PERITI - "Buono stato": il linguaggio dei periti filatelici

Da pagina 72 del libriccino "6 periti e un francobollo", anno 1934.
 
Il linguaggio formalizzato è il primo discrimine tra le discipline scientifiche e il pot-pourri di aneddoti, folklore e regole del pollice.
 
E' il linguaggio stesso a conferire spessore alla disciplina, basti pensare ai tre piani su cui si può affrontare una stessa materia accademica: divulgativo, didattico, di ricerca.

La più parte dei professori universitari disdegna la divulgazione, perché l'eterogeneità del pubblico obbliga a banalizzare il linguaggio, e quindi a deformare gli stessi concetti trasmissibili, non più conformi agli originari se non per vaga assonanza. Alcuni sono insofferenti addirittura verso la didattica - che impone anch'essa semplificazioni di linguaggio - vissuta come una "tassa" sull'unica attività a cui riconoscono valore, la ricerca scientifica, dove si raggiunge il più alto livello di pulizia linguistica.    
 
Tutte le persone serie, quando si occupano in modo serio di argomenti seri, avvertono l'esigenza di sostituire il linguaggio ordinario con un linguaggio speciale. Perché il linguaggio ordinario è fatto di parole sfuggenti - è polisemico, per dirlo con eleganza - e la pluralità di significati è incompatibile con la precisione e la chiarezza dell’approccio scientifico.
 
Prendiamo la parola buono: un buon risultato, un buon voto, una buona partita restituiscono una sensazione positiva, di soddisfazione; se però diciamo "tutto sommato è stato un buon risultato", gli elementi al contorno - d'intonazione lamentosa - lasciano trasparire il rammarico per ciò che poteva essere e non è stato (è stato un buon risultato, ma poteva andare meglio); se poi giudichiamo qualcuno "di bocca buona", la parola inverte il suo significato, da positivo a negativo, e indica ora il gusto grossolano di chi accetta ogni cosa gli venga propinata.
 
Razza, in biologia, è un termine tecnico per la classificazione delle specie; se però dico "che razza di discorsi", la parola serve a mortificare il ragionamento del mio interlocutore; ma al tempo stesso vorrei tanto avere "un centravanti di razza" nella mia squadra di calcio.
 
Il Mercurio rosso, per chi ci crede, è un composto chimico - diciamo pure una sostanza immaginaria - per semplificare la costruzione della bomba atomica; se però lo nominate a un filatelico, lo vedrete sgranare gli occhi, perché parliamo di uno dei francobolli classici più rari d'Europa. 
 
Codice è una parola collegabile alla comunicazione cifrata (il linguaggio in codice) all'informatica (codice di programmazione) e alla giurisprudenza (codice civile, codice penale).

Integrale può riferirsi a un discorso (il discorso integrale del Presidente della Repubblica) o al cibo (la pasta integrale) oppure alla matematica (l'integrale come operazione inversa della derivata).
 
Compromesso può evocare una situazione piacevole (la firma di un compromesso per l'acquisto di una casa) oppure neutra (quando si raggiunge un compromesso che mette fine a una contrapposizione) o sgradevole (quando il funzionamento di un macchinario è compromesso).
 
La raccomandazione ci fa storcere la bocca, se ne sentiamo parlare in un concorso pubblico o in una selezione in generale, ma se ci raccomandiamo di portare a conclusione un compito a regola d'arte, ci attendiamo il più grande scrupolo nella sua esecuzione.
 
Il giochino potrebbe andare avanti ancora - e ancora e ancora - ma presumo di aver reso l'idea del mimetismo della parola, dell'influenza decisiva del contesto nell'attribuirgli un significato.
 
 
E non è solo un fatto di parole che cambiano significato in funzione delle altre parole con cui si legano. C'è una dimensione più profonda: cosa avviene nella testa di ciascuno di noi, quando usiamo il linguaggio per comunicare con agli altri, per capire ed essere capiti dagli altri?

"Io posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d'accordo.

Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo intesi perfettamente.
 
Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
 
- Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto cosí e cosí? 
 
Cosí e cosí, perfettamente. Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci, non ci siamo intesi affatto. 
 
Eh, storia vecchia anche questa, si sa. E io non pretendo dir niente di nuovo.

Solo torno a domandarvi:

- Ma perché allora, santo Dio, seguitate a fare come se non si sapesse?
".
 
Tutte le persone con un minimo di cultura sanno che il significato delle parole non lo si trova nei dizionari, ma va ricercato in quel mondo di cose che ognuno porta dentro di sé, perché le parole sono contenitori che ognuno riempie con i propri significati, creati nel corso della propria vita.
 
Ecco perché - regolarmente - abbiamo creduto d'intenderci e invece non ci siamo intesi affatto:  perché ognuno ha dentro di sé il suo mondo di cose, spesso diverso, e a volte spettacolarmente divergente, da quello degli altri.
 
  
Su queste premesse si capisce perché ogni disciplina scientifica abbia l'esigenza di bonificare il linguaggio, di radere al suolo quei mille mondi di cose d'ostacolo alla comunicazione, e costruire una nuova lingua, un linguaggio speciale, con una logica diversa.
 
Non si tratterà più di definire il significato di una parola (complessa) attraverso il significato di altre parole (più semplici, di senso ipotizzato condiviso a priori). Ogni parola avrà un significato collegato a cose "osservabili", che siano - almeno in senso concettuale - "sotto gli occhi di tutti".
 
Mettiamola così, per rendere l'idea. Ci sono casi, nel linguaggio comune, in cui i mondi di cose di ognuno di noi collassano in un unico mondo, nello stesso mondo. Pensiamo alla parola tirannia. Di per sé - se guardiamo alla sua etimologia - indica semplicemente una situazione in cui il governo è nelle mani di una sola persona, il che, in sé, non è né un bene né un male. Ma è sotto gli occhi di tutti che i tiranni non hanno mai avuto nulla di Re Salomone: ogni tirannia è invariabilmente basata su un'autorità violenta, su un esercizio dispotico del potere, che azzera le libertà dei singoli e conosce epiloghi inevitabilmente tragici. Vi è allora una convergenza di stati d'animo nel riempire di uno stesso significato negativo la parola tirannia.
 
Un linguaggio speciale - la sua costruzione - sottrae la convergenza di significati alle rare contingenze fortunate, per renderla sistematica, consapevole; controlla l'associazione tra parole e fatti oggettivi; definisce un simbolismo in cui le singole parole sono libere da ambiguità interpretative e si legano tra loro con regole sintattiche che inibiscono il non-senso. Ne segue una comunicazione chiara e fluida, perché tutti sanno - a un dato momento - cosa stanno dicendo o ascoltando.
 
Un linguaggio speciale introduce spesso parole sue proprie, ma recepisce pure numerose parole del linguaggio ordinario, di uso comune, a cui attribuisce nuovi significati, anche molto diversi da quelli usuali.

Stigma, in botanica, è la parte superiore del pistillo su cui si posa il granulo pollinico; in zoologia, è ciascuna delle aperture delle trachee nell'apparato respiratorio degli insetti, e anche il nome di alcune macchie colorate delle ali delle farfalle e di altri insetti; se ci spostiamo in ambito sociologico, la "teoria dello stigma" descrive l'insieme di situazioni in cui si distingue tra "noi" e "loro", tra i "normali" e gli "altri" (che si discostano dalla normalità per uno o più comportamenti giudicati negativi); in economia la parola varia ancora di sfumatura, e si parla di "effetto stigma" per indicare - a esempio - una situazione in cui la richiesta di supporto finanziario di un agente economico - uno Stato, una banca, un'impresa - è percepita come un'ammissione di debolezza.
 
La parola colonna, se usata nel linguaggio ordinario, identifica un elemento architettonico (ad esempio la colonna di un porticato); diventa una parte del corpo umano, se ci spostiamo in ambito medico (la colonna vertebrale); nell'ambiente militare indica una formazione di soldati che marciano in file in cui il complesso è più lungo che largo (per consentire una trasformazione rapida in quadrato in caso di un attacco di cavalleria).
 
Particolarmente interessante è la parola rischio. Nel parlare comune evoca una situazione indesiderata, di pericolo, comunque sfavorevole - si rischia di fare tardi, di subire un goal, di perdere del denaro - laddove nel linguaggio speciale della gestione aziendale il rischio è la possibilità di uno scostamento tra fatto previsto e fatto osservato, e quindi il rischio ha due facce, una negativa e l'altra positiva, una di minaccia l'altra di opportunità, perché l'osservazione può discostarsi dalla previsione sia in peggio che in meglio. Anzi, quando un'azienda assume rischi lo fa proprio con l'idea di guadagnare di più rispetto a un business as usual; e quando adotta strategie di mitigazione del rischio non ha certezza di realizzare risultati economici migliori di quelli che avrebbe conseguito in sua assenza (perché la mitigazione riduce le oscillazioni intorno al target di rendimento, elimina parte degli eventi sfavorevoli, ma sacrifica anche parte dei favorevoli). 

E non serve a nulla invocare l'etimologia - rischio: "esser tagliente come una roccia", dal latino "re" (ripetere) e "secare" (tagliare), con l'allusione al pericolo avvertito dai marinai quando navigavano in acque da cui affioravano scogli affilati, che provocavano ripetute scalfitture alle loro navi - non serve a nulla, dicevo, questo sfoggio di erudizione per imporre a ogni costo l'equivalenza tra rischio e pericolo, perché le parole - nei linguaggi speciali - si definiscono con fatti osservabili e verificabili da tutti gli attori coinvolti.

Ne possiamo trarre due conclusioni.

La prima: nessuna parola - nel linguaggio ordinario - ha un significato suo proprio; le parole prendono significato in funzione delle altre parole con cui si combinano, del modo con cui vengono introiettate e della situazione generale - contesto, interlocutori, circostanze, finalità - in cui ci si trova a comunicare.

La seconda: non si può dar a intendere di essere persone serie, che si occupano seriamente di cose serie, se non si avverte l'urgenza di definire e utilizzare un linguaggio speciale, che smazzi via ambiguità e incomprensioni lessicali, pur nel rispetto delle singole opinioni.


 
Il problema delle perizie filateliche non è l'espressione gergale buono stato - in cui la parola buono subisce un (lieve) slittamento di significato - sia perché le mutazioni di senso sono all'ordine del giorno nei linguaggi settoriali, sia perché sappiamo tutti che il buono stato filatelico indentifica oggetti di seconda scelta.

Il problema è nel non aver mai voluto codificare il buono stato all'interno della comunità filatelica, affinché buono stato significasse la stessa cosa per tutti (qualunque significato gli si volesse dare).

Il problema - in generale - è nel mantenere volutamente espressioni evanescenti - margini a filo, gomma integra, minima riparazione, etc. - aperte a interpretazioni multiple, e a volte persino opposte, creando incertezza anziché ridurla (come una perizia dovrebbe fare).
 
Ma l'approccio approssimativo e casareccio del mondo peritale italiano - la totale incuria verso il linguaggio - si coglie emblematicamente già nella parola certificato associata a perizia: si parla usualmente di certificato peritale - il certificato sarebbe il foglietto rettangolare su cui è scritto l'esito della perizia - che è come dire acqua asciutta, luce nera o quadrato circolare, perché i certificati registrano fatti (il certificato di nascita, di morte, di matrimonio) laddove la perizia esprime sempre e solo un'opinione ("a mio parere").
 
 
Se poi la classe peritale vorrà dire che così s'impone troppa logica a una cosa - la filatelia - che proprio non la sopporta, che la tradizione filatelica è ormai cristallizzata e il codice linguistico è immodificabile, allora si dovrà prendere atto - per coerenza - che la loro attività non è poi così rigorosa come vorrebbero far credere, e che anzi nelle perizie filateliche non vi è nulla di rigoroso, perché il rigore dell'analisi e della sintesi inizia nel linguaggio, e non si può mai conseguire senza un linguaggio rigoroso.
 
Poi, ovvio, continuerà a esistere - nel collezionismo filatelico e non solo - un caleidoscopio di sentimenti e stati d'animo che non si lascerà recintare in parole precise, che manterrà sfumature indicibili, incomprimibili in categorie tecniche, perché - sì, ammettiamolo - esiste un limite alla possibilità di cogliere il pensiero nelle parole, i concetti nelle preposizioni.
 
Il linguaggio formalizzato non pone però limiti a ciò che si può pensare o percepire, non nega l'esistenza di ciò che il formalismo non riesce a cogliere, né vuole declassarne l'importanza. Solo ci tiene a tracciare un limite alle possibilità espressive, perché se una cosa si può dire allora si può dirla chiaramente, e su ciò che non si può dire chiaramente si deve solo tacere, senza vie di mezzo.

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