QUESTIONE DI METODO (E DI STILE) - A lezione da Emilio Diena
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"... nessun decreto ufficiale per l'emissione di questi francobolli mi era noto.
In seguito, volli assicurarmi meglio della cosa,
ed esaminai accuratamente alcune annate della Gazzetta di Parma, il giornale ufficiale del Ducato.
La mia speranza era di trovare almeno qualche avviso della Direzione delle Poste,
che annunciasse l'adozione di quel tipo, anche in assenza di un Decreto Ufficiale.
Ma anche tale ricerca diede esito negativo, cosicché si può ora affermare con più sicurezza 
che l'emissione non né preceduta né seguita da alcuna notificazione"
(Emilio Diena, "Ducato di Parma - Note sull'emissione del 1857-59")  
Si rimane stupefatti nel ripercorrere la vita e le opere di Emilio Diena, anche solo dall'alto, a grandi linee o per piccoli campioni: se ne ricava la sensazione - forte, netta - di una filatelia che sin dalle origini aveva raggiunto la statura di una disciplina accademica, poi svilita dal prevalere di una speculazione selvaggia che ha deprivato il francobollo - e ciò che vi ruota intorno - di scopo e significato, di cultura.
Se il collezionismo filatelico potrà avere un futuro, se oggi possiamo immaginare una filatelia del XXI secolo, il suo cuore sarà comunque antico, radicato nei modi di pensiero e azione di pionieri dalla mente aperta e con cultura solida - Emilio Diena in primis, ma anche Jean-Baptiste Moëns, il Cresto, Maury, Evans e Sella - sul loro approccio rigoroso alla filatelia, fondato sul controllo delle informazioni e sulla capacità di elaborarle, se occorre oltrepassando il tecnicismo, per ritrovare il contatto con altri campi del sapere (e tanto peggio "per chi non vede, o non vuol vedere, quale affinità queste ricerche hanno con la geografia storica, la numismatica e la sfragistica" - per riprendere le parole Emilio Diena, dalla prefazione al suo volume sui francobolli di Modena).
Voglio mostrarvi sull'esempio più semplice - il colore dei francobolli (degli Antichi Stati) - la diversa forma mentis con cui si può intendere la filatelia, da "trastullo fanciullesco" (ancora con Diena) a strumento per affinare le proprie capacità di ragionamento.
Parliamo dunque del colore delle emissioni degli Antichi Stati, un argomento che sulle prime si esaurisce in fretta: i valori postali (ad esempio i francobolli Regno del Lombardo-Veneto) furono stampati in colori diversi per consentire un'identificazione ictu oculis del valore facciale (che talvolta veniva segnalato direttamente dal colore stesso, come per i "Mercuri") rimanendo per lo più convenzionale la scelta delle tinte per i singoli esemplari.
Questa era la regola generale, che ha conosciuto una sola eccezione: l'emissione napoletana del 1858, stampata interamente in rosa (pur soggetta a sfumature, in ragione dell'artigianato di produzione). 
Non vi sono documenti d'epoca che spieghino le ragioni della deviazione dallo standard, ma osservate con quanta perentorietà viene oggi spesa l'ipotesi - presentata addirittura come un dato di fatto, col solito malcelato orgoglio piemontese - che la monocromia rispondesse all'obiettivo di inibire la composizione dell'avversato tricolore italiano nelle affrancature delle lettere.
 
 
E ora - per contrasto - osservate le cautele metodologiche di Emilio Diena nell'affrontare la questione, prima di lasciarsi andare a una affermazione netta: abbiamo notizia certa - dal carteggio tra il Ministro Cassisi e il Luogotenente Castelcicala - delle accortezze istituzionali nella scelta dei colori per l'emissione siciliana del 1859 (perché si voleva appunto evitare la composizione del tricolore) e su questo dato di fatto si può ragionevolmente ipotizzare che un analogo intento abbia influenzato la scelta di colorazione unica dei francobolli napoletani, avendo chiaro che si tratta pur sempre di una congettura, di un'ipotesi, anche se altamente verosimile (perché basata su un fatto accertato: le preoccupazioni burocratiche per i valori postali dei dominî al di là del Faro). 
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Perché furono stampate in azzurro? Per distinguere a prima vista la "Trinacria" dal ½ grano (preservando poi il colore anche per la "Croce")? Oppure per marcare l'avvento dei Savoia, tingendo i valori postali con il loro colore tipico? O per entrambe le ragioni? O per altre ancora?
La risposta onesta è al tempo stesso sconsolante: non lo sappiamo. Non c'è nessun riferimento d'epoca - istituzionale, ufficioso, o anche solo privato - che possa funzionare da semplice appiglio per abbozzare una risposta documentata (come accade invece per la spiegazione della tinta unica dei francobolli napoletani, che trova una sponda nelle attenzioni dichiarate per la colorazione dei francobolli siciliani). 
C'è solo una congettura - l'azzurro assolveva bene la funzione pratica di riconoscere all'istante il nuovo francobollo, nonché la funzione istituzionale di annunciare l'arrivo dei Savoia - che di per sé suona ragionevole, e può sicuramente essere sfruttata per dare suggestione alla propria collezione (l'ho fatto anch'io, nella pagina "Una preghiera al Dittatore Garibaldi", in "Al di qua del Faro").
Ma ben altra è la linea d'argomentazione in un lavoro storico, di ricostruzione degli eventi.
E' questione di metodo, di onestà intellettuale, o più modestamente di buon senso: non posso restituire certezze, se certezze non ce ne sono, e non posso neppure formulare congetture, se non ho alcun elemento fattuale su cui basarle, perché la storia si costruisce sulle fonti - da filtrare, soppesare e interpretare - e non su  aprioristiche considerazioni astratte e generali o su arbitrari e incontrollabili "secondo me".        

E già. Incredibile che il Maestro Diena non sapesse tutto ciò. Ci voleva sergio de villagomez per rivelarcelo.
E tu - sergio de villagomez - come fai a saperlo? Dove lo hai letto? Su quale documento d'epoca? E se non l'hai letto da nessuna parte, ma è solo una tua congettura sprovvista di una base fattuale, perché la presenti come una certezza, per di più con un'allusione denigratoria al lavoro del Maestro? 
Ma cosa si sarà capito della monografia di Diena, se ci si sente autorizzati a simili uscite? Possibile non sia stato colto lo sforzo di precisione e rigore che permea l'intera opera del Diena? Che non si è inteso come il Maestro ha voluto dare a ogni lettore la possibilità - anche solo virtuale - di ripercorrere ogni passaggio del suo lavoro, ogni snodo fondamentale, documentazione alla mano, così da permettergli di verificare da sé la correttezza delle conclusioni? E che quindi - per coerenza e pulizia stilistica - si è astenuto da ogni affermazione impegnativa di carattere politico (non avendo documenti su cui basarla) accenando - come ipotesi - a una più neutra spiegazione tecnica?
E se non si è notata una caratteristica così macroscopica, così evidente, cosa si sarà mai afferrato degli argomenti più fini e sottili?
Gli spiriti grossolani - quelli che ragionano "un tot al chilo", che ogni cosa la tagliano grossa e l'infilano a calci, e col dito grassoccio schiacciano due tasti del pianoforte alla volta - potranno pure pensare che si stia filosofando su quanti angeli danzano sulla capocchia di uno spillo, e non m'incaricherò certo io di convincerli del contrario.
Perché la filatelia - come la vita - è questione di metodo e di stile, che disgraziatamente non si possono insegnare a chi non li ha già a portata di mano.

Mauro Pecchi ed Enzo De Angelis,
gli autori del volume sulla "Croce di Savoia".
Il volume "Il francobollo da ½  tornese del 1860 'Croce di Savoia'" - di De Angelis e Pecchi - occupa un posto d'onore tra gli studi che hanno segnato la storia della filatelia.
Pubblicato la prima volta nel 2008, e una seconda nel 2017, lo studio viene a capo di un problema storico, prospettato da Emilio Diena negli anni '30 del secolo scorso, e da allora rimasto irrisolto: il plattaggio del francobollo napoletano luogotenenziale "Croce di Savoia".
"Con nostra grande sorpresa la prima edizione è andata in esaurimento in un tempo relativamente breve", raccontano gli autori nella prefazione all'edizione del 2017. Le continue richieste di collezionisti, studiosi e operatori di mercato "avevano fatto considerare l'ipotesi di una ristampa" - una nuova tiratura, identica alla precedente - ma si è poi optato per una più impegnativa "revisione di tutto il volume, con inserimenti importanti nel testo e l'aggiunta di due appendici inedite, l'eliminazione di imprecisioni ed errori, la sostituzione della maggior parte delle foto con altre a maggiore definizione, ed infine uno studio approfondito dei falsi de Sperati con tre tavole esplicative".
Tra le novità della nuova edizione compaiono dunque "due appendici inedite", di cui una dedicata alla "Trinacria", per illustrarne "alcuni aspetti propri [...] come le rarità, l'uso postale e quant'altro possa completare la trattazione in merito", incluse le falsificazioni.
E qui voglio appunto parlare di falsificazioni, iniziando però dalla padrona di casa, la "Croce di Savoia", da cui il volume prende origine.
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Ma - gentili dottori - cosa state dicendo? Che questa lettera "fin dal suo primo apparire [...] fu considerata, e lo è tuttora, un falso"? Ma vi siete informati, prima di uscirvene con un'affermazione così impegnativa? No, con tutta evidenza.
Vediamo allora di abbozzare una ricostruzione storica del pezzo, documenti alla mano.
La prima apparizione - a mia conoscenza - è sulla rivista "Il Collezionista - Italia Filatelica" del febbraio 1953.


La lettera è definita "un pezzo unico", e vi compaiono già la firma semi-estesa di Alberto Diena (sotto la "Croce") e il timbrino di Evaristo Asinelli.
Conosciamo anche il nome di chi ha fornito l'immagine: il dottor Salvatore Palermo, un famoso commerciante napoletano dell'epoca, che proponeva il pezzo in una vendita all'asta pubblicizzata nello stesso numero della rivista.
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Trascorrono poco più vent'anni, e la lettera ricompare in una vetrina d'eccezione: l'asta congiunta Italphil-Robson Lowe, tenuta a Milano tra il 15 e il 17 ottobre 1976, in occasione dell'esposizione mondiale di filatelia) a cui fu persino dedicato un francobollo).
 
 Il francobollo emesso dalle Poste Italiane,
in occasione della mondiale filatelica "ITALIA 76".
"Nel 1976, alla Mondiale di filatelia di Milano, quella Mostra che i più giovani di voi hanno conosciuto solo sui  francobolli, ci fu una bella asta. 
 
Nel palco che dominava la grande sala Bizzozzero, una specie di Aula Magna della vecchia Fiera, c'era un giovanissimo battitore d'asta con il martelletto in mano, alla sua prima esperienza fuori dalle mura amiche dell'Italphil. 
 
Alla sua destra la sua assistente, la storica banditrice Anke Slotke - capace di parlare correntemente una mezza dozzina di lingue - ed alla sua sinistra il mitico Robson Lowe, giunti da Londra perché l'asta era organizzata congiuntamente. 
 
In sala - fra i tanti Maestri della filatelia - ricordo Pietro Provera e Giulio Bolaffi, Enzo Diena e Renato Mondolfo, Leopoldo Rivolta e Giuseppe Barcella".

Il catalogo accoglie la nostra lettera - "unico pezzo conosciuto" - come lotto n. 121, e vi assegna un valore di partenza di 12 milioni di lire, equivalenti a oltre 55 mila euro odierni.

 
 

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In prefazione Alberto Bolaffi ringraziava Piero Damilano per "l'alacre lavoro", 
e accennava alla "dotta ed autorevole consulenza di eminenti filatelisti", poi citati e ringraziati nella premessa:
Lorenzo Dellavalle e Franco Gozzano, "per il costante e fattivo contributo";
Renato Mondolfo e Agostino Zanetti, "per aver contribuito col la Loro grande esperienza
al difficile e complesso lavoro di ricerca";
e poi Enzo Diena, "che ha messo a disposizione di questo studio la Sua profonda conoscenza,
basata anche sull'inestimabile valore dell'archivio storico
riunito nel corso di più d'un secolo da Emilio Diena e dai Suoi successori"  
Da ultimo - e siamo ai giorni nostri - registriamo l'appartenenza della lettera alla collezione di Bernardo Naddei, che la presenta come "la sola lettera conosciuta con il falso postale del Regno di Napoli" (sottointeso: tra le affrancature risorgimentali) su cui ora si vedono anche le firme di Alberto Bolaffi e Giorgio Colla.
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L'evidenza - ora sotto i vostri occhi - suggerisce il giudizio opposto: la lettera - sin dal suo primo apparire - è stata considerata una grande rarità.
Ma da dove proviene allora l'affermazione di De Angelis e Pecchi? Su cosa si basa? Su quali fatti?
Lasciamolo dire a loro stessi.

Si rimane spiazzati dall'audacia dell'implicazione implicita nel ragionamento degli autori: siccome la riteneva artefatta una persona - una soltanto, Giovanni Pietrucci, lo stesso convinto della falsità del "settimo 80 centesimi di Parma", poi smentita dall'Istituto della Patologia del
Libro di Roma - allora la lettera "fin dal suo primo apparire [...] fu considerata, e lo è tuttora, un falso".
E il giramento di testa acquista velocità, se si segue pedissequamente un'argomentazione che balza "dal suo primo apparire negli anni trenta" alla citazione di un testo (quello del Pietrucci) apparso nel 1954, senza alcun riferimento a pubblicazioni degli anni trenta, o giù di lì, in cui la genuinità della lettera veniva posta in discussione.
Anche la prosa è distonica rispetto alla tesi sostenuta: gli autori parlano di una "eccezionale affrancatura mista borbonica-luogotenenziale", una qualifica ben strana, grottesca, per un pezzo giudicato artefatto.
 
 Non voglio sottilizzare oltre sugli aspetti lessicali - sebbene sia convito che ogni concessione alla precisione del linguaggio si trasformi ben presto in concessioni alla raffinatezza di pensiero - e passo perciò alle ragioni per cui il Pietrucci questionava sulla lettera, così come riproposte da De Angelis e Pecchi:
- l'importo dell'affrancatura, grani 7 e ¼, non corrispondeva a nessuna tariffa postale dell'epoca;
- dalla lettera si legge l'importo di 8 grana apposto dall'ufficiale postale;
- l'impronta dei due bolli mostra caratteristiche differenti: quello sulla "Croce" non corrisponde con la prosecuzione dell'annullo sul 2 grana;
- i francobolli non mostrano la stessa "patina del tempo" come dovrebbe essere naturale per esemplari giunti a noi sulla stessa lettera.
Sono argomenti che appaiono deboli - nel complesso - e su cui è piuttosto facile imbastire un principio di contro-argomentazione:
- la mancata rispondenza dell'affrancatura alle tariffe dell'epoca può senz'altro infastidire i cultori di Storia postale, ma di per sé non è dirimente, perché i napoletani dell'800 hanno fatto arrivare a noi numerosi documenti "non conformi", e tuttavia genuini e anche piuttosto famosi, che gli stessi De Angelis e Pecchi mostrano nel loro volume;
- sulla lettera non c'è nessun "8", bensì compare un "138" (in alto a destra) in linea con la prassi di numerare le spedizioni "assicurate";
- sicuramente l'annullo a cavallo tra il falso d'epoca e la "Croce" appare confuso, ma non così smaccatamente mal apposto da potersi lasciar andare a un'affermazione netta, senza aver esaminato il pezzo dal vivo;
- è da chiarire cosa sia questa "patina del tempo", di cui il Pietrucci ritiene di scorgere diverse sfumature, e comunque - di nuovo - è impossibile da verificare senza avere l'oggetto in mano.
Nella stessa riproposizione di De Angelis e Pecchi (del Pietrucci-pensiero) si tratta di elementi ancillari, rispetto a un fatto che dovrebbe invece risultare decisivo. 
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E qui mi fermo, alzo le mani e dichiaro la resa, perché davvero non capisco.
Sulla lettera c'è un bollo postale del 14 novembre 1860?
Io leggo proprio così: "la lettera presentava a tergo il bollo di partenza con la data del 14 Novembre 1860".
Questo è impossibile, o meglio, se così fosse, se sulla lettera ci fosse davvero "il bollo di partenza con la data del 14 Novembre 1860", allora il problema della sua genuinità non si sarebbe mai posto, perché sarebbe stata la lettera stessa ad auto-sconfessarsi (visto che la prima data nota della "Croce" - già dai tempi di Diena - è il 6 dicembre 1860).
Proprio non capisco, e mi terrete per scusato se non mi affanno oltre, giacché sono gli autori ad avere l'obbligo morale di farsi capire, e un lettore non può certo ripassare una stessa pagina all'infinito, nel disperato tentativo di trovare una quadratura che non esiste (non mi rimane - a questo punto - che procurarmi una copia del volume del Pietrucci, e verificare da me, in autonomia, cosa vi è scritto esattamente). 
A chiudere - è tempo di andare oltre - vorrei mettere in sequenza alcune delle evidenze già mostrate, integrandole con altre, per rendere manifesta l'imbarazzante mancanza di tatto di De Angelis e Pecchi verso Bernardo Naddei.
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Per tirare le fila: De Angelis e Pecchi citano Bernardo Naddei tra i ringraziamenti, per poi rinfacciargli silentemente un'eccezionale incompetenza, avendo messo in collezione un pezzo 
ritenuto falso "fin dal suo primo apparire".

Bernardo Naddei (alla vostra destra)
premiato dal Presidente federale Piero Macrelli a Romafil 2010,
dove la Collezione "Napoli: Dittatura - Luogotenenza - Provicne Napoletane"
premiato dal Presidente federale Piero Macrelli a Romafil 2010,
dove la Collezione "Napoli: Dittatura - Luogotenenza - Provicne Napoletane"
conquistò la medaglia Oro Grande, nella "Classe Competizione", con 97 punti.
 Quindi, oltre all'eccezionale incompetenza di Naddei, 
anche tutti gli altri giurati diedero prova di una paurosa ignoranza,
non rilevando un pezzo riconosciuto falso... "fin dal suo primo apparire".
"Purché in compagnia dei Monsignori Ralla, Fanti, e Bellarmino; dei cardinali Fioravanti e Bucci;
degli uditori di prima istanza Ardenghi - Principe di Colleterzo - e Soffici - Duca di Sezze -,
del conte Unter von Kaiper - Comandante la Guardia Svizzera -
e dell'abate di Santa Maria la Minerva don Ferruccio..."
del conte Unter von Kaiper - Comandante la Guardia Svizzera -
e dell'abate di Santa Maria la Minerva don Ferruccio..."
(Il Marchese del Grillo)
Ora, poniamo pure che il trio Pietrucci-De Angelis-Pecchi abbia ragione, che la lettera sia un falso, un artefatto per frodare i collezionisti, e che a sbagliarsi siano stati Salvatore Palermo, Giulio Bolaffi (che per primo la pubblicò sull'organo ufficiale della Casa torinese), Alberto Diena, Evaristo Asinelli, Robson Lowe, Alberto Bolaffi (e tutti coloro che collaborarono al suo Catalogo sulle "miste risorgimentali"), Giorgio Colla e infine Bernardo Naddei con il codazzo di giurati che hanno premiato la sua "Napoli: Dittatura - Luogotenenza - Province Napoletane".
D'accordo, la lettera è un falso filatelico, ma ammesso (e non concesso) che sia così, che si stia cioè parlando di un grande inganno, rimane la penosa caduta di stile verso un collezionista del calibro di Naddei, che probabilmente avrà "aperto il suo album" per dar modo di approcciare de visu ad alcune tra le più grandi rarità filateliche risorgimentali, per vedersi poi ricompensato (sic!) con una bocciatura senza appello di uno dei suoi pezzi più pregiati, proprio in quel volume dove viene citato tra i "ringraziamenti".
Io non so come sia stato possibile un simile cortocircuito, e sinceramente neppure m'interessa, ché ormai la frittata è fatta e le uova non si possono certo ricomporre. 
Annoto semplicemente che la filatelia accademica è sì questione di metodo, ma il metodo non esaurisce i requisiti di un buon filatelico - collezionista, studioso o mercante che sia - ché le cosiddette soft skill, le doti delicatezza, sensibilità ed empatia, rimangono essenziali.
Poi, certo, c'è sempre l'opzione di fare tutto quel che ci frulla in testa, così come viene, e domandare scusa una volta realizzata l'inopportunità del nostro comportamento, ché in fondo basta ca ce sta 'o sole per scordarsi il passato, perché alla fine simmo 'e Napule, paisà!   
E' questione di stile, appunto.
♬Basta ca ce sta 'o sole,
Ca nc'è rimasto 'o mare,
'Na nenna a core a core,
'Na canzona pe' cantà.
Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,
Chi ha dato, ha dato, ha dato.
Scurdammoce ô ppassato,
Simmo 'e Napule, paisà!♫
Ca nc'è rimasto 'o mare,
'Na nenna a core a core,
'Na canzona pe' cantà.
Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,
Chi ha dato, ha dato, ha dato.
Scurdammoce ô ppassato,
Simmo 'e Napule, paisà!♫
Sì, scordiamoci tutto, non pensiamoci più e andiamo avanti: dalla "Croce" alla "Trinacria".  
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La seconda edizione del De Angelis-Pecchi dedica una pagina (la 236) alle falsificazioni del francobollo garibaldino.
I due autori la prendono larga, parlando anzitutto dell'alta frequenza delle opere di restaurazione, nelle forme di "riparazioni" e "ridipinture" ("su circa 60 esemplari nuovi [...] meno di dieci sono perfetti e non riparati"; per gli usati, invece, è tipico il caso di "una trinacria autentica ma fortemente difettosa [...] riparata con carta aggiunta e ridipinta oppure, per mancanze estese, con un da ½ grano decolorato e ridipinto"); solo dopo affrontano il tema delle "Trinacrie completamente false", segnalando che il più delle volte si tratta di "riproduzioni puerili" (col sottinteso che non destano preoccupazioni) e che anche quelle "ben eseguite" sono in realtà "facilmente riconoscibili" (e anche qui non vi è perciò da agitarsi); mostrano infine - a titolo esemplificativo - le immagini di quattro "Trinacrie" false (da intendersi appunto "puerili" o "ben eseguite, ma facilmente riconoscibili").
Tutto tranquillo, sin qui, e il capoverso successivo conferma che finora si è parlato (e si sono mostrate) delle falsificazioni "facili da identificare".
Ora - però - viene sganciata la bomba atomica: esistono "casi estremamente pericolosi" - non pericolosi e basta, ma "estremamente pericolosi" - di "pochi esemplari stampati in calcografia" con "il disegno perfettamente identico agli originali", realizzati con una procedura (cosiddetta fotocalcografica) dal "costo elevato" e perciò applicabile solo a "francobolli molto rari, come per esempio Trinacrie nuove"; per riconoscere queste abili falsificazioni servono "un attento confronto con gli originali e molta esperienza", e gli autori forniscono - a modo loro - alcune direttive (una "rigidità caratteristica" del disegno, in contrapposizione alla "morbidezza tipica" dell'incisione a mano, e poi "le battute di rulletta e le macchie a destra della T").
C'è da rimanere scioccati: ci sarebbero in giro degli esemplari falsi della "Trinacria" nuova "estremamente pericolosi", talmente simili agli originali da poter essere riconosciuti soltanto attraverso un "attento confronto" con gli originali, basato sulla "rigidità caratteristica", sulle "battute di rulletta" e sulle "macchie a destra della T".
Rubando le parole ad Arturo De Sanctis Mangelli - che le riferiva ai periti filatelici - non si esprimevano così nemmeno le Sibille accoccolate davanti
 al tripode, tra il fumo degli incensi e l'omaggio dei fedeli.
Cos'è che si deve controllare, esattamente?
Cosa vuol dire "rigidità caratteristica", in pratica? E' forse sinonimo di nitidezza dell'incisione, in contrapposizione alla tipica sfocatura dei "Napoli"? Non credo. Perché, sì, i "Napoli" sono di regola caratterizzati da una certa rozzezza d'esecuzione, ma con la santa pazienza è possibile racimolare esemplari meravigliosi, con incisioni magnificamente definite.
Ne mostro uno da 2 grana, fortemente ingrandito, così da poterlo apprezzare al meglio.

Una prima tiratura, che permettere di vedere tutta la bellezza dell'incisione originaria:
la stampa è così nitida da somigliare alle ristampe del Bottacco (del 1898) realizzate sulle lastre originali.
O - se preferite - posso mostrarvi direttamente una "Trinacria" dalle incisioni oltremodo accurate (in particolare il viso della Triscele siciliana). 

E cosa significano poi quei riferimenti (vaghi, generici) alle "battute di rulletta" e alle "macchie a destra della T"? Qual è l'anomalia nelle battute di rulletta fotocalcografiche? E quale sarebbe il problema nelle macchie a destra della "T"? Cosa serve attenzionare, in concreto?
 Forse una sola immagine di queste "Trinacrie" fotocalcografiche poteva risultare auto-esplicativa e valere più di mille spiegazioni teoriche, ma De Angelis e Pecchi si astengono signorilmente dal fornire qualunque riproduzione che possa servire da traccia visiva al lettore.

C'è da uscire matti, gentili dottori De Angelis e Pecchi.
Dite che circolano delle insidiose riproduzioni 
fotocalcografiche di "Trinacrie" nuove, e non ne mostrate neanche una?
Accidenti!
Ma voi - Enzo De Angelis e Mauro Pecchi - ne avrete vista almeno una, no? Certo che l'avete vista, sennò come 
fareste a parlarne? E allora, se l'avete vista, perché non la mostrate?
Non venitemi a dire "per non dare un dispiacere al collezionista che la possiede e la reputa originale", ché la scusa non regge, dopo lo sgarbo a Naddei.
E allora - di nuovo - si può sapere perché non compare nessuna immagine di queste - ormai fantomatiche - "Trinacrie" fotocalcografiche?
Personalmente - poi - avrei ulteriori domande.
Si potrà anche riprodurre alla perfezione la vignetta di un francobollo raro - sfruttando le tecniche più avanzate e costose - ma cosa dire della carta, della gomma e della filigrana? Pure questi elementi sono falsificabili con altrettanta precisione, così da renderli anch'essi estremamente pericolosi e difficilmente distinguibili dagli originali?
Intendiamoci: io non lo so, e lo chiedo a voi, dottori De Angelis e Pecchi, che siete gli esperti indiscussi del settore, ma che nulla avete detto in fatto di carta, gomma e filigrana di queste - al momento mitologiche - "Trinacrie" fotocalcografiche.

Serve ora essere antipatici, come riesce a esserlo solo chi afferma verità elementari sotto gli occhi di tutti. 
L'opera di De Angelis e Pecchi è auto-pubblicata, non vi è dietro nessun editore, nessuna casa filatelica (una Bolaffi, una Vaccari, una Corinphila, per citare le aziende più note nella produzione di letteratura filatelica) che abbia impegnato tempo e denaro per realizzare la pubblicazione, promuoverla e venderla.
L'auto-pubblicazione è di per sé neutrale, non solo non subisce alcuno stigma, ma è anzi tra le modalità più in voga nel presente (e sarà probabilmente lo standard del futuro). Auto-pubblicare, quindi, non è in sé un problema. Però lo diventa se vengono meno le basilari accortezze redazionali tipiche della pubblicazione tramite un editore professionista.
Il De Angelis-Pecchi - spiace dirlo, ma è evidente - è pieno di refusi ed errori d'impaginazione, non segue alcuna convenzione di scrittura e scivola persino sulla scelta degli standard tipografici.
Potranno pure sembrare aspetti formali, senza risvolti pratici, ma vi assicuro che sono mancanze gravi, secondo la metrica prevalente negli ambienti professionali di scrittura.
Le case editrici - ad esempio - bocciano i testi senza neppure leggerli, non appena vedono il buffo simbolo <<...>> al posto delle virgolette caporali «...», per marcare le citazioni: perché - insomma - che cosa si potrà mai aver scritto, se nel leggere non ci si è neppure accorti della differenza tra <<...>> e «...», e nello scrivere, per pigrizia, si è usato il primo segno anziché il secondo?
Serve rispetto, quando ci si rivolge al pubblico attraverso delle opere scritte, perché poche cose assorbono così tanto tempo come la loro fruizione (e il tempo rimane la risorsa più preziosa di ciascuno di noi); e la prima, elementare, forma di rispetto è proprio la pulizia formale, l'equivalente dell'abbigliarsi in giacca e cravatta in occasione di un evento importante, come un matrimonio, un funerale, una laurea, un colloquio di lavoro... o la richiesta di attenzione da parte di un lettore anonimo (soprattutto se in quarta di copertina, in basso a destra, si scrive "€ 100"). Ci sarà pure un motivo - d'altra parte - se dentro le case editrici 
lavorano correttori di bozze, editor, impaginatori e tante altre figure 
oscure, e tuttavia indispensabili per una buona riuscita del testo.  
I deficit "di forma", non a caso, vanno a braccetto con mancanze "di sostanza".
Ogni pubblicazione accademica - nella forma di libro, articolo, working paper, quaderno di ricerca o tema di discussione - è invariabilmente sottoposta al cosiddetto "referaggio", prima di vedere la luce: un processo di verifica preliminare - a opera di un gruppo di pari, di colleghi o di figure gerarchicamente superiori - finalizzato ad accertarne la correttezza tecnica, la coerenza interna e il posizionamento rispetto alla migliore letteratura esistente, nell'interesse primario degli stessi autori, a loro tutela.
Il processo di referaggio è uno standard per le pubblicazioni di editori professionisti (fa parte dei protocolli di lavoro) ma cosa avviene invece nel caso delle auto-pubblicazioni? Nessuno può dirlo, nel senso che ogni autore auto-pubblicato si regola da sé, come meglio ritiene, e all'osservazione empirica si incontra di tutto, da chi approssima al meglio il più rigoroso meccanismo di controllo a chi stampa allegramente senza ascoltare nessuno.
Come si saranno regolati gli auto-pubblicati De Angelis e Pecchi? Chi saranno stati i loro referee? Chi ha vagliato il loro lavoro, sottoponendolo a una "prova di stress" per verificarne la tenuta sotto ogni possibile circostanza? Con chi si sono confrontati - nel merito - prima di andare in stampa?
Solo gli autori possono rispondere, ma la sensazione è che siano stati parecchio accorti in occasione della prima pubblicazione, per poi rilassarsi e allentare la presa nell'edizione successiva, forti dell'ormai acquisita autorevolezza.  
Quindi, se la più corposa parte tecnica sul plattaggio nasce su elevati parametri di analisi e verifica (come traspare dalla prefazione originaria) le parti di contorno e ancillari sembrano invece soffrire di uno scadimento degli standard (sino ad arrivare a messaggi impliciti del tipo "è così perché lo diciamo noi").
La pagina 236 - dedicata alle falsificazioni della "Trinacria" - è paradigmatica.
Intendiamoci: non metto in
 dubbio le affermazioni di De Angelis e Pecchi in fatto di falsificazioni fotocalcografiche. Registro però che non ci si comporta così, non almeno in ambito scientifico. Qualunque referee - arrivato a pagina 236 - avrebbe messo un aut-aut: o mostrate l'immagine di almeno una "Trinacria" così abilmente falsificata, oppure tutto il vostro bel discorsetto sulla fotocalcografia lo togliete, per rispetto verso i lettori, anzitutto, e per non dare la stura ai mitomani che inizieranno a vedere Trinacrie false a ogni angolo di strada, al grido "lo hanno detto De Angelis e Pecchi!", povere vittime inconsapevoli del sophisma auctoritatis.
Sembra pazzesco - lo so - ma ancora oggi, nel 2025, c'è gente che pensa di poter avere ragione a colpi di ipse dixit, invocando i pronunciamenti di una qualche autorità, senza contraddittorio.

Quindi - fatemi capire - siccome Emilio Diena, il Maestro, il Padre della Filatelia, ha sostenuto che il blocco di otto della "Crocetta" è annullato con lo "svolazzo" di Taranto, allora - ipso facto - il bloccco della "Croce" è annullato con lo "svolazzo" di Taranto?
Emilio Diena - il Maestro - si è sbagliato, pur avendo a disposizione tutti gli elementi (a pagina 218 della sua stessa monografia) per un pronunciamento corretto. 
Perché ha sbagliato? Per estrapolazione ingenua (se il timbro è di Taranto, anche lo svolazzo sarà di Taranto)? Per mancanza di un double check (nessuna revisione da parte di un soggetto terzo)? Per ricopiatura meccanica di ciò che aveva letto altrove (la fonte è già autorevole e non serve convalidarla)? Per soggezione psicologica verso Alfred Caspary (non è possibile che un collezionista di tale caratura sia scivolato così pacchianamente)?
Nessuno può dirlo, ma il fatto rimane: Emilio Diena si è sbagliato, laddove sembrava impossibile sbagliarsi, per chiunque. 
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Lo "svolazzo" di tipo 13 (sul blocco della "Croce", a sinistra)
e lo "svolazzo" di tipo 16 (usato a Taranto, a destra):
chiunque può cogliere le differenze, a colpo d'occhio. 
Emilio Diena si è sbagliato, e sono sicuro che non avrebbe avuto problemi ad ammettere lo sbaglio (ed emendarlo di conseguenza, ad esempio pubblicando una errata corrige) se solo qualcuno glielo avesse mostrato con chiarezza.
Perché il punto rilevante - di metodo e stile - non è nel non commettere errori (tutti sbagliamo, anche le figure d'eccellenza) ma nel profondere il massimo impegno e avere lo scrupolo più elevato nell'esecuzione del proprio lavoro, così da minimizzare i rischi di errore, e poi riconoscere serenamente quegli errori che - nonostante tutte le accortezze - dovessero ancora permanere, così da poterli correggere.
Gli errori possono riguardare le singole affermazioni (come accaduto a Emilio Diena) oppure toccare questioni di metodo (come accaduto a De Angelis e Pecchi). Capita, succede, persino ai migliori, e non c'è da vergognarsi. Serve piuttosto riposizionarsi sul giusto percorso, richiamare i criteri metodologici alla base di un lavoro che voglia definirsi "scientifico". 
"Affermare" - in ambito scientifico - vuol dire (di)mostrare quel che si afferma, citare fonti e documenti, e riprodurre immagini pertinenti o correlate, per consentire a ogni lettore che lo desidera di ripercorrere in potenziale autonomia il cammino di scoperta, di approfondirlo nei punti di suo interesse, e all'occorrenza di segnalare l'opportunità di integrazioni o emendamenti (sempre possibili, anche a seguito del filtro del referaggio).
Proprio come gli stessi De Angelis e Pecchi hanno fatto nel presentare un'abile riparazione di un affrancatura risorgimentale.

Cosa e come replichereste - con quali parole e argomentazioni - 
se vi si dicesse che questa lettera è andata incontro a un'estesa opera di restauro?
Direste di dimostrarlo, considerato che all'osservazione immediata
non sembra esservi nessun elemento in grado di sostenere l'affermazione.
Perché - appunto - ciò che si afferma va contestualmente (di)mostrato...

... e infatti, qui, De Angelis e Pecchi (di)mostrano ciò che affermano:
l'immagine - ripresa dalla monografia "Il restauro filatelico", di Frache e Bonaventura -
crende evidente la rimoziozione dei due francobolli dalla loro posizione origianria,
la loro ricollocazione in alto a destra, la riparazione della "Crocetta"
e il rifacimento dell'annullo nelle parti rimaste vuote.
Poi, però, i due autori ricadono nel sophisma auctoritatis, a pagina 200.
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Come fanno a sapere che l'esemplare da 10 grana è stato sostituito? Qual è la fonte dell'informazione? Hanno forse visto un'immagine del (sin qui presunstato) stato precedente in cui si trovava il frammento? Sì? E allora perché non la mostrano anche a noi?
Per quel che ne so - e che posso documentare - il frammento proviene da una lettera menomata, presente negli "Old Italian States" di Alfred Caspary (dispersi dalla H.R. Harmer, nella "Sale 7" del gennaio 1957).


Il banditore non aveva scrupoli nel segnalare gli aspetti problematici dell'oggetto: parlava di "piccole rughe", di "macchie dell'età", di un 10 grana "difettoso", di "una parte dell'indirizzo cancellata e ricoperta" e infine di "altri difetti" - con uno stile sincero e crudele che caratterizza l'intero catalogo, e valga per tutti il puntiglio nel descrivere la coppia della "Trinacria" - ma non accennava a nessuna sostituzione del francobollo borbonico.
Se sostituzione c'è stata - come affermano De Angelis e Pecchi, senza dimostrarlo - allora deve essere stata fatta prima del 1957 giacché la disposizione dei pezzi di allora (sul documento intero) e la stessa di ora (sul frammento) e non è affatto chiaro quando sarebbe avvenuto il "danneggiamento" che avrebbe suggerito il cambio del 10 grana, "per mostrare come in origine" - semmai qualcuno questa fantomatica "origine" l'abbia mai vista - "appariva questa affrancatura". 
Peraltro, andando a zoomare sul francobollo borbonico, si vede che il suo margine destro è largamente coperto dal margine superiore della "Croce", per cui la (presunta) sostituzione ha richiesto di sollevare la striscia, con tutti i rischi del caso, quando sarebbe stato più logico, meno invasivo e pericoloso, riposizionare il 10 grana appena sopra la "Croce".
Tutto piuttosto misterioso e inspiegabile, se a dirlo non fossero... De Angelis e Pecchi.
Questo procedere a intermittenza, questo andare a corrente alternata - ora rigorosi ora approssimativi, ora precisi ora laschi, ora scienziati ora stregoni - va stigmatizzato con forza, senza incertezze: perché la propria autorità va difesa e sostenuta mantenendo costante l'autorevolezza, perché si è un'autorità in quanto autorevoli e non viceversa.
Per dirlo semplice: il 27 preso a un esame universitario, non solo non è nobilitato da tutti i 30 precedenti, ma di fatto li sporca, perché abbassa la media.
Tenere alta la guardia sulle questioni di metodo (e di stile) è fondamentale, per difendere credibilità e reputazione. 
Perché basta poco a esser scambiati per esaltati e millantatori, e ritrovarsi apparentati con svitati e fuori di testa, che creano ombre di fantasmi e per di più gli danno peso.
E' davvero un attimo a far comunella con quelli che... la vera storia della fine dei francobolli di Sicilia è da ricercare in una circolare che un collezionista possiede... ma si rifiuta di mostrare.



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