COLLEZIONE "AL DI QUA DEL FARO" - Borboni d'Italia

L'Italia
nacque così: non solo o non tanto per la forza delle proprie armi, né su impulso della maggioranza del popolo, ma per la fortunata combinazione di temerarie iniziative diplomatiche e di azioni rivoluzionarie studiate a tavolino, col benestare di Francia e Inghilterra (che se pure in alcuni momenti raffreddarono i loro entusiasmi per la causa del Piemonte, nel complesso ne appoggiarono la sua espansione).
Molti proclami all'unità nazionale arrivarono roboanti dalla Rivoluzione
Francese, e furono ripresi nei circoli letterari
dagli intellettuali e dai funzionari governativi, saliti di rango sociale dopo lo
scompaginamento napoleonico. Su questo pugno di notabili - su questa fetta striminzita della borghesia, che a sua volta era
una fetta striminzita della società tutta - i patrioti basavano i loro
programmi. Il popolo era troppo preso dalla sopravvivenza quotidiana, per avvertire qualcosa in più di un semplice eco. Non era in grado di capire gli appelli all'unità nazionale per la mancanza di tutti gli strumenti necessari,
a iniziare dall'alfabeto, è vero,
ma anche quell'analfabetismo era in fondo una questione di prospettiva.
Quel mondo formato da micro-mondi - dove tutto ruotava intorno
al parroco, al farmacista, al rappresentante dell'autorità, che spesso
non era neppure il Sindaco o il Potestà, ma il Gonfaloniere o il Legato, se non il notaio, lo scrivano del paese, o addirittura la levatrice o il
medico condotto - restava
impermeabile alle idee moderne. I più conoscevano solo il proprio paese, non andavano al di là del
podere nel quale lavoravano, avvertivano un senso di appartenenza campanilistico, comunale. Sovranità, governabilità, legittimità, questioni di confini, strategie militari e campagne belliche
erano solo astrazioni - recepite a malapena o non
recepite affatto - perché troppo distanti dalle esperienze e
dalle aspettative di quel mondo fatto di micro-mondi.
Le masse rimasero assenti nei moti del 1820-21 come in quelli del 1830-31, perché in esse covava sì parecchio malcontento, ma nessun potenziale
rivoluzionario; perché proprio non capivano chi fossero e cosa
volessero questi esponenti dell'alta borghesia, e a volte dell'aristocrazia; perché faticavano ad accettare l'idea che ogni rivendicazione dovesse necessariamente passare per una guerriglia.
"Non fidate
a una classe sola la grand'opera di una rigenerazione nazionale" - ammoniva Mazzini - "Le
moltitudini sole possono sottrarvi alla necessità d'instaurare il
terrore, le proscrizioni, l'arbitrio". Era l'unico a sentire il bisogno di
dare un contenuto popolare al Risorgimento, perché intuiva che la nazione alla lunga si sarebbe scollata, se tenuta assieme col solo mastice della diplomazia e delle baionette straniere, e che un giorno le masse ne sarebbero diventate nemiche, se non fossero entrate da protagoniste nel suo processo di
formazione.
L'Italia
alla fine si fece nell'unico modo in cui era possibile farla, con la spregiudicatezza e il sopruso di una minoranza d'avanguardia su una maggioranza assente e inerte, e questo vizio d'origine avrebbe pesato sino ai nostri
giorni.
Sentirsi estranei, più assoggettati
che partecipi, è la storia di oggi, ma iniziò allora, il 17 marzo 1861.
Il testo della legge n. 4671 del 17 marzo 1861,
che vale come proclamazione ufficiale del Regno d'Italia.
Il Regno d'Italia di Vittorio Emanuele II sorge il 17 marzo 1861.
L'Inghilterra lo riconosce immediatamente, il 30 marzo, e non potrebbe essere altrimenti, visto il ruolo cruciale assolto nella sua nascita; gli Stati Uniti d'America si pronunciano poco dopo, il 13 aprile.
La Francia arriva tardi, il 15 giugno, e accompagna il riconoscimento con una nota di scetticismo sulla politica di unificazione italiana; ribadisce i diritti dello Stato Pontificio sulle province usurpate, e
la necessità di proteggere Roma con la presenza di una propria
guarnigione militare; precisa che solo la Lombardia può considerarsi propriamente acquisita, come peraltro già affermato nella Conferenza di Varsavia dell'ottobre del 1860.
Sulla scia delle grandi Potenze si accodano le minori, come se stessero aspettando solo dei precedenti illustri per rinnegare la legittimità, il trono e la storia del Regno di Napoli.
Il
Portogallo - Stato cattolico come la Francia - si pronuncia il 27 giugno; lo seguono, a luglio, la Grecia, l'Impero ottomano e i Paesi scandinavi.
Il
riconoscimento di Olanda e Belgio avviene in
due tempi, tra a luglio e novembre, dopo un acceso dibattito parlamentare.
Alla fine del 1861 rimane ancora l'ostilità dell'Impero austriaco, della Corte di Spagna, della Russia, della Baviera, della Prussia e degli Stati della Confederazione germanica.
Ma ci fu un'altra nazione che tardò a riconoscere il nuovo Regno, una nazione dentro il Regno, da contestualizzare non tanto in termini storici, geografici o istituzionali, ma più che altro antropologici, etnici e letterari - realmente umani - all'interno di un processo che è sì storico, ma che non si regge solo sulla storia.
E' quella nazione napoletana che continuò a stampare francobolli borbonici ancora sino all'inizio del 1861, e a utilizzarli anche dopo il 17 marzo 1861, sebbene il decreto dittatoriale del 9 settembre 1860 imponesse ai suggelli dello Stato "lo stemma della real Casa di Savoia" e una disposizione del Ministero delle Finanze stabilisse di sospenderne la produzione.
E' quella nazione napoletana che obbligò il Governo italiano a prolungarne l'utilizzo sino al 31 dicembre 1861, e che pure rimase lettera morta, avendosi usi anche nel 1862 e addirittura nel 1863, a testimoniare un passato che permane, che proprio non vuol passare.
17 marzo 1861
30 marzo 1861
13 aprile 1861
Lettera indirizza a "All'Illustre Italiano... Avvocato in...",
perché, sì, a volere l'Italia erano loro: gli avvocati, i notai, i medici, i borghesi.
L'impiegato tassò al principio la lettera per 2 grana (segno "2" a penna),
dubitando evidentemente della validità postale del francobollo da 1 grano
(per cui era come se la missiva non fosse affrancata affatto);
poi, accertato che i francobolli borbonici erano invece ancora in uso,
rettificò l'errata tassazione di 2 grana (col timbro ovale "Corretta", in rosso)
ma contestualmente segnalò un'affrancatura che rimaneva insufficiente
(col timbro "Tassa per insofficiente francatura")
e applicò la giusta tassazione di 1 grano (segno "1" a penna).
La confusione nell'interpretazione dell'affrancatura
è lo specchio del particolare periodo storico.
Era il 13 aprile 1861, come dice il datario circolare,
e due mesi prima, il 13 febbraio, la Direzione delle Poste di Napoli
aveva preso in carico la prima provvista di una nuova serie di francobolli,
senza però diffondere alcuna comunicazione di cessazione di validità dei bolli borbonici.
Il primo marzo erano poi entrate in vigore le tariffe postali del Regno di Sardegna
e poco più di due settimane dopo - il 17 marzo - era stata proclamata l'unità d'Italia.
L'impiegato postale evidentemente non si raccapezzò in questo tourbillon,
- tra vecchi bolli e nuove emissioni e tariffe, sotto la potestà di un nuovo Stato -
e ne uscì fuori un documento che testimonia tutto il travaglio del momento.
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