ELOGIO DELLA CULTURA


Il barbaro è un essere incivile, che porta il nome attribuito dai greci a quei popoli dai modi animaleschi e dal linguaggio incomprensibile. Sul versante opposto c'è l'erudito, "colui che scrive mille pagine sulla quarta dimensione e ignora come si faccia il pane", nel non proprio elogiativo apprezzamento di Angelo Frattini. Un erudito che fa dell'erudizione la sua professione diventa, appunto, un professore, uno che "non ha mai visto un ramarro fuor di quello che attraversa la via del canto 25° dell'Inferno", con l'abrasiva definizione di Papini. Un professore perfezionato, interamente votato a uno specifico argomento, si annovera tra gli specialisti, "quei pazienti, utili e bastonati animali", nell'immagine di Prezzolini, da trattare "con finto rispetto e con simulata ammirazione per la loro materia". E dopo varie e numerose altre vicissitudini arriva finalmente la cultura: ciò che resta dopo aver dimenticato tutto ciò che si è studiato, secondo una definizione tanto celebre da aver perso il contatto con chi la diede la prima volta.

Un tempo ti sembrava di stare tra Dante, Virgilio e Beatrice, di girovagare con loro nel regno dei morti, a dir bene e male di vivi e morti. Quei versi ti lasciano più d'una perplessità, a risentirli oggi. Richiedono parecchio tempo per essere interpretati o anche solo collocati al loro posto. Una volta avevi un tatto speciale per il calcolo infinitesimale, lo capivi a pelle se l'integrale si risolveva "per parti" o per "cambio di variabile". A riprovarci oggi ti sentiresti un bambino alle prese col cubo di Rubrik. Tutto ciò che hai studiato ieri, oggi è dimenticato.

Oggi, però, ti esprimi in un italiano corretto, pulito, elegante e essenziale, hai gusto nella scelta delle parole, sai apprezzarne il significato e ne conosci le sfumature, ne soppesi con cura il loro valore logico e psicologico. Oggi sai viaggiare dalle premesse alle conclusioni senza deformare le premesse lungo il tragitto, senza aggiungerne altre inavvertitamente, senza esplicitare nelle conclusioni assai più o molto meno di quel che era implicito nelle premesse.

Quel che hai studiato ieri, oggi non c'è più, però hai ancora un substrato di idee e sentimenti, possiedi una tua personalità, porti il marchio delle tue opinioni. Ti è rimasta la cultura.


E' pur vero che il percorso dalla barbarie alla cultura è una salita ripida, accidentata e tortuosa, con numerose e mortificanti tappe intermedie, che vien quasi voglia di adagiarsi sull'adagio di Flaiano: "ci sono molti modi per arrivare, il migliore è non partire". Ma siamo già in viaggio, una cultura l'abbiamo sempre, alcuni ne sono consapevoli, e perciò la guidano, l'accrescono e la perfezionano, altri non se ne rendono conto, in un certo senso la subiscono, spesso la retrocedono. Si ha una cultura perché si è vivi: se non si avanza, si indietreggia, e da qualche parte si va sempre.

Il libro di Giuseppe Prezzolini, "Saper Leggere", è un'eccellente bussola per orientarsi nei territori della cultura, per trovare una via - ognuno la sua - per farsi una cultura, rifinirla, difenderla; è un antisettico contro il sapere standardizzato dei programmi ministeriali, un luminoso itinerario di emancipazione da scuole e insegnanti, da università e professori; un'immersione nella ricerca personale, orientata dalle sensibilità del lettore autodidatta, rispettosa dei suoi gusti, delle sue inclinazioni. Molte parti del libro sono evergreen, ché nella formazione culturale ci sono costanti universali. Altre mostrano i segni del tempo, le rughe di un passato remoto, ma restano fascinose e comunque d'ispirazione, perché i problemi di ieri, risolti con carta e penna, forbici e colla, enciclopedie e giornali, sono in fondo gli stessi problemi di oggi, affrontati con computer, internet, e-mail, Wikipedia, e CRTL-C/CTRL-V.


Il libro è dedicato alle "parecchie migliaia di giovani che studiano per conto proprio e non per la scuola", alle persone adulte "che avendo fatto scuole regolari ritengono di non dover smettere di studiare appena hanno guadagnato o carpito il diploma", e poi ai "moltissimi anziani che da lungo tempo han lasciato la scuola eppure non credono che sia arrivata l'età di smettere di soddisfare alla curiosità dello spirito", e infine a coloro che "avendo cessato di portare il giogo d'un impiego, vogliono rifarsi una vita con la cultura, dando finalmente una risposta a tante domande che s'erano posti in età più giovane ed ancora rimangono inquiete dentro di loro".


La formazione culturale è un processo travagliato, fatto di accelerazioni e pause di riflessione, di fughe in avanti e ritorni sui propri passi, per riesaminare il già fatto, per meglio equipaggiarsi per quel che c'è da fare. Il percorso non è lineare: talvolta si assimila in fretta, come spugne imbevute nell'acqua santa della conoscenza, a volte si procede a rilento, a piccoli passi, con la sgradevole sensazione di essersi impantanati, per poi magari scattare di colpo, come folgorati da un'improvvisa rivelazione; a volte c'è necessità di far decantare lo studio, a volte serve cambiar soggetto, a volte si ha il bisogno di iniziare dalla fine e ripercorrere a ritroso la strada verso il principio: "la cultura è come un circolo nel quale non si può trovare il punto da cui entrare".

La cultura prospetta un programma immenso - basta scorrere l'elenco dei libri formativi di un italiano colto, segnalato nel capitolo finale -, ma del programma va primariamente recepita l'idea alta e generale, che prescinde delle specifiche materie con cui gli si darà poi forma e consistenza: "la cultura è tutta questione di organicità. Non importa che una coltura sia più o meno vasta, abbracci un numero maggiore o minore di fatti, dei campi più o meno ampi; quello che importa è che il suo materiale sia armonicamente tenuto insieme, che le sue parti rispondano ritmicamente, che si abbia in esse un disegno". Ancora Prezzolini, questa volta però nei suoi "Paradossi Educativi", libricino di scritti su "problemi scolastici ed educativi", volti in una forma che "accentua un poco le verità che contengono e dà loro una leggere apparenza di paradosso".

La cultura è un incessante collegare, associare e riordinare conoscenze e competenze, idee e azioni, apprese o maturate ora in continuità, ora in modo sovrapposto o sfasato. "La cultura è la capacità di sollevarsi sopra un fatto isolato". La cultura è il reiterato processo di trasformazione di una massa informe di nozioni in ben ordinate sequenze di pensieri, in un blocco strutturato di argomenti, su cui istituire nessi di causa-effetto, fissare punti di contatto, linee di collegamento e rinvii reciproci. Questa rielaborazione impone un atto volitivo, creativo, fantasioso e originale, che conferisce un'aurea alla persona di cultura, la rende unica e irripetibile, ne lascia un ricordo perpetuo: "La cultura è formata di cognizioni, ma queste cognizioni non diventano cultura se non formano un alone intorno alla nostra personalità [...] che arriva e forma quelle cognizioni in un'atmosfera che ci preannuncia agli altri, ci segue in ogni momento della vita, lascia una traccia dopo di noi".

Formarsi una cultura è "formarsi una personalità", è "il prodotto di un'attività e di un'assimilazione personale" che presuppongono slanci passionali, coinvolgimento sentimentale e trasporto emotivo. Nessuno può farsi una cultura se non vive certe questioni come un costante assillo personale, se non vi sono amori e inclinazioni ad attrarlo verso alcune cose e antipatie e avversioni a tenerlo lontano da altre, se il tutto non è sangue della propria carne, realmente sentito e sofferto, in una parola in circolo. "Una cultura è formata sopra amore e odio, non sopra ragionamento", perciò potrà anche condurre a litigi e screzi, a contrapposizioni violente, non solo con gli ignoranti, ma anche con altri uomini colti, ciascuno colto a modo suo: "La tolleranza è uno dei sintomi della indifferenza. Non è una qualità propria dell'uomo colto, che, se colto, crede in qualche cosa. Ma un uomo colto bisogna che si rassegni a non andar d'accordo con gli altri. Non c'è nulla di male".


La cultura la si porta addosso come un donatore di organi il suo tesserino; permea e caratterizza; se ne sente il bisogno e il piacere per se stessa, senza curarsi di quei vantaggi materiali che potranno pur arrivare come corollari, ma non saranno mai il teorema da dimostrare: "la cultura non è altro che questo: un rivestimento di cognizioni del nostro io, scelto non dai bisogni della vita esterna, ma dalla spontanee simpatie della nostra vita interna".

La nostra vita interna fissa le linee della crescita culturale, ma ne segna anche i confini: "tu hai quello con cui sei nato, e nulla più", cosicché la tua cultura "non è in fondo che un estrarre da te stesso le verità di cui sei capace". Puoi sperare di incrociare buoni maestri, di avere validi modelli di riferimento, di trovare le migliori condizioni di sviluppo, ma l'ultima carta è quella delle capacità individuali, delle abilità personali, nient'altro che i talenti ricevuti alla nascita.

In un'opinione estrema e anticonformista, rispetto al politically correct per cui tutti possono far tutto purché lo vogliano, l'individuo è come è stato fatto, è quel che è, e nulla lo può cambiare: "Potete seminar semi di viola in qualunque terreno, verrà fuori un fiore più o meno colorito, più o meno abbondante di petali, più o meno potente d'odore, ma sarà sempre una viola e mai una rosa. Nella nostra cultura bisogna ricordare sempre questo: che non ci possiamo essenzialmente cambiare".

E' pertanto la propria personalità a orientare e dirigere il processo culturale, e tutto sta nel non forzarlo in altro senso sol perché è il senso di marcia degli altri, che in fondo non fan altro che procedere nella direzione indicatagli dalla loro personalità; tutto sta nel non sentirsi fuori pista o contromano sol perché non ci si trova sull'inesistente strada maestra, indipendente da qualsiasi personalità. Comportatevi diversamente, e piegherete la vostra personalità a quella degli altri, credendola, chissà perché, qualcosa di più, qualcosa di meglio. Atteggiatevi diversamente, e sulla lavagna della vostra personalità sentirete stridere il gesso della cultura altrui. Non sarebbe male - lungo l'intero percorso culturale - raffigurarsi davanti un cartello con l'ammonizione di Prezzolini: "il mio puzzo, val più dell'odore degli altri".


La cultura è individuale, personale, soggettiva, quindi alla mercé dei sentimenti, degli stati d'animo, delle predisposizioni. E' l'individuo, il singolo individuo, a stabilire cosa imparare e in quali occasioni metterlo in pratica, cosa portare avanti e cosa abbandonare, se proseguire, e sino a dove, o se fermarsi e quando. "Questo è il grande vantaggio che l'autodidatta ha sopra lo studioso regolare. Non è l'imparare un'attività obbligatoria o sopportata: è un'attività cara e corrispondente al nostro intimo [...]. L'uomo colto vuol soddisfare soltanto se stesso e obbedisce alla spinta della sua curiosità e della sua personalità". E' l'individuo a fissare poi i momenti, i luoghi e i modi della sua cultura: se dedicarcisi al sorgere del sole o nel mezzo della giornata, al crepuscolo, all'imbrunire o in piena notte; se domandare la complicità del silenzio e dell'isolamento - nel comfort di casa propria, nell'ambiente conciliante di una biblioteca, nella suggestione di  picco di una montagna,  - o se farsi invece accompagnare da una musica di sottofondo, dal brusio di un viaggio in metrò, dai rumori di un parco pubblico.

La cultura è anticonformista, quindi non può essere scolastica. La scuola - l'Istituzione-Scuola, a prescindere dalla qualità dei suoi interpreti - non può trasmettere cultura più di quanto una lampadina possa illuminare una stanza, perché la scuola è pensata e realizzata su opzioni d'insegnamento rigide, standardizzate, non modificabili, con preordinate tempistiche di apprendimento e predefiniti calendari di verifiche. L'Istituzione-Scuola è un grande magazzino di vestiti pret-a-porter, laddove il farsi un cultura impone un certosino lavoro di sartoria d'alta moda. L'Istituzione-Scuola, nel migliore dei mondi possibili, può offrire qualche spunto, suscitare qualche curiosità, dare qualche indicazione, confidando nella ricettività dello scolaro-destinatario, nelle sue capacità di percorrere autonomamente la via indicata, nella volontà di coltivare il seme. Nel mondo reale, nella vita di ogni giorno, dall'Istituzione-Scuola ci si può attendere solo un contributo al negativo: non allontanare i giovani dalla cultura, non mortificare la cultura stessa - né con gli orpelli dei bei voti, dell'encomio dei professori, della soddisfazione dei genitori, né con gli spettri del rimprovero, della bocciatura, della punizione -, non guastare troppo ciò che nacque perfetto, con "tutto il maneggio tra il comico e il tragico" tra studenti e professori, in cui i professori "si vedono [...] ridotti al compito di poliziotto" e gli studenti vedono nel professori "un apostolo da schivare e un gendarme da menar per il naso" (ancora Prezzolini, nella sua sfuriata contro gli esami, nei "Paradossi Educativi"). Lo statuto dell'Istituzione-Scuola potrebbe in fondo ridursi a un solo articolo, dal sapore ippocratico: primum non nocere. Perché "la vera cultura incomincia proprio quando la pubblica istruzione finisce", e Dio non voglia che la pubblica istruzione abbia inibito ogni possibile inizio, soffocato ogni slancio, grattato via tutto lo smalto. 


La cultura è individuale, personale, soggettiva e anticonformista, in una parola libera, con tutti i privilegi della libertà, ma anche con le sue ferree regole, necessarie a tutelare quei privilegi. Servono disciplina, metodo, applicazione, per non sperperare la libertà su cui la cultura si fonda. Libertà sino a un certo punto, quindi, sin dove serve, finché non nuoce. Come ogni libertà, d'altra parte. Dall'Istituzione-Scuola si possono allora mutuare alcune direttive e indicazioni generali: un piano di studi è pur necessario, e se la scuola lo offre freddo e impersonale, la cultura ci invita a colorarlo, a nutrirlo, a rimodellarlo a nostra immagine e somiglianza, con tutte le varianti di cui sentiamo il bisogno; una certa quantità di tempo è necessariamente assorbita, a orari fissi a scuola, liberamente nella cultura, ma converrà darsi una regola per sfruttare al meglio questo tempo, per non sprecarlo e essere così "un buon impiegato di se stesso"; l'importanza di un'autorità cui ispirarsi, da seguire e imitare, è anch'essa "senza pari", e se la scuola impone i professori senza concedere alternative, la cultura lascia ancora liberi di aver fede "in un libro, o in una data educazione, o in un certo autore", consapevoli però che "nessuno esce dal dominio dell'autorità", sia esso uno scolaro, uno studente, un professore o una persona di cultura, e "quel che si riesce a fare è di passare da un'autorità a un'altra", in un processo di selezione e avvicendamento che rimane "uno dei fatti più misteriosi al mondo".

Se per farsi una cultura si possono ancora seguire gli orientamenti generali offerti dalla scuola, per preservarla e rifinirla sono richiesti sforzi aggiuntivi, rispetto ai protocolli scolastici. La cultura non si esaurisce in un esame, in una promozione o in un titolo di studio. Impone piuttosto di tenere costantemente la testa piena "di idee, di domande, di curiosità, di desideri, di aspettative, di previsioni, di profezie", di essere massimamente percettivi alle contingenze della sorte - al passaggio di una conversazione con un amico, alla pagina di un libro sfogliato davanti a una bancherella, alla lettura di un giornale abbandonato su un treno - tutte cose che bisognerà pure imparare a sfruttare, perché tutto può potenzialmente fare cultura e nulla va a priori trascurato.

A ogni momento, per la persona di cultura, il punto capitale non è nelle conoscenze in sé, come a scuola, ma nelle misura in cui quelle conoscenze hanno forgiato uno spirito pronto a porsi nuove domande, acquisire nuove conoscenze, stimolare nuove riflessioni, in un flusso di suggestioni che, a differenza della scuola, non avrà mai fine "perché caratteri della cultura son la sua 'infinità' e la sua 'indeterminatezza' di fini". La cultura è un letto pensato per fare l'amore, non per dormirci sopra; è una pentola d'acqua da mantenere sui fuochi delle curiosità e delle capacità, da non togliere quando l'acqua inizia a bollire, se non la si vuol vedere raffreddarsi. "Chi crede d'essere arrivato o possedere la cultura, non è un uomo colto, o per lo meno sta cessando di esserlo". La cultura è un moto perpetuo, alimentato dall'incessante desiderio di conoscere, sotto la spinta dell'insoddisfazione di non saperne mai abbastanza: "la cultura non esiste mai, ma [...] si sta formando sempre", "non può mai aver fine, salvo quello del cessar della nostra abilità di imparare e del nostro desiderio di capire".


Tutto è buono, tutto è valido, per farsi una cultura e mantenerla viva, per non trasformarla in un feticcio mummificato. Tutto vale, anche gli strumenti giudicati "deboli" da professionisti e specialisti: antologie e giornali, riviste e cinema, radio e TV - a cui possiamo oggi aggiungere internet, con i suoi giacimenti di informazioni - sono tutti ausili validi, potenzialmente utili, purché se ne comprendano significati, portata e limiti. Vagliare, criticare e filtrare sono gli atteggiamenti propri della persona di cultura. A ogni sorgente di conoscenza ci si rapporta "con una mente disposta a controllare e a contraddire", il suo impiego è un'operazione "piena di riflessi, di giudizi, di paragoni, di interrogazioni", simile a un processo istruttorio in cui il giudice deve "raccogliere le testimonianze, vagliarne il valore, metterle in paragone, esaminarle in relazione al tempo ed al luogo ed all'occasione all'interesse, studiare la persona del testimonio, ossia la sua storia", per sentenziare infine "con la sua testa perché non c'è altro modo". 

L'atteggiamento dapprima conciliante nell'accettazione delle fonti, e poi spietato nel farne la tara, è il miglior allenamento per distinguere d'istinto, o con minimo sforzo, le fonti che val la pena analizzare a fondo e per intero, e su cui riflettere e meditare, da quelle per cui è sufficiente una consultazione veloce o mirata, o di cui si può fare proprio a meno. L'espressione saper leggere si carica allora di significati profondi, ben oltre la semplice interpretazione testuale. Saper leggere vuol dire sapere cosa leggere, sapere come individuare le cose da leggere, saperle intendere, soppesarne il valore, elaborare una personale chiave di lettura, un'interpretazione autonoma. Saper leggere significa "saper fare da sé sulla via delle cultura", giacché nella vita "non sono spesso le nozioni che mancano, ma l'autonomia di giudizio", ancora Prezzolini, ancora dai suoi "Paradossi Educativi".

Il saper leggere - così largamente inteso - è il crocevia della cultura, su cui confluiscono le proprie origini, le tradizioni, i grandi personaggi, ma anche tutto lo strumentario pratico per il lavoro culturale di ogni giorno.

La cultura nasce entro i confini della propria Nazione, perché "tu nasci e cresci entro la cultura del tuo paese", e si coltiva nella Storia, nella capacità di "saper situare un fatto politico, un'opera d'arte, un'invenzione, un modo di dire nel suo ambiente storico", di conoscerne il passato per collegarlo al presente, per "rifare col tuo sentimento nuovo i fatti del passato", per imparare a scorgere il futuro e a pilotarlo, per scoprire che "nulla esiste di per se, ma soltanto in relazione con altre cose presenti e in discendenza di altre cose passate".

La cultura pratica i classici e i grandi libri ("quelli che son stati filtrati dal giudizio dei secoli e giudicati più importanti per la formazione dell'uomo", che giungono a noi "accresciuti dell'ammirazione, dell'apprezzamento, della interpretazione dei secoli") e sta in stretta comunanza con i grandi spiriti (quelli che "hanno studiato più di noi e si son addentrati in certe questioni più di quel che noi abbiamo potuto fare").

Ma la cultura si realizza anche col supporto di tante piccole cose materiali, che nella loro modestia si rivelano essenziali nel cammino quotidiano; e così, oltre che di bibliografie, di manuali, di riassunti, di traduzioni, di biblioteche, Prezzolini parla anche di scaffali e schede, di penne, inchiostri, carta e macchine da scrivere, di forbici, puntine, fermagli, gomma, colla, pinzatrici e lenti, e poi di stanze, di divani e seggiole, tutti strumenti di cultura, attrezzi da imparare a usare e sfruttare, nello spirito degli artigiani della bottega rinascimentale.




Nel saper leggere vi è poi l'implicito richiamo a uno strumento di cultura eterno e universale: il libro. Il rapporto tra la persona colta e i libri oltrepassa l'ordinaria affezione che si può avere per un oggetto caro. La persona cresce con i libri, sia nell'accezione immediata, di estendere la propria personalità grazie ai libri, sia nel senso più recondito, di verificare la propria crescita con le necessarie riletture successive, a distanza di tempo: "leggiamo da ragazzi libri che ci annoiano, più tardi ci aprono degli orizzonti infiniti [...] ed è qui che oltre i riconoscimenti talvolta avvengono le scoperte, perché dopo molti anni si trovan in un libro idee, osservazioni, sottigliezze che non ci avevamo veduto prima".

La persona colta finisce inevitabilmente col collezionare libri, col formarsi una sua personale biblioteca, e soprattutto un'anti-biblioteca. Umberto Eco classificava in due categorie i visitatori della sua maestosa biblioteca, di oltre 30.000 volumi. Quelli che esclamavano "caspita, professore! Li ha letti tutti questi libri?", e gli altri, una minoranza, capaci di intendere l'incommensurabile valore di una biblioteca privata, la sua funzione di investimento obbligato, di imprescindibile strumento di ricerca per l'uomo colto e per chi vuol farsi una cultura. Una biblioteca privata dovrebbe accogliere il massimo numero di libri compatibile col proprio reddito, con le rate del mutuo, con la crisi del settore finanziario, e la velocità di acquisto dei libri dovrebbe essere superiore alla propria capacità di lettura,  così da formare un'anti-biblioteca, tutti i libri ancora non letti, ma già lì a disposizione sugli scaffali, pronti a soddisfare le future curiosità che fatalmente stuzzicheranno una persona di cultura, a ricordargli quotidianamente la distanza tra quel poco che conosce e quel tanto che c'è ancora da imparare.

Prezzolini parla dei libri come di cose vive, verso cui la persona di cultura prova un'irresistibile attrazione, a metà tra l'impudico e il rispettoso. "Per me è un moto spontaneo, tutte le rare volte che mi capita d'entrare in una casa, dove, piccola o grande, c'è una libreria, di andare a dar un'occhiata a quali son i libri che l'ospite mio ha onorato mettendoli in fila [...]. Ma confesso che mi ritraggo subito, come se avessi aperto un cassetto di biancheria intima della signora di casa". La situazione ideale è percepire il valore il pregio dei libri sin dall'infanzia, inconsciamente, dall'osservazione dei riguardi che vi sono tributati da chi ci sta accanto. "Coloro che hanno avuto un padre che nel maneggiare un libro prendeva quell'atteggiamento di cautela e di rispetto che hanno proprio soltanto le persone che stimano la lettura, ebbero una lezione di cultura ancor prima di imparare a leggere; e son le lezioni che contano di più". E però l'amore per il libri non deve mai scadere in una feticistica adorazione dell'oggetto, nella trasformazione dell'oggetto in una reliquia, e l'invito è perciò a munirsi di una matita durante la lettura, "per segnare i passi che piacciono o urtano; le parte più importanti; le idee centrali; delle espressioni felici; delle citazioni rare", ché in fondo "non ci sono libri veramente nostri se non quelli che abbiamo sottolineato, virgolato, crocettato, annotato, ossia scelto".


La cultura passa per la lettura per gran parte della fase di acquisizione, ma poi, nella successiva fase di sistematizzazione, sottopone di necessità alla servitù dello scrivere. La scrittura è il redde rationem della cultura, è il processo per separare quel che si è mangiato da quel che si è digerito e assimilato, per distillare ciò che si conosce dalla massa impura di ciò che si crede di sapere e non si sa, la scrittura è un'ascia per recidere quel che si è capaci di raccontare a qualsiasi interlocutore, ogni volta rimodulando gergo, espressioni e immagini per rispettare la sua cultura, da quel che si è costretti a ingessare con aulici paludamenti e esasperante tecnicismo, per nascondere agli altri le pecche delle propria cultura.

Se lo si sa, lo si sa anche scrivere, e lo si scrive bene, chiaro, pulito. Se non lo si sa, e si prova a scriverlo, motivi di insoddisfazione spruzzano da ogni falla maldestramente rimediata. La scrittura è il test più severo per verificare la qualità di tutta la propria cultura, perché scrivere è un'attività assoggettata ai più stringenti vincoli di spazio, di consecutio, di logica, che impongono di ottimizzare le capacità espressive e di comunicazione: "metter sulla carta il proprio pensiero dopo averlo letto, sia per riassumere, sia per criticare, è un ottimo esercizio. E' la presa di possesso del materiale che la cultura fatta dagli altri offre a voi". La scrittura "è uno dei più probi e onesti esercizi di cultura che si possa consigliare", perché "costringe a guardare al nocciolo delle cose, a scoprire l'idea centrale che dovrebbe esserci in ogni scritto, ed a formularla in modo personale".


Il modo personale - con cui si scrive e ci si esprime - è la carta d'identità della persona colta. Qualsiasi cosa si voglia dire, la si deve dire con parole proprie, chiarirla con esempi di propria invenzione, renderla vivida con immagini create dalla propria fantasia. Pochi possono pretendere di essere originali, ma tutti sono nelle condizioni - e per le persone di cultura c'è l'obbligo - di essere se stessi.

"La nostra persona non l'abbiamo scelta. Siamo nati in un dato modo. Portiamo dentro di noi, nell'infinitamente piccolo germe che ci dà origine, un'impronta indelebile. In esso son segnati già la nostra forma, il colore dei nostri occhi e del pelo, i nostri mali, il punto dove qualche germe fatale riescirà ad introdursi, le nostre resistenze, le nostre debolezze, gli amori le antipatie.

La cultura è un ampliamento del nostro essere ed in diretta comunicazione come una parte dell'organismo umano.

Quando leggi un libro, quando senti una lezione o una conferenza, non pensare di essere un boccale o un fiasco, che vien colmato con l'imbuto. Devi aver la tua reazione. Anche se sei un stupido od un ignorante, rispetto a chi insegna o parla o scrive, devi per altro sentirti te stesso e impadronirti di quello che ti dicono o che leggi in un modo tuo. Per piccolo che tu sia, puoi essere te stesso, il che è sempre possibile. Se sei capace di sentirti come un individuo, non c'è ragione, autorità, potenza al mondo che possa modificare questo tuo sentimento fondamentale ...

La guida della tua cultura [...] dipenderà da altre personalità del passato [...] che ti avranno aperto delle strade e dato degli orientamenti; tuttavia, anche nel tuo piccolissimo dominio, potrai esser te stesso, anzi, non potrai altro che esser te stesso, perché non potrai mai, anche se ti sforzassi di farlo, diventar la copia perfetta di un altro.

Munito della conoscenza di questi due poli - la tua cultura non può essere completamente originale, e non può mai essere completamente copia di un'altra - in mezzo ad essi devi trovar la tua strada. Non c'è nessun altro che te la possa indicare. La tua filosofia sarà probabilmente più efficace ed attiva, quanto più tu sarai capace di renderla aderente alla tua personalità. La sincerità è un moltiplicatore delle forze; ossia è una forza delle forze, che rende tutte le forze più evidenti e più capaci".


Per tutto ciò esiste una differenza di natura, e non di semplice grado, tra i propri scritti e le proprie parole e gli scritti e le parole degli altri. C'è sempre nel subconscio l'illusione di giungere in modo rapido e indolore laddove altri sono arrivati con gran fatica, la tentazione di trangugiare il lavoro svolto da altri - gli appunti, le sintesi, le note - per togliersi di mezzo l'impaccio della cultura. Ma tutto quel lavoro - gli appunti, le sintesi, le note, e persino la loro archiviazione in cartelle e sotto-cartelle - esprimono la personalità dell'autore - e potrebbe mai essere altrimenti? - danno conto dei suoi gusti, delle sue letture, delle sue frequentazioni, portano il suo marchio di fabbrica, sono, in una parola, la sua cultura. E i trapianti di cultura - quand'è vera cultura, quando la cultura ci appartiene come un prolungamento degli organi vitali - possono andar incontro a crisi di rigetto. Il lavoro degli altri - compiuto dagli altri, per farsi una propria cultura - è sterile per chi crede di potersene servire meccanicamente, e si rivela alla fine per quel che è: occhiali di un presbite offerti a un miope. Prendeteli con precauzione, indossateli pure se volete, date un sguardo intorno, toglieteli, e sorridendo riconsegnateli al legittimo proprietario. Quegli scritti, il più delle volte, han valore solo per chi li ha fatti. Solo gli estensori, all'occorrenza, riescono ad allungare la mezza pagina iniziale a una cartella, a trasformarla in un monologo se la circostanza lo richiede, a ridurla a due righe se necessario, a farla sparire se fuori luogo, senza lasciare vuoti d'aria o cicatrici nell'esposizione complessiva. L'effetto fisarmonica vale solo per loro, per chi vi ha speso tempo, impiegato ingegno e sacrificato diottrie. Per tutti gli altri sarà solo una formina DAS lasciata all'aria aperta ormai da tempo.


Scrivere - scrivere bene, saper scrivere - richiede tempo e fatica; e a chi scrive - a chi decide di votarsi a un'attività tanto appagante quanto logorante - si presenta fatalmente la tentazione di pubblicare, di far conoscere al mondo il prodotto del proprio travaglio. Si resista alla tentazione con francescana fermezza. San Francesco non esitava a rotolarsi nudo sulle neve, per reprimere le naturali pulsioni delle carne. Non si abbia timore di usare mezzi altrettanto estremi per placare l'assai più impudico desiderio di pubblicare. Si è persone di di cultura, non novelli profeti della conoscenza. Si abbia il pudore della propria cultura.

Per chi scrive, in fondo, un pubblico c'è sempre, perché quando si scrive la personalità si sdoppia tra l'autore e un uditorio immaginario a cui l'autore vuol rendersi intellegibile. Si scrive con la preoccupazione di esser chiari a un lettore ipotetico, si scrive per rafforzare se stessi e per allenarsi a comunicare con gli altri, per sapere cosa dire quando verrà il momento di parlare, per parlare bene, con rigore logico e eleganza espositiva. "Chi si esprime parlando con parole mozze, con mugolii, con periodi che cominciano e non finiscono o si esprime scrivendo con termini sbagliati, o imprecisi, o enfatici, o stonati col resto del discorso, è ... [m]eglio che rinunzi alla cultura, se ne ha la velleità". La scrittura insegna a esprimersi, a discorrere, a argomentare, anche quando gli scritti restano tra le carte private dell'autore, anzi, "non c'è nulla di più raro e rispettabile dello spettacolo di un uomo colto il quale non ha nulla pubblicato, ma dalla sua conversazione si capisce che il suo discorso è abbastanza articolato e la sua conoscenza abbastanza larga per poter contribuire a qualche cosa di utile e di bello per il pubblico".


Rimane l'ultima annotazione, la più importante, perché inquadra la cultura, la colloca nel suo ambito di applicazione, ne dà la dimensione.

La cultura è un fatto umano, riguarda gli esseri umani; li invita ad affrancarsi dallo status di bruti, per seguire virtute e canoscenza, ma non può condurli oltre i loro limiti, non può vincerne le debolezze o reprimerne gli istinti, ché anche la cultura è vincolata alle imprescrittibili leggi di natura. Quindi - caro amico colto - "non montarti la testa". La cultura, "questo fragile alone che circonda lo spirito dell'individuo", potrebbe infrangersi al primo urto, sciogliersi al tepore di un sole appena un po' più caldo, volar via ai primi soffi di un vento contrario. Quando premono gli istinti, la fame, la paura, l'ambizione, l'interesse, la vendetta ... non c'è più cultura che tenga. Se ti illudi di poter fare della tua cultura un baluardo contro tutte le intemperie della vita, se pensi sia una boa per evitare ogni possibile deriva, riesamina coscienziosamente le tue esperienze personali, poi i casi a te più prossimi, e via via i grandi fatti della Storia: ne concluderai - con Swift, citato da Prezzolini - che in ogni avvenimento, grande o piccolo, i sacri principi son "quella cosa che gli uomini lasciavan cadere, come le brache, quando sentivano un bisogno naturale".

Non rammaricartene, amico colto, e non credere non valga la pena faticare tanto per farsi una cultura, se poi tanto poco basta a portarla via. E' nella natura della persona colta saper riconoscere le gerarchie e rispettarle di buon grado: "la ragione e la cultura debbon anche rendere omaggio alla fondamentale sanità di questo scoperchiarsi in noi degli istinti fondamentali di difesa e offesa",  riconoscere cioè che vi sono funzioni vitali a cui non possono adempiere, perché altre pulsioni le precedono e le seguono. "La cultura dà grandi soddisfazioni ed è il fondamento di una compiacenza interna senza pari. Ma, in fondo, è un ornamento; e, come tutti gli ornamenti, deve cedere il passo a ciò che lo sostiene. Quando questo è in gioco, l'ornamento è il primo ad essere sacrificato. La più grande ragione del mondo è quella che sa ad un dato momento coprirsi gli occhi e chiudersi la bocca. La più grande cultura è quella abituata a cedere il passo davanti a certe porte che s'apron per persone più grandi di lei".


Questa è la cultura immaginata da Prezzolini, un'avventura fatta di passione, di sfide, di conquiste, ma anche di errori, sviste, delusioni e momenti di sconforto, con esiti complessivi che restano avvolti nella nebbia dell'incertezza. Tutto è incerto, d'altra parte, e al di fuori di ciò nulla può affermarsi con certezza. La cultura non fa eccezione. "Mi dispiace di non darti una sicurezza maggiore nel buon successo dei tuoi metodi e delle mie raccomandazioni. Anche la cultura non offre un margine di garanzia maggiore della vita, nella quale bisogna assumere molte posizioni come assiomatiche e andar avanti correndo dei rischi ragionevoli e talvolta irragionevoli, che si corron tuttavia, un po' per amor del pericolo ed un po' per amore del guadagno ed un po' per spinta interna, ossia perché non si può far a meno. Anche la tua ricerca di cultura è fondata su queste fragili proporzioni, sulla quali riposa instabile la vita degli uomini".

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