COLLEZIONE "AL DI QUA DEL FARO" - Don Libò, guardat'u cuollo

"Pensai prevenire le triste opere dei camorristi,
offrendo ai più influenti loro capi un mezzo di riabilitarsi;
e così parsemi toglierli al partito del disordine, o almeno paralizzarne le tristi tendenze,
in quel momento in cui mancavami ogni forza, non che a reprimerle, a contenerle"
(Don Liborio Romano) 
 
Giugno 1860. Il Regno delle Due Sicilie è nel mezzo di un conflitto irreale: non è invaso da eserciti stranieri, non ha rotto le relazioni diplomatiche né con le Potenze europee né con gli altri Stati italiani, e le navi da guerra nella baia di Napoli - con bandiera francese, inglese, austriaca e spagnola - sono tutte amiche. Ma i napoletani hanno intuito che Londra, Parigi e Torino hanno fatto irruzione nel loro mondo, che il Regno sta crollando sotto la pressione di una somma di eventi maturati altrove. Gli uomini di Cavour e gli unitari napoletani tramano alla luce del sole, e l'Ammiraglio Persano può addirittura dialogare - sorprendendosene egli stesso - con il fratello di Re Francesco, il Conte Leopoldo di Siracusa.
 
Che gli ultimi giorni di uno Stato siano segnati da eventi eccezionali non è sorprendente: cambiano naturalmente i ritmi e le ragioni di vita, le convenienze e i criteri di giudizio, e persino le coppie valoriali delle comunità - legittimo-illegittimo, legale-illegale, amico-nemico - vanno incontro a estese riformulazioni. Ma ciò che accade a Napoli nell’estate del 1860 è lontano da ogni principio politico anche solo minimamente ragionevole. "Tutti avevano motivo di temere" - scrive Raffaele de Cesare - "i reazionari temevano i liberali; i liberali i reazionari; gli unitari cavurriani temevano i garibaldini e i mazziniani; i militari temevano i borghesi; e questi, i militari, e il governo temeva tutti, senza essere temuto da alcuno!".
 
Duellanti senza divisa, o con divise infedeli, agiscono in una nebbia politica che ne sfuma i contorni: ex emigrati e lealisti, autonomisti e annessionisti, democratici e cavouriani, marinai piemontesi e disertori borbonici, i soldati del Re e i poliziotti di Liborio Romano.
 
Sì, Don Liborio Romano, l'uomo onnipotente in quel periodo irreale, un esempio di popolarità che non si vedeva dai pochi giorni del potere di Masaniello, il simbolo di quell'assurda stagione politica.
 
Don Liborio Romano: il boia del Reame di Napoli.
 
 
Il 27 giugno 1860, a seguito della promulgazione dell'Atto Sovrano, prende vita un Governo costituzionale, con a capo il liberale Antonio Spinelli dei Principi di Scalea, la personalità più apprezzata a Napoli, "uomo di coscienza, non uno scettico vanitoso e inconsapevole come Liborio Romano", nel giudizio di Raffaele de Cesare.
 
Lo stesso giorno, il vanitoso e inconsapevole Liborio Romano è nominato Prefetto di Polizia, e tre settimane più tardi - il 14 luglio - promosso a Ministro dell'Interno, dopo le dimissioni del Cavaliere Federico del Re. "Chiamato dall'augusto Sovrano al ministero dell'interno e della polizia, troverò nella costanza del volere, nella lealtà dei principi, nei lumi degli onorevoli uomini miei compagni, e soprattutto nella confidenza del paese, la forza sufficiente per condurre, in modo conforme all'altezza dei tempi e con impulso vitale, un ministero destinato a coordinare nei limiti dei poteri costituzionali ed in mezzo al sagace andamento della pubblica tranquillità la macchina dell'amministrazione civile alle nuove maniere di reggimento".
 
Una  carriera sorprendente, per un nemico storico dei Borbone, che aveva aderito alla causa risorgimentale, rappresentato gli interessi britannici nella questione degli zolfi siciliani, difeso gratuitamente degli accusati di cospirazione politica e assaporato il carcere e l'esilio.
 
Era nato nel 1793, a Patù, un paesino delle Puglie di nemmeno mille anime. Apparteneva a una famiglia di livello, proprietari terrieri radicati nel Salento dal Seicento, con una tradizione di giuristi alle spalle, che si era compromessa nel decennio francese - negli anni di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat - e dopo la restaurazione era coinvolta nella lotta settaria.
 
Liborio recepì integralmente gli orientamenti familiari. Seguì il percorso formativo delle buone famiglie del Regno, prima con gli studi nel capoluogo provinciale, poi con quelli di diritto nella capitale, per laurearsi infine a Napoli e diventare avvocato. Negli stessi anni iniziò la militanza politica. Per tutti gli anni venti si trovò nel mezzo delle cospirazioni delle sette, figlio di una generazione largamente coinvolta nella carboneria. Le carte della polizia lo descrivono come "un tumultuoso demagogo". Fu destituito dall'insegnamento, imprigionato e inviato al confino.
 
Scarcerato nel 1830, dopo la salita al trono di Ferdinando II, rilanciò la sua attività professionale, beneficiando dell'apparente clima di distensione promosso dal nuovo Sovrano. L'avvocatura era la professione per eccellenza nella capitale del Regno, e Liborio seppe combinare perfettamente la conoscenza profonda del diritto alle abilità nelle relazioni politiche e sociali. Il suo studio diventò tra i più rinomati. 
 
Nel 1848 partecipò ai moti che condussero alla concessione della Costituzione. Il 15 maggio finì di nuovo in prigione, per attentato alla sicurezza dello Stato. Chiese di commutare la detenzione in esilio. "Io supplico di un passaporto per Milano o per un luogo qualsiasi della Toscana [...]. Io avrò l'una o l'altra concessione al singolar favore della sua bontà per me e con solito illimitato rispetto mi raffermo Liborio Romano". Fu accontentato. Se ne partì per la Francia - Montpellier prima, Parigi poi - dove rimase dal 4 febbraio 1852 al 25 giugno 1854, quando rientrò a Napoli, traboccate di fedeltà per Re Ferdinando. "Signore, l'avvocato Liborio Romano devotamente rassegna a V.M. la più viva sua gratitudine e riconoscenza per essersi la M.V. degnata di accogliere le sue suppliche e concedergli la grazia di ritornare nel Regno. Egli sente altresì il dovere di dichiarare la più alta devozione ed attaccamento alla Sacra Persona della M.V. suo augusto Signore e Padrone; e protesta in pari tempo i sensi della più devota fede ed attaccamento alla pura Monarchia assoluta di V.M. E così prega la clemenza di V.M. di volere accogliere questi rispettosi sensi della più devota fede coi quali si protesta di V.M. devotissimo e umilissimo suddito Liborio Romano".
 
Questo è Don Liborio Romano, l'uomo che passò fulmineamente dalle sette carbonare al Governo di Re Francesco, che si ritrovò ad assolvere un ruolo cruciale presso i Borbone - la dinastia che aveva osteggiato per una vita intera, da cui era stato perseguitato per una vita intera - nella fase più delicata della storia del Regno di Napoli.
 
E, da Ministro borbonico, condusse il più spregiudicato dei giochi politici, aprì linee di comunicazione con tutti, senza mai sbilanciarsi con nessuno. Serviva Francesco II, ma si teneva in segreta corrispondenza con Cavour, e volle mettersi in rapporti anche con Garibaldi: "con la stessa incoscienza" - scrive il de Cesare - "lasciava credere ai cavurriani, che egli era lì per indurre il Re a lasciar Napoli e ad affrettare il compimento dell'unità nazionale; ai garibaldini e ai mazziniani del Comitato di Azione, ch'egli stava lì ad impedire che l'unità d'Italia si compisse a benefìzio del Piemonte; ed agli autonomisti, che fosse in pericolo l'autonomia e l'indipendenza del Regno! Banderuola in balia dei venti, Liborio Romano si dava l'aria di dominar lui i venti, compiaciuto e soddisfatto di sé; dava ragione a tutti ed era il solo dei ministri, che non sembrasse impensierita del domani".
 
All'apice della frenesia - tra notizie contraddittorie, incroci di verità e bugie, oscillazioni tra l'esortazione a combattere e l'invito alla resa - Don Liborio fa passare l'idea capziosa che i garibaldini si prenderanno Napoli con la forza, e con tanto più spargimento di sangue quanto più la dinastia si ostinerà a resistere. Si appella al buon cuore di Re Francesco, al suo spirito religioso, al suo amore per Napoli e per i napoletani, per contrabbandare un gesto politicamente insensato, un autentico suicidio: lasciare la capitale e riparare a Gaeta, prima dell'arrivo di Garibaldi.
 
Il 20 agosto 1860 consegna al Re un memorandum che - in qualsiasi altra situazione - lo avrebbe condotto alla fucilazione per alto tradimento.
 
"Sire, le circostanze straordinarie in cui versa il paese e la situazione gravissima nei rapporti ed esterni ed interni, che ci è fatta dagli imperscrutabili disegni della Provvidenza, ci impone i piú alti e sacri doveri verso la M.V. di rassegnarle libere e rispettose parole, come a testimonio solenne della devozione profonda alla causa del trono e del paese. [...].
 
Noi ci troviamo in presenza dell'Italia, che si è lanciata nelle vie della rivoluzione col vessillo della Casa di Savoia, il che vuol dire con la mente ed il braccio di un governo forte, ordinato e rappresentato dalla piú antica dinastia italiana. Ecco il pericolo e la minaccia che si aggrava fatalmente sul governo della M.V.. Né poi il Piemonte procede isolato e spoglio d'appoggi. Le due grandi potenze occidentali, la Francia e l'Inghilterra, per fini diversi stendono l'una e l'altra il loro braccio protettore al Piemonte: Garibaldi evidentemente non è che lo strumento di questa politica, oramai palese.
 
Poste tali condizioni, esaminiamo quale sarà la via da tenere, perché sia salvo l'onore, la dignità e l'avvenire della augusta dinastia, che la M.V. rappresenta.
 
Pongasi l'ipotesi della resistenza ad oltranza. Confessiamo innanzi tutto alla M.V. che le forze di resistenza a noi appariscono svigorite, mal sicure e incerte. Che assegnamento farà il governo della M.V. sulla R. Marina, la quale, diciamolo con franchezza, è in piena dissoluzione? Né maggior fiducia potrebbe ispirare l'esercito, che ha rotto ogni vincolo di disciplina e di obbedienza gerarchica e però inabile a guerra ordinata. Quale dunque dei capi dell'armata oserebbe in buona fede assumerne la responsabilità? [...].
 
Poniamo pure il caso della vittoria momentanea dell'esercito del governo. Sarebbe questa, o Sire, ci si permetta il dirlo, una di quelle vittorie infelici, peggiori di mille disfatte. Vittoria comprata a prezzo di sangue, di macelli e di rovine; vittoria che solleverebbe la universale coscienza dell'Europa, che farebbe rallegrare tutti i nemici della Vostra Augusta Dinastia e che forse aprirebbe veramente un abisso tra essa e i popoli affidati dalla Provvidenza al Vostro cuore paterno.
 
Rigettando adunque come a noi pare nell'onestà della nostra coscienza, il partito della resistenza, della lotta e della guerra civile, quale sarà il partito saggio, onesto, umano e veramente degno del discendente di Enrico IV?
 
Quest'uno noi sentiamo il dovere di proporre e di consigliare alla M.V.: che la M.V. si allontani per poco dal suolo della reggia dei suoi maggiori [...]. Che distaccandosi la M.V. dai popoli suoi rivolga ad essi franche e generose parole, da far testimonio del suo cuore paterno, del suo generoso proposito di risparmiare al paese gli orrori della guerra civile [...]. Eccole, o Sire, il partito che noi sappiamo e possiamo consigliare alla M.V. con franchezza di coscienza onesta [...] Che se per disavventura V.M. nell'alta sua saggezza non istimasse accoglierli a noi non rimarrebbe altro partito che rassegnare l'alto ufficio di che la M.V. onoravaci, riconoscendo mancata a noi la sovrana fiducia".
 
A inizio settembre anche il Ministro della Guerra Pianell - colluso con Don Liborio - consiglia al Re di abbandonare Napoli. Subito dopo l'intero Governo si dimette e lascia Francesco da solo, con tutti i suoi travagli. Quando un Consiglio di Generali dichiara impossibile la resistenza a Garibaldi, in quel di Salerno, il Re decide la partenza per Gaeta, da cui l'8 dicembre denuncerà la congiura nei suoi confronti. "I traditori, pagati dal nemico straniero, sedevano nel mio Consiglio, a fianco dei miei fedeli servitori; nella sincerità del mio cuore non potevo credere al tradimento".
 
A Don Liborio - prima della partenza - rivolge le ultime, celebri, enigmatiche parole: "don Libò, guardateve 'o cuollo". E Don Liborio è così attento al suo collo - "per farlo rimanere sul busto il più che sia possibile" - che neanche mezzora dopo telegrafa "all'invittissimo generale" Garibaldi per comunicargli che "Napoli attende il suo arrivo per salutarla il Redentore d'Italia, e deporre nelle sue mani i poteri dello Stato e i proprii destini". 


 
Il 7 settembre 1860 è il giorno di gloria di Don Liborio, per quanto effimera: se ne va a spasso in carrozza per Napoli, seduto alla destra di Garibaldi, raccogliendo per sé gli osanna di una folla in festa per l'arrivo del Generale.
 
"E Garibaldi, spettacolo sublime ed indescrivibile, entrava in Napoli, solo inerme e senza alcun sospetto" ricorderà nelle sue memorie - "tranquillo come se tornasse a casa sua, modesto come se nulla avesse fatto per giungervi!".
 
"Le dimostrazioni di tripudio che accolsero il Generale, il 7 settembre, nella bella Partenope
altro non furono che una frenetica mascherata imposta da lenoni e camorristi"
(Hugh Forbes, Colonello garibaldino, 10 settembre 1860)




Il Gabinetto napoletano del 27 giugno era formato da uomini miti e dottrinari, per nulla preparati a contrastare la marea che incalzava da ogni parte. Il primo atto del nuovo Governo fu la proclamazione dello stato d'assedio, a causa dei tumulti nei giorni a cavallo nell'emanazione dell'Atto Sovrano, durante i quali la violenza popolare aveva preso di mira poliziotti e gendarmi.
 
All'improvviso, però, gli odiosi poliziotti del regime scompaiono e per le strade - parole del de Cesare  - si aggira una "nuova e strana guardia, senza uniforme e senz'armi, che solo portava un nodoso bastone in mano e una coccarda tricolore al cappello": sono i nuovi tutori dell’ordine, "mezzo patrioti e mezzo camorristi", amici dei liberali e dei democratici, nemici dei borbonici. Li ha reclutati Don Liborio Romano, il 28 giugno, per riperdere il controllo della situazione e ristabilire l'ordine pubblico.
  
Napoli è nelle mani di Michele 'o Chiazziere, di Tore 'e Crescenzo, dello Schiavetto. Sono "i più rinomanti di quei bravi" - scriverà Don Liborio nelle sue "Memorie" - a cui viene spiegato che è arrivato il momento di "riabilitarsi dalla degradazione" con l'ingresso in una nuova pubblica sicurezza, non più "composta di tristissimi sgherri e di vilissime spie, ma di uomini valorosi e di cuore", laddove gli sgherri e le spie sono i tutori dell'ordine leali al regime, e i valorosi sono invece i camorristi.  Sono le stesse figure contro cui Ferdinando II aveva avviato una vigorosa offensiva poliziesca e giudiziaria nel 1848, dopo la partecipazione della camorra ai moti rivoluzionari,  e che si sarebbe prolungata sino alla stretta repressiva del 1858. Fu in quel periodo che la mala setta si trasformò in camorra liberale e si pose al servizio del movimento costituzionale: ne proteggeva le riunioni clandestine, assicurava l'assistenza ai detenuti politici, facilitava la fuga dalle prigioni. E quei membri dell'onorata società - ora - si ritrovano inquadrati nelle istituzioni, beneficiano di un'amnistia incondizionata, di uno stipendio governativo e di un ruolo pubblicamente riconosciuto. 
 
Come raccapezzarsi in un simile groviglio di vizi che diventano virtù e viceversa, in un mondo dove il criterio di legittimità cambia segno dall'oggi al domani?
 
Bisognava semplicemente passare sopra a tutto, e si passò sopra a tutto. La camorra tenne tranquilla la capitale, evitò i temuti disordini a opera dei lazzari, la tradizionale massa di manovra dei Borbone, controllò l'opinione pubblica e permise a Garibaldi di entrare in una citta calma, sotto controllo, per poi gestire i rapporti con i garibaldini sin dopo i plebisciti. 
 
Don Liborio credeva facile disciplinare i camorristi, e forse s'illudeva davvero di redimerli, anche perché la camorra lo inneggiava senza tregua. Ma se al principio la collaborazione impedì disordini peggiori, i malanni non tardarono ad arrivare, e il prezzo da pagare si rivelò enorme. Ben presto i camorristi ricominciarono a... fare i camorristi: minacce ed estorsioni a danno dei borbonici, veri o presunti, vendette private, contrabbando e gioco clandestino, un'autentica escalation criminale schermata dalla carica in polizia, con cui si consacrò l'intreccio tra politica e delinquenza.
 
Nel dicembre del 1861, alla Camera dei Deputati, il parlamentare Angelo Brofferio andò giù piatto: "la maggior parte dei disordini che succedono in Italia è da attribuire a forze della pubblica sicurezza in combutta con bande illegali", a "pezzi di Stato che non hanno rossore di trattare con i malviventi".
 

Don Liborio non può giudicarsi una pianta esotica del nostro paese. Fu semplicemente il caposcuola glorioso di tutti quei voltafaccia politici dei quali siamo testimoni ogni giorno. Non aveva alcun preciso concetto politico e per temperamento rifuggiva da ogni responsabilità.  Forse non tradì neppure, perché alla fine non ebbe la coscienza esatta di quel che stava facendo. Si lasciò semplicemente trascinare dalla corrente.
 
Servirà l'intervista impossibile di Sciascia alla Regina Maria Sofia per rivelarne l'esatta natura, e mostrare così il sottile filo rosso tra il passato e il presente della nazione italiana.
 
"Don Liborio era così divertente... Più che divertente, irresistibile... In Italia i traditori, i ladri di passo e ladri di tavolino, gli assassini persino, sono tutti divertenti, tutti irresistibili... Passa una repubblica, ne viene un'altra: e sono sempre al loro posto. 'Ruba, ma è così divertente'. 'Ha fatto ammazzare il tale, ma è così simpatico'. 'So quello che è, forse mi tradisce: ma è irresistibile'. La conversazione degli italiani abbienti e potenti e tutta intessuta di frasi simili... Le vere dinastie erano quelle dei farmacisti Ignone, dei Don Liborio: le dinastie a due anime. Dinastie immutabili, dinastie eterne. In un solo corpo, due anime: una reazionaria e una progressista, una fascista e una anarchica, una massimalista e una riformista, una che si confessa e una che bestemmia, una che va alla messa di mezzogiorno e l'altra che frequenza le riunioni massoniche di mezzanotte, una fedele e una che tradisce".
 
Lettera da Terlizzi per Napoli del 17 settembre 1860,
affrancata con un 2 grana del Masa annullato con lo "svolazzo" di Molfetta,
 indirizza a "Il Sig. D. Liborio Romano, Ministro Segretario di Stato per gli affari Interni",
con conseguente apposizione del bollo "Napoli/Real Servizio".
Il mittente chiede l'assegnazione di un collocamento,
 a titolo di risarcimento per le persecuzioni subite sotto i Borbone.

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