COLLEZIONE "AL DI QUA DEL FARO" - Luigi Carlo Farini, il Luogotenente del Re

"Napoli è tutto;
la provincia non ha popoli, ma mandrie:
qualche barone o di titolo o di gleba la mena.
Nella capitale son dodici mila paglietta, 
cioè avvocati, rabule, torcileggi, storpiacodici, 
lingue da tanaglia, coscienze da galeotto.
Costoro son quelli che fanno tutto in piazza,
nel foro, nella borsa, né ridotti, né teatri.
Or con questa materia che cosa vuoi costruire?"
(Luigi Carlo Farini)

Il 26 ottobre 1860 Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II a Teano, nei pressi di Caserta. "Saluto il primo Re d'Italia!", "Saluto il mio migliore amico!” sarebbe stato lo scambio di saluti tra i due.
 
Il Generale rimette al Re tutti i poteri, dopo essersi visto negare la possibilità di rimanere a Napoli, per sovrintenderne all'amministrazione del decaduto Regno delle Due Sicilie, a seguito del plebiscito del 21 ottobre.
 
Il 6 novembre Luigi Carlo Farini - che si vantava di non aver mai stretto la mano a Garibaldi - assume formalmente la carica di Luogotenente Generale delle Provincie Napoletane. Le sue precedenti esperienze - da Dittatore in Emilia e da Ministro dell'Interno a Torino - gli consegnano la fama di un uomo di polso, sicuramente capace di gestire le emergenze. Proprio quel che serve per la turbolenta Napoli.

Lettera del 9 novembre 1860, da Napoli ad Arezzo, affrancata con un 5 grana dei De Masa:
primo giorno effettivo della luogotenenza di Luigi Carlo Farini.
Il 7 novembre Garibaldi è al fianco di Vittorio Emanuele, al momento del suo ingresso a Napoli;
l'8 novembre presenta i risultati del plebiscito nella Sala del Trono di Palazzo Reale,
e proclama Vittorio Emanuele II di Savoia  come primo Re d'Italia;
rifiuta i titoli nobiliari, le promozioni e i doni
e all'alba del 9 novembre lascia Napoli a Farini.
 La lettera contiene un resoconto degli eventi del periodo,
col richiamo alla Battaglia di Mola, l'ultima prima della ritirata dei Borbone a Gaeta: 
"... il Re è a Napoli fin dal dì 7. Grandi feste a Napoli. A Mola di Gaeta grande macello". 
 
Farini vive comunque un impatto traumatico con la città: è sommerso dai problemi, dai contrasti, dal numero e dall'insistenza dei postulanti, sino a perdere dal principio ogni speranza di governo di quella baraonda.
 
L'11 novembre scrive a Cavour: "All'ingrosso qui vedo che la servilità pubblica si acconcia a governo qualsiasi, che la pubblica cupidità non è saziabile, che qui comanda chi è più temuto, vuoi setta o governo. La polizia è in mano a quelli che prima ne erano percossi e tormentati: i contrabbandieri antichi governano la Dogana, la Finanza è stremata, le Provincie sono corse da briganti borbonici e da soldati garibaldini, che fanno più paura di quelli. Non è dunque l'Eden questa Napoli, ma spero di darvi presto notizie meno tristi".
 
Passano solo tre giorni, e chiede di essere sostituito: "Ora io debbo pregarvi e scongiurarvi a tormi da questa orribile situazione. Lo stato di questo paese addimanda uomo di ben altra lena che io non abbia: di costà, credete a me, non giudicate nemmeno per approssimazione delle difficoltà che qui sono. Se il Parlamento nazionale non instaura, con la sua grande autorità morale, un poco di autorità effettiva, l'annessione di Napoli diventa la cancrena del rimanente Stato. Vedo che il giudizio che si porta di questa parte d'Italia non è conforme al vero: scusate se vi par che pigli aria dottorale: vediamo che questo periodo della annessione napoletana non segni il cominciamento della disgregazione morale dell'Italia".

Il giorno dopo, il 15 novembre, scrive a Marco Minghetti, suo sostituto al Ministero degli Interni, con toni ancor più espliciti e confidenziali: "Se tu conoscessi, come comincio a conoscerla io, l'indole di questa gente, capiresti quante difficoltà si incontri ad esperire la più ordinaria pratica, anche solo comunale. Nessuna comparazione si può fare tra il costume di questo popolo con quello delle altre parti d'Italia. Scriveva ieri al Cavour come io non mi senta virtù e lena che basti a quest’opera, perché, amico mio, altro che Italia! Questa è Affrica! I beduini, all'incontro con questi caffoni sono fior di virtù civile: questa moltitudine brulica come i vermi nel corpo marcio dello Stato: altro che 'Italia e Libertà!: ozio e maccheroni!'. Questa è la capitale dell'ozio e della prostituzione, di tutti i sessi e di tutte le classi, quando nissun paese al mondo ha maggiori benefici naturali per diventare un emporio di commercio, di industria, di traffico". E si lagna poi del Ministro della Giustizia, che pretende un'amministrazione rispettosa delle leggi e dei codici. "Che Codici d'Egitto! Per Dio! Non ha un soldo, ho trecento carabinieri e trentamila ladri (solo in Napoli, e non parlo di quelli non scritti sul Libro Nero), ho distretti in balia di briganti e non ho soldati da mandarvi, ho centomila postulanti d'attorno, i garibaldini che ringhiano. Ciao, caro Minghetti, scusa lo sfogo che mi fa bene, saluta il Conte, vogliatemi tutti bene e pensate a liberarmi al più presto possibile".
 
Sono giorni turbolenti, travagliati, in uno scenario segnato dal mito dell'ingratitudine verso Garibaldi, dai contrasti tra garibaldini ed esercito regio, tra garibaldini e anti-cavouriani, tutti comunque ugualmente avversi al Luogotenente. 
 
Farini cerca l'appoggio del partito degli emigrati, dei liberali meridionali reduci dal Piemonte, senza troppo successo. Lancia continui messaggi di pacificazione, ma la frattura politica e ideologica è insanabile. Persino i moderati lo scaricano, perché non più funzionale ai loro obiettivi. Esplodono rancori locali, opportunismi e crisi nel controllo dell'ordine pubblico. Arrivano pure critiche pesanti per la tolleranza verso gli ex soldati borbonici, nel tentativo di convertirli alla causa nazionale. Farini crolla, anche a causa di uno stato di salute divenuto precario.
 
Cavour lo sostituisce l'11 gennaio 1861 con il Principe Eugenio di Savoia Carignano, assistito, e meglio sarebbe dire controllato, dal fidato Costantino Nigra. La missione del nuovo Luogotenente è tutta nel passo di una lettera che il Conte gli spedisce qualche mese dopo: "Il Paese e il Parlamento reclamano a gran voce che si adotti un sistema di rigore e di fermezza che si imponga alla razza volubile e corrotta del Regno di Napoli".
 

Luigi Carlo Farini nasce a Russi, vicino Ravenna, nel 1812. Laureato in medicina, aderisce prima alla Carboneria e poi alla Giovane Italia. Prende parte ai moti del 1831, che lo costringono all'esilio, e torna nel 1846, grazie all'amnistia concessa da Pio IX. Nel 1848, convertito al moderatismo, è eletto deputato nel collegio di Faenza e Russi, per essere successivamente nominato Segretario Generale al Ministero dell'Interno dello Stato Pontificio. L'anno dopo ottiene la cittadinanza piemontese. Appoggia il giornale bolognese "Il Romagnolo", collabora con "Il Piceno" di Ancona e con "La speranza d'Italia" di Roma, dopo la liberalizzazione della stampa nello Stato Pontificio. Tra il '47 e il '48 intreccia una fitta corrispondenza con esponenti del patriottismo liberale piemontese, toscano e romagnolo.
 
Nel 1849 si tiene distante sia dalla Repubblica Romana sia dal Governo restaurato del Papa. Preferisce emigrare, prima in Toscana e poi a Torino, sotto la protezione di Massimo d'Azeglio, che lo aveva conosciuto a Roma. Dirige "La Frusta", giornale d'appoggio al Governo, e quindi "Il Risorgimento" al posto di Cavour. E' deputato liberale dal 1849 al 1856, e conduce la sua politica filogovernativa dalla doppia tribuna del Parlamento e della stampa.
 
La sua carriera ha una svolta nel giugno 1859, con la conquista sabauda della Romagna pontificia. Lascia Torino dopo oltre dieci anni, e il 19 giugno entra a Modena come Regio Commissario degli ex Ducati di Modena e Parma. L'incarico è provvisorio, ma Farini convince il Governo piemontese a prolungarlo, e Cavour istituisce per lui la carica di Dittatore.
 
Il 21 gennaio 1860, con la formazione del nuovo Esecutivo, viene designato Ministro dell'Interno. L'8 dicembre 1862 - dopo i fatti dell'Aspromonte e la caduta di Urbano Rattazzi - è chiamato a presiedere il nuovo Governo: è uno dei pochissimi non piemontesi che gode della fiducia dei piemontesi, per aver vissuto tanto tempo in mezzo a loro, e che si pensa possa conciliare le esigenze contrastanti degli uni e degli altri.
 
Dopo poche settimane rivela però i sintomi di un grave disturbo psichico, tenuto nascosto il più possibile per non allarmare un gruppo finanziario con cui il Governo è in trattativa per un prestito. Sino a quando non aggredisce il Re in persona, minacciandolo con un tagliacarte, per il rifiuto a schierarsi con gli insorti polacchi e a dichiarare guerra all’Impero russo.
 
Viene destituito il 24 marzo 1863, e morirà in miseria tre anni più tardi, dopo il ricovero nel manicomio di Novales, a Torino.
 
 
Farini - a Napoli - diede tutto sommato una buona prova di energia. Si attivò per applicare i modelli amministrativi piemontesi ed estromettere dalle istituzioni le figure del potere garibaldino; estese le leggi sulla scuola pubblica e per la quotizzazione dei demani; valutò di volta in volta, con moderazione e buon senso, il contributo che potevano offrire i funzionari del regime decaduto.
 
Ma la luogotenenza di Farini passerà alla storia anche per un cambio emblematico nei valori postali.
 
Il Nota Bene della comunicazione di introduzione della Trinacria ne chiariva la natura provvisoria, in attesa di cambiare sia la valuta che le icone dei francobolli in circolo.
 

Cambiare valuta - passare dai tornesi e i grana napoletani ai centesimi e alle lire italiane - si sarebbe rivelato un processo più lungo del previsto, perché la moneta ha profonde implicazioni sociali e psicologiche in chi la utilizza, di là dei suoi significati strettamente economici. Ma cambiare stemma, questa sì, era solo un'operazione tecnica, con cui formalizzare un atto istituzionale non più rinviabile.
 
"Il francobollo fin dall'inizio non è stato soltanto un mezzo per affrancare una lettera, ma la dichiarazione del potere di uno Stato. E’ una dichiarazione di proprietà: qui comando io", nell'immagine fulminante di Franco Filanci.
 
La Trinacria cristallizzava una situazione speciosa, se riguardata in questa veste double-face: rispondeva perfettamente all'obiettivo pratico per cui era stata ideata - alleggerire il costo della distribuzione dei giornali - ma le sue icone evocavano un passato senza un futuro, da far dimenticare, non certo da immortalare. Con la Trinacria - si può dire - la funzione pratica del francobollo aveva fagocitato la dimensione istituzionale, che però, ora, doveva riacquistare il suo peso.

Nasceva così la Croce di Savoia: un francobollo che "assomma in sé talmente tanti motivi di interesse" - nelle parole di Enzo De Angelis e Mauro Pecchi - "da farne un caso unico non solo nella filatelia italiana, ma mondiale", un francobollo intriso di così tanti significati - storici, postali e tecnici - da "esercitare un fascino irresistibile su chiunque si occupi di filatelia", e non solo.
 
(esemplare usato in periodo di Regno d'Italia)

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