NOI FUMMO I LEONI, I GATTOPARDI

Bello fare le rivoluzioni: ogni atto, per quanto atroce, si purifica nel sacro fuoco degli ideali; ogni azione, per quanto barbara, è legittimata da qualcosa di più alto e grande, di più nobile e giusto.
 
Poi le rivoluzioni finiscono, anche con vittorie eccezionali, ma le inevitabili macerie rimangono.

 "Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili.
Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell'Italia Meridionale,
temendo di esser preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio"

Noi diciamo oggi che Garibaldi liberò l'Italia meridionale dal dominio borbonico, perché sappiamo come sono andati i fatti; ma se per un accidente qualsiasi quei fatti fossero girati diversamente, se per un provocatorio gioco del contro-fattuale l'unità d'Italia l'avessero realizzata i Borbone, o se più semplicemente esistesse ancora il Regno delle Due Sicilie, noi oggi studieremmo la grande impresa dell'esercito regio, che respinse l'assalto di una masnada di banditi e predoni, di furfanti e malviventi, partiti un giorno di maggio dallo scoglio di Quarto, capitanati dal peggiore di tutti loro: Giuseppe Garibaldi (la scorsa estate attraversai la Sicilia in macchina, da Giardini Naxos a Cefalù, con un compagno di viaggio che si avventurò in una audace rilettura di quel periodo, concludendo che Garibaldi era fondamentalmente un mafioso; e nel commentare la presenza in Italia, e in Sicilia in particolare, di piazze e vie intitolate all'eroe dei due mondi - espressione pronunciata con una chiara intonazione sarcastica - ebbe a chiosare: "è come se tra duecento anni, a Palermo, ci fosse Piazza Totò Riina").

Dentro la grande Storia si trova la storia dei francobolli, che ne recepisce le dinamiche e a suo modo la riproduce, offrendo una prospettiva inconsueta e originale sulle vicende di un'epoca.
 
A guardare la storia sotto la lente del filatelista, a voler vedere nel francobollo un cronista dell'epoca, si ha la sensazione che la messa fuori corso dei francobolli di Re Ferdinando II fosse parte integrante, costitutiva, della rivoluzione: la Sicilia non era stata ancora interamente liberata, l'impresa garibaldina non era ancora giunta ai suoi esiti, ma i "Testoni" erano già stati accantonati, il Borbone non lo si voleva più vedere nemmeno stampato.
 
Francesco Crispi emanò la "disposizione superiore della soppressione dell'affrancatura col Franco Bollo" il 4 giugno 1860, nella veste di responsabile del Ministero dei Lavori Pubblici, da cui dipendeva l'Amministrazione Postale. La "disposizione" trovò immediata applicazione nei comuni occidentali e sud-orientali della Sicilia, in mano alle truppe garibaldine, mentre altrove il francobollo di Re Ferdinando continuò a sopravvivere.

Lettera assicurata, da Partinico a Messina, affrancata per 4 grana,
con una striscia orizzontale di quattro esemplari del francobollo da 1 grana,
terza tavola, carta di Napoli, posizioni 7-10.
Il timbro "PALERMO 13 LUG 1860" testimonia uno degli usi più tardivi.
 
Questo fatto invita a riflettere sul valore politico del francobollo, sul suo peso istituzionale, ben oltre la semplice funzione amministrativa di "render franca" la spedizione della corrispondenza. In quest'ordine di idee si scorge più d'una similitudini tra l'emissione dei francobolli e l'emissione della moneta. Entrambe esprimono un potere sovrano, l'autorità di un Principe, di un Re, di un Parlamento, eventualmente delegata a un'istituzione terza. Entrambi gli oggetti - il francobollo e la moneta - veicolano la storia di uno Stato, le sue origini, le tradizioni, i simboli. Nel soddisfare cruciali esigenze pratiche - facilitare gli scambi, la moneta; agevolare il recapito delle lettere, il francobollo - entrambi finiscono col dare l'affresco di un popolo, della sua cultura, dei suoi personaggi, dei suoi miti.

E tutto ciò è amplificato dalla valenza sociale del servizio postale dell'epoca. Noi oggi fatichiamo a capirlo a fondo, a capirlo davvero, perché la tecnologia odierna ha reso facile e immediato comunicare a distanza. Oggi le nostre parole arrivano ovunque - in una frazione di secondo, ovunque ci troviamo, in qualunque istante vogliamo - ma all'800 per relazionarsi  a distanza c'era solo la posta - le lettere spedite da un punto e recapitate in un altro - e nulla più. La Posta custodisce così il codice genetico di uno Stato, del suo popolo. La storia della Posta - per chi sa leggerla - è un susseguirsi di indizi su propositi e ambizioni, ascese e declini, splendori e miserie. Nella storia della Posta - nelle sue evoluzioni e nei suoi inceppi, nelle regole e nelle eccezioni - rimane un segno degli avvenimenti più eclatanti, una traccia da decodificare in un timbro o in un francobollo, in una lettera o in un'annotazione, assecondando con arte  perizia il piglio di un indagatore, per rivelare fatti, situazioni, luoghi e personaggi altrimenti inaccessibili.

Far viaggiare la posta significava portare a spasso Re Ferdinando II, perpetuarne l'immagine: il francobollo come strumento di propaganda, seppur involontaria. I "Testoni" dovevano perciò sparire e pazienza per le "temporanee" e disfunzioni nei servizi postali. Se Parigi valeva bene una messa, l'Italia unita valeva bene una lettera in meno, e se proprio dovete spedirla, allora tornerete all'antico sistema, al pagamento in denaro, eseguito in partenza dal mittente (lettere franche) o in arrivo dal destinatario (lettere schiave). Si riscopre così il bollo "FRANCA" - messo da parte con l'arrivo dei francobolli, e che rimane pur raro, perché l'annotazione "Franca" veniva spesso scritta a mano - e si pensiona il timbro "REAL SERVIZIO", anch'esso evocativo della Casa Reale dei Borbone come il "Testone".

Oggi, col beneficio della retrospettiva, sappiamo che quel periodo "temporaneo" durò quasi un anno, ma all'epoca l'intento era emettere rapidamente nuovi valori postali, in sostituzione dei bolli borbonici.
 
L'incarico fu conferito a Giovanni Ficarotta, che immaginò i nuovi francobolli in continuità con l'emissione già approvata per il Governo Provvisorio della Toscana: stemma di Savoia sormontato da una corona, con la scritta "FRANCOBOLLO POSTALE SICILIANO" a correre sulle tre cornici, e indicazione del valore - ancora in grana! - nell'ultima in basso. Fantasia, portami via.

Saggio Ficarotta, luglio 1860.
10 grana rosso, sul modello dei francobolli del Governo Provvisorio di Toscana.
Unico esemplare noto.
La tavola - col tassello del 10 grana - è conservata al Museo Postale Italiano.

D'altra parte, se l'iconografia era già stata accettata per la Toscana, perché non sarebbe dovuta andar bene per la Sicilia? Già, ma chissà perché le autorità postali non gradirono. I nuovi francobolli li si volevano ora con l'effige di Re Vittorio Emanuele II (forse per marcare la discontinuità in un territorio di estensione e peso politico ben superiore al Granducato di Toscana) e con l'indicazione del valore in lire italiane (e qui ritorna l'assonanza tra il francobollo e la moneta).

Il Ficarotta ricominciò daccapo, indefessamente. Senza troppa fantasia né particolare ingegno - oh, quant'erano lontani La Barbera e Juvara! - si ispirò in questo nuovo giro alla IV emissione del Regno di Sardegna (che avrebbe rappresentato anche la matrice dei francobolli delle Province Napoletane) ed eseguì due tirature, da 10 e 20 centesimi, la prima nella tipografia di Lao (!), la seconda, di migliore qualità, in quella del Virzì.

Saggio Ficarotta, dicembre 1860.
10 centesimi nero, con effige impressa leggermente.



Saggio Ficarotta, febbraio 1861.
10 centesimi nero, senza effige.

Nel dicembre del 1860, col Ficarotta intento a ultimare i suoi prototipi, apparve sulla scena un nuovo personaggio, l'ingegnere siciliano Giuseppe Porcasi - mentre, vossia, cu è? - che chiese alle autorità di riattivare la macchina Lecoq (!) e per provarne l'immutata efficienza allestì un saggio con l'effige di Ferdinando II (!) tratta da un medaglione dell'epoca.

 Saggio Porcasi, dicembre 1860, effige di Ferdinando II.
L'unico esemplare conosciuto con i quattro margini completi
(in tutti gli altri esemplari manca totalmente il margine superiore).
Ex Collezione "Conca d'Oro". 


Saggio Porcasi, dicembre 1860, effige di Re Ferdinando II.
Unica striscia di quattro nota.
Ex Collezione "Conca d'Oro".
  
La "Lecoq" avrà funzionato - forse sì o forse no, e più no che si, a giudicare dal risultato scadente - ma sicuramente girò meglio della finezza politica del Porcasi, che comunque trovò tempo e modo per rimediare alla gaffe, preparando altri saggi, a coppie orizzontali, in cui l'effige di Vittorio Emanuele II (obiettivamente mal fatta) si affiancava a un'immagine della nascente Italia, evocata con l'Elvezia seduta (già impiegata in un'emissione svizzera del 1854).

Il "Saggio Porcasi".

I vari "saggi" rimasero nel loro status di "saggi", senza mai alzare la palla a un'emissione ufficiale, per impedimenti di varia natura, presumibilmente dovuti, ancora una volta, al disordine di quel periodo, a ogni livello.
 
Al Ficarotta e al Porcasi fu però riconosciuto un indennizzo, per le spese sostenute e il lavoro svolto. Le macchine "Lecoq" furono invece spedite al Dipartimento Generale delle Poste di Torino, dove arrivarono il 17 maggio 1861, per poi perderne ogni notizia (demolite o vendute al Governo del Perù, ma sono solo ipotesi).

L'11 marzo 1861 arrivò l'ordine di fermare qualsiasi (tentativo di) produzione di nuovi francobolli, perché di lì a poco sarebbero entrati in scena i francobolli sardi, anche se quel poco tanto poco non fu, non almeno quei pochi giorni previsti. Le insufficienti forniture, la ricodifica delle tariffe (non più a fogli, ma a peso) e il tasso di cambio tra la moneta borbonica e l'italiana fecero slittare l'introduzione dei nuovi bolli al primo di maggio, e non senza inefficienze. I francobolli della IV di Sardegna arrivarono senza la compagnia dei loro cugini, i timbri per annullarli, cosicché, giocoforza, gli uffici postali continuarono a usare i timbri borbonici. Dodici uffici annullarono i francobolli sardi con il "ferro di cavallo" e quattro di essi passarono successivamente al timbro ovale nominativo. Palermo e le sette Direzioni postali continuarono ad adoperare il bollo a datario, tutti gli altri uffici usarono gli ovali dei vari tipi.
 
I francobolli raccontano la storia, narrano con i loro simboli e nel loro linguaggio la travagliata transizione dai Borbone ai Savoia. Questo passaggio storico - fuggente e tuttavia convulso e intricato - è magistralmente ricostruito nell'eccezionale collezione Jannuzzo.

 Lettera affrancata per 40 centesimi,
controvalore della tariffa borbonica per il porto "raccomandato".
Francobolli della IV di Sardegna, annullati con il "ferro di cavallo".



10 centesimi grigio bistro chiaro della IV di Sardegna,
annullato con l'ovale borbonico "CANICATTI'".



80 centesimi giallo arancio della IV di Sardegna, frazionato verticalmente,
annullato col timbro borbonico ovale "ASSICURATA".
Timbro "CANICATTI' 9 OTT 61".
Collezione "Mormino".

Tutto alla fine si normalizzò, quell'intercapedine temporale tra passato e futuro si chiuse. Le 83 officine borboniche salirono di numero, sino a contarne 168 alla fine del 1863. Apparvero nuovi timbri - cosiddetti "sardo-italiani" - di forma circolare, con il datario al centro,il nome dell'ufficio in alto e un fregio, sempre diverso, in basso. Le disposizioni del 17 aprile 1861 regolarono temporaneamente le tariffe specifiche delle province siciliane, per l'interno e l'estero. Rimasero in vigore sino al settembre del 1861 per l'estero (per esser poi dalle convenzioni postali con gli altri Stati) e sino al dicembre del 1862 per la corrispondenza interna (per poi essere uniformate a quelle vigenti in tutto nella neonata Italia). Il Regno delle Due Sicilie, ora, non esisteva davvero più.

E noi, che oggi custodiamo nei nostri album i "Testoni", i francobolli più spacchiosi, figli di personaggi altrettanto spacchiosi; noi, che oggi confrontiamo i nostri "Testoni" con quei "saggi" figli di un dio minore, che non conobbero mai alcuna promozione; noi, che restiamo tiepidi di fronte ai bolli della IV di Sardegna con l'effige eufemisticamente "in rilievo", colpiti da timbri banali, ordinari; noi, oggi, non possiamo che dire...
 
... noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale delle terra.

Lettera da Messina per Genova, affrancata per 44 grana,
con ventidue esemplari del 2 grana, terza tavola, azzurro scurissimo, carta di Napoli, 
a comporre la tariffa di doppio porto con i "Vapori Postali Francesi". 
Il segno "4" indicare i 40 centesimi della tassa in arrivo, a carico del destinatario.
23 luglio 1860: ultimo giorno di utilizzo dei francobolli di Sicilia.

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