PRIMA LEZIONE DI ECONOMIA (FILATELICA)


Permettetemi di spiegarvi il significato di questa affermazione del Premio Nobel John Nash, ripresa in "Beautiful Mind", la versione cinematografica della sua vita.

Immaginate due lotterie, due giochi d'azzardo, "Con giudizio" e "Sbanco il Banco"

La lotteria "Con giudizio" si appoggia a un'urna con 100 palle, 50 bianche e 50 nere, e la sue regole sono molto semplici. Il giocatore vince 10.000 euro se viene sorteggiata una palla bianca, e rimane all'asciutto, non vince nulla, se viene invece sorteggiata una palla nera. Il costo del biglietto per partecipare a questa lotteria (l'importo da pagare al Banco, per provare a vincere 10.000 euro) è 500 euro.

La lotteria "Sbanco il Banco" usa ancora un'urna con 100 palle, ma qui 25 sono gialle e 75 rosse, e le cose sono un po' più complicate. Il giocatore vince 200.000 euro se vien fuori una palla gialla, ma deve versare 1.000 euro al Banco se esce una palla rossa. Il costo del biglietto è 2.000 euro. Con questa lotteria, quindi, si pagano 2.000 euro nella speranza di veder sorteggiata una palla gialla, e vincere così 200.000 euro, ma se ne sbuca una rossa servirà versare altri 1.000 euro, in aggiunta ai 2.000 già pagati per l'acquisto del biglietto, con un esborso complessivo di 3.000 euro.

Gli economisti schematizzano i guadagni e le perdite, le rispettive probabilità, e il costo del biglietto delle lotterie, nella cosiddetta tabella dei pay-off.


A quale lotteria scegliete di partecipare? Oppure - c'è anche questa possibilità - vi astenete da entrambe?

Qui - nella scelta compiuta, o meglio, nel modo di argomentare la scelta - sta tutta la differenza di carattere e cultura tra le persone.

In molti - ne sono sicuro - rimarranno paralizzati dall'incertezza. Se avessero solo dieci minuti per stabilire cosa fare, con ogni probabilità li trascorrerebbero in preda all'isteria, tra l'acquiescenza al "chi si accontenta gode" (i 10.000 euro di "Con giudizio"), l'attrattiva di una vincita stratosferica (i 200.000 euro di "Sbanco il Banco") e lo scoramento per la spesa a vuoto del biglietto (500 euro in un caso, 3.000 nell'altro), incapaci di trovare una sintesi tra stati d'animo contrastanti, una mediazione che si risolva in una decisione. Il tempo deciderebbe al posto loro. Trascorsi i dieci minuti, il Banco li informerebbe che hanno perso il diritto a partecipare, semmai ne avessero avuto l'intenzione. L'inazione è essa stessa un'azione, sebbene implicita, e rimane esposta a critiche tanto quanto l'azione sbagliata.

Molti altri - anche di ciò sono abbastanza sicuro - ricorreranno ad argomenti folkloristici, superstiziosi o pseudoscientifici. Diranno, a esempio, che il giallo è il loro colore preferito, che il nero porta sfortuna, che il 25 (il numero di palle gialle in "Sbanco il Banco", che garantiscono i 200.000 euro) è proprio il giorno della loro nascita, del loro matrimonio o del divorzio, oppure che 25 è 52 al contrario e loro - combinazione! - hanno proprio 52 anni. Forse si avventureranno pure in qualche calcolo: uno per tre, e tre per uno, perché..., come nella sigla del cartone animato "Daitan III". Poi, compiuta la scelta, passeranno il resto della vita ad auto-compiacersi del proprio intuito, se le cose sono andate bene, o a cantare maledetta sfortuna con Vasco, se gli hanno detto male.

John Nash non credeva alla fortuna e alla sfortuna, né ovviamente alla paralisi di fronte all'una e all'altra. John Nash era fermamente convito di poter dare un valore alle cose. John Nash pensava di poter stabilire, su basi scientifiche, se le due lotterie avessero un costo accettabile per un dato individuo, e a quale lotteria gli convenisse partecipare, a prescindere da come sarebbero poi andate le cose (senza cioè  rammaricarsi - per dire - dell'uscita di una palla gialla a "Sbanco il Banco", quando si era deciso di partecipare a "Con giudizio", dove era venuta fuori una palla nera).

John Nash aveva il forte convincimento di poter dare un valore alle cose, a tutte le cose, non solo alle banali lotterie "Con giudizio" e "Sbanco il Banco", ma anche a situazioni più intricate, in cui guadagni ed esborsi sono più articolati, le probabilità di successo di complessa valutazione e l'esito finale influenzato, oltre che dalla pura alea, anche dalle scelte di altri individui in conflitto tra loro.

John Nash pensava che a ogni situazione - per quanto ingarbugliata - si potesse sempre associare un numero, che ne segnalava l'obiettiva desiderabilità per un dato individuo; e quindi che non si dovesse poi far altro che ordinare le alternative possibili, dalla "migliore" alla "peggiore", in base al numero assegnato.

John Nash - attenzione! - non pensava di poter dare una risposta invariabilmente valida per tutti, in qualunque circostanza. Il numero da associare alle situazioni incerte sarebbe rimasto legato a doppio filo al soggetto valutatore. Nash non offriva una maniglia da girare per tutti allo stesso modo, per aprire la stessa porta. Nash proponeva un metodo, un processo, una procedura invariante nella struttura generale, ma flessibile nella declinazione operativa, per accogliere coerentemente la pluralità di inclinazioni dei singoli soggetti valutatori.

Il metodo - per citare i casi più ovvi nel nostro esempio - suggerirà a un lavoratore precario di astenersi dal giocare, dirà a un notaio di provare con "Sbanco il Banco", e a un dirigente pubblico di tentare "Con giudizio". La rilevanza sta tutta nel fatto che ora sappiamo il perché, siamo in condizioni di motivare la scelta, di argomentarla razionalmente, e non solo in questi casi facili (per i quali è comunque rincuorante la coincidenza tra la soluzione intuitiva e la soluzione formale), ma per tutti i casi possibili (dove sarebbe virtualmente impossibile raggiungere una decisione razionale, senza il supporto di una adeguato formalismo).

John Nash aveva l'assoluta certezza di poter sempre assegnare un valore alle cose, a tutte le cose, seppur condizionatamente a un precisato soggetto valutatore, e la sua lezione - che gli valse il Nobel per l'Economia - è ricca di insegnamenti anche per noi collezionisti, perché collezionare significa esattamente questo, e nient'altro che questo: saper assegnare un valore alle cose.

(Franco Filanci)

Le quotazioni dei cataloghi sono un argomento di discussione evergreen, tra i collezionisti. Intendo tra i collezionisti annoiati, stanchi e disillusi, ammesso che simili qualifiche siano attribuibili al collezionista, per definizione una figura perennemente  entusiasta, sognante, emozionata e poetica. Chi ha bisogno di un catalogo per sapere quanto valgono i suoi francobolli, chi pretende di trovare il valore oggettivo di un francobollo in un catalogo, per di più con la pretesa assurda che quel valore dia un prezzo valido sia in acquisto che in vendita, ebbene, costui non ha capito nulla del complesso e sofisticato gioco a cui ha scelto di partecipare spontaneamente, ma a questo punto - devo presumere - con una consapevolezza scarsa o nulla.

Collezionano francobolli degli Antichi Stati, e però pretendono prezzi trasparenti e certi, o con dinamiche e differenze immediatamente spiegabili, neanche fossero le marche di pasta sul bancone di un supermercato. Se questa è la vostra pretesa, passate pure la mano. Perché persino la più sprovveduta delle massaie, davanti a una cassa di pomodori su cui il fruttivendolo ha collocato un cartellino con un prezzo indistinto, si premura di sceglierli a uno a uno, con un'accurata selezione - prendendoli in mano, soppesandoli, tastandoli, guardandone forma e colore - perché sa bene, la massaia, che non tutti i pomodori sono uguali, anche se coperti dal velo di un unico prezzo. E invece - meraviglioso! - ci sono collezionisti di Antichi Stati che agli oggetti del loro desiderio vorrebbero applicare la logica del mark-to-market, del market-clearing, della price-discovery, della fair-valuation, come se stessero operando sul mercato azionario della  Borsa Valori.

Chi non ha mai aperto un libro di economia in tutta la sua vita, neanche per sbaglio, ama ripetere che il prezzo lo fa il mercato con l'incontro tra domanda e offerta, un'affermazione così astratta e generale da trasformarsi in una tautologia, da non avere più contenuti dell'uguaglianza 1=1. Tutta l'ingenuità di chi la pronuncia sta nell'incapacità di dare concretezza alle parole che vi compaiono. Il mercato ha le sembianze di un'entità soprannaturale, metafisica, un deus ex machina che tutto può, tutto decide e tutto risolve. Con eccessivo realismo si parla invece di incontro tra domanda e offerta, quasi fossero due amiche che si son date appuntamento a un centro commerciale. Infine c'è il prezzo, che scaturisce da quell'amoroso incontro, nessuno sa dire bene come (si sa solo che a parità di offerta il pezzo sale se la domanda sale, e scende se la domanda scende; a parità di domanda il prezzo scende se l'offerta sale, e via di questo passo). Che desolazione!

Il collezionismo degli Antichi Stati muove dall'osservazione basilare per cui ogni francobollo è unico, fa storia a sé, e necessita pertanto di una valutazione puntuale, esperta e soggettiva. Ogni francobollo degli Antichi Stati ha il suo padrone, che ben conosce le ragioni per cui lo desidera, sa dire quanto e perché quell'esemplare è strategico nella sua collezione, quanto e perché valorizza i pezzi già posseduti, quanto e perché ne viene da essi valorizzato, quanto e perché, in sintesi, concorre al piacere del gioco collezionistico. Perché soltanto allora ne potrà apprezzare il valore e tradurlo in un prezzo, per lui, equo.

Il fascino, la magia, l'attrattiva degli Antichi Stati sono nell'individualità propria di questi oggetti, nel piacevole obbligo di doversi cimentare in una valutazione personale. Il prezzo di mercato oggettivo - indipendente da valutazioni soggettive, da elementi di contesto e contingenze - semplicemente non esiste. Esiste invece il prezzo per noi, che è il precipitato di tutta una serie di giudizi eminentemente personali, senza i quali nessuna valutazione e nessun prezzo sono possibili.

A chi intigna, a chi sbraita e pesta i piedi per avere il valore vero, per sapere quanto denaro può incassare dalla vendita di un francobollo, non si può che rispondere res tantum valet quantum vendi potest, ogni cosa vale quanto qualcuno è disposto a pagarla, che ci riporta al punto di partenza, ai motivi per cui il Signor Qualcuno è ben felice di pagare una determinata cifra, e il Signor Qualcun'altro non per è nulla disposto, alle loro ragioni, intime e personali, di limitata generalizzazione. Proprio come dice Franco Filanci: "ciascuno è libero di chiedere o proporre il prezzo che ritiene giusto e dall'altra parte del tavolo ciascuno è libero di accettarlo o meno".

E invece c'è sul serio chi pensa di poter collezionare francobolli con lo stesso spirito con cui fa la spesa al supermercato, di poter dare alle quotazioni di catalogo lo stesso significato dei prezzi sugli scaffali del pane e della pasta, della mozzarella e degli yogurt, a cui corrisponde una pari uscita di denaro alla cassa. Scelgo, prendo, infilo nel carrello, e poi veloce alle casse sino al mio turno.
 
- Buonasera.
 
- Buonasera. Ha la tessera Conad?
 
- No.
 
- Vuole una busta?
 
- Si, grazie.
 
- Sono 27 euro e 75... carta o bancomat?
 
- Bancomat.
 
- Prego, pin e tasto verde. Li raccoglie i punti-fedeltà?
 
- No.
 
- Buonasera.
 
- Buonasera.
 
Sembra incredibile, ma alcuni si rapportano al collezionismo proprio così, con questo abito mentale. Pazzesco!

Il collezionista andrebbe sospinto, aiutato e incentivato, a comprendere che la valutazione di un francobollo è tanto più affidabile e significativa quanto più è soggettiva, non arbitraria, insindacabile o capricciosa, ma soggettiva, vale a dire riferibile al soggetto che valuta, che giudica, con la sua sensibilità e la sua cultura, il suo gusto e i suoi obiettivi, e sì, ovviamente, con le sue disponibilità economiche.

"Oggigiorno le persone conoscono il prezzo di tutto e il valore di nulla", scriveva Oscar Wilde. Quel suo "oggigiorno" sembra essere un periodo sempiterno (serve forse risalire a un tempo lontanissimo in cui il denaro non esisteva, e perciò non vi erano prezzi monetari ma soltanto ragioni di scambio tra beni reali, per trovare un'epoca libera della contrapposizione tra prezzo e valore). Ma io sono un collezionista, e perciò credo fermamente nella possibilità di assegnare un valore alle cose. Io so pesare la quotazione di catalogo (alla fine solo un'ordine di grandezza) e non mi lascio sviare da valori di partenza sostanzialmente allineati. Io sono un collezionista, e perciò so come fare per assegnare un valore alle cose.



Vediamole meglio queste differenze, questa capacità di assegnare un valore alle cose, vediamo meglio le cose e il loro valore (dopo aver computato le commissioni d'asta). 

 € 12.200






€ 3.965






€ 1.220

Io sono un collezionista, e so assegnare un valore alle cose, so farlo oggi come sapevo farlo ieri; e se pure i criteri di oggi non fossero più quelli di ieri, rimane il fatto che a ogni momento io so come fare per assegnare un valore alle cose, in base alle convenzioni prevalenti in quell'istante.
 
Io so riconoscere quando una richiesta economica merita di esser assecondata, quando va invece ridimensionata e quando serve addirittura incrementarla.
 
Perché io sono un collezionista.












Io sono un collezionista, io credo fermamente nella possibilità di assegnare un valore alle cose.


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