LE CROCI DI SANT'ANDREA DEL LOMBARDO-VENETO


Cosa c'entra l'emissione del Regno del Lombardo-Veneto col martirio di Sant'Andrea e il sistema di numerazione babilonese?
 
Sembrano argomenti distanti e slegati - cosa potrà mai accomunare i francobolli antichi, la religione e la matematica? - ma la meraviglia della filatelia sta proprio nel "partire dall'oggetto filatelico come da uno spunto per capire, per apprendere, per saltare a campi ben diversi dalla filatelia, insomma per arricchirsi dentro", per riproporre la migliore interpretazione dello spirito di Renato Mondolfo.
 
Avanti così, allora: saltiamo a campi ben diversi dalla filatelia, per poi tornare alla filatelia arricchiti dentro, con più estesa e profonda consapevolezza delle cose, di tutte le cose, filateliche e non solo.

 

Il martirio di Sant'Andrea

 
Andrea è uno dei dodici apostoli. Nel Vangelo di Giovanni è annotata addirittura l'ora - le quattro del pomeriggio - del suo primo incontro con Gesù. Andrea ne esce così emozionato ed entusiasta da voler subito raccontare la sua esperienza. Incrocia per primo suo fratello Simone. "Abbiamo incontrato il Messia!".
 
Simone conosce Andrea, sa bene che è riflessivo e posato, non un impulsivo come lui, e coglie all'istante l'importanza dell'evento. Lo stesso Andrea rinuncia a dare troppe spiegazioni, e invita Simone a seguirlo per incontrare Gesù, affinché possa realizzare di persona l'eccezionalità della situazione.
 
Per i due arriverà la chiamata, l'invito di Gesù a lasciare tutto per seguirlo, quando entrambi sono tornati al lavoro di pescatori.
 
 "Mentre camminava lungo il mare della Galilea,
Gesù vide due fratelli, Simone detto Pietro, e Andrea suo fratello,
i quali gettavano la rete in mare, perché erano pescatori.
E disse loro: 'Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini'.
Ed essi, lasciate subito le reti, lo seguirono"
(Dal Vangelo di Matteo 4, 18-20)
 
Ritroviamo Andrea sul monte degli Ulivi, "in disparte", nel gruppetto con Pietro, Giacomo e Giovanni che interroga Gesù sui segni dei tempi, avendo in risposta il celebre discorso escatologico.
 
"Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti, perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà".
 
La presenza di Andrea è infine sottolineata nell'episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
 
 
Le Scritture ufficiali non dicono altro, laddove i testi apocrifi si diffondo maggiormente.
 
Andrea avrebbe evangelizzato l'Asia minore e la Scizia d'Europa - l'attuale Ucraina e le regioni lungo il Mar Nero, nella Russia meridionale - sino al Volga.

In seguito, arrivato in Grecia, guidò i cristiani di Patrasso. Trovò l'opposizione del proconsole romano Egea, geloso del suo potere e timoroso di spiacere all'Imperatore. Andrea non si lasciò mai intimorire. "Tu che sei giudice degli uomini, sappi che sarai il ludibrio del demonio, se non riconosci in Gesù il giudice di tutti".
 
Lo scontro raggiunse l'apice sul significato della crocifissione di Gesù: il segno evidente di una sconfitta, per Egea; un'offerta spontanea in nome della salvezza di tutti, per Andrea.

Alla minaccia di Egea - di preoccuparsi piuttosto della sua salvezza, offrendo dei sacrifici materiali agli déi - Andrea oppose ancora una volta la sua fede. "Per me, c'è un Dio onnipotente, solo e vero Dio, al quale sacrifico tutti i giorni, non già le carni dei tori né il sangue dei capri, ma l'Agnello senza macchia immolato sull'altare; e tutto il popolo partecipa alla sua carne e l'Agnello che è sacrificato rimane integro e pieno di vita".

Egea lo imprigionò, e di lì a poco il tribunale lo condannò allo stesso supplizio di Gesù: la crocefissione. 
 
Andrea accolse la sentenza con gioia, come l'avverarsi di un evento a lungo desiderato, come se la croce fosse una realtà amata e bramata, che smaniava di abbracciare, per ricongiungersi col Signore. "O buona Croce che hai tratto la tua gloria dalle membra del Signore, Croce lungamente bramata, ardentemente amata, cercata senza posa e finalmente preparata ai miei ardenti desideri, toglimi di mezzo agli uomini e restituiscimi al mio Signore affinché per te mi riceva Colui che per te mi ha riscattato".
 
E pure Andrea - come già l'apostolo Pietro - non si ritenne degno di morire allo stesso modo del Maestro, non osò eguagliarne il martirio, e chiese perciò una croce diversa, a forma di "X" (che aveva il pregio di evocare l'iniziale greca del nome di Cristo).
 
Su quella croce a "X" - da allora denominata Croce di Sant'Andrea - l'apostolo rimase legato vivo per tre giorni, senza cessare di predicare la fede in Dio.
 
Nel 357 i suoi resti vennero portati a Costantinopoli, con l'eccezione della testa, che - a un parte un frammento - rimase a Patrasso.
 
Nel 1206 il Cardinale di Amalfi trasferì le reliquie in Italia, a seguito dell'occupazione di Costantinopoli durante la Quarta Crociata; e nel 1208 gli amalfitani le accolsero nella cripta del loro Duomo.
 
Nel 1460 i turchi invasero la Grecia, e la testa di Andrea venne trasferita da Patrasso a Roma, dove la reliquia rimarrà custodita in San Pietro per cinque secoli, fin quando Papa Paolo VI - nel 1964, durante il Concilio Vaticano II - ne disporrà la restituzione alla Chiesa di Patrasso.

 

Uno, due, tre... sessanta!


I babilonesi furono i primi a ideare un sistema di numerazione (simil) posizionale.
La base sessagesimale fu mutuata dai Sumeri, un popolo che ne amalgamava due,
uno abituato alla "base 5" e l'altro alla "base 12",
da cui la "base 60" (5×12) che entrambi potevano capire. 
Il sistema era sì sessagesimale (base 60) ma non usava 60 simboli diversi.
Le cifre babilonesi (da 1 a 59) venivano scritte per mezzo di un meccanismo additivo
- all'inizio basato su due soli simboli, uno per le unità e l'altro per le decine,
rispettivamente un chiodo verticale e un punzone con la punta rivolta a sinistra -
in seguito arricchito con il concetto di "zero" (scritto con due chiodi obliqui).
I simboli avevano valore doppio, triplo, quadruplo, e così via, 
in funzione della posizione occupata nella scrittura del numero,
proprio come avviene nel nostro sistema moderno,
in cui le cifre, da destra a sinistra, esprimono potenze crescenti della base. 

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove e dieci.

Sembra il conteggio più naturale, e forse lo è, per il fatto di poterlo scandire con le dita delle mani: a ogni numero corrisponde un dito, a ogni dito corrisponde un numero, e le dita si alzano via via che si conta, sino a ritrovarsi con entrambe le mani spalancate. E' la familiare "base 10", usata oggi in gran parte del mondo.

Non c'è da sorprendersi. Le mani intrattengono un dialogo permanente col cervello, sono lo strumento più semplice e naturale per i compiti più svariati, una straordinaria concentrazione  di risorse: con le mani ci vestiamo, mangiamo, beviamo, salutiamo, minacciamo, accogliamo, ci presentiamo e compiamo una gran varietà di altri atti fisici. Non meraviglia allora che le si usino anche per contare, sfruttando se necessario le possibilità offerte da tutte le parti ossee, dalle articolazioni corrispondenti, dalla disposizione asimmetrica delle dita e dalla loro relativa autonomia.
 
Volendo - infatti - si può battere una via alternativa alla semplice alzata della dita: usare il pollice come puntatore, da far scorrere sulla falange, la falangina e la falangetta delle altre quattro dita, cosicché si può contare fino a dodici, e per di più con una mano sola. Vi siete mai chiesti perché, in inglese, i numeri undici e dodici si dicono eleven e twelve e non oneteen e twoteen? Perché  la cantilena dei teen - thirteen, fourteen, fifteen, ... - inizia solo dal tredici e non già dall'undici? Proprio perché si ha in testa la "base 12", attestata già nelle civiltà mesopotamiche e ancora in uso in America per le misurazioni, dove un piede equivale a dodici pollici.
 
Ma si possono  avere anche restrizioni o ampliamenti.

Le ecografie tridimensionali restituiscono a volte l'immagine del bambino impegnato a guardarsi le dita della mano, in movimento. Sta scoprendo il suo corpo, un pezzo alla volta, e la singola mano è il suo parametro di riferimento: è la "base 5", usata dagli Api, un popolo delle Nuove Ebridi che conta di cinque in cinque (il numero 6 si chiama "nuovo uno", il 7 è "nuovo 2", il 10 è "due mani").
 
E volendo si può andare oltre le mani, perché abbiamo a disposizione anche i piedi, di nuovo con cinque dita ciascuno. Certo, tenere il conteggio coi piedi non è altrettanto comodo (difficile alzare le dita dei piedi con la stessa facilità) ma nulla vieta di usarli in accoppiata alla mani: è la "base 20", il sistema vigesimale, usato dai popoli della Mesoamerica (che si regolavano con un sistema misto di passo cinque e venti: 6 era "cinque e uno", 16 si diceva "quindici e uno", 40 "due ventine", 50 "due ventine meno dieci") e degli Youruba, un popolo dell'Africa occidentale (dove vale un principio sottrattivo: 15 è "venti meno cinque", 16 è "venti meno quattro", 50 è "tre ventine meno dieci", 300 è "venti meno cinque ventine").
 
Catapultiamoci ora all'estremo opposto e immaginiamo una razza aliena, simile alla nostra nelle fattezze fisiche, con l'unica differenza di non avere le mani (o, se preferite, di avere un pugno chiuso al posto della mano). Questi alieni troverebbero naturale contare alzando le braccia (come noi alziamo le dita): è la "base 2", l'unica utilizzabile da un computer, in grado di captare solo due segnali ("acceso" vs "spento", "presente" vs "assente", "chiuso" vs "aperto").
 
Ma di là delle varie contingenze nello spazio e nel tempo - che possono favorire questa o quella base di numerazione - è il sistema di rappresentazione cosiddetto "posizionale" che ha fatto compiere un balzo alla rappresentazione delle quantità e alle associate modalità di calcolo.

 
La numerazione "posizionale" si basa su tre intuizioni:
 
1 - rappresentare le cifre con segni convenzionali che non siano visivamente evocativi del numero corrispondente;
 
2 - assegnare alle cifre un ruolo dinamico, per cui il loro valore dipende dalla posizione occupata nella scrittura del numero;
 
3 - introdurre un segno dedicato al numero zero.
 
Un sistema di numerazione posizionale in "base n" utilizza n simboli diversi per rappresentare i primi n numeri interi - da zero sino a n-1 - e da quel momento in poi esprimerà ogni altro numero attraverso un'opportuna configurazione di due o più degli n simboli originari.

La cosa - per noi, oggi - è evidente: scrivere il numero 2222 significa sommare due migliaia, due centinaia, due decine e due unità, per un totale di 2222, una scrittura in cui la stessa cifra "2" assume quattro significati diversi (migliaia, centinaia, decine, unità) in funzione della posizione occupata da sinistra a destra.
 
"Che sarebbe l'aritmetica se ogni numero si dovesse significare con una cifra diversa, e non colla diversa composizione di pochi elementi" - annotava Leopardi nello "Zibaldone", col beneficio della retrospettiva - ma l'idea di un ristretto numero di simboli, di significato variabile in base alla posizione, non è affatto naturale.
 
L'istinto porta infatti a contare replicando uno stesso segno, e di quando in quando a riassumere una sequenza di una data lunghezza con un altro segno. Era la prassi degli antichi romani per tenere il conto delle pecore che rientravano all'ovile: intagliavano una tacca "I" su un bastone per ogni pecora, ogni cinque tacche tracciavano una "V", e ogni dieci una "X", per facilitare la lettura. Da questa usanza nacque il loro farraginoso sistema di numerazione, con l'introduzione di altri simboli per "50", "100", e così via, senza che nessuno pensasse mai di modificarlo. Così - ad esempio - il nostro 3967 si sarebbe scritto MMMCMLXVII, cioè come la somma di tre volte mille ("MMM"), a sua volta sommata a mille meno cento (CM), il tutto sommato a sessanta (LX), da sommare infine a sette (VIII), con le convenzioni I=1, V=5, L=50, C=100, D=500, M=1000. E ora provate a eseguire la semplice operazione 3967+1032, usando la rappresentazione romana, se ne siete capaci.
 
Servirà arrivare al XIII secolo per vedere all'opera un'aritmetica geniale e risolutiva.
 
Nel 1223, a Pisa, sotto gli occhi dell'Imperatore Federico II di Svevia, si svolse un singo­lare torneo:
da un lato gli abachisti, che utilizzava­no ancora l'antica numerazione romana,
e dall'altro gli algoritmisti, che usavano la nuova nu­merazione posizionale (araba),
per vedere quale sistema fosse più efficiente nell'esecuzione dei calcoli.
Vinse l'innovazione sulla tradizione: la carta e la penna piallarono l'abaco,
e da lì iniziò la diffusione del sistema posizionale, peraltro non senza travagli
(ché la Chiesa vi scorgeva una via surrettizia per propagandare le idee degli "infedeli") .

La costruzione di un sistema di numerazione posizionale deve conciliare due esigenze: da un lato si vogliono "pochi" simboli, per potervi familiarizzare velocemente; dall'altro non si vogliono scritture troppo lunghe per numeri oggettivamente "piccoli".
 
Il senso del contrasto si coglie dal confronto tra la "base 2" (che realizza la massima economia di cifre) e la "base 10" (a cui siamo assuefatti): il numero otto - ad esempio - ha un suo simbolo dedicato in "base 10" (il segno "8"), ma in "base 2" diventa "1000", serve cioè una sequenza di ben quattro segni per esprimere una quantità che percepiamo bassa.
 
In "base 10" è sufficiente una sola cifra per scrivere i primi 10 numeri,
ne servono due per scrivere i successivi 90, e tre per scrivere i 990 a seguire.
In "base 2", le cifre necessarie al conteggio crescono più velocemente:
ne servono sette per il 125, nove per il 413, dieci per il 631 e il 935
(quando in "base 10" ne bastano invariabilmente tre).
 
Quand'è che il vantaggio di una rapida familiarizzazione con "pochi" simboli viene superato dallo svantaggio di dover ricorrere a scritture lunghe di quantità "piccole"? O - in senso inverso - quand'è che il vantaggio di avere scritture brevi per numeri "grandi" viene superato dallo svantaggio di dover convivere con "troppi" simboli da ricordare?
 
Le due istanze sembrano avere pari dignità, ma fortunatamente c'è un ulteriore requisito da imporre a un buon sistema di numerazione, che aiuta nell'indirizzare la scelta. E' una richiesta che strappa forse un sorriso, in quest'epoca ad alta tecnologia di calcolo, e che tuttavia ancor oggi condiziona il giudizio di convenienza: è auspicabile avere una "base n" con un elevato numero di divisori, così da garantirsi una buona probabilità di ottenere numeri interi a seguito di una divisione.
 
In "base 10" - ad esempio - già la semplice divisione tra 1 e 3 dà luogo a un numero decimale illimitato, quindi è virtualmente impossibile dividere una pizza (1), tagliata in dieci fette ("base 10"), fra tre persone (3): ognuno ne avrebbe tre fette e la fetta residua andrebbe divisa in dieci fettine più piccole, di cui ognuno ne prenderebbe tre, avanzando quindi ancora una fettina, da dividere di nuovo in dieci parti, e così via sino all'infinito.
 
Il passaggio alla "base 12" risolve il problema: la pizza (1) viene tagliata in dodici fette ("base 12") e ognuna delle tre persone (3) ne riceverà quattro (4).
 
Con due soli simboli in più - per indicare il dieci e l'undici - la "base 12" raddoppia i divisori non banali (diversi da 1 e n): un bel guadagno, a fronte di un costo tutto sommato contenuto. 
 
 
La "base 12" vince tre volte,
la "base 10" una volta sola,
e una volta c'è un pareggio.
 
Dalla "base 12" è un attimo a passare alla "base 60", un salto molto più corto di quanto il mero incremento numerico potrebbe far pensare: su una mano si procede fino ad arrivare a dodici (sfruttando l'articolazione delle quattro dita e usando il pollice come contatore) e sull'altra si procede di dodici in dodici (alzando un dito ogni volta che si è esaurito il conteggio sulla prima mano) arrivando così a contare sino a sessanta.
 
   
La "base 60" sulle due mani.
 
La "base 60" non ha più la popolarità di una volta, e sicuramente un sistema sessagesimale "puro", con 60 simboli diversi da memorizzare, sarebbe di complesso utilizzo.
 
Ma della "base 60" - e della correlata "base 12" - abbiamo ancor oggi dei segni visibili in diversi momenti della nostra vita, a esempio nella misurazione degli angoli (il piano misura 60×6=360 gradi) e del tempo (24 ore di una giornata, 12 per il giorno e 12 per la notte; 1 ora=12×5=60 minuti; 1 minuto=12×5=60 secondi); ed entrambe le convenzioni - sugli angoli e il tempo - hanno verosimilmente la stessa origine, perché il tempo trascorso dall'ultimo scoccare dell'ora si può leggere su un orologio a lancette misurando l'angolo formato dalla lancetta dei minuti con l'asse verticale.
 
 
Il "secondo" è di regola la più piccola unità sperimentabile per la misura del tempo,
e poiché 1 minuto = 60 secondi, e 1 ora=60 minuti, abbiamo 1 ora = 3600 secondi.
Il "grado" è l'unità di misura degli angoli, pari alla 360-esima parte dell'angolo giro,
e ogni grado si può suddividere in 60 primi ed ogni primo in 60 secondi.


Le Croci di Sant'Andrea del  Lombardo-Veneto

Il gulden - nome riservato alle banconote, laddove per le monete si usava il termine fiorino - fu l'unità moneta standard dell'Impero austriaco, dal 1754 al 1892.

La moneta divisionale - di piccolo taglio, per i pagamenti d'importo limitato - era invece il kreuzer, dal tedesco kreuz, croce, un nome originato dal conio medioevale (il "grosso tirolino") che sul rovescio riportava una croce ordinaria intersecata con una Croce di Sant'Andrea.
 
Il grosso tirolino, battuto dal 1271 a Merano, in Alto Adige:
l'antenato del kreuzer.
 
Sino al 1857 servivano 60 kreuzer (in italiano "carantani") per avere un gulden (fiorino): il sistema monetario austriaco era quindi impostato su base sessagesimale (per avere un'unità occorrevano sessanta sottomultipli, e ora possiamo ben intuire i motivi della scelta).

1 gulden (fiorino) = 60 kreuzer

 

 Moneta austriaca da 1 kreuzer del 1851.
 
Sabato 1 giugno 1851 l'Impero austriaco mise in circolo la sua prima serie di francobolli: cinque esemplari, con facciali da 1, 2, 3, 6 e 9 kreuzer.
 
I francobolli furono stampati in fogli da 240 esemplari, divisi in 4 gruppi da 60 francobolli ciascuno, separati da interspazi, strutturati in 7 file da 8 e con una fila (l'ultima di ogni quarto) con 4 francobolli e 4 Croci di Sant'Andrea.
 
Il posizionamento delle "Croci" variò nel tempo, in dipendenza delle varie tirature, distinguibili dal tipo di carta utilizzata ("a mano" all'inizio, "a macchina" successivamente).
 

In alto, la composizione del foglio su carta "a mano" (1851).
In basso, la composizione del foglio su carta "a macchina" (1854-1856).
Le "Croci" unite lateralmente sono molto più rare delle "Croci" unite inferiormente,
- almeno in generale, perché su quattro "Croci" complessive ce n'è solo una laterale -
 ma nel caso del 15 centesimi, secondo le stime del Catalogo Sassone,
il rarità effettiva è più bassa di quella attesa, e la proporzione e di circa 1 a 2.
 
Ma che senso aveva stampare 4 Croci di Sant'Andrea, anziché altri 4 francobolli, alla fine del foglio? La risposta è nel sistema sessagesimale.
 
Per chi è abituato alla "base 60" - per chi vede il mondo "a blocchi di 60", per chi ragiona "di 60 in 60" - è naturale operare tramite multipli e sottomultipli di 60, allo stesso modo per cui nel nostro sistema monetario i valori facciali delle monete (5, 20 e 50 centesimi, 1 e 2 euro) e i tagli delle banconote (5, 10, 20, 50, 100, 200 e 500 euro) sono rispettivamente sottomultipli e multipli di 10 (perché noi ragioniamo in "base 10"). Chi è parametrato sul 60, similmente, costruirà tutto in funzione di multipli e sottomultipli di 60.
 
Per un austriaco del 1850 era quindi naturale immaginare un foglio con un numero di francobolli pari a un multiplo di 60, e nella fattispecie suddiviso in 4 blocchi da 60 (4 è a sua volta un sottomultiplo di 60: 4×15=60) da cui un totale di 60×4=240 francobolli; e ovviamente si rimaneva agganciati alla base di riferimento anche nella costruzione di ogni singolo blocco, che si voleva di forma quadrata (anche per un fatto estetico, di regolarità).
 
Una semplice aritmetica spingeva così verso blocchi di dimensione 8×8, in cui da quattro caselle si sarebbero però dovute espungere le stampe, per quadrare a 60 (7 file da 8 francobolli ciascuna, per un totale di 7×8=56 pezzi, più 4 spazi vuoti per arrivare appunto a 60).
 
Ma era un rischio lasciare priva di stampa una porzione della preziosa carta ufficiale -  i falsari ne avrebbero potuto approfittare, e non si sa quanto fosse grande il timore verso le falsificazioni - così quegli spazi furono riempiti con quattro "X", la lettera più usata per invalidare, e che al tempo stesso richiama la Croce di Sant'Andrea.
 
Le quattro Croci di Sant'Andrea,
da uno dei fogli dei francobolli dell'Impero austriaco.
 
La mera spiegazione aritmetica si colora di precisi significati economici, se si tiene conto delle modalità operative di distribuzione dei fogli.
 
Il quarto di foglio era l'unità-base consegnata a ogni ufficio postale, e avere blocchi 8×8, con 60 francobolli e 4 Croci di Sant'Andrea, permetteva un allineamento nominale tra il controvalore (in fiorini) del quarto di foglio e il valore facciale (in kreuzer) del singolo francobollo.
 
Un quarto di foglio da 2 kreuzer - ad esempio - conteneva 60 francobolli, ognuno con un facciale di 2 kreuzer, per un controvalore di 120 kreuzer, equivalenti a 2 fiorini; il valore monetario "2" del singolo francobollo (in kreuzer) si traduceva nel valore "2" dell'intero quarto di foglio (in fiorini); e la stessa corrispondenza si manteneva per tutti gli altri valori.
 

 

E nel Regno del Lombardo-Veneto? Cosa accadeva nella provincia italiana dell'Impero?
 
Il Lombardo-Veneto era una diretta emanazione dell'Austria, di cui recepiva meccanicamente ogni iniziativa istituzionale. Preservava però una sua autonomia amministrativa, tanto da avere - caso unico nell'Impero - una moneta propria, la lira austriaca, divisa in 100 centesimi.
 
Nel Lombardo-Veneto vigeva dunque un sistema decimale, si ragionava in "base 10", a multipli e sottomultipli di 10, ma ciò non impedì di traslare all'emissione "italiana" la stessa logica utilizzata per la gemella austriaca - un foglio di 240 esemplari, divisi in 4 blocchi quadrati da 60 esemplari, con 4 Croci di Sant'Andrea - che smarriva ovviamente la corrispondenza tra il valore nominale del singolo francobollo e il valore dell'intero quarto di foglio, ma  preservava un controvalore intero in lire austriache per i quarti di foglio (senza il fastidio di spezzature in centesimi).
 

 
Quattro Croci di Sant'Andrea, un semplice escamotage tecnico-contabile per velocizzare i calcoli negli uffici postali, in un'epoca in cui le operazioni si eseguivano con carta e penna, e trascinarsi dietro le frazioni aumentava il rischio di errori imperdonabili.

Quattro Croci di Sant'Andrea - nell'ultima fila di ognuno dei quattro blocchi in cui era diviso il foglio - messe lì solo per far quadrare i conti.

Quattro Croci di Sant'Andrea... che hanno creato alcune delle rarità più suggestive di tutti gli Antichi Stati Italiani!
 


  Quattro pagine straordinarie della Collezione "Testine" dell'Ingegner Ottavio Masi.
 
 
 
Asta Bolaffi, 8-9 maggio 1992.
 
 
 
 
 
 








 
 
 



 
 
 

 
 












Il Governo austriaco conservò dei fogli interi del 15, del 30 e del 45 centesimi
- a oggi ne esistono tre, quasi completi, custoditi presso la Banca d'Austria -
demonetizzandoli con una "X" a penna sopra i francobolli, una volta andati fuori corso.
Questo blocco di 6 è... un tripudio di Croci di Sant'Andrea!
 
 
 
Esiste un solo 30 centesimi su lettera con "Croce" completa,
ma il fracobollo è pesantemente difettoso nel margine superiore;
ve ne sono invece di molto belli con "Croce" parziale,
e questo è uno dei migliori.
 


Non esiste il 45 centesimi sul lettera con "Croce" completa;
questa è la più grande conosciuta.
(Ex Collezione "Marta", asta Filasta n. 109, 25 febbraio 1991, lotto 317).



I francobolli con "Croci" complete su documento sono grandi rarità,
ad appannaggio esclusivo dei grandi collezionisti, o meglio, di collezionisti danarosi.
Tutti possono però collezionare le "Croci", in proporzione alle proprie disponibilità economiche.
Questa lettera - ex Collezione "Pedemonte" - ne è un esempio magistrale:
lo stato di conservazione è complessivamente eccellente, 
il francobollo è al top di gamma, con un principio ben visibile di "Croce",
e l'oggetto mantiene un costo ancora accessibile ai più.

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