COLLEZIONE "AL DI QUA DEL FARO" - Alle Sacre Mani di Sua Maestà
"Il mio popolo non ha bisogno di pensare:
io mi incarico di avere cura del suo benessere e della sua dignità"
(Re Ferdinando II di Borbone)
Numerose dinastie regnarono su Napoli, ma nessuna ne interpretò lo spirito come i Borbone, se non nell'espressione più bella, di sicuro in quella più vera: una famiglia con 127 anni di storia, dal 1734 al 1860, cinque Sovrani - un Carlo, due Ferdinando e due Francesco - di cui quattro nati nel Regno, abituati a parlare il più puro e accentuato dialetto.
Se i Borbone sono il cuore di Napoli, Re Ferdinando II è il cuore dei Borbone: un'indole tutta napoletana, un pater familias cosciente del suo potere, che non si limitò a occupare il trono ma lo riempì
sino alla massima capienza, un Re amato e odiato in egual misura, comunque nel cuore dei napoletani, che lo sentivano sì vicino, ma lo percepivano prima di tutto come un Sovrano, quindi non uno di noi, ma uno superiore a noi, un Re, appunto.
Ferdinando Russo lo sintetizza mirabilmente nel poemetto "'O luciano d' 'o Rre", in cui un popolano di Santa Lucia ricorda il Sovrano: "Ferdinando Sicondo. E che ne sanno?! Coppola 'nterra!"; e dopo aver sottolineato che "'O Rre me canusceva e me sapeva!" - il Re mi riconosceva e si ricordava di me - si prostra al suo ricordo: "còppola e denocchie!", giù il cappello e in ginocchio, davanti al solo nome del Re!
Riservata alle Sacre Mani
A. S. M.
Ferdinando Secondo Re di Napoli e Sicilia.
Ferdinando nacque il 12 gennaio 1810, a Palermo, dove i suoi genitori si erano rifugiati sotto
l’incalzare degli eserciti napoleonici. Salì
al trono l'8 novembre 1830, a vent'anni. Incline a vedere l'aspetto meno
bello delle cose, e degli uomini le debolezze più che le virtù, era convinto che il senso comune bastasse a risolvere ogni cosa. Spirito beffardo e motteggiatore, eccitabile e
ciarliero, timoroso della iattura, amante degli scherzi come il nonno, pronto a togliersi il sigaro di bocca per darlo al
primo lazzarone di passaggio:
un perfetto napoletano, nell'intera estensione della parola.
Leggeva poco, disprezzava la cultura e
chiamava pennaruli gli intellettuali. Come tutti gli uomini incolti, che assai
presumono di sé, mal tollerava la compagnia delle persone colte. Non aveva
intorno a sè gente che valesse più di lui. Ammetteva solo le dottrine dei magistrati e degli ecclesiastici, le uniche che percepiva utili al benessere sociale e alla stabilità politica. Ogni novità, anche la più innocua, gli dava sospetto.
Impetuoso e autoritario, impaziente e insofferente, senza ambizioni di conquiste o smanie di avventure. Onesto e parsimonioso, e con lui la famiglia
reale tutta, forse più che non convenisse al suo grado. "Terè, a poco a poco finimmo cu servirci a tavola
noi stessi", si lagnò una volta con la seconda moglie.
Era lui, a tavola, a fare le porzioni. Gli piacevano i cibi grossolani, della povera gente, di cui i napoletani sono ghiotti: il baccalà, il soffritto, la caponata,
la mozzarella, le pizze e i vermicelli al pomodoro. Amava la
cipolla cruda, che mangiava ogni giorno schiacciandola direttamente con la mano,
perché il coltello - diceva - dava e prendeva un cattivo sapore.
Usava un linguaggio
da stalliere, e aveva modi contadini e atteggiamenti bruschi, appena temperati da qualche correttivo di cordialità e
bonomia. Si prendeva libertà con tutti, e a tutti appiccicava dei soprannomi.
Il suo pensiero trovava la rappresentazione più
fedele nel linguaggio dialettale, e l'italiano ne era solo la versione approssimata, assai meno spontanea, arguta e vivace: tutto ciò che gli impediva di parlare il suo dialetto favorito, lo
infastidiva potentemente.
Amava la terra e la vita semplice, preferiva stare in mezzo
al popolo piuttosto che ingabbiato nel cerimoniale antico di qualche
bella reggia.
Preferiva il
sarcasmo alla lode e, semmai la concedeva, l'accoppiava sempre a una
leggera tinta d'ironia, per far intendere che non doveva essere
accettata acriticamente.
Non tollerava le imposture di chi, per entrargli in grazia, si comportava da bigotto o si abbandonava a iperboliche adulazioni, che spesso gli riuscivano
insopportabili.
Sposò Maria Cristina di Savoia nel 1832 e all'apparenza mai coppia sembrò peggio assortita: lei fragile, timida, sensibile,
esangue; lui massiccio, esuberante, grossolano. Ferdinando rideva degli scrupoli di lei, la canzonava per l'eccessivo attaccamento all'insopportabile etichetta della
Corte di Torino. "La Regina non è del nostro gusto, ma è una
bella donna". E anche per la Regina,
abituata alla vita claustrale del castello savoiardo, l'incontro con la
chiassosa Napoli fu probabilmente un piccolo trauma.
Ma Cristina seppe pure introdurre dei costumi più sobri e moderati nella sguaiata Corte napoletana. Influì non solo sull'atteggiamento del marito, rendendolo meno grezzo, ma anche sulla sua azione politica, rendendola più tollerante. Diede un volto umano ai Borbone, che grazie a lei guadagnarono o riguadagnarono numerosi consensi, e comunque migliorarono la propria percezione all'esterno. Ne fu ripagata con una devozione illimitata. "Quel po' di buono che ho imparato l’ho imparato da lei", ammetteva Ferdinando. "Non posso esser più felice e non avrei mai creduto che si potesse esserlo tanto in questo brutto mondo".
Da Maria Cristina nacque Francesco, l'erede al trono. La
Regina morì quindici giorni dopo il parto, e la storiografia antiborbonica dipinge un Ferdinando
insensibile al lutto, addirittura disertore del capezzale della moglie.
Bugie, malignità. L'evento lo colpì profondamente, stentò parecchio a
rimettersene e ne uscì assai cambiato in peggio.
L'interesse dinastico esigeva peraltro un nuovo matrimonio, e la scelta cadde su un'Arciduchessa d’Austria, Maria Teresa d'Asburgo, cugina dell'Imperatore Francesco Giuseppe. Ferdinando vi trovò una buona sostituta di Cristina. La chiamava familiarmente Teta e
Tetella, e con lei conduceva una vita semplice e parca. Avevano pressappoco gli stessi gusti. Partecipavano alle cerimonie d'obbligo, e non ammettevano sgarri
all'etichetta, ma le detestavano. A Corte usavano una geografia convenzionale: gli inglesi erano i
baccalaiuoli, i francesi i parrucchieri, i russi mangiasivi. Solo degli austriaci si discorreva con rispetto, perché austriaca la Regina.
Dopo il 1848 Ferdinando sfogò la propria natura
dispotica: il suo proposito non era affatto - e non era mai stato - di
liquidare il regime assoluto, ma solo renderlo più efficiente,
assumendo su di sé tutte le responsabilità che il padre e il nonno
avevano sempre evaso.
Era sempre informato di tutto e non smise mai di occuparsi degli
affari del Regno, anche i più minuti. Dava istruzioni e ordini
all'insaputa dei suoi Ministri,
con lettere autografe, familiari, brevi e precise, non
prive d'idiotismi napoletani, scritte col voi e più spesso col
tu, su foglietti di carta comune. La sua burocrazia era per lo più composta da mezze figure, senza altra libertà che eseguire i
suoi ordini.
Lo
seccava la pubblicità e lo irritavano le accuse della stampa liberale
del Piemonte, della Francia e dell'Inghilterra. Non riconosceva a
nessuno il
diritto di intromettersi nelle faccende del suo Regno, che considerava
come cosa propria. La cocciutaggine nel respingere i consigli di
moderazione delle Potenze europee, di una politica concorde allo spirito del secolo, metteva la sua diplomazia in una condizione
spesso umiliante.
Il motto "lo Stato son io" non trovò applicazione
più perfetta - dopo il regno di Luigi XIV - di quella di Ferdinando II, perché lui - e solo lui - era
giudice dell'opportunità di ogni concessione. Governava come un patriarca che
amministra personalmente la giustizia sotto l'albero di fico, e mozza la
testa a chiunque la viola.
Era stato il paladino della riscossa
legittimista in Europa, il pioniere della nuova restaurazione, il solo a
domare la rivoluzione
con le proprie forze, e se ne faceva vanto. Rappresentava il più
autentico difensore delle antiche patrie e il simbolo dell'assolutismo,
l'equivalente per gli ambienti
controrivoluzionari di ciò che erano Cavour e Vittorio Emanuele negli ambienti liberali.
Ripristinare
la Costituzione e aprire le prigioni significava tornare al 1848, e quei pochi mesi di regime costituzionale, a Napoli, erano stati i più tormentati del suo
Regno. Le istituzioni liberali erano degenerate nella più turbolenta anarchia, e poi il temperamento di Ferdinando mal si accordava con un sistema che, nel limitarne il potere,
tentava ogni giorno di diminuirlo. Il suo orgoglio - di Sovrano e di uomo - era ferito al solo pensiero di veder discussi i suoi atti, malignate le sue intenzioni, diffamata
la sua famiglia.
La vittoria non aveva però messo fine al liberalismo meridionale. Buona parte dei suoi migliori quadri
politici - circa 800 - si trovava dentro le carceri, e una lista impressionante di sudditi - superiore alle 20.000 unità - era priva di diritti politici, per presunte cospirazioni contro la dinastia. Numeri pesanti, che rivelavano una fitta rete politica e sociale, formata da figure rilevanti dell'intellighenzia, dell'economia, del notabilato
provinciale con tutte le sue clientele. Gli esuli - tra Londra, Parigi
e Torino - alimentavano l'immagine cupa delle Due Sicilie e del suo Re, e ne ricavavano una legittimazione
internazionale.
Ferdinando desiderava far cessare quello stato di
tensione, ma non ne vedeva il modo, né modo vi era, dato il suo temperamento e vista l'indole del suo popolo.
Ferdinando non immaginava altro Regno che il suo, e così fatto: il Re responsabile dinanzi a Dio, i funzionari
pubblici dinanzi al Re e nessuno responsabile dinanzi al Regno.
Aveva l'ideale di governare con un'aristocrazia relegata tra le cariche della Corte, una borghesia impaurita
e una plebe soddisfatta di avere abbastanza per non morir di fame, felice che non le mancasse nulla di ciò che era strettamente necessario alla vita, senza desideri di innovazioni, di costumi e abitudini.
Sapeva di aver perduto ogni
simpatia, e sapeva delle cospirazioni contro di lui, a Parigi e Londra, ma anche a Torino,
che detestava senza farne mistero. Nel Piemonte vedeva il suo peggiore nemico, ne diffidava
in tutte le maniere e non celava le sue diffidenze, sempre imprudenti e
spesso volgari.
Ma era così infatuato della sua potenza da non temere pericoli, e aveva una gran fede in sé stesso: la fede che, con lui vivo, nessuna novità pericolosa si sarebbe
tentata.
Il Regno godeva di una posizione geografica privilegiata, da cui trarre più d'ogni altro i maggiori vantaggi economici, ma gli mancava ogni preparazione per divenire un centro di traffici commerciali, di scambi, di depositi, di trasporti. Dove trovare, a Napoli, la
cultura necessaria cultura allo sviluppo del credito e all'attività imprenditoriale?
Segni
di rinnovamento economico e di risveglio industriale apparivano ogni tanto
qua e là, ma il Re temeva sempre che dalle novità
economiche si scivolasse nelle politiche. Per un nuovo mercato che si aprisse, o per una nuova industria che si
tentasse, occorreva un
decreto sovrano, preceduto da una speciale deliberazione del Consiglio dei Ministri. E il Re consentiva i decreti, ma poi
se ne pentiva, e così rimanevano lettera morta.
Amava la prosperità materiale del suo Regno, ma sino a
un certo punto. Voleva che il suo fiorire non fosse incentivo di altri bisogni o desideri. Non si moveva foglia che Ferdinando non volesse, perché lui -
solamente lui - doveva misurare il grado di benessere dei suoi sudditi, e
lo misurava come quello di casa sua, con parsimonia e scarsa luce
d'intelletto.
L'8 dicembre 1856 - il giorno dell'Immacolata Concezione, patrona del Regno di Napoli - il Re partecipò alla Santa Messa con tutta la famiglia, gli alti funzionari governativi e molti nobili al seguito. Dopo la celebrazione assistette, a cavallo, allo sfilare delle truppe sul Campo di Marte a Capodichino. Il soldato Agesilao Milano uscì all'improvviso dai
ranghi e gli vibrò un colpo di baionetta. Il Re rimase impassibile, anche
perché la lama fu deviata dalla sella e non gli procurò che una
scalfittura. Diede a ogni modo prova di un'eccezionale forza d'animo e il suo contegno salvò tutto. Non volle che si sospendesse
la sfilata delle truppe; continuò ad assistervi e tornò poi alla Reggia in
carrozza; nel pomeriggio uscì con tutta la famiglia, percorrendo le
vie più popolose della città.
Il giorno seguente il Re era sereno, a tratti persino ilare, nel ricevere i diplomatici che andavano a rallegrarsi per lo scampato pericolo. "Scrivete al nostro carissimo cugino che non è stato
nulla, e che sto bene", riferì all'ambasciatore di Sardegna. Era troppo furbo per abbandonarsi a qualche sfogo col corpo diplomatico, o anche solo a qualsiasi espressione
meno che meditata e ponderata.
Ma l'episodio lo scosse profondamente, sebbene l'inchiesta
appurò l'assenza di qualsivoglia congiura. Da allora il Re diventò più inquieto, cupo e
sospettoso, e soprattutto crebbe la sua
superstizione, sino a diventare mania. Tappezzò le sue stanze d'immagini di santi, corna e altri
amuleti, e mise al bando chiunque fosse indiziato di iettatura. E Dio solo
sa - a Napoli - quanti ve n'erano.
Re Ferdinando II di Borbone, uno dei più singolari principi assoluti - aggressivo, sospettoso, intrigante, volgare, insensibile a lettere,
scienze e arti, ma anche generoso, bonario, frugale, sollecito e
laborioso - che
regnò ventinove anni senza mai subire influenze né di Ministri, usati come strumenti da buttar via quando non servivano più, né di Potenze straniere, alle quali non diede mai fastidio e di cui non subì mai ingerenze.
Ebbe una sola illusione, che l'accompagnò per tutta la vita e fu davvero fatale alla sua
dinastia: la convinzione di poter vivere eternamente, di non dover morire mai.
La salma di Re Ferdinando nella Cappella ardente nella Sala dei Vice Re, nel Real Palazzo in Napoli.
Nel
1857 Re Ferdinando aveva 47 anni, ma pareva averne vissuti molti di più. I trambusti
del 1848, l'attentato di Agesilao Milano, lo sbarco di Sapri ne avevano guastato il sangue e peggiorato l'indole, lo avevano reso di gran lunga più vecchio della sua età.
Da
qualche tempo, poi, non si sentiva bene. Dimagrito, incanutito, pingue, al punto da non poter più montare agilmente a cavallo né rimanervi a lungo. Di tanto in tanto avvertiva una gran spossatezza. Aveva però un pensiero fisso: dare moglie al figlio Francesco, l'erede al trono. Nel gennaio del 1859, mentre Cavour stringeva i rapporti con Napoleone III
per la conquista del Regno del Lombardo Veneto, Ferdinando conduceva da sè, in gran segreto, le trattative per il matrimonio del suo primogenito, e le portò avanti con così tanta discrezione che nulla trapelò se non a cose fatte, quando fu annunciato il fidanzamento ufficiale con l'arciduchessa Maria Sofia di Baviera.
Una
principessa vivace e ardita, cresciuta in un ambiente raffinato, non sembrava la figura più adatta a entrare nella Corte di Napoli, né a
divenire moglie di un principe bonaccione, soggiogato dagli
scrupoli religiosi e inesperto della vita, che non aveva mai conosciuto donne e anzi le fuggiva. Ma
Ferdinando non badò a tanta disparità di caratteri, e con quella presunzione e leggerezza tutta borbonica immaginò che avrebbe pensato lui all'educazione della principessa
ereditaria.
Ordinò che la sposa si presentasse a Manfredonia, per rinnovare la cerimonia che nel 1797 ebbe luogo a Foggia, quando Francesco I, allora principe ereditario, condotto da suo padre Ferdinando, sposò in prime nozze l'arciduchessa austriaca Maria Clementina, sbarcata appunto a Manfredonia.
Il Re
stabilì di compiere il viaggio per Bari in una quindicina di giorni,
distribuendo così le tappe: per la partenza, da Caserta ad Avellino, da Avellino a
Foggia, da Foggia ad Andria, da Andria ad Acquaviva, da Acquaviva a
Lecce, da Lecce a Bari; per il ritorno, da Bari a
Barletta, e poi a Manfredonia, a Foggia, ad Avellino e infine a Caserta.
Tosse, vomito, peso allo stomaco, febbre alta, brividi di freddo, notti insonni e inappetenza furono le costanti del viaggio.
Nessuno capiva di
cosa si trattasse, cosa affliggesse il Re.
Non si faceva in tempo a
incidergli un ascesso che altri dieci se ne riformavano sul ventre e
sulle gambe.
Le sofferenze fisiche del Re non avevano tregua. Ogni movimento gli procurava dolori atroci, tra i quali rompeva in grida
e invocazioni alla Madonna e ai suoi santi protettori.
Soffriva nel fisico, ma anche nello spirito, per il genere del suo male. Aveva sempre avuto orrore dei morbi infettivi e ora si ritrovava addosso un morbo che a lui stesso faceva ribrezzo, che invadeva organi esterni e interni.
Congestioni polmonari e ascessi sotto l'ascella destra e in altre parti del corpo si succedevano, senza che alcun rimedio avesse efficacia.
I medici De Renzis e Trinchera individuarono l'origine del male in una raccolta di pus nella regione iliaca destra, per effetto della
coxalgia. Decisero di eseguire l'operazione nella regione posteriore della coscia, nella speranza di determinare una più facile fuoriuscita di pus.
Ma, eseguita l'incisione, non si trovò
materia. Si dovette
constatare di aver sbagliato il punto del taglio, sospendere l'intervento,
medicare la ferita e non far null'altro per qualche giorno.
Le sofferenze del Re aumentavano. I medici decisero per un secondo taglio, sul femore, con un esito stavolta meraviglioso, perché uscirono parecchie libbre di marciume.
L'operazione confermava la nuova diagnosi, ma troppo tardi. Non si era dato il giusto peso a fenomeni che richiedevano la pronta mano del chirurgo, ma in quei tempi la chirurgia non era ancora arrivata al punto di aprire l'addome, e nessuno dei medici se la sentiva di mettere le mani sul Re, né era facile persuadere il Re stesso a farsi toccare dai ferri.
A Napoli si sapeva
che Ferdinando era indisposto, ma nessuno immaginava la gravità del
caso. Alle guardie d'onore e alla servitù si era imposto il più rigoroso silenzio sulle vere condizioni di salute del Re. Si
accreditava la voce che tutto dipendesse dai disagi del viaggio e dalla
rigidità della stagione, ma inevitabilmente, in un Regno eccitabile e chiacchierone, iniziò a
diffondersi la voce che si trattasse di una situazione parecchio grave.
Si
parlava ora di miglioramento ora aggravamento, di maggiore o minore
accentuazione dei disturbi consueti, ma dell'aggravamento non si
conosceva la misura e i lievi miglioramenti si esageravano. Ogni
linguaggio scientifico - per dare un'idea appena più precisa - era bandito per volere della Regina, e intorno alla malattia del Re finì così per crearsi una sorta di leggenda.
Anche l'agitazione del Re cresceva di giorno in giorno, e con l'agitazione peggiorava il suo stato fisico. Barba e capelli incolti, completamente canuti, e un incedere abbattuto. Il suo orgoglio di Sovrano e il suo puntiglio di napoletano si ribellavano al pensiero che i liberali avrebbero gioito nel vederlo tornare a Napoli in quelle condizioni.
Una nave lo prelevò per riportarlo nella capitale, dove sbarcò mezzo cadavere. Rispondeva con sforzo agli evviva del popolo, agitando un fazzoletto bianco, fuori lo sportello della carrozza.
Il Re sviluppò una ancor più esagerata tendenza alle
pratiche religiose, che non era bigottismo, ma più che altro bisogno
d'ingraziarsi la divinità affinché gli restituisse un minimo di pace dello
spirito.
Ascoltava la messa ogni giorno e si confessava di frequente,
tanto che monsignor De Simone non si allontanava mai da lui; recitava il rosario tutte le sere, con la Regina e i figli; con un segno della mano,
prima di andare a letto, baciava le immagini
sacre che popolavano le camere precedenti a quella dove dormiva.
Il
primo bollettino sulla salute del Re apparve nel Giornale
Ufficiale il 12 aprile, quando la gravità della situazione non si poteva più nascondere.
Anche nei giorni di maggior sofferenza, dal 25 aprile sino alla morte, il Re si interessava agli affari del Regno e alle cose della guerra. Il Piemonte si era apertamente messo a capo della rivoluzione italiana per cacciare l'Austria dal Lombardo-Veneto; l'Imperatore Napoleone aveva spedito tre corpi di armata nella penisola e si disponeva a scendervi lui stesso, per prendere il comando dell'intero esercito. Il 29, da Milano, il conte Giulay proclamava di non portar
"guerra ai popoli né alle nazioni, ma a un partito provocatore, che
sotto il manto specioso di libertà avrebbe finito per toglierla ad
ognuno, se il Dio dell'esercito nostro non fosse anche il Dio della
giustizia".
La tempesta si delineava, ma Ferdinando aveva fede nelle forze dell'Austria, che credeva sarebbe stata aiutata dalla Russia e dalla Prussia, e confidava ancor più nell'intangibilità dello Stato Pontificio. A ogni modo, si cercava di tenergli occulte, o di comunicargli con arte, le notizie che potevano fargli un'impressione penosa.
Il male procedeva inesorabile, la salute del Re peggiorava e le notizie della guerra tra i franco-piemontesi e gli austriaci non erano quelle che desiderava.
Fu invaso da un senso di paura, che manifestava apertamente.
Convocava in camera il principe ereditario, gli indicava i veri e i
falsi amici della dinastia, e lo ammoniva a non transigere con la
rivoluzione, a non prender partito con l'Austria, ad aspettare gli eventi
con serenità, perché il Regno rimaneva protetto su tre lati dall'acqua salata e su un lato dall'acqua santa.
Il Re conobbe qualche ora di calma nella sera dal 21 al 22 maggio, ma dopo la mezzanotte peggiorò. Monsignor Gallo ebbe l'incarico di prepararlo a ricevere l'estrema unzione e la benedizione del Papa.
Ricevuto l'olio santo, volle vedere la sua famiglia al completo, anche i più piccini, e con le lacrime agli occhi li abbracciò e li baciò tutti. Li fece avvicinare al letto, e a ciascuno rivolse preghiere speciali. Raccomandò al Conte d'Aquila di curare l'armata e al Conte di Trapani rivolse le stesse raccomandazioni per l'esercito. Solo al Conte di Siracusa non disse nulla, ma lo tenne qualche minuto stretto al petto e lo baciò più volte, tra le lacrime. Dal Principe di Satriano e dal Generale Ischitella, entrambi presenti, volle la promessa che avrebbero assistito e consigliato negli affari il nuovo Re.
Non si faceva più illusioni, si preparava alla morte con dignità.
La Regina non aveva pace, andava e veniva come fuori di sé; il
principe ereditario singhiozzava in un angolo; i principi e le principesse più grandi piangevano; ed era muta dal dolore Maria Sofia, sinceramente affezionata al suocero.
Poi perse la parola, stese una mano sul crocifisso del confessore, l'altra alla Regina in segno d'addio, reclinò il capo sul lato destro e spirò.
Era domenica 22 maggio 1859 e l'orologio segnava l'una e mezza dopo il mezzogiorno.
"Perché piangete? Io non vi dimenticherò"
(Re Ferdinando II di Borbone, in punto di morte)
Il
cadavere imbalsamato fu vestito con la divisa di Capitano Generale dell'esercito e collocato in una cassa aperta; fu poi
disceso per una scala segreta, la mattina del 28, e collocato in un
carro militare che usci dal portone a sinistra della Reggia di Caserta; il trasporto da Caserta
a Napoli si compì per ferrovia, senza clamori.
Ferdinando rimase esposto nella Reggia
di Napoli negli ultimi tre giorni di maggio, coperto da un
velo bianco; nei primi due giorni il pubblico fu ammesso a vederlo dalle 10 della
mattina alle 6 della sera; nel terzo, dalle 8 a mezzogiorno. Il
concorso fu immenso. Nella sala d'Ercole si riversò tutta Napoli, e anche le
province vicine diedero un largo contributo di curiosi. Il cadavere fu trasportato a Santa Chiara nel pomeriggio del
31, e
sepolto nelle tombe reali dopo una magniloquente orazione di Monsignor
Salzano.
Gli ecclesiastici furono i padroni del rito, per rivendicare il secolare monopolio della Chiesa sulle celebrazioni funebri, contro le novità introdotte dal mondo borghese. Tutti i vescovi replicarono il funerale nelle rispettive diocesi, con la partecipazione di confraternite e congregazioni. Ogni chiesa era riccamente allestita, vi si edificavano mausolei e vi si
adagiavano effigi.
La simultaneità del funerale in più luoghi aveva una valenza pedagogica da Ancien Régime; era l'esaltazione del potere borbonico, capace di raggiunge direttamente il
popolo; ricordava che la ricchezza, la potenza e la gloria dei Re erano la felicità stessa di tutti i
sudditi.
Le orazioni per Re Ferdinando furono pubblicate in numerose copie ed ebbero ben altri toni rispetto a quelle concepite per gli altri Sovrani borbonici. Gli oratori erano professionisti della celebrazione, spesso docenti di teologia o di sacra eloquenza, con uno stile di grande presa sull'uditorio, sempre pronti a spostarsi da una chiesa all'altra. Restituirono l'immagine di una monarchia assoluta, sì, ma non dispotica, unica possibile garanzia di uno Stato di diritto.
Per due mesi si susseguirono ovunque cerimonie che simulavano la presenza
del corpo del Sovrano, con catafalchi nelle chiese,
drappeggi lussuosi e altri apparati celebrativi.
Il 22 maggio 1859 Re Ferdinando II di Borbone non c'era più. Mancavano 355 giorni allo sbarco di Garibaldi in Sicilia, 473 alla partenza da Napoli di Re Francesco II, 633 alla fine del Regno.
Lettera assicurata del 29 aprile 1858, da Maglie a Napoli, affrancata per 18 grana,
- la tariffa per l'interno delle assicurate di peso tra 1 oncia e 1 oncia più 1/8 di oncia -
La lettera è indirizzata "Alle Sacri Mani di Sua Maestà Ferdinando 2° Re di Napoli",
da tre sorelle rimaste orfane di padre, che di lì a poco hanno perso anche lo zio.
Alle tre donne sono rimasti solo i debiti da saldare.
Nessuno ne sollecitava il rimborso, sinché gli uomini erano in vita,
ma ora bisogna restituire tutto, e pure con una certa solerzia.
Le donne sono spaesate e confuse, disorientate:
vorrebbero pagare, ma non possono,
non nei tempi e nei modi pretesi dai creditori.
"Siamo disposte a toglierci il pane dalle mani"
- scrivono nella loro supplica a Re Ferdinando -
se solo i creditori fossero disposti a pazientare.
Si rivolgono al Re, le tre donne,
quel Re il cui popolo "non ha bisogno di pensare",
perché "io m'incarico di aver cura del suo benessere e della sua dignità".
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