COLLEZIONE "AL DI QUA DEL FARO" - Costituzione borbonica

 "Ci tradisca la sorte, ma noi non ci tradiremo mai"

"L'apertura del Parlamento nazionale essendo l'atto più solenne della vita politica di un popolo, non c'è da meravigliarsi se nel suo avvicinarsi, tutte le passioni si esaltano e si agitano, e se i nemici della libertà, d'accordo con i nemici dell'ordine, spargano voci sconfortanti e perturbatrici, ed alterando la pace interna rendano un involontario servizio ai nemici d'Italia".

Le parole di Re Ferdinando - il 13 maggio 1848 - prospettavano delle possibili tensioni, lasciavano persino presagire l'eventualità di tumulti, ma di sicuro non contemplavano nulla di commensurabile a ciò che poi accadde.
 

 
Quando la Sicilia innesca la scintilla del Quarantotto, e la parola "Costituzione" diventa il lemma della rivoltaRe Ferdinando è il primo a concederla, in una raffinata giocata d'anticipo. "Don Pio IXCarlo Alberto hanno voluto gettarmi un bastone fra le gambe? E io getto loro questa trave. Spassiamoci ora tutti quanti".
 
La frase è apocrifa, ma ben esprimeva il suo pensiero. La Costituzione urtava col suo orgoglio di Re, ancor prima che con la sua ideologia assolutistica, convinto com'era che nessuno potesse far meglio di lui. Gli pareva irrispettoso che gliela chiedessero; oltraggioso che lo costringessero con le armi. E tuttavia scelse la via della Costituzione proprio perché convinto che da quella azione potesse solo derivare il caos, che concedendola per primo avrebbe obbligato gli altri Sovrani a fare altrettanto, e che tutta questa libertà avrebbe scatenato un terremoto politico e sociale che avrebbe indotto una reazione.
 
Il 29 gennaio il Re istituì il nuovo regime costituzionale, basato su due assemblee legislative, una di nomina regia, l'altra eletta dal popolo. Nel firmare il decreto, il pensiero andò di nuovo al Pio IXCarlo Alberto. "Mi spingono, e io li farò precipitare".
 
Il Ministro degli Interni si chiuse nel suo ufficio per redigere il testo, senza consultarsi con nessuno, ché di consultazioni non aveva bisogno: si era limitato a tradurre in italiano la Costituzione francese, con delle varianti ricalcate su quella belga.
 
Due giorni dopo arrivò la notizia che Re Luigi Filippo era stato sbalzato dal trono, e il popolo parigino aveva stracciato quella Costituzione su cui era stata modellata quella napoletana. Si profilava il caos a cui Re Ferdinando si affidava, ma è nella natura del caos prendere forme imprevedibili e incontrollabili, non essere proporzionato alle aspettative per quanto fosche esse siano.
 

Alla vigilia del 15 maggio 1848 i liberali napoletani più intransigenti pressarono il Re affinché modificasse una parte della Costituzione su cui avrebbero dovuto giurare. Era in gioco il livello del censo per elettori ed eleggibili, così elevato da escludere gran parte della borghesia dalla vita politica. Passavano le ore e dalla bolgia parlamentare del vaniloquio, dei bizantinismi, del tutti contro tutti, non arrivavano risposte o accenni d'intesa. Quei liberali volevano ben altro che trovare un accordo col Re.
 
"La concitazione degli animi era grande e cresceva ogni ora e pareva il montare della marea" - scrive il Settembrini, nelle sue "Ricordanze" - "I Deputati raccolti nella gran sala di Monte Oliveto, consigliavano, parlavano, mandavano messaggi al ministero e il ministero mandava ora questo ora quel Ministro ai Deputati con una nuova formula che però non era accettata. Nelle vie tutti parlavano, discutevano, ed era un andare, un venire, e talora grida e minacce".
 
Gli animi si erano ormai troppo infiammati, per poter ritornare alla calma. Un'ondata di isteria partì dalla Camera dei Deputati e arrivò nelle vie della città, e la causa della libertà degenerò così nella licenza e nell'anarchia, nella notte tra il 14 e il 15 maggio.
 

Il Re fu obbligato ad agire di forza. Ordinò alle truppe di uscire dalle caserme per occupare le piazze e i punti strategici della città. La presenza dei soldati parve una provocazione e i più facinorosi risposero con altre barricate. Sulla reggia fu issata una bandiera rossa e le artiglierie iniziarono a tuonare dai fortini.
 
Il 15 maggio 1848 - a Napoli - significò più di cinquecento morti, interi quartieri distrutti e un Regno tratto fuori dal suo asse, sbalestrato, facile preda di un avvenire incerto.
 
Nessuna meraviglia se dopo tutto questo marasma - dopo aver usato clemenza e dichiarato di voler osservare la Costituzione, anche dopo la vittoria sui ribelli - Re Ferdinando tagliò corto, ritornò all'antico regime e si mostrò ancora più intollerante. "Io lascerei la corona e abbandonerei Napoli piuttosto che sottoscrivere a una Costituzione".
 
Nessuna meraviglia, dopo il 15 maggio, se la Costituzione non poteva essere nulla di più che una burla.
 

Storia turbolenta quella delle Costituzioni borboniche, condannata a trasmettere un senso di ambiguità, di doppiezza.

Nel 1806 Ferdinando IV di Napoli si arrende alle truppe napoleoniche e ripiega in Sicilia, a Palermo. Nel 1812 - sulla scia dell'influenza inglese sull'Isola - i baroni locali ottengono una nuova Costituzione, votata dal Parlamento e approvata dal Re. Ma nel 1815 - a seguito del Congresso di Vienna - il Re torna a Napoli come Ferdinando I delle Due Sicilie, preserva sì gran parte delle riforme francesi, ma straccia pure la Costituzione siciliana, non più in linea con la nuova realtà statuale.

Nel 1820, in Spagna, altro colpo di scena: un movimento di popolo  scuote di nuovo le fondamenta dello Stato, e Re Ferdinando VII ripristina la Costituzione del 1812. La penisola italiana rimane contagiata dalla vicenda, abituata com'è a vivere di riporto, a copiare modelli stranieri. Quello spagnolo, poi, era il più congeniale al popolo delle Due Sicilie, per i vincoli parentali tra le due dinastie borboniche, per la similarità di condizioni semifeudali, per la venatura anarcoide della rivolta, così aderente agli umori meridionali.
 
A inizio luglio il Tenente Morelli - un carbonaro stanco di aspettare ordini che non arrivavano - si mette al comando di un piccolo reparto di Cavalleria di stanza a Nola, scende in piazza al grido "Viva la libertà e la Costituzione!" e marcia su Avellino. Dopo aver provocato la rivolta ne affida la direzione al murattiano Guglielmo Pepe, che non era un carbonaro, ma che con la Carboneria aveva sempre avuto stretti contatti. E Pepe lo avrebbe con tutta probabilità messo agli arresti, se le truppe della sua guarnigione non si fossero mostrate totalmente solidali con gli insorti.
 
Re Ferdinando I  è stretto in una morsa: o la guerra civile o la Costituzione. Segue l'esempio del suo omonimo e nipote di Madrid, e sceglie la Costituzione, senza tirarla per le lunghe. La Costituzione spagnola è tradotta in italiano, e adottata senza modifiche o adattamenti. Il Re giura sul Vangelo di rispettarla, e prende forma un nuovo Governo, in cui però figurano pressoché tutti i vecchi nomi, con un potere che rimane quindi saldo nelle mani degli uomini di Murat, da tempo riciclati nelle istituzioni borboniche.
 
Anche Palermo insorge, alla notizia del successo della rivolta napoletana, sebbene per altri motivi: l'intera città - nobiltà, borghesia e popolo - non si era mai rassegnata all'abolizione dell'autonomia siciliana e alla perdita del suo rango di capitale, per un fatto d'orgoglio di campanile, sicuramente, ma soprattutto per le pesanti ripercussioni economiche. Ora è il momento di riprendersi ciò che spetta, ma è proprio ora che la concordia tra i siciliani viene meno, ora che si deve scegliere un programma politico, ora che il problema non è più Napoli. I nobili rivogliono la Costituzione siciliana del 1812, che avrebbe ripristinano i loro privilegi, rendendoli padroni dell'Isola, laddove le maestranze pretendono la Costituzione spagnola, che avrebbe abolito i privilegi e affidato il potere alla volontà popolare.
 
Metternich, a Vienna, segue con inquietudine lo svolgimento delle vicende delle Due Sicilie: una Costituzione liberale, una volta impiantata a Napoli, non si sarebbe fermata; l'avrebbero voluta anche a Milano, a Torino, a Firenze, e sarebbe stata la fine del dominio austriaco sulla penisola. Ma allora lo spirito rivoluzionario non era stato seppellito, allora le masse avevano ancora la forza di far sentire la propria voce!
 
Tutta Europa concorda sulla necessità di debellare il germe rivoluzionario; i modi d'azione rimangono però problematici.
 
I Trattati del 1815 riconoscevano a Vienna una tutela sugli Stati italiani, ma sull'intervento armato vi erano parecchie riserve, per la difficoltà a governarne le implicazioni: i pericoli nel lasciare sguarnito il Lombardo Veneto, con tutti i malumori e gli equivoci che quel movimento di forze poteva innescare; la difficoltà a trovare un corridoio di passaggio nello Stato Pontificio, quando girava la voce insistente che Vienna non attendesse altro che la morte del Pontefice per fagocitare le Legazioni e consegnare le Marche ai Borbone; e poi la diffidenza di Russia e Francia, timorose di una più prepotente ingerenza austriaca sulla penisola.
 
Non c'era quindi che un modo per mettere tutti a tacere: farsi chiamare, far sì che fosse la stessa Napoli, il suo legittimo Sovrano, a richiedere un intervento esterno per motivi di ordine interno. E la richiesta non ebbe neanche bisogno di esser sollecitarla: Ferdinando aveva già scritto a Metternich che non vedeva l'ora di rinnegare la Costituzione, sulla spinta delle baionette austriache.
 
Il 27 ottobre il Cancelliere austriaco convoca d'urgenza i rappresentanti delle maggiori Potenze reazionarie, a Lubiana. Dopo una contrattazione sfiancante - per le solite reciproche diffidenze e gelosie - prevale la tesi austriaca: ogni intervento è legittimo là dove si compiono riforme "illegali" - contro l'ordine costituito degli Stati assoluti - e questo sembra proprio il caso delle Due Sicilie.
 
Nel gennaio del 1821 Ferdinando è invitato a Lubiana per chiarire se la situazione del suo Regno risponda effettivamente al caso previsto. Il Governo e il Parlamento napoletani sono chiamati a una decisione complicata. Nessuno si fa illusioni sul Re, ché la sua avversione a qualsiasi istituto costituzionale è nota, come lo è la sua infedeltà a qualsiasi giuramento, ma stavolta sono loro, governanti e parlamentari, a trovarsi tra due fuochi, a non avere alternative: fingere di credergli oppure battersi. 
 
I carbonari rimangono scettici, nonostante l'impegno di Ferdinando verso il Parlamento a difendere una "Costituzione saggia e liberale" presso le Potenze europee. Propongono di rifiutargli il passaporto, e quando infine gli viene invece accordato, gli mandano una delegazione sulla nave che deve condurlo a Trieste, per ricordargli la promessa. "Pur acca' me véneno a romp'e bballe!" brontola il cosiddetto Re Lazzarone.
 
Ferdinando getta la maschera appena sbarcato a Livorno, come molti Gabinetti avevano previsto e auspicato: la Costituzione - dice - gli è stata estorta con la violenza, perciò la sconfessa. Metternich è soddisfatto, francesi e russi ricominciano a muovere obiezioni all'intervento militare, e lo Stato Pontificio tenta in ogni modo di sventarlo. Ma gli eventi si sono ormai incanalati in una traiettoria irreversibile.
 
Il 20 marzo 1821 gli austriaci entrano a Capua, nella più totale indifferenza. Il giorno prima il Parlamento aveva approvato la protesta contro il ripudio della Costituzione, e deliberato il proprio aggiornamento, soave eufemismo di scioglimento. I lazzaroni vi appesero sulla porta un cartello con la scritta "Affittasi".
 
"... è un avvenimento che si sottrae a ogni calcolo.
Chi vuole l'applicazione dei principi costituzionali
è un popolo mezzo barbaro, di una ignoranza assoluta,
di una superstizione senza limiti,
ardente e passionale come sono gli africani,
un popolo che non sa né leggere né scrivere,
e la cui ultima parola è il pugnale"
  
22 maggio 1859. Muore il Re delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone, sale al trono Francesco II.
 
27 aprile 1859. Francia e Piemonte entrano in guerra contro l'Austria.
 
11 luglio 1859. L'Armistizio di Villafranca pone fine al conflitto, la Lombardia entra a far parte del Regno di Sardegna.
 
11-12 marzo 1860. I plebisciti certificano l'annessione al Regno di Sardegna del Granducato di Toscana, dei Ducati di Modena e Parma e della Legazione pontificia delle Romagne.
 
11 maggio 1860. Garibaldi sbarca in Sicilia.
 
Cosa ne sarebbe stato - ora - del Regno delle Due Sicilie?
 
Il giovane e inesperto Francesco II è incapace sia di offrire un'alternativa al movimento nazionale di Cavour, sia di preservare un dualismo tra il legittimismo napoletano e il liberalismo piemontese, com'era riuscito a suo padre. Si ritrova tra l'incudine dell'ambiente reazionario, capeggiato dalla matrigna che spinge per inasprire il regime poliziesco, e il martello liberale dello zio Leopoldo, che fomenta un'alleanza col Piemonte per arrivare a una spartizione della penisola con Vittorio Emanuele.
 
L'unica azione ragionevole, con una massa di invasori sul territorio, sarebbe stata serrare le file e prepararsi a combattere. "Nel momento in cui Catilina è alle porte, non c'è tempo per le concessioni e le riforme" -  lo ammonì il Duca di Chambord - "Il re deve montare a cavallo e condurre le sue truppe contro il nemico". Lo stesso suggerimento gli era arrivato da Antonini, uno dei più autorevoli diplomatici meridionali. "Sembra momento venuto in cui Sua Maestà montando a cavallo prenda suprema risoluzione e procuri lui di salvare Corona e Dinastia".
 
E invece Re Francesco tenta la via diplomatica, un'alleanza con la Francia nella speranza di bloccare l'avanzata di Garibaldi. "Je me remets entre les mains de l'Empereur". Napoleone III lo invita caldamente a cedere alle esigenze del momento, al trionfo dell'idea nazionale. "Si sacrifichi tutto a quest'idea... domani sarà troppo tardi. Il mio appoggio, leale e sincero, vi sarà in questo caso assicurato; altrimenti dovrò astenermi e lasciare l'Italia fare da sé". E Napoli si adegua: l'Atto Sovrano del 25 giugno rimette in piedi la Costituzione del 1848, peraltro mai formalmente abolita. Triste e irreale epilogo per una dinastia che con Ferdinando aveva impedito a chiunque di immischiarsi nei fatti del Regno.
 
La decisione rimane comunque sofferta, travagliata. La sera del 24 giugno Re Francesco consulta il fidato Padre Borrelli sull'opportunità di quel repentino cambio di rotta,  e viene chiaramente diffidato dall'adottare soluzioni estemporanee, non sostenute da un programma di ampio respiro e forse nemmeno così utili a tamponare la situazione contingente. Il Re si vede spiattellata in faccia una realtà che inconsciamente immaginava, ma arrivato a quel punto non ha più margini di scelta. "Non posso seguire le tue idee, benché le creda giustissime". E al frate non rimane che una malinconica profezia. "Si ricordi Vostra Maestà di questo giorno, ch'è il 24 giugno, festa di S. Giovanni, l'ultimo giorno, forse, che io bacio la mano al Re di Napoli".
 
Voci contro la Costituzione si erano levate da più parti. "La Costituzione sarà la tomba della Monarchia e dello Stato" - aveva predetto il Ministro Carrascosa del vecchio Gabinetto. "Povero spirito!" - commentava il Conte de Viel Castel su Re Francesco - "Non ha compreso che un Re deve anticipare le concessioni, ma è perduto se se le lascia strappare. Nella sua situazione, occorreva cadere con onore e invece si è abbassato a rendere i bastimenti dei filibustieri e a sollecitare l'alleanza col Piemonte, che risponde con insolenza alle sue avances. Checché faccia il Re di Napoli, io lo credo perduto".
 
La svolta costituzionale si rivela in effetti un atto fuori tempo e auto-distruttivo: sembra legittimare le pretese del movimento patriottico, perciò disorienta i sostenitori della dinastia e indebolisce il potenziale di reazione tra le masse popolari e nelle istituzioni, ma per altro verso rinforza nei liberali la sensazione di doppiezza borbonica, spingendoli a creare il vuoto intorno al Re, per evitare ogni possibilità di consolidamento del regime costituzionale.
 
"Queste concessioni precipiteranno la crisi, rilevando gli animi e dandoci armi per render più pronta e più facile l'insurrezione" - annoterà liberale Francesco De Sanctis - "Il Governo si vuol servire di noi per abbattere Garibaldi e la rivoluzione; e noi dobbiamo servirci dè mezzi che ci dà per farlo cadere al più presto".
 
La confusione è emblematicamente testimoniata da ciò che avviene nelle file dell'esercito. I comandanti leggono ad alta voce la Costituzione ai loro soldati, e gridano prima tre volte "Viva il Re" e poi tre volte "Viva la Costituzione", nell'intesa che i soldati ripetano le stesse grida. Ma - con la sola eccezione dell'artiglieria - tutti gli altri reggimenti si rifiutano di ripetere "Viva la Costituzione", e al triplice grido "Viva la Costituzione" rispondono col triplice grido "Viva il Re".

Pasquale de Virgilii.
 
A seguito della svolta costituzionale del 1860, il Ministro dell'Interno Liborio Romano realizzò un autentico colpo di mano. Sfruttò l'incompetenza degli altri Ministri e la confusione della Corte, per stravolgere la fisionomia della burocrazia napoletana e ribaltare le strutture di potere. Sostituì gli intendenti e i sottointendenti al vertice di province e circondari, e impose funzionari e politici liberali al posto dei fedeli alla monarchia. Intervenne sul sistema penitenziario e spesso influenzò l'assegnazione degli incarichi nel settore giudiziario. Lavorò per rinnovare i sindaci dei centri più importanti, e anche dei minori, per lasciare spazio alla vasta area liberaleggiante moderata. Demolì - di fatto - ogni possibilità della monarchia borbonica di guidare gli apparati civili dello Stato.
 
"Oramai le provinole avevano nuovi intendenti, nuovi capi della magistratura e, soprattutto, nuovi capi di polizia" - scrive Raffaele de Cesare - "Filippo Capone, da qualche anno reduce dall'esilio, fu nominato intendente di Avellino; Domenico Giannattasio, a Salerno; Alfonso de Caro, a Lecce; Giuseppe Tortora-Brayda, a Campobasso; Giuseppe Dentice di Accadia; a Reggio; Pasquale Giliberti, a Cosenza; Cataldo Nitti, a Potenza; il conte Francesco Viti, a Caserta; Pasquale de Virgilii, a Teramo; Ignazio Larussa, a Catanzaro; il barone Coppola, a Bari: tutti sinceramente costituzionali, ma sospetti, quasi tutti, agli unitarii, perchè partigiani della confederazione; ne sospetti soltanto, ma tenuti d'occhio in tutte le loro mosse, e perciò in condizioni molto difficili, politicamente, anzi pericolose addirittura, e quasi umilianti per essi".

Pasquale de Virgilii, a Teramo, era probabilmente tra i meno attenzionati. Era nato a Chieti, nel 1810, e aveva intrapreso la professione di avvocato, senza troppa convinzione. Fu espulso dal foro per i toni eccessivi nella difesa di un imputato, e tornò allora ad assecondare la sua inclinazione per la poesia e gli studi letterari, in un'atmosfera di apparente apertura che aveva investito Napoli alla salita al trono di Ferdinando II. I suoi poemi "Masaniello" e "I Vespri Siciliani", già evocativi nei titoli, furono centrati sulla rivolta dell'uomo - popolano o aristocratico che fosse - contro le ingiustizie della società.
 
Si avvicinò alla politica nel 1848 con idee liberali, subì l'arresto e scontò nove mesi di carcere, pur senza esporsi mai apertamente contro il Governo borbonico. Rimase a lungo sorvegliato, anche dopo la scarcerazione. Tenne ancora un atteggiamento cauto nel suo ruolo di Intendente, e solo nel settembre del 1860, dopo l'ingresso a Napoli di Garibaldi, si mise apertamente a capo dei liberali, con un proclama dove denunciava la situazione di un Regno "tenuto vergognosamente e per tanti anni ravvolto nella più bassa ignoranza" e "oggi a mala pena capace di scernere i vantaggi del regime costituzionale".
 
Assunse la prodittatura dell'Abruzzo per gestire l'insurrezione di Teramo, insieme a Troiano De Filippis Delfico e Clemente De Caesaris, e il triumvirato se ne uscì subito con un decreto che non lasciava spazi di interpretazione.
 
"Art. 1 - Qualunque cittadino prenderà le armi per avversare in qualsiasi modo il presente movimento italiano, o attenterà alla proprietà od all'onore delle famiglie, sarà dichiarato nemico della patria e come tale condannato alla fucilazione.

Art. 2 - Una commissione militare permanente procederà immediatamente con rito sommario alla punizione dei colpevoli".
 
"Il de Virgili, governatore di Teramo, schiccherava proclami alla turca contro i reazionari" - annoterà Giuseppe Buttà, cappellano militare del 9° Battaglione Cacciatori dell'esercito borbonico.
 
Agli inizi di ottobre sollecitò Vittorio Emanuele ad attraversare il fiume Tronto. "E' mestieri che le valorose truppe piemontesi entrino al più presto nel Regno, la cui porta è la Provincia da me amministrata" - scrisse a Cavour - e come da programma accolse il Re di Sardegna sul ponte del Tronto, quando entrò per la prima volta in Abruzzo.
 
Cavour rivide probabilmente in De Virgilii la sua stessa accortezza politica, le sue stesse doti diplomatiche, sino a prenderne le difese contro chi esprimeva dubbi sull'opportunità di avere un poeta al governo di una provincia problematica come quella abruzzese. "De Virgilii sì è poeta ma è un poeta a modo mio e ne vorrei aver molti come lui".
 
Lettera semplice da Lanciano a Teramo, del 28 ottobre 1860,
affrancata con un esemplare del 2 grana dei De Masa
indirizzata "A. S. E. Sig. D. Pasquale De Virgilii Governatore delle Provincia di Abruzzo Ultra".

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