ATTRAVERSANDO LO STRETTO DI MESSINA - Un caffè sul traghetto

Lo sciabordio del mare è una dolce, piacevole ipnosi, favorita, coadiuvata, dalle energiche e incessanti carezze del vento. Nessuno trascorre però l'intero viaggio verso la Sicilia sul ponte del traghetto. Rientriamo, vi offro un caffè. Magari non salirà sul podio delle vostre esperienze gustative, ma saremo noi a trasformare questo caffè in un'esperienza, a dargli l'aroma, discorrendo tra i sorseggi proprio del concetto di gusto.

Cos'è il gusto?

I matematici ci diffidano dal cercare una definizione per mezzo di parole, perché allora dovremmo preliminarmente chiarire il significato delle parole utilizzate nella definizione, e quelle stesse parole le dovremo prima definire, con altre parole da definire anch'esse, in un regressus ad infinitum senza costrutto, giacché ogni dizionario non potrà che contenere un numero finito di vocaboli.

I filosofi - gli autentici filosofi, genuini e costruttivi - ci rivolgono lo stesso ammonimento. Pirandello ci mette in guardia contro le definizioni formali, "da vocabolario". Le parole sono vuote di significato. Ognuno di noi, nel proferirle, le riempie di quel mondo di cose che è dentro di lui, delle sue esperienze, sensazioni e convinzioni, e gli altri, nell'accoglierle, le riempiono di quell'altro mondo di cose che è dentro di loro, dei loro stati d'animo. Abbiamo creduto di intenderci e non ci siamo intesi affatto.

Siamo condannati a un'eterna incomprensione, inconsapevoli vittime di perenni, ineliminabili, reciproci fraintendimenti? Argomento affascinante, che ci conduce lontano, all'impossibilità di un linguaggio di parlare di sé stesso, ai modi e alle convenzioni per sfrondare la comunicazione dalle ambiguità, per affrancarla dalla metafisica delle parole. Proviamo a muoverci su una linea intuitiva, di massima semplicità, cerchiamo semplicemente una base comune per avviare la discussione.

Cos'è, allora, il gusto? E' qualcosa - dai contorni ancora indefiniti - che una volta raggiunto e sedimentato ci impedisce di tornare indietro. Il gusto è una conquista con un forte grado di definitività, se non addirittura irreversibile. Il gusto - in questa accezione ancora vaga - assomiglia molto all'educazione e avrete notato l'assenza di qualsiasi qualificazione: gusto e educazione senza aggettivi, senza giudizi di valore su cosa siano la buona e la cattiva educazione, il buon gusto e il cattivo gusto. Il gusto, come l'educazione, diventa una seconda natura. Adottiamo certi atteggiamenti, usiamo certe espressioni, seguiamo certi comportamenti, spontaneamente e inconsapevolmente, in modo naturale appunto, senza bisogno di riflettere, senza necessità di pensare.

Abbiamo tutti esperienza del collega d'ufficio che fa il gesto teatrale di offrire il caffè alla comitiva, trovando poi il modo di defilarsi; e abbiamo il collega che in prossimità del bar si erige a capofila del gruppo, entra per primo, e in silenzio va dritto alla cassa con la banconota in mano, per poi girarsi e chiedere: "quanti caffè?". Al bancone c'è chi si fionda sul primo caffè in arrivo, quasi vi fosse il pericolo di restare senza, e chi invece è a disagio a consumare finché non vede tutti gli altri con la tazzina in mano. Ci sono uomini che in ascensore cedono invariabilmente il passo alla donna, anche quando si trovano in prossimità delle porte, e altri che ritengono invece di dover uscire per primi, per una questione di praticità.

Automatismi, gesti meccanici, di per sé irrilevanti, che diventano però fessure da cui scorgere quel mondo di cose che sta dentro una persona. L'educazione, come il gusto, ci qualifica, nel bene o nel male. L'educazione, come il gusto, ci vincola, ma è un vincolo sui generis, molto particolare, di cui neppure ci accorgiamo, tanto spontaneamente siamo portati a rispettarlo, in un senso o nell'altro, in una direzione o nella sua opposta. L'educazione e il gusto, una volta interiorizzati, si trasformano in istinti di base, in cose che facciamo o non facciamo perché diventa insito nella nostra più profonda natura fare o non fare certe cose. E' un po' come allacciarsi le scarpe: ognuno lo sa fare, ognuno lo fa a modo suo, ma non chiedete a nessuno di sezionare quell'atto nei singoli movimenti necessari a compierlo, perché allora ci scopriremmo tutti incredibilmente imbranati.

Proviamo a spingere oltre l'analogia tra gusto e educazione, sino a renderla ardita, sfidante. Il mondo è bello perché è vario, ma pur nell'ampia varietà di usi e costumi dei numerosi popoli, e persino nel rispetto delle eterogenee convinzioni dei singoli individui, c'è uno zoccolo duro di credenze unanimemente qualificate come buona educazione. Possiamo mutuare l'idea al gusto? Possiamo parlare di buon gusto e cattivo gusto con la stessa sicurezza con cui parliamo di buona e cattiva educazione? Domanda scivolosa, disseminata di insidie.

Strabuzziamo gli occhi, deglutendo a fatica, alla visione di un posacenere a forma di Colosseo accanto a un accendino con le fattezze della Torre Eiffel, su un tavolino di cristallo al centro del salotto. Ci sembra un raro concentrato di pacchianeria, una miscela letale di volgarità e insulsaggine, una manifestazione palese di cattivo gusto. Eppure si continuano a produrre posacenere-Colosseo e accendini-Torre Eiffel, e si producono perché c'è qualcuno disposto a comprarli, desideroso di averli, che probabilmente giudica l'accoppiata originale e raffinata. Chi siamo noi per contestare le sue preferenze, per autoproclamarci custodi di una cosa così impalpabile e sfuggente come il buon gusto? Potremmo avere sgradite sorprese a farci scudo con l'opinione della maggioranza, a opporre il parere di molti a quello del singolo, per persuaderlo dell'inopportunità della scelta. Potremmo scoprire che in giro ci sono molte accoppiate stravaganti di posacenere e accendini, più di quante ne immaginavamo, ma per fortuna i principi del buon gusto, come quelli della buona educazione, non dipendono dal fatto che a rispettarli siano in molti o in pochi, tutti o nessuno. Il discorso, come vedete, è primariamente logico, non empirico.

Capite perché parlo di gusto e di educazione come di una seconda natura? Sono entrambe cose - e non importa definirle con precisione - che una volta consolidate nel nostro soggettivo sentire non ci lasciano più alternative, non contemplano variazioni sul tema, proprio come - per esser chiari - non esiste un'alternativa al mangiare se si ha fame o al dormire se si ha sonno. Cederò sempre il passo a una signora, in ascensore o davanti a una porta, o in qualunque altra circostanza, anche se l'oggettiva situazione fisica mi spinge a fare il primo passo, a passarle davanti. Perché lo faccio? Per il più inoppugnabile dei motivi: perché sì. Lo faccio perché ormai è nella mia natura, per quanto scomodo o inutile possa essere a volte soggiacervi.

Possiamo caratterizzare il buon gusto in filatelia? Possiamo assoggettarlo a delle regole, definirne una sintassi e una semantica? Possiamo andare oltre l'infantile e banale "a me piace"? Sì, possiamo. Noi possiamo immaginare un percorso evolutivo che muova dall'uomo di Neanderthal e conduca al Lord inglese, per quanto il processo sia lungo, complesso e dagli esiti incerti. Ci siamo riusciti con l'educazione, possiamo farcela, dobbiamo almeno tentare, anche con il gusto.

Lo faremo durante il viaggio di ritorno, quando dal Regno di Sicilia ci muoveremo verso il Regno di Napoli, e l'occasione sarà favorevole per familiarizzare con i "Marzocchi", i francobolli del Granducato di Toscana. Trarremo da questo catalogo - di una prestigiosa casa d'asta svizzera - un eccellente "case study" per localizzarci nell'ampio spettro che va dalla clava del primitivo al papillon del gentleman. Utilizzeremo quei francobolli, quei "Marzocchi", come punto di attacco per definire con quanta più precisione possibile il buon gusto filatelico, il cattivo gusto e la mancanza di gusto, per affrancare le nostre scelte dall'emotività e ricondurle nello spazio della ragione, l'unico luogo dove l'intelletto ha possibilità di operare.

Basta così, per il momento. Torniamo sul ponte. Voglio mostrarvi il sole della Sicilia...

½ grano, I tavola, carta di Napoli.
Colore arancio carico, di eccezionale intensità.

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