PERITI - "A mio parere": valore, scopo e limiti di una perizia filatelica

Dalle pagine 193-194 del libriccino "6 periti e un francobollo", anno 1934.
 
Cos'è una perizia filatelica? Su cosa si pronuncia? A chi è rivolta? Qual è il suo valore (teorico) e quali sono i suoi limiti (pratici)?

Le opinioni costituiscono il 95% di tutto


Che il sole sorga è un'ipotesi, un'opinione: noi non sappiamo se sorgerà, anche se, a nostro parere, lo vedremo alzarsi in cielo pure domani.
 
E se persino il sorgere del sole è un'opinione, un parere, figurarsi il resto.
 
Un medico rilascia un parere, quando formula una diagnosi e prescrive una terapia (è dell'opinione che il paziente abbia proprio quella malattia e guarirà proprio con quella cura).
 
Un avvocato rilascia un parere, quando accetta una causa (è dell'opinione che la vincerà).
 
Un ingegnere edile rilascia un parere, quando realizza un progetto (il palazzo starà in piedi, secondo la sua opinione).
 
Una società di revisione rilascia un parere, quando certifica un bilancio aziendale (ha l'opinione che sia veritiero).
 
Un'agenzia di rating rilascia un parere, quando si pronuncia sulla sostenibilità debito pubblico di uno Stato.
 
Sposarsi vuol dire esprimere un parere (il rapporto sentimentale durerà, nell'opinione della coppia).
 
Che domani sorga il sole è un'opinione (se una collisione con un altro corpo celeste lo distruggesse nella notte?).
 
Le opinioni, i pareri, costituiscono "la più parte della nostra attività mentale, specialmente nella pratica", ci ricorda Bruno de Finetti, nel suo "Saggio critico sulla teoria della probabilità e il valore della scienza".



Vi sento perplessi: se il palazzo resterà in piedi, se il paziente guarirà, se il matrimonio arriverà alle nozze d'oro, allora, vedi, non era solo un'opinione dell'ingegnere, del medico e della coppia; i fatti hanno dato loro ragione, le loro certezze dovevano avere una base reale.
 
Mi spiace, ma questo modo di ragionare - per quanto naturale e consueto - è fuorviante.

Siamo sempre di fronte a opinioni, e tutte le opinioni sono soggettive, più o meno soggettive, ma in nessun caso oggettive - come i materiali sono più o meno frangibili, ma nessuno è infrangibile - e in effetti avvertiamo una differenza piuttosto marcata tra le affermazioni di un ingegnere, di un medico e di una coppia.
 
E in cosa differisce il nostro stato d'animo davanti alle opinioni di un ingegnere impegnato in un progetto, di un medico alle prese con una diagnosi, e di una coppia sull'altare di un chiesa? Differisce per la sua stabilità, per la maggiore o minore estensione e importanza delle circostanze suscettibili di modificarlo, rafforzarlo o scuoterlo.
 
Questo è il punto capitale, con cui si recupera la cruciale distinzione tra fatti e opinioni, e da cui dobbiamo muovere per arrivare a formulare proposizioni dotate di senso.
 


Un fatto è un evento del mondo esterno, che tutti registriamo allo stesso modo, senza alcun coinvolgimento intellettuale o emotivo. "L'11 maggio 1860 Garibaldi sbarcò a Marsala" è un fatto.

L'opinione è la rielaborazione psicologica di uno o più fatti, realizzata da un soggetto specifico. "Gli inglesi giocarono un ruolo cruciale nello sbarco della Spedizione garibaldina" è un'opinione.
 
Possiamo dire che il nostro animo rimane passivo, non ha alcun ruolo, di fronte a un fatto, laddove deve invece farsi parte attiva nell'elaborazione di un'opinione a partire dai fatti.
    
Si costruiscono le opinioni (soggettive) sui fatti (oggettivi) come si costruisce una casa con i mattoni, ma un cumulo di fatti (di mattoni) non è un'opinione (una casa) e quindi non ci si può mai accontentare di un mero elenco di fatti, senza reinterpretarli con l'opinione. Le opinioni impastano i fatti con i sentimenti, i pensieri, le prospettive, le esperienze, le convinzioni e i valori del soggetto che le formula, e con gli stessi identici fatti (con gli stessi mattoni) si possono costruire tante opinioni (tante case) tutte diverse, anche se non tutte ugualmente stabili.

La filosofia sorregge il punto di vista. "Un fatto è come un sacco: vuoto, non si regge" - fa dire Pirandello a uno dei suoi personaggi in cerca d'autore - "Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato".
 
I fatti hanno bisogno della ragione e dei sentimenti di un'opinione, per reggersi in piedi, e di un'opinione, proprio perché plasmata di ragione e sentimenti, non si può dire se sia "vera" o "falsa", come per un fatto, ma solo se è "coerente" o "incoerente" con altre opinioni a essa collegate e con l'insieme dei fatti su cui si basa.
 
Pure, un'opinione resta soggetta a modifiche, in conseguenza dell'arrivo di nuove informazioni, di nuovi fatti. "Quando i fatti cambiano, io cambio opinione" - dichiarava con un sottile piglio polemico il celebre economista John Maynard Keynes - "Voi no?".
 
 "Ho cominciato fin da ragazzo a comprendere
che il concetto di 'verità' è incomprensibile.
E ho cercato allora di analizzare
- caso per caso, più o meno inconsciamente -
cos'è che in sostanza intendiamo dire quando diciamo,
secondo la locuzione comune, che qualche cosa 'è vero'.
Ora soltanto la mia sete di sviscerare questo problema
si sente, nel fondo, appagata"
(Bruno de Finetti)
 
Ora - chiarita la differenza tra fatti e opinioni, e la dipendenza soggettiva delle seconde dai primi - come mai alcune opinioni ci sembrano più affidabili di altre, sino a sentirle così spontanee e radicate nell'animo, da dirle "vere"? Semplicemente perché i fatti su cui si basano sono stabili - e al limite immodificabili - e su di essi è allora facile raggiungere un'opinione anch'essa stabile e condivisa, un accordo intersoggettivo così largo da potersi dire - con abuso di linguaggio - oggettivo.

I fatti su cui si basa l'opinione di un ingegnere sono le leggi di Madre Natura, invarianti nel tempo e nello spazio, a cui da sempre gli uomini obbediscono affinché la Natura obbedisca loro, senza che nulla sia mai accaduto sinora per farci avere dei ripensamenti. Ecco perché le opinioni dell'ingegnere appaiono solide: perché è solida la base su cui poggiano, perché usano fatti virtualmente immodificabili, perché nessun nuovo fatto arriverà mai a mettere in dubbio i fatti già acquisiti.
 
Già con i medici la cosa si attenua, di poco, ma sufficiente ad apprezzare la differenza. I fatti alla base di diagnosi e terapie sono i meccanismi di funzionamento del corpo umano, generalmente invarianti nel tempo e nello spazio, da un individuo all'altro. E così, nella generalità dei casi, l'opinione del medico beneficia di una notevole stabilità dei fatti su cui è formulata. Ma c'è pure una frazione di casi - neanche così piccola - in cui le opinioni di diversi medici possono divergere, perché quando esaminiamo il singolo caso clinico scopriamo che ogni individuo è unico e irripetibile, che ciò che ha guarito il Signor X non è automatico che funzioni pure con il Signor Y, a cui è stata diagnosticata la stessa malattia. E così assistiamo a dispute sull'opportunità di adottare una terapia e non un'altra, di somministrare o meno un certo farmaco, di operare il paziente o ripiegare su azioni meno invasive.
 
Via via che ci si sposta da ambiti in cui i fatti più rilevanti sono ormai acquisiti in via definitiva ad altri dove l'arrivo di nuovi fatti può scuotere anche le convinzioni più radicate, ecco che anche le opinioni diventano più ballerine.

Si dice spesso - ancora una volta con abuso di linguaggio - che noi correggiamo le nostre opinioni iniziali se l'esperienza le smentisce. Ma un simile modo di esprimersi e di intendere è privo di senso, se preso alla lettera. Non si tratta di correggere opinioni che sono state smentite - il che non ha senso - ma di rimodulare l'opinione iniziale sui nuovi fatti osservati, di tener conto delle nuove circostanze apprese, proprio per mantenersi coerenti con l'opinione iniziale, proprio come dicendo "sono le 11 e 10" non smentisco l'affermazione fatta dieci minuti fa "sono le 11.00", ma la modifico per conservarmi in accordo con essa.
  
Estratto della sezione sui falsi d'epoca del Regno di Napoli,
dal Catalogo Sassone "Antichi Stati Italiani - Regno di Italia - 1850 -1900".
 
La classificazione del falso di Napoli da 20 grana operata da Emilio Diena era un'opinione, basata su tutti i fatti disponibili all'epoca della sua formulazione e coerente con essi, quindi "giusta", se così si vuol dire in luogo di "coerente". Gli "studi e ritrovamenti posteriori alla scomparsa del Maestro" - come si legge nel Sassone - non hanno "smentito la sua opinione" (frase priva di senso!) ma hanno indicato la necessità di ritoccarla, per preservarne la coerenza con la nuova situazione fattuale.
 
Non è quindi il caso di cercare la verità, ma soltanto di fare uno spassionato esame di coscienza, per acquisire piena consapevolezza della propria opinione, in relazione a tutte le informazioni rilevanti, senza interpretare le nostre opinioni come verità esterne a noi, come qualcosa di preesistente al nostro pensiero, altrimenti finiremo col perderne il controllo e renderle incomprensibili a noi stessi che le abbiamo create.
 
Dopodiché - è vero - spesso uno sbaglia per non aver riflettuto o per non aver riflettuto abbastanza o, avendo riflettuto, per non aver saputo resistere alla tentazione di sbagliare pur sapendo di sbagliare, e le sue opinioni risultano allora "sbagliate" (incoerente, a esprimersi con rigore) per non aver preso in considerazione - per colpa o per dolo - fatti già disponibili e suscettibili di alterarle. 
 
Ma altrettanto spesso il rimprovero c'è benché non vi sia alcuna colpa, tranne quella di non essere un indovino. Spesso sembra quasi sentire sentir gabellare come "realismo” il giudicare secondo i risultati, il considerare che la misura dei meriti è data dal successo, giudicando come insignificante il soffermarsi sui se e sui ma.
 
Certo, ciò è insignificante rispetto ai fatti, che nessun se e nessun ma può cancellare né modificare. I fatti non ammettono appello. Ma altra cosa è il giudizio sui fatti, la valutazione delle responsabilità, l’apprezzamento o la critica all’operato di ciascuno. A questi effetti, no, il verdetto dei fatti non è inappellabile, anzi, non ha valore alcuno. O ne ha se aiuta a vedere meglio l'insieme dei se e dei ma che soli permettono di giudicare l'operato nell’unico senso in cui ha senso, e cioè nell'atto e nella situazione e nello stato di informazione in cui l'operare si svolgeva, momento per momento.
  

Gran parte della nostra vita è basata su pareri e opinioni, più o meno autorevoli, più o meno credibili, e a cui potremo prestare più o meno fiducia, ma pur sempre pareri e opinioni, affermazioni che non sono né vere né false, ma semplicemente suscettibili di aggiornarsi con l'arrivo di nuove informazioni.
 
Chissà perché, invece, al perito filatelico si richiede qualcosa in più di un "semplice" parere, come se il resto del mondo, nella sua vita privata e professionale, esprimesse qualcosa di diverso da opinioni e pareri, come se si potesse davvero, volendolo, esprimere qualcosa di diverso da pareri e opinioni.

Che un gruppetto di sfaccendati trascorra il tempo a ironizzare sulla formula "a mio parere", e pretenda espressioni alternative pretestuosamente più solenni o fintamente impersonali, non è un fatto sorprendente.
 
Fa invece meraviglia che alcuni periti vi siano andati dietro, che abbiano assecondato le strida dei beoti, nella speranza (illusione) di poterle placare.
 
Il compianto Ingegner Mario Merone avrebbe voluto far parte dell'Associazione Periti Filatelici Italiani Professionisti (APFIP), ma la sua domanda di ammissione fu respinta. Ci rimase male, parecchio male, e sul suo sito internet (ora non più attivo) pubblicò un articolo intitolato "NON GRADITO A..." in cui riepilogava la vicenda, mostrava il carteggio con l'APFIP e s'interrogava sulle motivazioni del rifiuto, procedendo - con tono polemico - per esclusione.
 
 

 
Spiace che persino una persona di cultura come l'Ingegner Merone sia malamente caduta in un gioco di parole così banale.
 
Le sue perizie non esprimevano "una semplice opinione"? Oh, bella! E cosa avrebbero dovuto mai essere allora? Delle verità assolute? Era cioè così presuntuoso da credere di poter affermare qualcosa non soggetta a contraddittorio?
 
Le sue perizie lo rendevano "responsabile dell'attestazione"? Ma in che senso? In cosa consisteva - in concreto - questa assunzione di responsabilità? Nel aver eliminato - e meglio sarebbe dire occultato - la formula "a mio parere"?

Suvvia! Quando si pretende di azzerare i fattori soggettivi, si finisce semplicemente per girarci intorno, più o meno abilmente, senza però riuscire a evitare gravi errori logici.
 
Vi sono già abbastanza nani, clown e ballerine nel gran circo della filatelia, e nessuno sente il bisogno di aggiungere altro folklore.

Restiamo seri, se pensiamo che la filatelia sia una cosa seria, e non un passatempo per chi non sa come legare la mattina al pomeriggio.
 
Liberiamoci dall'idea che formulazioni testuali formalmente diverse da "a mio parere" corrispondano a qualcosa di effettivamente diverso da un parere.

Opinioni: su cosa?

La perizia è e rimane un'opinione.
 
E su cosa si esprime questa opinione? Prima di ogni altra cosa sulle caratteristiche dell'oggetto filatelico dirimenti per finalizzare una transazione commerciale: "originalità" e "perfezione".
 
"Originale" e "perfetto" sono dunque i due concetti alla base della perizia filatelica.
 
Ma cosa vogliono dire queste parole, qual è il loro significato tecnico, ammesso ne abbiano uno?
 
Rimaniamo al momento su un livello più possibile intuitivo.
 

Questa lettera - all'apparenza - è un colpo al cuore: una mista risorgimentale tra la Crocetta (il francobollo della Luogotenenza napoletana di Farini) e un 2 grana dell'emissione delle Province Napoletane.
 
La troviamo in una pubblicità d'epoca di Raybaudi, a pagina 5 del numero 12 della rivista "Il Collezionista" del 1951, presa come pietra di paragone per i "mille pezzi di eccezione" offerti nelle aste in arrivo.
 

E anche storicamente riprodotta sul Catalogo Sassone, nella sezione dedicata alla "Dittatura e Luogotenenza" di Napoli (anche se non è citata tra le "maggiori rarità" del periodo).


Sembra tutto in ordine, complessivamente; i margini della Crocetta sono risicati e l'annullo non è tra i migliori, ma sono cose obiettivamente ininfluenti, tenuto conto dell'oggettiva, reale, rarità del pezzo.
 
Ma - sapete - il collezionismo filatelico è particolarmente esposto non solo alle falsificazioni vere e proprie, quanto alle manipolazioni, perché la carta - lettera o francobollo che sia - si presta più di ogni altro materiale a essere alterata, senza che l'alterazione sia immediatamente percepibile sin anche a un occhio esperto.
 
Non si può mai esser sicuri - in filatelia - che l'oggetto che si vede ora sia lo stesso di allora.
  
 
Questa mista risorgimentale è una delle grandi manipolazioni di "Napoli": i francobolli, in origine, erano a destra della lettera, sopra l'indirizzo; furono rimossi e collocati in alto a sinistra, con la conseguente necessità di completare la parte mancante dell'annullo, e soprattutto di rifare pressoché totalmente il timbro circolare di Potenza nella zona dove in francobolli erano stati applicati al principio; la Crocetta - in origine pesantemente difettosa - fu riparata e ridipinta.
 
Nessuno se n'è mai accorto, per decenni.
 
Alberto Diena e Federico Grioni firmarono la lettera per esteso (i loro nomi sono visibili già nelle riproduzioni d'epoca) così come Enzo Diena (la sua firma si vede in una riproduzione più recente).
 
 

Nessuno - qui - vuole muovere accuse ad Alberto Diena, Federico Grioni e Enzo Diena, perché nessuno - qui - sa dire se  l'immagine ora a nostra disposizione era già in circolo allora (probabilmente no: a mia conoscenza la si vede per la prima volta nel volume di De Angelis e Pecchi del 2008 sulle "Cento Croci") né se all'epoca vi fosse una tecnica per scovare la manipolazione (probabilmente no, perché i periti stanno ai manipolatori come l'antidoping sta al doping: in continua rincorsa).
 
E a ogni modo non è questo il punto, non ci interessa capire - almeno non qui - se i Diena e Grioni avessero o meno la possibilità fattuale di accorgersi di ciò che era accaduto alla lettera, o almeno di avvertire un ragionevole dubbio. Il punto - qui - è un altro: sapendo ciò che sappiamo oggi, ce la sentiamo ancora di definire "originale" questa lettera?
 
Cosa - in questa mista risorgimentale - è ora come era allora, "in origine"? I due francobolli si trovavano sulla lettera, sì, ma non nella posizione in cui li vediamo ora, il che rileva sia di per sé (ogni intervento che altera lo status quo determina un falso ideologico) sia in rapporto alle conseguenze (lo spostamento ha obbligato a dipingere timbri inesistenti); la Crocetta, poi, è anch'essa ricostruita nella parte superiore, per un'estensione oggettivamente non banale.
 
Sono manipolazioni sufficienti a privare l'oggetto dello status di "originale"? Si? No? Forse?
 
Ognuno è chiamato a stabilirlo da sé, con la sua sensibilità verrebbe da dire, o meglio ad arbitrio, perché il problema dell'originalità - in generale - si trasforma a volte in un sistema con più incognite che equazioni, quindi indeterminato, aperto a infinite soluzioni.
 
Estratto da pagina 44 del libriccino "6 periti e un francobollo", anno 1934.
 
Questa mista risorgimentale - usata a mo' di esempio accattivante -  ci si prospetta l'argomento generale della "originalità" di un oggetto filatelico, riconosciuto controverso già negli anni '30 del secolo scorso - da Emilio Diena, nella sua monografia sui francobolli di Napoli - e a tutt'oggi irrisolto.
 
 

"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia", fa dire Shakespeare ad Amleto.
 
E quel che può accadere tra cielo e terra, quanto possano essere estese riparazioni e ridipinture nella pratica filatelica, supera ogni immaginazione possibile.


 
Questa Crocetta - nell'opinione di Giacomo Bottacchi - è un pezzo "pregevole", "difettoso ma di buon aspetto", un tris di valutazioni che è già un bel bisticcio di parole. Fa sorridere che un esemplare riconosciuto "difettoso" sia al tempo stesso  "pregevole", non foss'altro perché nulla si dice sulla natura e l'estensione dei difetti. Ma qui c'è da stressare un punto più generale.
 
La Crocetta è uno dei francobolli degli Antichi Stati su cui sappiamo di più, dopo l'opera di De Angelis e Pecchi. Tutti - con in mano il loro volume sulle "Cento Croci" - possono virtualmente effettuarne il plattaggio, dire a quale posizione del foglio apparteneva la Crocetta sotto esame, al momento della stampa. E il plattaggio potrebbe diventare un avvio di soluzione - minimale - al problema posto da Emilio Diena: se le riparazioni sono così estese da inibire il plattaggio - da non permettere l'identificazione della posizione dell'esemplare - allora quell'esemplare deve giudicarsi un falso, a tutti gli effetti, senza dubbio.
 
Il plattaggio di una Crocetta dovrebbe allora diventare una caratteristica "di serie" di un'opinione peritale, e non un "optional" (anche perché, plattando l'esemplare, il perito dimostra di sapere su cosa si sta pronunciando).
 
Qual è dunque la posizione di questa Crocetta, di questo "pregevole esemplare - difettoso, ma di buon aspetto"?      

Bottacchi non lo dice, ma la risposta - impietosa - arriva da un altro perito, l'Ingegner Merone (e si capisce il suo rammarico nell'esser stato escluso da quell'APFIP, a cui apparteneva invece Bottacchi).
 
"La Croce è manipolatissima e con ampio bordo di foglio laterale che la collocherebbe nella posizioni da 10 a 100, ma le linee verticali dei cantoni la collocherebbero alla posizione 82 del plattaggio di Diena. La battuta della rulletta destra e dell'angolo superiore destro alto è dissimile dalla originale... Questi segni nella posizione 82 invece non furono completamente raschiati. Vi sono poi gli aloni colorati tra le due circonferenze che nell'originale sono inesistenti, così come non dovrebbero esistere le macchie colorate tra la circonferenza esterna e la linea di cornice a sinistra e sul bordo alto sinistro. La B di 'Bollo' è ridipinta. Molte linee dei cantoni sono ridipinte come la prima del quarto che nell'originale è curva al centro".
 
Ce la sentiamo ancora di concordare con l'opinione di Giacomo Bottacchi sulla "originalità" di questa Crocetta?

"Il perito filatelico odierno è rapportabile al medico del cinquecento
che eseguiva le analisi delle urine della paziente, traguardandole controluce.
Come si vede nel classico quadro di Hoogstratin S. Vant: 'La dame malade', che riproduciamo.
E perché tal fatto? Molteplici sono le cause.
A parer nostro se un lume di scienza penetrasse nella filatelia
avverrebbe tale una rivoluzione che lascerebbe traccia indelebile nei buoni filatelisti.
E non sarebbe per essi una cosa piacevole, purtroppo.
Si vedrebbero allora delle rarità, degli 'unicum', dei pezzi eccezionali,
pagati migliaia, decine di migliaia ed anche centinaia di mila lire,
diventare dei sudici pezzi di carta di nessun valore
per i quali solo il pronubo incosciente del perito (come ben disse un collezionista)
riuscì a far pagare dai troppo creduli collezionisti quelle cifre iperboliche"
(Gaetano C. Garofalo, anno 1934)

E se le cose sono già ingarbugliate quando si parla di "originalità" - su cui in astratto non vi sarebbero incertezze - figurarsi cosa accade quando ci si sposta sulla "perfezione" (di un oggetto di carta stampato ben oltre un secolo fa): "un raro francobollo antico e perfetto" - scriveva Arturo De Sanctis Mangelli nel 1934 - "è difficilissimo se non impossibile trovarlo: in via normale possiamo quasi escluderne l'esistenza", e a ogni modo "non si può pretendere la sua forma primitiva, bella e fresca, come uscita dall'officina".

 
Partiamo da una notazione ovvia, a rasentare il banale: i francobolli nascono su un foglio intero di centinaia di esemplari, quindi il francobollo sciolto non esiste "in natura".
 
Il francobollo sciolto è sempre una creazione umana, il prodotto dell'azione dell'uomo sul foglio originario.
 
Chi separava i francobolli lo faceva con un esclusivo scopo pratico (consegnare la "carta" necessaria per assolvere il "porto"); e il francobollo - all'epoca in cui serviva a qualcosa - era né più né meno di ciò che oggi può essere uno scontrino fiscale (l'attestazione di aver pagato il dovuto); cosa vuoi che importi, allora, se ha uno strappetto o un forellino, o è tagliato male?

Poi, un giorno non meglio precisato, qualcuno guarda con occhi nuovi questi rettangolini di carta colorata; sono ormai fuori corso, non assolvono più nessuna funzione pratica, non servono a niente, eppure iniziano a essere desiderati, molto più di quando avevano un'utilità specifica. Nasce la filatelia, il collezionismo di francobolli, e da allora ci si inizia a domandare con quali convenzioni giudicare e valutare i francobolli, se riguardati nella loro nuova veste di oggetti da collezione.
 
Ci sono - in generale - convenzioni vuote di significati (i colori del semaforo o il senso di guida nelle strade) e altre che invece traducono intuizioni o inclinazioni spontanee. Le vignette delle prime due emissioni dello Stato Pontificio - a esempio - si presentavano sul foglio originario circondate da un doppio filetto di inquadratura su ciascuno dei quattro lati; e se due vignette sono separate da un doppio filetto su ciascuno dei quattro lati, è naturale attribuire un filetto per lato a ogni francobollo, per mera equità distributiva; da qui l'affermazione per cui un francobollo "perfetto" dello Stato Pontificio deve presentare almeno un filetto intero su ciascuno dei lati, essere cioè un "quattro filetti".

Ovviamente, visto che parliamo di convenzioni, nulla vieta di abbassare la soglia di tolleranza, di battezzare "perfetto" un francobollo privo di filetti o con filetti intaccati, ma col disegno ancora intatto, estendendo così il concetto di "perfetto" a una classe di francobolli più ampia. Ma questa convenzione cozzerebbe con l'intuito, con la naturale ricerca un minimo di simmetria e bilanciamento.

 Un blocco di venti del 3 bajocchi dello Stato Pontificio del 1852:
le vignette sono separate da un doppio filetto di inquadratura, su ognuno dei quattro lati.
 
Ne segue una precisa convenzione valutativa: i francobolli pontifici "perfetti" devono presentare ben in vista i quattro filetti di inquadratura, quelli "di competenza", diciamo così; francobolli con meno di "quattro filetti", o con uno o più filetti parzialmente visibili, o visibili a fatica, senza un minimo margine oltre il filetto, rientrano tra le seconde scelte; all'opposto troviamo i francobolli cosiddetti "otto filetti" (una caratteristica pregiata, perché per ogni francobollo con "otto filetti" ce ne sono due, tre o quattro - a seconda dei casi - sicuramente difettosi); poi - all'estremo - ci sono gli "otto filetti" con bordi o angoli di foglio, o con interspazio di gruppo, e siamo nella fascia dei pezzi d'amatore; tra i "quattro filetti" e gli "otto filetti" si situa una vasta area di qualità intermedia (ma comunque "perfetta").

Una selezione di vari esemplari del ½ bajocco dello Stato Pontificio.
 
Poche righe del Catalogo Sassone riassumono il tutto. "I prezzi dei valori si riferiscono ad esemplari con almeno uno dei filetti di separazione visibile da ogni lato. Esemplari con qualche filetto mancante, ma con il disegno non intaccato, sono considerati di normale prima scelta; valgo il 25% in meno".

La formulazione testuale - ahimè - non è tra le più felici, nella parte conclusiva: come fa un francobollo "di normale prima scelta" - espressione che restituisce un'idea di perfezione - a subire una penalizzazione di ben il 25% in termini di quotazione?
 
Così, davanti alla qualifica di "perfetto" attribuita da Silvano Sorani al 3 centesimi del Pontificio, si rimane sì perplessi, ma se ne altro adesso se ne può ora capire il senso (anche se non lo si giustifica).

Il problema sta però nella possibile strumentalizzazione. Un commerciante col pelo sullo stomaco avrà gioco facile nel magnificare un pezzo di seconda scelta, agli occhi di un collezionista non ancora introdotto ai misteri della qualità filatelica, sulla base di un giudizio peritale di "perfezione". Potrà dire - a esempio - che il 3 centesimi del 1867 è sì un francobollo comune, ma difficile da trovare senza pieghe della gessatura e bilanciato nei margini, come lo è questo; magari lo girerà, per mostrarvi un verso immacolato, con una gomma piena e omogena, priva di macchie o ruggine, che non si può dare per scontata; quindi fa bene il perito a battezzarlo "perfetto", e in finale cosa vuoi che importi se il filetto di sinistra non c'è - e se anche gli altri sfarfallano - anzi, meglio così, perché lo si paga meno e si mette in collezione un esemplare che ha comunque con una sua dignità.

Ci può pure stare, come ragionamento di un commerciante audace, ma almeno il perito dovrebbe rimanere il più possibile imparziale, non offrirgli facili sponde, e se proprio non vuole andargli contro, ripiegare almeno sull'approccio minimalista di Guglielmo Oliva, che si limitava a dichiarare l'assenza di "difetti occulti" - riparazioni, assottigliamenti, forellini, taglietti, che sarebbero potuti sfuggire a un occhio non allenato - lasciando tutto il resto all'apprezzamento del singolo collezionista, alla sua sensibilità, al suo gusto.
 
Come con questo esemplare della Crocetta, di marginatura manifestamente insufficiente, ma per il resto "del tutto originale e privo di difetti occulti".
 

La carambola di osservazioni teoriche tra originalità e perfezione ci porta dritti a una questione della più grande rilevanza pratica: le perizie filateliche a chi servono, ai commercianti per vendere meglio o ai collezionisti per tutelarsi dagli acquisiti sbagliati?
 
  

Opinioni: al servizio di chi?

Il mercato filatelico è altamente imperfetto, quindi inefficiente. Lo è al tal punto che è persino improprio definirlo "mercato" (si dovrebbe parlare - più modestamente - di "circuito di scambio").
 
Le inefficienze tendono ad accentuarsi, se lasciate a sé stesse, e possono arrivare a inibire la possibilità stessa dello scambio, a distruggere il mercato. Serve allora introdurre dei fattori correttivi, dei meccanismi di mitigazione. I periti e le loro perizie, a esempio.
 
In generale - al netto delle "pescate" - viene da pensare che vi sia una spiccata asimmetria informativa tra chi vende (il mercante) e chi compra (il collezionista) riassumibile nello slogan "chi vende sa sempre cosa sta vendendo, chi compra non sa mai esattamente cosa sta comprando".

Parliamo di francobolli - e per di più di francobolli antichi - oggetti di per sé fragili, nell'accezione più estesa possibile: sono infiniti gli aspetti potenzialmente problematici di un oggetto filatelico, che possono sfuggire a un pur attento esame dell'acquirente, e di cui il venditore è invece a conoscenza perché magari, semplicemente, ne conosce la storia.

Il venditore sarà portato a sminuirli, a metterli in sordina, se non proprio a tacerli, laddove il compratore desidererebbe vederci chiaro, per procedere con consapevolezza. Il perito filatelico si presenta allora come una figura terza, in grado di colmare la sproporzione di potere e conoscenza tra le parti, con la sua opinione indipendente.

Sembra - raccontata così - che il perito sia al servizio del collezionista, che l'opinione peritale abbia la funzione di proteggerlo da acquisti azzardati.

Ma un'opinione fair - un parere equo, giusto - deve anche evidenziare i punti di forza dell'oggetto filatelico, le caratteristiche che gli conferiscono pregio: una tariffa rara, una destinazione inusuale, una tinta non comune, un'infrequente combinazione di annulli, e tutto ciò che - a giudizio del perito - stacca l'oggetto dalla massa informe di proposte alternative.
 
Il perito - se riguardato da questa prospettiva - è al servizio del commerciante, della parte venditrice, che potrà vendere tanto meglio quanto più l'oggetto è valorizzato nella perizia.
 
Stretto tra le aspettative dell'acquirente e le ragioni del venditore, entrambe meritorie di tutela, la condizione del perito filatelico evoca il dilemma del cosiddetto "asino di Buridano", almeno in teoria.
 
 
L'apologo dell'asino che morì di fame in mezzo a due razioni di fieno
- perché incapace di decidere da quale delle due mangiare -
esprime il  problema filosofico della scelta tra elementi indistinguibili:
è assurdo morire di fame, avendo cibo a disposizione,
ma scegliere uno dei due mucchi equivale a preferirlo,
in contraddizione con la dichiarata indistinguibilità.
  
Ma in pratica il perito filatelico non si lascia morire di fame, nell'indecisione tra le ragioni dell'acquirente e del venditore.
 
Il perito filatelico sceglie, e il più delle volte sceglie il commerciante, per la più banale delle ragioni: perché è il commerciante a chiamarlo a sé, a ingaggiarlo, a toglierli ogni dubbio su quale sia la razione di fieno da cui mangiare.
 
I periti - in astratto - operano sia al dettaglio che all'ingrosso. Il lavoro al dettaglio è commissionato dal singolo collezionista, che si rivolge al perito di fiducia prima di procedere a un acquisto, oppure dopo, quando vuole restituire ciò che ha comprato e ha bisogno di giustificare il reso, o quando ritiene di aver fatto una "pescata" e desidera convalidarla con una perizia, oppure se deve vendere e vuole valorizzare il materiale in suo possesso (qui sfumando nella figura del commerciate). Ma la più parte del lavoro peritale arriva dalle commissioni all'ingrosso, dalla gran quantità di materiale che un commerciante passa sistematicamente a uno stesso perito, così da proporlo poi sul mercato già certificato da una parte formalmente terza.
 
Si pone allora il dilemma della mano che porge. Se il lavoro - e quindi il guadagno - arriva principalmente da una parte, quella del commerciante, è inevitabile, anche solo a livello inconscio, favorire le sue ragioni. Nulla di male, in astratto. Ma quand'è, in concreto, che la difesa a oltranza delle ragioni della parte venditrice pregiudica la salvaguardia della parte acquirente? Dove tracceremo la linea di confine? Cosa assicura che quella linea - perizia dopo perizia - non finisca con lo spostarsi sempre più in là, sino a confinare il collezionista in un angolo, a massimo vantaggio del commerciante?
 
Quando il perito smarrisce la sua qualifica di parte terza rispetto agli attori in gioco - il commerciante e il collezionista - quando si lega troppo al primo a scapito del secondo, è probabile che quel legame degeneri in una mostruosa fratellanza siamese, che le inefficienze negli scambi, che si volevano attenuare con l'introduzione della figura del perito, finiscano paradossalmente per accentuarsi proprio a causa della sua presenza (alcuni collezionisti non comprano più nulla se l'oggetto è corredato dal certificato di un perito su cui si è abbattuto il cosiddetto "effetto stigma", anche se l'oggetto è in ordine sotto ogni profilo, ma non ha altro conforto se non un certificato a cui non si crede più).
 
Non serve poi essere nell'ambiente da chissà quanto tempo, per aver visto o vissuto situazioni buffe, quando non proprio grottesche.
 
Notate un pezzo di vostro interesse sul catalogo di un commerciante, ma volete l'opinione del vostro perito di fiducia prima di acquistarlo; sfortuna vuole che il venditore sia proprio uno di quei commercianti che rifornisce di lavoro il vostro perito di riferimento; e il perito - che non vuol perdere la vostra stima, ma nemmeno il suo guadagno principale - vi pregherà di non dir nulla al commerciante, perché ci penserà lui - il perito -  a entrare in possesso del pezzo da certificare, nel più stretto anonimato s'intende, senza far sapere al commerciante che è proprio lui che lo vuole esaminare, cosicché - in caso di giudizio negativo - il commerciante non saprà mai chi è il perito che glielo ha bocciato.
 
Ma i rapporti tra commercianti e periti sono talvolta così di lungo corso, così stretti e amichevoli, che anche quando il perito si vede scaraventare sulla scrivania della roba improponibile, su cui proprio non riesce ad apporre la propria firma, non  ha ragione di temere che il commerciante smetta di passargli il materiale per le certificazioni. "Non preoccuparti: quel che non vuoi certificare tu, lo darò da certificare a qualcun altro". Perché un certificato ci vuole sempre, perché "il negoziante non riesce a vendere senza la firma del perito", perché il collezionista "non vuole che francobolli firmati dal perito", perché "finora non si è potuto escogitare altra forma di garanzia", "anche se il più delle volte quella firma non ha proprio nessun valore e non garantisce proprio nulla", appuntava Arturo De Sanctis Mangelli già nel 1934.
 
Ci sono anche periti che hanno bellamente raccontato, in pubblico, di commercianti che gli sono piombati a casa intorno a mezzanotte o giù di lì, con pacchi di francobolli da periziare con urgenza, perché da vendere in gran fretta nei giorni successivi (e non lo si sarebbe potuto fare senza quei certificati che tanto rincuorano i collezionisti). E il perito - per sua ammissione - stava lì a scrivere "ho esaminato... a mio parere... originale e perfetto", avendo guardato i pezzi tra uno sbadiglio e l'altro, con un occhio chiuso e l'altro mezzo aperto, e più probabilmente senza averli guardati affatto (tutte cose - sottolineo - raccontate dal perito stesso, per giustificare gli errori davanti a chi glieli rinfacciava).
 
E abbiamo pure la ciliegina finale. 
 
Nessun perito vive - o ha mai vissuto - di sole perizie filateliche. Non è con i guadagni delle perizie che un perito filatelico paga le rate del mutuo o mette da parte il denaro per gli studi universitari dei figli.

Il perito - di regola - è anche un commerciante, ha una sua clientela di riferimento, a cui spesso vende alcuni di quei pezzi che gli passano tra le mani per le perizie (e più in generale di cui entra in possesso nelle sue ordinarie relazioni di lavoro).

C'è chi sostiene - con buone ragioni - che un passato o anche un presente da commerciante è un pre-requisito per l'attività peritale, perché solo il confronto sistematico con il mercato permette di sviluppare e affinare la sensibilità necessaria a valutare e giudicare, a periziare.

Fatto sta che molti periti lasciano latente la loro anima commerciale - difficilmente li vedrete esporsi con un proprio catalogo di offerte - per preservare l'immagine di terzietà. Ma il piglio commerciale è invariabilmente presente, e non si può escludere che retroagisca nel rilascio di un'opinione che si vorrebbe distaccata: chi passa la vita a vendere francobolli purchessia, a ingegnarsi per piazzare quanto più materiale possibile, quale serenità di giudizio potrà mai avere, una volta chiamato a fare il perito?

Concludendo

Il problema delle perizie filateliche non è la loro natura opinabile, perché le opinioni costituiscono il 95% di tutto, e continuare a pretendere perizie che non siano opinioni - con l'immancabile pseudo-umorismo sulla formula "a mio parere" - significa ostinarsi a mancare clamorosamente il bersaglio.
 
Il vero problema è nel non aver mai disciplinato - anche solo nella forma di auto-regolamentazione - i contenuti stessi dell'opinione: se non si è capaci, o non si vuole o non si ha interesse, a far chiarezza su originale e perfetto, se persino le categorie di base della valutazione restano ambigue e sfuggenti, quale credibilità si può avere quando ci si pronuncia su aspetti più avanzati e controversi? 
 
Pure, l'opinione del perito filatelico non può mai vantare quella terzietà che in teoria la rende utile e ne giustifica l'esistenza, perché i meccanismi di funzionamento del mercato filatelico creano una naturale contiguità tra perito e commerciante, suscettibile di compromettere uno sviluppo sano delle transazioni.
 
Il collezionista è per tutto ciò chiamato a raddoppiare le cautele, nella scelta del perito di fiducia.

Commenti

Post popolari in questo blog

KU FU? DALLA SICILIA CON FURORE

SEMIOFORI

LO STRANO CASO DI BENEVENTO E PONTECORVO