6 SETTEMBRE 1860

Te Deum Geata, lode al tuo onore, per cento giorni e cento giorni di dolore.
Te Deum Gaeta, e a figli tuoi, che resti inciso il tuo ricordo dentro noi. 
(Mimmo Cavallo)
 

Il Messaggero solca spavaldo il mare, la luna rischiara la spuma delle onde, che porta con sé un odore pungente di salsedine. Salgo sul ponte e mi accendo un sigaro, lo sciabordio culla sogni di rivincita. Una vittoria, una soltanto! Con una sola vittoria ci riprendiamo tutto il regno.

Uno scricchiolio mi fa voltare. Il re si avvicina: berretto a visiera in testa, uniforme nera e mantellina.

Mi sorride. «Vincenzino… che fai qui?»

«E voi, maestà?»

«Non riesco a dormire.»

Do una lunga boccata al sigaro. «Neanch’io.»

Rivolge gli occhi al cielo, lo imito e tiro un’altra boccata. Le costellazioni sembrano avvolgerci. I nostri sguardi si incrociano.

«Vincenzì, credo che l’armata navale mi abbia tradito.» Sospira, scuote la testa e la china: la visiera gli copre il volto. «Nessuna delle nostre navi ci seguirà a Gaeta.»

Mi mordo le labbra. E anche qui sul Messaggero non tutto l’equipaggio è fedele: il fuochista l’ho dovuto minacciare, per farlo restare al suo posto.

Stringe la ringhiera come se volesse frantumarla, le braccia gli tremano. «Io non so come il rimorso non uccida tutti quelli che mi hanno abbandonato…»

«Maestà—»

Rialza la testa di scatto. «Il conte di Siracusa – mio zio – ha organizzato un banchetto in cui si brindava a Garibaldi e all’indipendenza italiana.» Allenta la presa e sogghigna, una smorfia disgustata gli deforma il viso. «Vincenzì… ma cher’è st’indipendenza italiana? Io conoscevo solo l’indipendenza napoletana

Tiro l’ultima boccata, getto il sigaro per aria e il mare lo inghiotte. «Una vittoria, maestà, una soltanto: e facciamo fare un bagno a Garibaldi, che se lo ricorda finché campa.»

Sfarfalla le mani e sgrana gli occhi. «Don Peppino è solo un sipario!» Con un’oscillazione del braccio indica alle sue spalle. «Dietro, dietro! I veri filibustieri sono dietro; e sono tutte le potenze occidentali, a cominciare dall’Inghilterra, per finire col Piemonte.» Si tormenta la mascella, digrigna i denti, non trova pace. «Quelli, tutti insieme, hanno decretato la fine dei Borbone di Napoli.»

«Non è ancora finita.»

Mi lancia un’occhiata di traverso. «Avevamo un esercito di centomila uomini che si è sfasciato al primo urto contro mille vagabondi in camicia rossa.» Si toglie il berretto e lo stropiccia. «Landi, a Calatafimi, è scappato come una lepre quando stava vincendo; e Lanza, a Palermo, ha cannoneggiato la popolazione anziché i garibaldini!» Stringe il berretto a sé e alza lo sguardo al cielo come a invocare una giustizia divina.

Inspiro più che posso, l’asprezza della salsedine mi stordisce. Butto via l’aria e i cattivi pensieri. «Se in molti hanno macchiato il nome della nostra armata, altrettanti sono rimasti gelosi custodi di quell’onore militare che solo distingue il soldato dal bandito, e sacrificheranno con gioia la vita per la patria napoletana.» Uno spasmo allo stomaco mi strappa un gemito, che dissimulo in una risata. Sferro un colpo deciso sulla ringhiera. «A Gaeta scriveremo un’altra storia: ricacceremo indietro questi italiani che parlano francese.»

Il re abbozza un sorriso sconsolato. «I napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta, ma io ho la coscienza di aver fatto sempre il mio dovere.». Si risistema il berretto in testa, sospirando. Dà una scrollata alla mantellina. «A loro, invece, rimarranno solo gli occhi per piangere.» Il suo sguardo si perde nell’oscurità. «Dov’è la regina?»

«Non saprei… dopo cena l’ho vista ritirarsi in un camerino di coperta—»

«In un camerino di coperta?!»

Si volta di scatto e marcia sul ponte, lo seguo ma fatico a stargli dietro. Solleva la corda tesa tra l’albero maestro e un ormeggio, ci passa sotto e accelera il passo. Mi affretto anch’io. Il vento mi sospinge e agita le vele.

Entriamo nel camerino: la regina dorme rannicchiata su un piccolo sofà, una ciocca nera le attraversa il viso, le maniche a palloncino del vestito bianco le lasciano le braccia scoperte. Povera donna! Stava tanto bene in Baviera, a casa sua. Doveva venire a Napoli, per passare ’sto guaio.

Il re allunga una mano verso il volto della regina, si blocca e la ritrae, senza accarezzarla. Si toglie la mantellina dalle spalle e gliela stende sopra. Mi fissa con occhi gonfi e lucidi.

«Che ore sono?»

 Caccio l’orologio dalla tasca. «Le due dopo la mezzanotte, maestà.»

 
 

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