Passa ai contenuti principali

TOSCANA - Marzocco, Marzocco, Marzocco!

Il "Marzocco" di Donatello (1419-1420).
La Repubblica fiorentina commissionò l'opera in occasione della visita di Papa Martino V,
per decorare lo scalone degli appartamenti papali in Santa Maria Novella.
In seguito fu spostata in Piazza della Signoria, come simbolo della Repubblica stessa,
e oggi si trova nel Museo del Bargello, per preservarla dagli agenti atmosferici,
 rimanendone però una copia nella piazza cittadina.
 
Un leone seduto, con la zampa destra alzata per reggere uno scudo gigliato: è il Marzocco, l'animale totemico della città di Firenze.
 

"Penso che la voce 'Marzocco' non sia proprio da considerarsi d'etimo incerto, ché la voce 'Mavos' 'Mars' era comune e, nell’alto medioevo, il seguace di Marte fu detto 'Martiacus'. E' certo e vivo il significato popolaresco del vocabolo 'marzocco' per uomo disutile, sciocco e vile. Dato ciò, mi sia lecito argomentare che il leone accosciato, quasi domestico o assoggettato, venne a Firenze come spoglia di guerra. Non fu Fiesole città pagana e devota di Marte? A me pare che, distrutta Fiesole, i fiorentini vollero che il leone vinto, ridotto a leone casalingo, fosse posto a testata del Ponte Vecchio per sostenere lo scudo gigliato che aveva osato sfidare. E non risponde l'ipotesi alla non mai smentita e beffarda anima fiorentina?".

Cesco Giannetto mostra una sicurezza invidiabile, nella Premessa al suo lavoro pionieristico sui "Difetti costanti nei francobolli del Granducato di Toscana".
 
L'etimologia della parola - documentazione storica alla mano - rimane in realtà avvolta in una nebbia d'incertezza.
 
Potrebbe essere d'origine germanica, di estrazione longobarda, derivare dall'unione tra il sostantivo marh (cavallo) e il verbo zuccòn (stringere, sostenere, proteggere) da cui Marhzuccòn (il cavallo che protegge) perché probabilmente il cavallo era l'animale protettore di Firenze nell'alto medioevo, ai tempi del Ducato di Tuscia. Ma il cavallo simboleggiò in seguito  la nemica Arezzo, e per differenziarsi fu allora scelto il leone - un animale vicino al magistero della Chiesa, ben rappresentativo degli ideali di indipendenza della Repubblica fiorentina - senza badare troppo allo scollamento tra il significato letterale e l'immagine associata, quando al longobardo subentrarono i volgari neolatini.
 
L'ipotesi più voga - ma altrettanto dubbia - collega la parola al latino martius (di Marte) da cui martocus (piccolo Marte) giacché la citta di Firenze sarebbe stata devota al dio romano della guerra, secondo una tradizione segnalata già in Dante Alighieri.
 
Io fui della città (Firenze) che sostituì il suo primo protettore (Marte) con San Giovanni Battista;
e lui (Marte) la perseguiterà perciò con le guerre (che sono la sua arte);
e se non fosse che su un ponte dell'Arno rimane un frammento di una sua statua (di Marte),
quei cittadini che la ricostruirono sulle ceneri lasciate da Attila avrebbero lavorato inutilmente.
 
L'avvento del cristianesimo consegnò a San Giovanni Battista la veste di patrono della città, ma la conversione religiosa non spazzò via l'antico culto cittadino, cosicché una statua del dio pagano fu trasferita nei pressi del fiume Arno, ai piedi del Ponte Vecchio.
 
Quando la piena del 1333 la trascinò via con sé, i fiorentini la riedificarono sotto forma di un leone in pietra, col capo cinto da una corona d'oro smaltata di bianco e rosso, sulla cui fascia si leggeva il distico di Messer Francesco Sacchetti: "Corona porto per la patria degna, Acciocché libertà ciascun mantenga".

 
Il leone diventò così il simbolo della città di Firenze, usato indifferentemente dal potere popolare come dalla nobiltà, perché chi ruggisce è potente, fa paura e intimidisce, qualunque sia la sua estrazione.
 
"Marzocco, Marzocco, Marzocco!" era il grido della Cavalleria della Repubblica fiorentina, che risuonava in tutti i campi di battaglia, da Montaperti a Campaldino, da Benevento e Gavinana; e nelle città sottomesse si collocava spesso il Marzocco su una colonna nella piazza principale, per rimarcarne l'appartenenza e la soggezione a Firenze.
 
Intorno ai leoni c'è tutta un'aneddotica - sul crinale tra storia e leggenda - a corollario delle guerre medioevali tra Firenze e Pisa.
 
Il 28 luglio 1364 è il giorno della Battaglia di Cascina: i fiorentini sconfiggono i pisani, ne catturarono parecchi e li conducono a Firenze.
 
Lo scrittore Filippo Villani racconta il loro ingresso in una città in festa, ma documenta pure un trattamento rispettoso, di riguardo, dei fiorentini versi i nemici storici.

Più tardi, però, I Ricordi di Giovanni Morelli aggiungeranno un particolare di ben altro tenore: "alla Porta a S. Friano, per la quale entrò il vittorioso capitano, istette un lioncino vivo, ma di poco tempo, al quale tutti i Pisani prigioni baciarono il culo". 
 
Da Morelli in poi, il racconto troverà molteplici versioni, tutte concordi nel vedere i pisani costretti a baciare le terga del Marzocco, e sebbene il Villani fosse l'unico cronista ad aver vissuto ai tempo della battaglia - e non ne abbia mai fatto menzione - l'episodio rimane comunque una testimonianza emblematica del posto occupato dal leone nell'immaginario collettivo.
 
Fatalmente, per contrappasso, chi voleva umiliare Firenze e i fiorentini trovava naturale sbeffeggiare proprio la figura sacra del leone.
 

 

  
L'immagine del leone la si ritrova nelle suddivisioni civili e militari dei quartieri cittadini - i cosiddetti "Gonfaloni di Compagnia" - con il Lion Rosso e il Lion Bianco per Santa Maria Novella, il Lion Nero per il quartiere Santa Croce, il Lion d'Oro per San Giovanni.
 

Le città antiche erano ripartite in sestieri o in quartieri o in terzieri,
a loro volta articolati in suddivisioni minori,
che nel caso della Toscana si chiamavano "Contrade" a Siena e a Montepulciano,
"Cappelle" a Pisa, "Porte" a Prato, e "Gonfaloni" a Firenze. 
Nel 1343 si tornò alla divisione in quartieri e ciascun quartiere fu suddiviso in quattro Gonfaloni
- inclusivi di parti della città tra loro separate dall'Arno, dalle mura o dalle strade principali -
che prendevano il nome dagli emblemi o dai segni araldici della loro bandiera.
Per ciascun Gonfalone doveva eleggersi un Gonfaloniere,
chiamato "di compagnia" perché doveva radunare e comandare
una milizia cittadina a  difesa del Palazzo dei Signori e della libertà popolare.
 
Il leone ritorna negli stemmi araldici dei nobili fiorentini, tra il XIV e il XV secolo.

Se ne appropriano gli esponenti della famiglia dei Medici, destinati a divenire i primi granduchi di Toscana, e il leone sarà ripetutamente raffigurato nella loro residenza ufficiale - a Palazzo Pitti e nell'adiacente giardino dei Boboli - al punto da rendere interscambiabile il Marzocco col Leone mediceo, a sua volta ricondotto ai leoni d'Etruria.
 
Arezzo, 15 novembre 1553:
vicino a Porta San Lorentino si lavorava alacremente
per costruire un bastione difensivo della città, voluto da Cosimo I dei Medici;
 dalla terra bruna, rimossa in gran quantità dagli uomini del Duca,
vien fuori il bagliore spento di un bronzo dall'aspetto multiforme,
un animale ferito, mostruoso, dalla bellezza ipnotica.
"Si trattava di un leone di bronzo, di grandezza naturale,
eseguito in modo elegante e ad arte, feroce nell'aspetto,
minaccioso per la ferita che aveva nella zampa sinistra,
che aveva le fauci aperte e i peli della giubba eretti e portava sul dorso,
a guisa di trofeo, la testa di un capro sgozzato, morente e insanguinato.
Nella zampa destra del leone erano iscritte le lettere TINSCVIL.
Il nostro Principe comandò che quest'opera così eccellente fosse portata a Firenze".
 Si fissa così, con queste parole,
dalle "Deliberazioni del Magistrato, dei Priori e del Consiglio Generale di Arezzo",
la scoperta di una scultura riconosciuta d'origine etrusca, datata tra il V e il IV secolo a.C.
 E' la Chimera di Arezzo, attorno a cui si crea presto grande fermento.
Cosimo I la vuole con sé a Firenze, e vi trascorre insieme giorni e notti
nello Studiolo di Palazzo Ducale, la sua blindata "Wunderkammer",
dove l'accesso è precluso persino alla moglie, ma non a Benvenuto Cellini,
che nella sua autobiografia racconterà che "il duca ricavava grande piacere 
nel pulirla personalmente con con cesellini da orefici [attrezzi da orafo]".
La Chimera crea un ponte ideale fra l'Etruria antica e quella che Cosimo I
- Duca, Arciduca,  ma anche, e non a caso, Magnus Dux Etruriae - voleva restaurare;
E poi, fatalmente, si carica di significati simbolici, politici e propagandistici:
è un segno del destino, il simbolo di tutte le forze avverse fronteggiate e sconfitte dai Medici.
Scrive il Vasari in uno dei suoi "Ragionamenti"
(nell'intrigante dialogo con il figlio di Cosimo, Francesco):
"Siccome Bellorofonte domò quella montagna piena di serpenti e ammazzò i leoni,
che fa il composto di questa chimera, così Leon decimo, con la sua liberalità, e virtù,
vinse tutti gli uomini; la quale, mancando lui, ha voluto il fato,
che si sia trovata nel tempo del Duca Cosimo, il quale è oggi domatore di tutte le chimere".
 



La "Fonte del Leone", 
aggiunta alla facciata di Michelozzo, nel 1696, su ordine di Cosimo III dei Medici. 
Sulla testa di leone fa mostra la corona del Granduca di Toscana, 
un titolo appositamente istituito da Papa Pio V per Cosimo I de' Medici, 
e collocato tra tra Duca e Principe, nella gerarchia nobiliare. 
La corona granducale si caratterizzava per l'ornamento di smeraldi, rubini e perle, 
con la particolarità di avere al centro un giglio fiorentino, anziché il fiorone con la perla.



I leoni in carne e ossa erano usati per regolare i rapporti di cortesia tra casate: 
Cosimo I dei Medici (in alto, in primo piano) ne inviò un paio nel maggio 1542
al Conte Ottone Enrico del Palatinato (in basso a sinistra); 
nel marzo 1548 spedì due cuccioli al Re di Francia Enrico II (in basso al centro) 
che voleva accontentare la richiesta della moglie; 
nel 1568 Francesco I dei Medici (in alto, in secondo piano)
ne donò altri due a Vincenzo I Gonzaga di Mantova (in basso a destra).

Al mero simbolo corrispondeva una realtà materiale: i leoni erano di casa a Firenze, la loro presenza è documentata già dal XIII secolo, e probabilmente è ancora più antica.
 
Inizialmente erano tenuti in un terreno accanto alla torre del Guardamorto, in piazza San Giovanni (dove sarebbe sorta la Loggia del Bigallo); furono poi trasferiti nei pressi di San Pier Scheraggio (sul luogo di edificazione della Loggia dei Lanzi); e quindi - dalla metà del Trecento - dietro il Palazzo dei Priori (poi Palazzo Vecchio) in Piazza della Signoria sul lato di via della Ninna, in una strada ribattezzata Via dei Leoni; nel 1550 i Medici misero in piedi un autentico serraglio tra Piazza San Marco e Piazza Santissima Annunziata, in via del Maglio (l'attuale via Lamarmora) accanto al Giardino dei Semplici, dove rimase fino al 1777, quando il Granduca Pietro Leopoldo lo abolì per prosaici motivi d'igiene.


Rimane la memoria di un'autentica devozione dei fiorentini verso i leoni: per secoli furono ben disposti a spendere parecchie libbre d'oro per custodirli e mantenerli, li trasformarono in creature da venerare, oggetto di feste speciali e affetto superstizioso, con una città che ringioiva alla nascita di un leoncino, giudicandola di buon augurio, e si rabbuiava se i leoni si azzuffavano e uno ne moriva, ritenendolo un cattivo presagio.
 
 
La coincidenza di simboli tra la Repubblica fiorentina la  Corona di Scozia - un leone a protezione di un giglio - ha spinto a congetturare l'esistenza di rapporti stretti e profondi tra le due realtà, accomunante dagli stessi ideali indipendenza.
 
La decisione di allestire un serraglio sarebbe addirittura un omaggio a William "The Lion" di Scozia, che nell'immaginario è collegato a Carlo Magno, a cui la città di Firenze era riconoscente e fedele per il buon governo.
 
La narrazione è tanto suggestiva quanto audace, ma sicuramente aggiunge folklore intorno al leone fiorentino.
 
 
Le Istorie fiorentine medioevali sono ricche di episodi con i leoni a vario titolo protagonisti.
 
"Come nella via del Cocomero fu un cittadino che sognò che un leone gli mordeva la mano, e che si moriva; e tornò gli vero".
 
Giovanni Cavalcanti apre così il suo racconto sui leoni di Santa Maria del Fiore, presso Porta della Balla o dei Cornacchini, uno degli ingressi laterali della cattedrale realizzato agli inizi del Trecento, decorato da tarsie marmoree e due colonne tortili sorrette da una leonessa con i cuccioli, a sinistra, e un leone con un putto alato, a destra.
 
Ai primi del Quattrocento, a Firenze, un certo Anselmo abitava in Via del Cocomero - oggi Via Ricasoli - di fronte alle case della famiglia Cornacchini, e una notte sognò di morire a causa del morso di un leone.

Ne rimase così impressionato che la mattina dopo, nel passare davanti alla Porta dei Cornacchini per andare a bottega, volle esorcizzare la paura infilando la mano in bocca a uno dei due leoni scolpiti. "Io voglio che il sogno faccia il suo corso, acciocché io esca di sì perverso immaginamento e sarò libero dal tristo annunzio".
 
E il sogno fece sì suo corso: uno scorpione si era annidato nella bocca del leone, lo punse a un dito, e così il "perverso immaginamento" e "il triste annunzio" divennero realtà.
  
 
Giovanni Villani, nel 1348, racconta di un leone "bellissimo e feroce" fuggito da una gabbia del serraglio lasciata aperta, che seminava il panico lungo Via Calzaiuoli, tra la gente che scappava in ogni direzione.

Solo un bimbo - Orlanduccio - rimase a giocare davanti alla chiesa di Orsanmichele, ignaro del pericolo; e si ritrovò tra le fauci del leone.

La madre  - che "non avea più che lui, e questo l'era rimasto in corpo, dopo la morte del padre" - trovò il coraggio di fronteggiarlo, e il leone - tra lo stupore generale - rimase immobile, non reagì, cosicché Orlanduccio tornò tra le braccia della mamma.
 
Dello straordinario evento "si fece questione, qual fosse il caso, o la gentilezza della natura del leone, o la fortuna riserbasse la vita al detto fanciullo, perché poi vivendo, facesse la vendetta del padre, com’egli fece, e fu poi chiamato Orlanduccio del leone".
 
 
A metà '800 il Marzocco è il soggetto prescelto del Granduca Leopoldo II per i primi francobolli di Toscana: "approvando la fabbricazione dei francobolli [...] ha altresì ordinato che portino per impronta il Leone di Etruria coronato" si legge nella lettera del Soprintendente Generale delle Poste al Ministro delle Finanze Baldasseroni, del 21 dicembre 1850.
 
E' una scelta che dà risalto alla tradizione dei luoghi in cui il francobollo sarebbe stato usato, e stacca il Granducato dagli altri Antichi Stati, nei quali si erano preferite le vignette con l'effigie del Sovrano o gli stemmi reali della dinastia.
 
Pure, è rimarchevole che la prima data conosciuta del 9 crazie su carta con filigrana a linee ondulate sia l'8 luglio 1859, in periodo di Governo Provvisorio, per cui il francobollo fu verosimilmente emesso quando gli Asburgo-Lorena non c'erano più; ma l'originaria scelta del Marzocco - simbolo di Firenze, privo di connotazioni politiche - evidentemente non procurò nessun imbarazzo istituzionale ai nuovi governanti, a differenza di ciò che era successo negli altri Ducati.
 
Lettera da Firenze a a Brighton del 7 dicembre 1859,
affrancata con un esemplare del 9 crazie della seconda tiratura (filigrana linee ondulate)
 annullato col cerchio a cresta e con a lato il "PD" riquadrato,
e l'annullo rosso di transito "London Paid Dec 12 59".
Ex Collezione Provera.
 
"Intendiamo opporci con tutte le nostre forze a quella produzione d'opere letterarie ed artistiche in generale che hanno le loro origini fuori della PURA BELLEZZA. Noi NON TENTEREMO quella critica delle opere d'arte che in esse tutto ricerca fuori che il segreto della loro vita; NON CI LAMENTEREMO per quello che l'artista non ha messo nell'opera, eviteremo ogni giudizio morale o sociologico in quanto l'arte non può essere messa al servizio delle scienze morali e sociali".
 
Si apriva così, con questo ruggito, il manifesto steso da Saverio Gargàno e Gabriele D'Annunzio per la rivista letteraria "Il Marzocco", fondata a Firenze il 2 febbraio 1896,da Adolfo e Angiolo Orvieto, con cui si inaugurava la serie fiorentina delle riviste sull'estetismo - a cui seguiranno il "Leonardo" e "Hermes" - per ridare vita alla letteratura e alle arti figurative.

Il poeta decadentista Diego Garoglio ne racconta l'ascesa e il declino, nell'articolo "Com’è nato e come è morto 'Il Marzocco'", pubblicato su "La sera" del 3 febbraio 1933.

"Anni dopo - negli ultimi mesi del 1895 e nei primi del 1896 [...] - cominciai a rimuginare dentro me stesso se non fosse utile, anzi necessario riannodare tutte le sparse fila delle nostre ormai più mature e feconde giovinezze, e ricominciare daccapo, ma con ben maggiore consapevolezza d’intenti e vigoria di forze l’interrotta impresa artistico letteraria della 'Vita Nuova'.
 
Tutte le circostanze mi parevano ad essa propizie: la presenza in Firenze (oltreché di quasi tutti i vecchi amici) del già famoso ma tanto discusso Gabriele d'Annunzio; la sicura collaborazione del nostro lontano e grande Pascoli, l’altruistica simpatia del critico Nencioni [...] l'esistenza di un giovane editore che voleva farsi strada, Roberto Paggi; nonché l'appoggio, anche finanziario, dei genitori Orvieto [...].
 
Gabriele d’Annunzio, disceso un giorno dalle solate radici della sua Capponcina, ne fu l'alto padrino in una memorabile seduta al caffè Giacosa di via Tornabuoni, quasi accanto alla nuova libreria aperta allora da Roberto Paggi.
 
Si trattava di dare al nuovo periodico un nome. Io proposi di intitolarlo 'Il Giglio rosso' (richiamo a un famoso verso di Dante): Gabriele d'Annunzio affacciò invece 'Il Marzocco' dal simbolico leone di Piazza Signoria. Il nome battagliero fu prescelto anche perché più inusitato, e anche per l'autorità grande del proponente".
 
E si può ragionevolmente supporre che la proposta di D'Annunzio fosse ispirata ai versi del suo poemetto "Due Beatrici".
 
"Io era un buon fanciullo: un poco sciocco.
M'ardea ne 'l petto, di dolcezza, il cuore;
ché non pure una volta aveami tocco
con la sua lancia il cavalier Dolore.
Non sì fiero tenea forse il Marzocco
ne l'unghia l'arme de 'l vermiglio fiore
com'io tenea ne 'l pugno, senza alcuna
guerra, le chiome de la mia Fortuna"
(Gabriele D'Annunzio)
 
Nel periodo iniziale - il più brillante - il giornale ha un carattere antologico, poetico e narrativo, per mediare tra un estetismo d'impronta eroico-nazionalista e la cultura borghese.
 
Ma già a partire da inizio '900 si registra un'inversione di tendenza, col subentrare di Adolfo Orvieto alla direzione. "Fare guerra spietata a tutto ciò che è pura arte e pura bellezza perché il tempo della letteratura decorativa è passato";  si accentua così il lato informativo e critico, alieno dal prendere posizioni dottrinali troppo decise.
 
Dal 1911 al 1914 si infittiscono gli articoli di irrazionalismo politico e riscossa nazionale. Dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, "Il Marzocco" si schiera a favore dell'interventismo italiano, si fa portavoce di una minoranza di destra che sostiene la necessità del conflitto: riduce gli spazi per le attività letterarie e conduce una battaglia contro la "barbarie germanica", per farsi poi fautore dell'impresa di D'Annunzio a Fiume.
 
Viene risparmiato dalle leggi fasciste sulla stampa del 1926, ma l'affermarsi del crocianesimo e l'apparire di riviste di avanguardia come "La Voce" di Prezzolini segnano il suo periodo di decadenza: si ritrova al margine al processo di rinnovamento letterario, perde di mordente e terminerà le pubblicazioni sul finire del 1932.
   
Uno dei primi numeri della rivista "Il Marzocco",
con il leone donatelliano circondato dagli iris fiorentini,
su disegno dell’architetto grossetano Lorenzo Porciatti.
 
Firenze è dunque la città dei leoni, popolata dai figli del Marzocco, dai marzocchesi, come sono stati a lungo soprannominati i fiorentini.
 
Ancora negli anni '30 del secolo scorso, la prima tifoseria organizzata della squadra di calcio della Fiorentina prese il nome  di "Ordine del Marzocco", e la figura del leone è ricorrente nella simbologia degli ultrà viola (memorabile il leone spregioso che nel 1982, con lo slogan "meglio secondi che ladri", sfogava in una pernacchia la rabbia verso la Juventus per lo "scudetto rubato").

La proprietà americana ha poi introdotto la mascotte della squadra, in linea con la tradizione sportiva a stelle e strisce, e non poteva che essere un leone - Lorenzo de' Viola - ben radicato nell'identità fiorentina.

E come dimenticare il calciatore argentino Gabriel Omar Batistuta, soprannominato "Re Leone", per i lungi capelli biondi che ricordavano una criniera, ma anche qui guidati probabilmente dalla suggestione dell'araldica cittadina. 
 


Da oltre trent'anni - a Firenze - va poi in scena il "Trofeo Marzocco", una gara tra gruppi storici di sbandieratori, accompagnati dall’esibizione dei “musici”, che riporta nell'atmosfera delle tenzoni cavalleresche.
 

Il Marzocco lega infine a doppio filo il sacro e il profano: quattro giorni prima della festa di San Giovanni - il patrono di Firenze - una corona viene posta sul capo della statua del leone di Donatello in piazza Signoria, e lasciata lì per i quattro giorni successivi, a rievocare il più antico protettore cittadino, l'unico a cui fosse consentito di portare la corona in una città libera, che in quei giorni concedeva ristoro ai debitori e  ai falliti, ai banditi e ai condannati per qualsivoglia delitto.
 
 
Oggi i leoni si trovano sparsi per tutta Firenze, a testimonianza di una secolare tradizione simbolico-sacrale.

  
Quello più alto si è arrampicato sulla vetta della Torre di Arnolfo: rampante, tra la base sferica della banderuola e il giglio che punta al cielo.
 
Quello più iconico - che sostiene il giglio - siede fiero davanti Palazzo Vecchio, e altri due, piccoli e dorati, sono posizionati in alto, sopra l’elegante timpano del grande portale per sorvegliarne l’accesso. 
 
Ce ne sono due a sorvegliare la Loggia della Signoria, e altri due in Piazza Santa Croce, sul sagrato della basilica, a far la guardia al monumento di Dante.
 
E tanti altri ne spuntano di continuo, da torri, palazzi, chiese, fontane e portoni. Troppi, per contarli tutti: una vasta e immaginifica fauna di metallo e pietra, dall'aspetto invariabilmente minaccioso, con tutta l'aria di star ancora lì a proteggere la città.
 

Commenti

Post popolari in questo blog

KU FU? DALLA SICILIA CON FURORE

SEMIOFORI

LO STRANO CASO DI BENEVENTO E PONTECORVO