COLLEZIONE "AL DI QUA DEL FARO" - Ha da passà 'a nuttata

La baia di Giardini (Naxos)

Il 4 aprile 1860 scoppia a Palermo la Rivolta della Gancia. Garibaldi è a Genova, nel mezzo dei preparativi della "Spedizione" in Sicilia, sollecitata da Francesco Crispi, già organizzatore della rivoluzione siciliana del 1848. Dopo due settimane un telegramma cifrato annuncia la sconfitta dei rivoltosi palermitani. Il Generale annulla l'impresa, e il 29 aprile comunica alla figlia di voler tornare a Caprera. Crispi non demorde e lo persuade di un'errata decodifica del telegramma: l'Isola è ancora in ebollizione, l'insurrezione continua. "Voi solo mi incoraggiate ad andare in Sicilia" - dirà Garibaldi a Crispi il 2 maggio - "mentre tutti gli altri me ne dissuadono". Tre giorni dopo i "Mille" salpano da Quarto.
 
La "Spedizione" non è solo temeraria, è geniale. Garibaldi -  un mito mondiale - sbarca nella polveriera siciliana l'11 maggio, e il percorso dei "Mille" apparirà meraviglioso e fatale, agli occhi di un'Europa attonita, anche grazie al filtro da una stampa internazionale amica e spesso faziosa: Davide sconfigge Golia, la fortuna arride all'eroe, le popolazioni oppresse seguono il Messia. E se Napoli sa bene quanto sta accadendo nell'Isola ribelle - perché ne conosce l'aristocrazia ostile, il radicalismo delle città, la forza delle bande contadine, il miscuglio di politica e delitti - l'opinione pubblica europea percepisce invece un autentico prodigio. "Viviamo all'epoca dei miracoli", scriverà Massimo d'Azeglio all'Ammiraglio Persano. Miracolosa è la cavalcata dei "Mille", miracolosa l'invincibilità del leader.

Con la Battaglia di Milazzo, tra il 17 e il 24 luglio, i Borbone perdono la Sicilia. Garibaldi, ora, non ha che un ostacolo di fronte a sé: lo Stretto di Messina. "Giunto allo Stretto, bisognava passarlo" - scriverà il Generale nelle sue "Memorie" - "Dovevamo noi, per compiacere la diplomazia, lasciare incompleta, monca, la patria nostra? E le Calabrie, e Partenope, che ci aspettavano a braccia aperte? Ed il resto d'Italia, ancora servo dello straniero o del prete? Bisognava passarlo, a dispetto della vigilanza somma dei borbonici, e di chi per loro!".
 
Cavour, a Torino, vive giorni di terrore e d'imbarazzo. Nessuno sa dire, o anche solo immaginare, cosa accadrebbe se Garibaldi sbarcasse sulla penisola. E se si spingesse sino a Roma per poi marciare verso Venezia? E se trionfasse l'anarchia? C'è molto da temere e ben poco da sperare.
 
"Non aiuti il passaggio di Garibaldi sul continente; anzi veda di ritardarlo per via indiretta il più possibile", scrive Cavour all'Ammiraglio Persano, che presidia con la sua flotta le acque siciliane, sotto apparente neutralità, ma nei fatti in una guerra non dichiarata contro Francesco II. "Per via indiretta": come a dire lasci pure che le navi borboniche lo incrocino lungo lo Stretto, semmai decidesse di passarlo.
 
I timori crescono. "Conviene impedire a ogni costo che Garibaldi passi sul continente da un lato, e dall'altro promuovere un moto in Napoli" -  ancora Cavour sempre a Persano - "Se questo ha esito felice, si proclamerebbe senza indugio il governo di Vittorio Emanuele. Questo accadendo, dovrà immediatamente partire con tutta la squadra per Napoli".
 
Si immagina dunque un moto rivoluzionario che sbalzi dal trono i Borbone, solleciti l'annessione delle Due Sicilie al Piemonte, e tagli la strada a Garibaldi. Con la complicità del Generale borbonico Alessandro Nunziante  - "Di lui possiamo fidarci", il solito Cavour al solito Persano, "perché ci ha dato tanto in mano da farlo impiccare se occorre" - e del nuovo Ministro degli Interni di Napoli, Don Liborio Romano - il padre di tutti i voltagabbana della politica italiana - prende forma l'idea di un colpo di Stato filosabaudo. Ma sia Nunziante  che Romano si sfilano proprio nelle ore decisive, anche perché i moderati - che avrebbero dovuto provocare i moti - spingevano per l'annessione proprio per impedire quelle azioni scomposte da cui si sentivano minacciati.
 
"Se Napoli racchiude elementi di rivoluzione, essa deve scoppiare perché gli abbiamo somministrato tutti i mezzi per farla" - scrive uno stizzito Cavour a Bettino Ricasoli, il 16 agosto - "Se poi la materia del Regno è talmente infracidita da non essere più suscettibile di fermento, io non so che farci, e bisogna rassegnarsi al trionfo di Garibaldi o della reazione".
 
Nella concitazione del momento trova spazio un siparietto tutto italiano, emblematico dell'Italia che sarà.
 
Cavour suggerisce a Vittorio Emanuele di intervenire in prima persona, di scrivere a Garibaldi per persuaderlo a fermarsi. E il Re scrive. Il 22 luglio la lettera è recapitata al Generale da un aiutante di campo. "La consiglio di rinunziare all'idea di passare colla sua valorosa truppa sul continente napoletano, purché il Re di Napoli si impegni a sgombrare tutta l'isola e lasciare liberi i Siciliani di deliberare e disporre delle loro sorti... Generale, ponderi il mio consiglio e vedrà che è utile all'Italia".
 
Garibaldi replica con un rifiuto netto, sia pure ossequioso - "L'Italia mi chiederebbe conto della mia passività, e credo che ne deriverebbe immenso danno. Al termine della mia missione, io deporrò ai piedi di Vostra Maestà l'autorità che le circostanze mi hanno conferito e sarò ben fortunato d’ubbidirla per il resto della mia vita" - e d'allora non perderà occasione di rimarcare la sua volontà di attraversare lo Stretto contro il consiglio di quel Re per cui diceva di agire.
 
Ma cinquant'anni dopo verrà fuori un biglietto autografo del Re, perfettamente in tono con la sua propensione all'intrigo. "Ora, dopo aver scritto da Re, Vittorio Emanuele le suggerisce di rispondere presso a poco in questo senso. Dire che il Generale è pieno di devozione e riverenza pel Re, che vorrebbe poter seguire i suoi consigli, ma che i suoi doveri verso l'Italia non li permettono di impegnarsi a non soccorrere i Napoletani quando questi facessero appello al suo braccio per liberarli da un Governo nel quale gli uomini leali ed i buoni Italiani non possono avere fiducia. Non potere dunque aderire ai desideri del Re volendosi riservare tutta la sua libertà d'azione".
 
Calcidesi fondarono la prima colonia greca in Sicilia, presso capo Schisò, nel 734 a.C.
e la battezzarono Naxos, come l'omonima isola nel Mar Egeo.
Il tiranno di Siracusa Dionisio I la distrusse nel 403 a.C.,
e dispose di edificare Tauromenion - Taormina - sull'altura sovrastante.
 Nel periodo bizantino, sulle spoglie della colonia greca, si formò Giardini,
un piccolo centro abitato, e approdo strategico per la vicina Taormina,
 che nel gennaio del 1847 ottenne l'autonomia amministrativa.
Giardini sarà lo scenario della "Spedizione dei Mille",
in vista dell'approdo sulle coste della Calabria
(nel 1978 recupererà "Naxos" nella sua denominazione  
per ricordare la sua origine di antica colonia greca).
 
 
 
Nell'agosto del 1860 Nino Bixio e la sua colonna di garibaldini sostarono a Giardini,
in attesa del momento più favorevole per attraversare lo Stretto.
Il Barone Platania ospitò lo Stato Maggiore dei "Mille", all'attuale civico 201 di via Umberto.
Nel 1960 il Comune pose una lapide sulla facciata del palazzo, per celebrare il centenario dell'evento.
 
La notte del 18 agosto 1860, nella baia di Giardini, Garibaldi prende il comando del "Franklin", Nino Bixio sale a bordo del "Torino". I due piroscafi puntano verso Porto Melito, solcando il braccio di mare più largo, per eludere il pattugliamento della flotta borbonica. All'alba del 19 agosto la costa calabra è in vista dei garibaldini.
 
Persano registra il fatto nel suo diario. "Nella notte scorsa ebbe luogo un potente sbarco di garibaldini fra Bagnara e Scilla che la marina da guerra napoletana ha lasciato fare". Cavour si arrende. "Se domani entrassi in lotta con Garibaldi" - scrive a Costantino Nigra, suo Ambasciatore a Parigi - "è probabile che avrei dalla mia la maggioranza dei vecchi diplomatici, ma l'opinione pubblica europea sarebbe contro di me, e con piena ragione perché Garibaldi ha reso all'Italia i più grandi servigi che un uomo potesse renderle: ha dato agl'Italiani fiducia in se stessi e ha dimostrato all'Europa ch'essi sanno battersi e morire per riconquistarsi una patria".
 
Da quel momento il Conte rinuncerà a boicottare la "Spedizione" e si preoccuperà solo di controllarne gli sviluppi, per evitare un intervento straniero.

L'alba sulla costa della Calabria, vista dalla baia di Giardini (Naxos).

La "Spedizione" sbarca a Melito Porto Salvo, a sud di Reggio. L'attendono i comitati rivoluzionari, ma anche i sindaci e la popolazione civile. Paradossalmente la guerra è finita, sebbene i domini Al qua del Faro siano ancora tutti da conquistare. Da Reggio a Napoli, di fatto, non sarà più sparato un colpo di fucile. Emblematico ciò che accade a Soveria Mannelli, nei pressi di Cosenza: diecimila borbonici evaporarono nel nulla, il Generale Ferdinando Ghio ne contratta la resa incondizionata, e Garibaldi lo ricompenserà pochi giorni dopo con la nomina a Comandante in Capo delle Piazza di Napoli.
 
Gli eventi siciliani, del resto, avevano avuto un chiaro valore segnaletico.
 
Da una parte i garibaldini, magari non tutti uomini adatti alle armi o che con le armi avessero grande esperienza, ma sospinti da un ardimento cieco, da una temerarietà sino all'eroismo, da una fede apostolica nella causa per cui combattere, con la certezza di avere alle loro spalle il Piemonte di Vittorio Emanuele, il favore di tutta la penisola e le simpatie dell'intera Europa liberale.
 
Sul versante opposto c'erano invece vecchi Generali brontoloni e scettici, recalcitranti al pericolo, disorganizzati e senza ideali, buoni solo a diffamarsi l'un l'altro e obbligati a difendere un Re che non era più Ferdinando II. Vincevano solo nelle colonne del "Giornale Ufficiale", che in quei giorni ricorse a ogni retorica possibile. Chi avrebbe mai dubitato del foglio ufficiale, quando il Generale Nunziante esibiva a Napoli due giubbe garibaldine come segno di vittoria?
 
E di là del divario di qualità sui campi di battaglia, vi erano poi i condizionamenti politici, che retroagivano sulle stesse azioni militari.
 
"Ma quello che non capirò mai" - scriveva d'Azeglio ai primi di giugno - "è come il Re, con 24 fregate a vapore, non abbia potuto guardare tre o quattrocento miglia di costa. Una fregata ogni, ogni 25 miglia, faceva dalle 12 alle 16 fregate e mai più bella occasione si presentò di servire meglio il proprio sovrano".

Ma una forza navale non deve solo vantare una netta superiorità sull'avversario, se vuol attuare un blocco costiero. Deve soprattutto possedere la volontà e la determinazione di sfruttare questo rapporto di forza senza cautele diplomatiche. E la Marina di Re Francesco aveva invece istruzioni di evitare qualsiasi incidente col Regno di Sardegna e specialmente con l'Inghilterra.
 
Così, quando a Marsala le navi inglesi "Argus" e "Intrepid" si posero sulla linea di fuoco dei vascelli napoletani, col pretesto di riprendere a bordo i loro ufficiali, i comandanti borbonici si sentirono limitati nella loro libertà d'azione dalla necessità di evitare complicazioni internazionali, e i garibaldini poterono sbarcarono senza particolari difficoltà.
 
Lo stesso Garibaldi riconoscerà il ruolo cruciale della manovra dissuasiva compiuta dalla piccola formazione navale britannica. "La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de' legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo a ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; e io, beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto". 

Il 12 maggio - il giorno dopo lo sbarco dei garibaldini in Sicilia - il Governo napoletano consegnava un durissimo memorandum a tutte le Potenze europee. Si denunciava l'atto di "selvaggia pirateria consumato da un'orda di briganti" e si palesava che "i Regi legni" - pur avendo a tiro le navi degli invasori - "erano stati costretti a sospendere il fuoco per dar tempo a due vapori inglesi, colà giunti poche ore prima, di prendere a bordo dei loro ufficiali che si trovavano a terra, e per attendere che, imbarcati, gli stessi vapori riprendessero il largo, ed allora soltanto poté il fuoco ricominciare su quei pirati, senza però poterne più impedire lo sbarco in Marsala".

La nota di protesta raccoglieva l'immediato sostegno internazionale. Il Ministro degli Esteri russo prendeva di petto l'ambasciatore piemontese: "se la posizione geografica della Russia lo permettesse, il mio Signore sarebbe stato disposto a impugnare le armi per difendere i Borboni di Napoli". La diplomazia francese parlava di una "violazione flagrante del diritto delle genti". La Prussia assumeva la posizione più dura, con la proposta agli Imperi asburgico e russo di accordarsi "per tutelare la comune legge internazionale contro la politica di sfrenata ambizione di Vittorio Emanuele che il gabinetto di Palmerston aveva dimostrato di voler favorire".

La situazione imponeva una spiegazione tempestiva del Gabinetto britannico, per evitare che l'opinione pubblica assimilasse il rapporto tra Londra e Garibaldi a quello tra Washington e il filibustiere William Walker, mutuandone le finalità: rovesciare i legittimi governi e sostituirli con regimi-fantoccio che permettevano di allargare e consolidare la propria influenza in quell'area. 
 
E Londra replicò con la stessa veemenza con cui si era sentita attaccata. Ritenne "completamente ingiustificata alla luce dei fatti" la versione sostenuta nella nota di protesta, e obbligò il Governo napoletano a una rapida retromarcia, per non compromettere ulteriormente il già fragile modus vivendi. "Non ebbe mai il Real Governo intenzione di attirare con la precedente nota il biasimo e la responsabilità della nostra Real Marina sui due legni Britannici" - precisò una nuova nota napoletana - "ma volle semplicemente appurare le circostanze tutte nelle quali si trovarono ad agire i vascelli napoletani, e soprattutto dar testimonianza dell'esattezza con cui i loro Comandanti avevano adempiuto le rigorose istruzioni di rispettare cioè, per quanto comportasse il dover loro, le persone e le proprietà estere". 

Questa sofferta e contorta dichiarazione chiudeva la querelle. Il Ministro Russel - davanti ai deputati inglesi - chiarì poi che la mancata reazione degli incrociatori delle Due Sicilie era stata solo "an act of international courtesy on the part of the Neapolitan captain", senza negare che quell'atto di cortesia aveva reso possibile lo sbarco a Marsala, ma evitando ogni riferimento al contesto politico nel quale si inseriva, e che nei fatti lo rendeva una semplice resa alla legge del più forte.

Garibaldi scorrazza in Sicilia, e intanto un'altra guerra si combatte sui tavoli della diplomazia.
 
Il 13 giugno il Ministro degli Esteri russo stigmatizzava la protesta puramente formale di Parigi verso Torino, giudicata "una reazione insufficiente e debole di fronte a un così inaudito atto di brigantaggio", di sicuro inadeguata a placare l'irritazione dello Zar, che si attendeva dalla Francia "molto di più".
 
I desiderata russi erano stati peraltro anticipati dal Gabinetto francese, che il 4 giugno aveva proposto a Cavour  una mediazione franco-inglese tra il Governo napoletano e gli insorti: separazione della Sicilia dal Regno borbonico (ma sempre sotto un ramo della Casa Reale napoletana), concessione delle Costituzioni in entrambi i domini, Al di qua del Faro e Al di là del Faro, patto di alleanza tra Torino, Napoli e il nuovo Stato siciliano. Dichiarazioni d'intenti che trovarono però l'opposizione di Londra, recalcitrante "a imboccare la strada senza dignità dei consigli impotenti" che gli attori in gioco avrebbero anche potuto rifiutare, esponendo l'Inghilterra "allo stesso insuccesso in precedenza subito dalla Francia e dall'Austria".
 
Dietro la giustificazione formale, di facciata, vi era una chiara ragione politica: il timore che Parigi assumesse un ruolo arbitrale preponderante nella soluzione della questione italiana e sfruttasse la contingenza per rilanciare il suo tradizionale programma federativo, da incardinare ora su una trinità di Stati nella sfera d'influenza francese.
 
Il 25 giugno, nel giorno in cui Francesco II promulgava il celebre "Atto Sovrano", Parigi invitava il Governo sabaudo a "farsi persuaso dei pericoli interni e esterni che potevano minacciarlo e forse mettere in questione le sue recenti acquisizioni territoriali, se la sua condotta, nella crisi siciliana, non si fosse ispirata a una politica saggia, capace di preservarlo dai suoi stessi errori". Due giorni dopo arrivava un'ammonizione anche a Re Francesco, per prendere consapevolezza di una politica torinese ormai determinata "a utilizzare le misure più estreme per rendere impossibile l'esistenza di un altro Stato autonomo in Italia". L'intero flusso di comunicazioni era stato preceduto da una lettera personale di Napoleone III a Francesco II con cui - dopo i fatti di Modena, Parma e Toscana - lo invitava ad attuare "qualche grande misura per dimostrare di essere non soltanto il Re di Napoli ma un membro influente della grande famiglia italiana".
 
Il 12 luglio l'ambasciatore francese a Napoli comunicava a Parigi la disponibilità di due plenipotenziari borbonici a muoversi tra Londra, Parigi e Torino, col mandato di consolidare l'unione tra le due Corone italiane. Napoleone III, per parte sua, era andato giù piatto con Cavour - l'unità italiana era "au-dessus des forces" della monarchia sabauda - e Torino dava a intendere di poter anche accettare il programma, ma con la solita riserva di sottrarvisi se il mutare della situazione lo avesse permesso, nello lo stile proprio di Cavour, quell'abile dosaggio di no, di e di fatti compiuti che lasciava sempre un appiglio al Governo sabaudo per chiamarsi fuori o restare in partita, a seconda delle convenienze. La mediazione parigina perse così tutto il suo mordente, quando il 28 luglio l'impetuosa offensiva garibaldina portò alla caduta di Messina.
 
Prima ancora Napoleone III aveva prospettato un blocco navale congiunto, delle squadre francesi e inglesi, per impedire lo sbarco di Garibaldi in Calabria, ma l'Inghilterra si era ancora una volta messa di traverso. Il Ministro inglese Russel aveva sfoderato il tanto invincibile quanto ipocrita "general principle of non-intervetion" - che sarebbe venuto meno se il Governo di Sua Maestà avesse intrapreso un'azione militare a favore del Re di Napoli - non prima però di aver ricevuto la rassicurazione di Cavour che un'estensione del Piemonte sarebbe avvenuta "whitout any compensation or equivalent for France" (nessuna cessione della Sardegna alla Francia, nessun Regno di Sicilia retto da Luciano Murat). E, d'altra parte, un'eventuale azione autonoma della Francia sarebbe stata interpretata da Londra come un attentato contro gli interessi inglesi nel Mediterraneo.
 
Il 29 luglio l'Imperatore francese precisava che il suo unico desidero era arrivare a una pacificazione nella penisola "sans intervention étrangère", ma alla fine di agosto, nel contemplare l'agonia del Regno delle Due Sicilie, si diceva pure "disgustato, come ogni altro uomo onesto, dalla politica italiana che aveva avuto tutti i caratteri della debolezza, dell'inganno e della doppiezza".
     
Il Primo Ministro inglese Palmerston - a cose ormai fatte - avrebbe infine ricordato che "se Garibaldi aveva potuto occupare Napoli ed esser causa che il Re scappasse a Gaeta, ciò fu dovuto all'Inghilterra che, invitata dalla Francia a impedire che dalla Sicilia si venisse ad attaccare gli Stati di terraferma vi si rifiutò" e che "l'aiuto morale e l'influenza britannica non furono meno utili all'Italia delle armi francesi e che sarebbe stata mera ingratitudine per parte dell'Italia lo scordarselo".
 
Sicuramente non lo scordò Garibaldi, che riconobbe a Londra tutti i meriti che le spettavano, nel corso della sua celebrata visita in Inghilterra dell'aprile del 1864. "Napoli sarebbe ancora dei Borboni senza l'aiuto di Palmerston; senza la flotta inglese io non avrei potuto passare giammai lo Stretto di Messina".
 
Il 18 agosto 1860 le truppe garibaldine passarono lo Stretto di Messina.
Nel 1882 il Comune di Giardini eresse un monumento col busto di Garibaldi,
"a perenne ricordo" di chi era riuscito a "rinfrancare il continente dalla signoria borbonica".
 
Re Francesco II sarà pur mancata l'esatta percezione dello stato delle cose - sperare era la sua parola preferita: suo padre Ferdinando aveva accumulato un capitale di odio in Sicilia, lui ne portava la responsabilità e semplicemente sperava - ma ben sapeva che non si trattava di stroncare l'insurrezione di una mano di avventurieri. "Don Peppino  ha le mani nette" - disse il Re nel concitato Consiglio di Stato del 30 maggio - "ma egli è un sipario; dietro di lui stanno le potenze occidentali e il Piemonte che hanno decretata la fine della dinastia". 
 
Re Francesco sapeva che ad attraversare lo Stretto, il 18 agosto 1860, non erano Garibaldi e Bixio sul "Torino" e il "Franklin", ma l'Inghilterra tutta, col tacito consenso della Francia e la resa delle altre Potenze europee, tra chi aveva sposato la causa italiana, chi quella dell'indifferenza, chi infine quella della rassegnazione, in un clima doppiogiochista insostenibile per chiunque.

 Lettera semplice da Chieti a Napoli, del 18 agosto 1860,
affrancata con un esemplare del 2 grana del Masini.
L'ultimo giorno del Regno di Napoli, prima dello sbarco dei garibaldini Al di qua del Faro.

Commenti

Post popolari in questo blog

KU FU? DALLA SICILIA CON FURORE

SEMIOFORI

LO STRANO CASO DI BENEVENTO E PONTECORVO