco ad acciuffarlo, lo impaglio"  dirà di Mazzini - ma le scelte di fondo del regime parlamentare saranno invariabilmente rispettate. 

Rimane un regime parlamentare in "stile 1848", con un suffragio proporzionato alla ricchezza e alle tasse pagate, e il livello di reddito è fissato così in alto che solo il 3% della popolazione del Regno di Sardegna ha diritto al voto. Ma proprio per ciò la legge elettorale rappresenta l'opinione pubblica più illuminata, cosicché la Camera è popolata da personaggi d'inclinazione liberale (provenienti dal Piemonte) se non addirittura di sinistra (dalla Liguria) appena controbilanciati dalle rappresentanze di destra (dalla Savoia). E Vittorio, in fondo, avrebbe tutto da guadagnare da una eventuale estensione del bacino elettorale. "Darò il suffragio universale e andrò io stesso a parlare agli elettori", perché sa che gran parte del popolo è con lui, e un suffragio universale gli garantirebbe una Camera più conservatrice, quindi più malleabile.   

I rapporti con i suoi Primi Ministri - Massimo d'Azeglio prima, Cavour poi - sono oltremodo confidenziali, e tuttavia travagliati. Siamo pur sempre in una piccola capitale di un piccolo Regno, dove c'è grande familiarità e tutti parlano in dialetto. "Mi voglia sempre tanto bene quanto io ce ne voglio a lei", scrive Vittorio a Massimo d'Azeglio. Il Primo Ministro ogni tanto gli dà dei consigli, per poi subire delle repliche piccate. "So cosa mi fo, e a dirle il vero non sono molto amante di consigli, quando ne avrò bisogno glielo chiederò. Con tutto ciò non mi voglia male. Ciau Massimo", scritto proprio così, ciau

Il rapporto col Conte di Cavour è sulla stessa lunghezza d'onda. Nel 1852 Cavour è Primo Ministro e può vantare una discreta maggioranza di liberali conservatori, ma alla Camera c'è anche un consistente nucleo di sinistra - di liberali democratici come si diceva allora - guidati da Urbano Rattazzi. All'ordine del giorno c'è la nomina del Presidente dalla Camera, e Cavour sceglie la via di minor resistenza, poi passata alla storia come "il connubio": si allea con Rattazzi e lo sostiene come Presidente, senza dir nulla al Re. Tutto in regola, anche se poco rispettoso del galateo istituzionale.

Re Vittorio s'infuria, quando viene a sapere che un democratico, già Ministro, è pure diventato Presidente della Camera. E però manda giù il rospo. "Sono poco divertito di vedere delle divergenze di opinione nel Ministero e che un Ministro abbia cercato questa nomina che non sarà da tutti ben capita né all'interno né all'estero" - scrive a Cavour - "Se lei me ne avesse parlato prima e che il fatto che pareva lontano non fosse stato invece così repentito" - scrive proprio così: repentito, invece di repentino - "gli avrei dato le mie ragioni e Ratazzi stesso" - scrive Ratazzi con una sola "t" - "di cui conosco la prudenza le avrebbe capite per primo. Però ora ciò è fatto ed egli deve stare. Ciau Cavour, abbia più confidenza in me un'altra volta".

Durante la Seconda Guerra di Indipendenza, Cavour è angosciato dai pasticci che il Re potrebbe combinare, e lo invita continuamente a non prendere decisioni senza aver prima sentito i propri consiglieri. Vittorio reagisce a brutto muso. "Lei mi dice che devo essere circondato da tanti geni che mi impediscano di fare delle bestialità. Pare che lei mi considera un grande asino nel mio mestiere Se lei mi parla ancora così, vedrà cosa farò. Manderò via dintorno a me tutti quelli ci sono e mi circonderò di meno capaci ancora e farò vedere io se non so fare il mio mestiere senza tanti consiglieri".

Quando Cavour si dimette, dopo l'Armistizio di Villafranca, Vittorio ha la reazione di chi si è finalmente liberato di un peso. "Ho visto il Re" - dirà Minghetti - "da quando Cavour si è dimesso, sembra uno scolaretto in vacanza".

Ma Vittorio non può fare a meno di Cavour, senza Cavour non si governa, e poi c'è un immenso lavoro amministrativo da portare a termine, a seguito dell'annessione della Lombardia, dei Ducati e delle Romagne.

Il Re è contentissimo. "Io e il Maestro" - chiama così Cavour, nei momenti buoni - "siamo pronti a ogni cimento, anche a prendere il sole e la luna coi denti". Cavour però non ricambia. "Come rappresentante del principio monarchico, come simbolo dell'unità, sono pronto a sacrificare al Re la vita, le sostanze, ogni cosa infine" - scrive a un amico - "Come uomo desidero da lui un solo favore: il rimanermene il più lontano possibile".

Non è facile convivere con Re Vittorio. E' un Re che, volendo, avrebbe potuto abolire il Parlamento, e invece ha scelto di assoggettare il Governo al controllo della Camere. Ma è anche un Re che ha imparato solo in parte il mestiere di Re costituzionale. Dovrebbe starsene in disparte, rimanere nell'ombra, e invece è sempre sulla scena, sempre tentato di condurre una sua politica personale. E così c'è un Governo che negozia su più fronti, che imposta progetti di legge, magari pure controversi, e poi c'è un Re spregiudicato che negozia anche lui, in segreto, convinto di poter spuntare qualcosa di più, che si avvale di una diplomazia-ombra e persino di una polizia segreta. E questo è un dramma, perché continuamente può venir fuori uno scandalo, continuamente si può scoprire che il Governo sta conducendo una politica e il Re non la sostiene, come nel caso della proposta di legge per il matrimonio civile, sponsorizzata dalla politica e contrastata dal Sovrano, dopo l'accusa rivoltagli dal Papa di essere "fautore di comunismo e di sovversione sociale". D'altra parte Vittorio ha i suoi dossier, conosce a fondo ciascuno dei suoi Ministri e sente di poterli ricattare a ogni momento. "Li tengo tutti in pugno: avendo conservato un intero archivio di lettere che essi mi hanno scritto in epoche diverse, li faccio star zitti e rigare diritto".

Questa dualità la si ritrova nel mondo degli affetti. Re Vittorio ha due famiglie: è sposato con Maria Adelaide, che gli dà parecchi figli, ma ha pure una relazione fissa con Rosa Vercellana - la Bela Rosin -  sin da quando è principe ereditario. L'ha conosciuta quando lei aveva 14 anni e l'ha portata subito a Corte. Dalla loro relazione nascerà prima una figlia e poi un figlio, e Vittorio avrà sempre questa seconda famiglia accanto a quella ufficiale. La residenza privata al Castello della Mandria prevedrà una stanza per la moglie a un estremo, una stanza per la Rosina all'opposto, e in mezzo la stanza di Vittorio.

La Rosina diventerà il legame stabile del Re, alla morte della Regina. Vittorio vorrebbe sposarla, ma Cavour si oppone, per ragioni di etichetta e d'opportunità politica; e quando Cavour muore, nel 1861, il Re non si fa scrupoli nell'indicare chi ha osteggiato il suo desiderio - "me l'ha impedito un birbante che si diceva mio amico, e se ne pentì poi bene" - per poi passare dalle intenzioni ai fatti. E' un matrimonio che ovviamente esclude la sposa e i figli dagli onori regali, e lo obbliga comunque a giustificarsi. "Non ho mai amato al mondo che la tua santissima madre, e poi questa", scrive Vittorio alla figlia, in Francia; parla di "un terribile destino, un grande amore", e si dice pronto a sposare la Rosina, anche se lei non l'ha mai chiesto, perché lui glielo ha promesso, "quella promessa che come uomo onorato e soldato mi lega fino alla morte. Non volermi male e abbi un poco di carità per il tuo misero paparino. Ho bisogno, ho diritto, di avere un poco di pace".
 
"Io non ho altra ambizione che quella di essere il primo soldato dell'indipendenza italiana"
(Re Vittorio Emanuele II, dal "Proclama ai Popoli del Regno", 20 giugno 1859)
 
Questo strano Re, che si vantava della sua lunga discendenza ma detestava la vita di corte, quest'uomo curioso con un incontrollabile appetito carnale, sprezzante delle forme e pieno di sentimentalismo, questo politico dalla retorica ingenua, e però con un solido buon senso, rivela nel complesso una spontaneità che sicuramente l'allontana da Cavour ma al tempo stesso l'avvicina inaspettatamente a Garibaldi.
 
Re Vittorio e Garibaldi erano nati ai due estremi della scala sociale, stavano su posizioni politiche opposte, e tuttavia tra loro c'era più d'una affinità, e ogni volta che entravano in contatto si creava tra loro una certa sintonia, per quanto grossolana.
 
Quando Garibaldi parte per la Sicilia, la conquista e risale verso Napoli, Re Vittorio è accusato di spalleggiarlo, di assecondare un'azione piratesca. Ma davanti al favore popolare di cui gode Garibaldi, di fronte a un Regno che si squaglia sotto l'avanzata del Generale in camicia rossa, Vittorio dà la più garibaldina delle repliche: "i popoli hanno il diritto di mandare i loro Re a farsi fottere".

L'affinità tra Vittorio e Garibaldi sconfinò in una curiosa leggenda, nella percezione del popolo siciliano. "Erano giovani villani quasi tutti, armati malamente di pali, di forche, di falci e di coltelli e pochi con vecchi fucili" - scrive Raffaele de Cesare - "erano caprari e bovari, giovanetti di campagna, picciuotti, quasi tutti scalzi, e pochi gli elementi civili. Questi villani non chiedevano per battersi che un trunco d'albero o nu petrone per difendersi la faccia e il petto, ed erano entusiasti di Garibaldi, di quel Garibaldi, marito, secondo essi, di una bella signora che si chiamava Talia, la quale era figlia di un Re valoroso e potente, che si chiamava Vittorio Emanuele, amico della Sicilia e nemico dei napoletani".

Non sappiamo se Re Vittorio fosse nemico dei napoletani, ma di sicuro sino ad allora non si era mai spinto più a sud di Firenze. 
 
Il 7 novembre 1860, al suo ingresso a Napoli, trovò una citta trionfante. Lui era invece di umore cupo, come il temporale che veniva giù e che rovinò le cento statue in gesso di donne mitologiche seminude - a simboleggiare altrettante città italiane - stracciò la cartapesta, fece volar via i tendaggi e sciolse la tinta posticcia dei capelli del Re, che gli colò lungo il colletto della camicia.
 
"Lei resta a Napoli" - dirà Re Vittorio al Colonnello Thaon di Revel, direttore del Ministero della Guerra della Luogotenenza di Farini - "ma io per fortuna me ne vado".
 
Lo si rivedrà idealmente il 14 febbraio 1861, su quegli ibridi che sono i francobolli delle Province Napoletane, con la faccia di Vittorio e il facciale di Ferdinando. E poi il primo ottobre del 1862, quando anche a Napoli sarà introdotta la IV emissione di Sardegna, già da tempo in uso in tutti gli altri territori del Regno d'Italia.
 


Lettera del 22 luglio 1863, da Napoli per Spoleto,
affrancata per 15 centesimi di lire italiane,
con tre esemplari del 5 centesimi della IV emissione di Sardegna,
- una coppia più un singolo -
annullati col timbro in doppio cerchio "Napoli/Stazione Ferrovia".

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