MINESTRONE PIEMONTESE: un dittatore e un santo, foglie di carciofo, spezie inglesi, camorristi e traditori quanto basta, e plebisciti a volontà

"L'unificazione dell'Italia è stata un crimine contro la storia e la geografia"
(Il politico liberale Giustino Fortunato, citando suo padre)
 
 
 
 "Signor Capitano, questo sbarco è una dichiarazione di guerra"
"Peggio: è una guerra senza dichiarazione"
 (Militari borbonici al telegrafo, l'11 maggio 1860,
nella miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970)
 
 
 
"E chi l'ha nominato Dittatore della Sicilia?
Ci si può fidare, dico io, di un repubblicano mazziniano?
E quelli che lo seguono sono un'orda di fanatici.
Parliamoci chiaro: se Garibaldi arriva qua a Napoli,
è lui il vero Re d'Italia, mica Vittorio Emanuele"
(L'ambasciatore del Regno di Sardegna a Napoli,
nella miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970)



 
"Landi, il Generale Landi, a Calatafimi aveva 4.000 uomini.
Garibaldi e quei banditi non erano più di 800.
Doveva quindi schiacciarli, e invece...
Il mio piano era di prendere il nemico tra due fuochi.
Chiedo rinforzi a Napoli, un paio di battaglioni di Cacciatori
da far sbarcare a Marsala, alle spalle dei garibaldini.
Primo tradimento: i rinforzi partono con ritardo.
Secondo tradimento: invece che a Marsala vengono fatti sbarcare a Palermo.
Terzo tradimento: Landi, a Calatafimi, si ritira prima di aver perso,
e lascia via libera a Garibaldi per la capitale"
(Il Principe di Castelcicala, Luogotenente del Re in Sicilia,
nella miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970)
 
 
 
Maniscalco: "Non soltanto il Generale Lanza, ma anche gli altri:
Landi, Cataldo, Von Mechel, si sono lasciati giocare da Garibaldi come... dei ragazzini.
Il 21 maggio Von Mechel lascia Palermo incontro al nemico.
Garibaldi gli fa credere che si ritira nell'interno dell'Isola per la via di Corleone
Von Mechel ci casca, e mentre quella capatosta insegue i fantasmi,
Garibaldi scende per Misilmeri e punta diritto alla conquista della capitale.
Ma il vero scandalo è un altro: a Palermo si poteva vincere,
poteva essere la tomba della rivoluzione e di Garibaldi.
Non si è voluto vincere"
Filangieri: "State esagerando 'nu poco, Cavaliè"
Maniscalco: "Eccellenza, il 26 i garibaldini e le squadre di picciotti entrano a Palermo:
tre giorni di combattimento, un inferno.
Il 30, i garibaldini e gli insorti sono stanchi, sfiniti.
Anche noi siamo stanchi, e chiediamo la tregua.
Naturalmente Garibaldi accetta: non gli sembra vero, una manna.
Von Mechel - che non sa niente della tregua - torna con le truppe fresche,
entra in città, sbaraglia gli insorti, occupa le barricate, si avvicina a Torre Vecchia,
il quartier generale di Garibaldi: un ultimo assalto e avrebbe vinto.
Ma il Generale Lanza non crede che quello sia il momento opportuno
di sferrare l'attacco decisivo e manda a dire a Von Mechel di rispettare la tregua"
Filangieri: "Avete riferito anche questo particolare a Sua Maestà?"
  Maniscalco: "No, eccellenza, questo no"
(Conversazione tra Salvatore Maniscalco, Carlo Filangieri e Alessandro Nunziante)
nella miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970)
 
 
 
 
"Don Peppino tiene le mani pulite: è soltanto un sipario.
Dietro! Dietro dobbiamo cercare i veri filibustieri.
E sono tutte le Potenze Occidentali, a cominciare dall'Inghilterra per finire col Piemonte.
Quelli, tutti insieme, hanno decretato la fine dei Borbone di Napoli"
(Re Francesco II di Borbone, nella miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970)
 
 

Re Francesco: "Adesso avete capito?"
Generale Carrascosa: "Si, Maestà: alleanza col Piemonte..."
Re Francesco: "... e Costituzione!"
Generale Carrascosa: "Ma l'Imperatore Napoleone ha detto che è inutile..."
 Re Francesco: "Il Piemonte non farà mai alleanza con un Sovrano incostituzionale.
Cavour preme dall'alto e i miei liberali premono dal basso. E io c'aggia fa?"
Generale Carrascosa: "Maestà! Io so una cosa sola:
che la Costituzione sarà la tomba della monarchia"
Re Francesco: "Uè, Carrascosa! Qua si tratta di bere o di affogare.
Beviamoci 'sta Costituzione e speriamo in Dio"
(Consiglio della Corte borbonica, nel giugno del 1860,
nella miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970)
 
 
 
 
Re Francesco: "Sotto mio padre voi avete provato il carcere"
Don Liborio Romano: "Acqua passata, Maestà"
Re Francesco: "Però mio zio Aquila vi ha sempre protetto"
Don Liborio Romano: "Gliene sarò riconoscente finché campo"
Re Francesco: "Un Borbone vi ha incarcerato, un Borbone vi ha protetto,
e un Borbone vi sta mettendo al Governo"
Don Liborio Romano: "Farò il mio dovere"
Re Francesco: "Con moderazione, mi raccomando, con moderazione.
Ho saputo che volete rivoluzionare la polizia:
via i borbonici, largo ai guappi, a tutti i capo-società della camorra..."
Don Liborio Romano: "... ai buoni patrioti..."
Re Francesco: "... usciti dal carcere, tornati dal confino..."
Don Liborio Romano: "... detenuti politici, benignamente amnistiati dalla Maestà Vostra"
Re Francesco: "Sì, ma insomma, saranno pieni di rancore, vorranno cavarsi certe soddisfazioni.
Don Libò: non voglio vendette private. Conto su di voi per mantenere l'ordine a Napoli"
(Colloquio tra Re Francesco II di Borbone e il nuovo Prefetto di Polizia Don Liborio Romano,
nella miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970)
 
 
 
 
"Io sono Liborio Romano, Ministro dell'Interno e Capo della Polizia:
sono rimasto in carica per il mantenimento dell'ordine.
Comunque vi offro la mia disponibilità per la costituzione del Governo Provvisorio"
(Don Liborio Romano si presenta a Garibaldi, nella miniserie televisiva "Il Generale" del 1987)

 
 
 
Garibaldi: "Devo assistere al miracolo del sangue"
Don Liborio Romano: "Eh, siete molto avveduto Generale.
Ma voi lo sapete a che rischio vi mettete?"
Garibaldi: "In che senso?"
Don Liborio Romano: "Eh... nel senso che se il sangue non si dovesse sciogliere
vorrebbe dire che il Santo non gradisce. E se San Gennaro non gradisce,
questi qua, con lo stesso entusiasmo col quale vi hanno accolto, ve ne cacciano.
Generà, il Santo deve gradire"
Garibaldi: "E allora, caro Don Liborio, voi farete in modo che il Santo gradisca"
Don Liborio Romano: "Io? E come faccio?"
Frate: "Don Liborio... il Generale lo sa, che voi, a Napoli, potete tutto"
(Dialogo tra Garibaldi e Don Liborio Romano, nella miniserie televisiva "Il Generale" del 1987)
 
 
 
 
Garibaldi: "Ammiraglio, il mio prossimo obiettivo è Roma.
Come devo considerare la vostra presenza?"
Ammiraglio Persano: "Consideratela come un richiamo alla lealtà.
Voi sapete benissimo che il Governo di Torino è contrario a questo progetto"
Garibaldi: "Io resto fedele al programma 'Italia e Vittorio Emanuele', 
e voi sapete benissimo che l'Italia senza Roma e Venezia non esiste, non ha senso. 
Riferite dunque che io andò a Roma anche se Cavour è contrario"
(Dialogo tra Garibaldi e l'Ammiraglio piemontese Persano,
nella miniserie televisiva "Il Generale" del 1987).

 


Cavour: "Dispacci da Napoli informano che Garibaldi si sta preparando ad attaccare Roma.
E questo ci costringe a fare intervenire il nostro esercito. Il Re ha già dato l'ordine di mobilitazione.
Signori, andremo a Napoli"
Ammiraglio Persano: "Ma per andare a Napoli, saremo costretti a invadere gli Stati della Chiesa"
Cavour: "L'Umbria e le Marche, per l'esattezza.  E allora, a questo proposito,
voi Farini, insieme al Generale Cialdini, andrete ad avvertire Napoleone III
che se l'esercito sardo interviene è proprio per garantire l'integrità di Roma
e per salvaguardarne l'indipendenza"
Farini: "Ma che farà l'Austria?"
Cavour: "Non credo che interverrà:
il denaro e le armi che abbiamo mandato ai patrioti ungheresi 
le stanno creando gravi problemi interni"
Ammiraglio Persano: "Ma che faremmo noi, se Garibaldi si ostinasse nel suo progetto?"
Cavour: "Signori, non precipitiamo: la strada per Roma non è poi così agevole.
Ci sono 50.000 borbonici che ci stanno aspettando al di là del Volturno.
Per questo l’arrivo del nostro esercito dovrà sembrare a Garibaldi
una specie di soccorso, un aiuto fraterno che gli mandiamo.
Signori, è nostro dovere nei confronti del Re e dell'Italia
prendere immediatamente il governo di Napoli nelle nostre mani
e togliere a Garibaldi la guida del movimento italiana.
La decisione è grave, piena di pericoli, temeraria se volete.
Ma solo così ci salveremo dalla rivoluzione,
e il movimento conserverà il suo carattere nazionale e monarchico"
(Riunione notturna tra Cavour, Farini e Persano,
nella miniserie televisiva "Il Generale" del 1987)



 
Ambasciatore napoletano: "Voi avete invaso uno Stato Sovrano,
senza dichiarazione di guerra. E questo è contrario a ogni legge civile"
Cavour: "Vi sbagliate, signore: 
il Re Vittorio Emanuele è stato pregato di intervenire per mettere fine alla prevalente anarchia"
Ambasciatore napoletano: "Anarchia? Anarchia suscitata dal brigante Garibaldi,
che è un vostro agente, un provocatore al vostro servizio, sissignore,
e questa è una protesta ufficiale da parte del Re delle Due Sicilie, leso nei suoi diritti sovrani.
E se mi è permesso, vorrei aggiungere considerando il grado di parentela
che unisce il mio Re a Vittorio Emanuele, che tutta questa faccenda, a titolo strettamente personale,
appare ignominiosa, uno scandalo nella storia moderna.
E dovrete renderne conto non solo al mondo, ma alla vostra coscienza"
(Incontro della diplomazia borbonica col Conte di Cavour,
nella miniserie televisiva "Il Generale" del 1987)
 
 
 
"La politica del carciofo, quella di Cavour 
- oggi mi prendo la Toscana, domani la Romagna, dopodomani la Sicilia - 
tutto 'sto sfoglia-sfoglia ai repubblicani non va giù"
(Salvatore Maniscalco, nella miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970) 



 
"Una volta indetto il plebiscito, sarete costretto a deporre la dittatura e dovrete abdicare.
I piemontesi vogliono il plebiscito perché è l'esatto contrario della rivoluzione.
Il plebiscito non costruisce l'unità d’Italia, ma solo un Piemonte più grande:
un vecchio stato che si allarga a nuove province, e una volta annesse al Piemonte le province liberate, 
resteremo incatenati al Regno di Sardegna e tutto rientrerà sotto lo Statuto Albertino,
sotto la monarchia dei Savoia, dove il popolo non ha voce.
Dovete evitare il plebiscito, che si limita solo a sancire uno stato di fatto.
Noi dobbiamo unire il Regno di Napoli al Piemonte,
per costruire un'Italia nuova, su basi nuove, di parità, con una Costituente:
la questione delle annessioni deve essere deferita a un'Assemblea Costituente, 
a suffragio universale, dove tutto il popolo dovrà eleggere i suoi rappresentati.
Voi capirete che da una consultazione popolare - che vede coinvolta l'Italia intera -
potrebbero scaturire indicazioni diverse, 
forse anche al richiesta di una forma istituzionale diversa.
La monarchia non è irreversibile!
Noi ci stiamo battendo per la sovranità popolare: solo il popolo è il sovrano!
L'Italia per la quale vi siete sempre battuto non è certo quella che vuole Cavour!"
(Giuseppe Mazzini - rivolto a Garibaldi - nella miniserie televisiva "Il Generale" del 1987)
 
 
 
 
Cavour: "Maestà, il problema dei volontari va risolto:
oggi alla Camera si vota il disegno di legge di Garibaldi."
Vittorio Emanuele: "Eh, lo so; e io vi assicuro, caro Cavour,
che se dovessi votare, anch'io sarei molto incerto"
Cavour: "E Vostra Maestà vorrebbe mantenere l'esercito garibaldino?"
Vittorio Emanuele: "Bisogna ammettere che quegli sventurati
- che a torto o a ragione credevano di aver fatto grandi cose -
sono stati trattati come cani.
Il Generale Fanti - ah, per carità: bravissima persona - 
a Napoli li trattava in pubblico con disprezzo,
l'han visto persino schiaffeggiare un mutilato in camicia rossa
che chiedeva l'elemosina. Insomma: non abbiamo salvato neanche la forma"
Cavour: "Ma il problema era liquidarli.
L'intervento del nostro esercito nel sud non aveva altro scopo"
(Dialogo tra Cavour e Vittorio Emanuele, nella miniserie televisiva "Il Generale" del 1987)
 
 
 

"Se facessimo per noi stessi quello stiamo facendo per l'Italia, saremmo dei gran farabutti"
(Camillo Benso Conte di Cavour, nella miniserie televisiva "Il Generale" del 1987)
 
C'è da rimanere sbalorditi: s'impara di più - in quantità e qualità - dalla visione di vecchie miniserie televisive, che non dai libri scolastici (deputati all'istruzione della gioventù) o da conferenze, tavole rotonde e documentari (che ambirebbero a sollecitare le coscienze più mature).

"In Italia abbiamo avuto un grande processo di costruzione dell'identità italiana attraverso la costruzione del mito del Risorgimento" - ci dice il Professor Barbero - "Questo in sé è giusto e inevitabile: ogni Paese ha scelto dei pezzi di Storia e vi si è costruito intorno la propria identità. Noi abbiamo preso Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele e Mazzini, e li abbiamo messi insieme, e credo ci siano anche dei francobolli che li ritraggono vicini".
 

Il francobollo della Repubblica italiana del 1959,
- per commemorare il centenario della Seconda Guerra d'Indipendenza -
che apparenta Vittorio Emanuele, Garibaldi, Cavour e Mazzini.

E per quanto ci provasse già il poeta Carducci a tener a braccetto la paradossale triade di "un repubblicano monarchico, un monarca rivoluzionario, un dittatore obbediente" - rispettivamente Mazzini, Vittorio Emanuele e Garibaldi - la verità è che "se Vittorio Emanuele avesse potuto mettere le mani su Mazzini lo avrebbe fatto impiccare" ci ricorda il Professor Barbero.

"La nostra memoria nazionale" - prosegue il Professore - "ha stemperato questi conflitti", sulla scia di un'ortodossia storiografica al servizio alla politica - dal 1861 e almeno sino alla caduta del Fascismo - che a lungo andare ha però creato uno spaventoso vuoto di conoscenza: perché a forza di stemperare i conflitti tra i personaggi si è finito col falsare la stessa ricostruzione storica degli eventi che li vedevano protagonisti, e tutta la narrazione risorgimentale è diventata così scintillante, avvincente ed eroica, da sembrare un'epopea inevitabile.
 
"Noi - nei libri di Storia - siamo abituati a vedere una concatenazione di eventi: c'è la Seconda Guerra d’Indipendenza, nel 1859, l'Armistizio di Villafranca e l'annessione della Lombardia, i plebisciti e tutto il centro-nord che diventa un nuovo Regno sotto i Savoia e a seguire, subito dopo, l'impresa di Garibaldi" - sintetizza ancora il solito Barbero - "Nella vulgata è una sequenza irresistibile, sono eventi strettamente collegati. E invece la prima cosa che si scopre se si vanno a leggere le lettere e i memoriali del tempo è che la 'Spedizione dei Mille' arriva come un fulmine a ciel sereno sulla testa di Cavour e di Vittorio Emanuele".
 
Già. L'unità d'Italia è una sequenza storica straordinaria - alla lettera: stra-ordinaria, fuori dall'ordinario - una successione di eventi stupefacenti, e per di più concentrati in un tempo ristretto, tra l'aprile del 1859 e il febbraio del 1861.
 
Una semplice pagina di blog non può rendere giustizia alla complessità della vicenda, ma in una pagina di blog si può ancora restituire la fragranza di ciò che accadde nel biennio 1859-1861, per recuperare almeno un minimo di prospettiva e senso critico (su cui ognuno potrà poi approfondire in autonomia, se lo desidera).


"Siamo fatti in un certo modo"

"Legittima o bastarda, l'Italia d'oggi è la figlia di quella del Risorgimento,
ed è quindi in questo periodo che ne vanno cercati i caratteri e le malformazioni.
Se siamo fatti in un certo modo è perché il Risorgimento si fece in un certo modo"
(Indro Montanelli)
 
Nulla come il Risorgimento dimostra plasticamente che il presente è un calco del passato, che noi siamo la nostra storia, e che per stare in pace con sè stessi serve conoscere e accettare le proprie tare genetiche.    
 
La nostra Italia - di ieri, d'oggi e domani - rimarrà invariabilmente figlia dell'Italia del Risorgimento, e se in passato notavamo certe caratteristiche nei modi prevalenti di pensare e agire, e se le notiamo ancor oggi, e se con ogni probabilità continueremo a notarle in futuro, ebbene, ne dobbiamo ricercare le cause ultime in quel che accade tra il 1859 e il 1861: perché se l'Italia è fatta in un certo modo, e se siamo stati fatti pure noi italiani, e se forse non siamo venuti fuori granché bene, è perché il Risorgimento ci ha fatto così.
 
"E siccome per me la storia non è che la ricerca nel passato dei perché del presente" - concludeva Indro Montanelli - "ho sentito il dovere, per questa fase, di spingere lo scandaglio più a fondo e di allargare il panorama".
 
E come si fa ad allargare il panorama, di là del semplice approfondimento nozionistico?
 
E poi - da quest'angolo visuale allargato - come si fa a  lanciare uno sguardo puro sul passato?


"Vedere in modo puro nel passato"

 
"E' solo a cose fatte che tutti scuotono la testa e dicono 'eh, doveva andare così per forza'.
Questo ci dice una cosa interessante su quello che succede agli avvenimenti
una volta che si sono compiuti e diventano passato:
finché una cosa sta succedendo, avviene nella totale incertezza, nella totale fluidità;
poi una volta che una cosa è successa, acquista una forza spaventosa,
acquista la stabilità di un macigno; sono successe le cose, sono quelle; 
ed è allora che noi, per una stortura che è comune a tutti noi,
diciamo: 'ah, beh, doveva andare a finire così per forza'.
Capite il problema logico? Lo dici solo dopo.
Prima non lo dici mai 'andrà di sicuro così', 
e gli esempi nella Storia sono tantissimi"
(Alessandro Barbero)

Sottrarsi al giogo dell'informazione indebita - resistere alla tentazione di imporre nessi di causa-effetto su una sequenza di eventi, per renderla coerente col finale già noto - è tra gli obiettivi più sfidanti per uno storico di professione.
 
"Fustel de Coulanges raccomanda, allo storico che voglia rivivere un'epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia" - troviamo scritto "Sul concetto di storia" di Walter Benjamin; e l'indicazione di metodo ritorna più avanti, con la citazione del drammaturgo Franz Grillparzer: "leggere nell'avvenire è difficile, ma vedere in modo puro nel passato è ancora più difficile: in modo puro, vale a dire senza mescolare a questo sguardo retrospettivo tutto ciò che è accaduto nel frattempo".
 
Per scorgere in modo puro il passato - ancora con Benjamin - occorre seguire "un procedimento di immedesimazione emotiva" per cui, se da un lato conosciamo già l'intera trama - se sappiamo cosa accadrà nella Milano delle Cinque Giornate, nella Venezia resuscitata da Manin, nella Roma repubblicana di Mazzini, nei campi di battaglia delle Guerre d'Indipendenza - dall'altro serve (ri)vivere quegli eventi con lo spirito di chi ne sta ancora attendendo l'esito, come se lo spettro delle alternative fosse ancora aperto, giacché non vi erano impedimenti logici a traiettorie diverse da quelle che si sono poi verificate, e perciò ogni fase andrebbe studiata  - sentita, vissuta - come se fosse ancora possibile modificarne lo sbocco.
 
Lasciamo pure le agiografie a chi deve stilarle per dovere d'ufficio - all'allora Presidente della Repubblica Napolitano, che nel 150° anniversario dell'unità nazionale stigmatizzava i "fuorvianti clamori e semplicismi" di chi "continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l'Unità poco oltre il limite di un Regno dell'Alta Italia" - e immergiamoci testa, cuore e anima nella realtà di allora, per capire un po' meglio perché mai - ora - siamo fatti in un certo modo.

 

Vienna, 1815: "Le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso"

 "Gli abusi del potere generano le rivoluzioni;
le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso.
La prima frase va detta ai sovrani, la seconda ai popoli" 
(Klemens von Metternich)
 
9 giugno 1815: le fiamme rivoluzionarie si sono spente, Napoleone è stato esiliato in isoletta sperduta nell'Oceano Atlantico, e in Europa è tornata la pace.

Gli assetti di potere ambiscono ora a ripristinare l'equilibrio politico e sociale infranto nel 1789 dalla Rivoluzione francese, al Congresso di Vienna si vuol restaurare il passato, in base ai principî di legittimità (ogni dinastia va rimessa laddove si trovava, per conquista militare, politiche matrimoniali o accordi diplomatici) ed equilibrio (nessuna Potenza deve vantare una posizione dominante sulle altre).
 
La penisola italiana recupera di conseguenza una configurazione tutto sommato familiare.
 
Lo Stato Pontificio ritorna a Papa Pio IX, sebbene vi sia una percezione diffusa del suo carattere arcaico; d'altra parte, sventolando il principio di legittimità, chi lo poteva rappresentare meglio di uno Stato Sovrano con più di mille anni storia alle spalle?

Anche le Due Sicilie erano forti di una tradizione plurisecolare: stavano lì dal 1130, e appartenevano ai Borbone dal 1734. Gioacchino Murat aveva provato a renderne incerta l'attribuzione - in un intreccio di poteri e contro-poteri sullo sfondo di possibili liaison sentimentali tra von Metternich e la moglie di Murat - ma alla fine Napoli e Sicilia furono restituite a chi esibiva il miglior titolo di possesso, ai Borbone di Napoli.

Stessa storia per i Ducati di Modena e Parma: il primo fu riconsegnato alla dinastia degli Austria-Este (che lo reggeva dal 1771), il secondo andò in vitalizio alla moglie di Napoleone (a mo' di ringraziamento per la presa di posizione a favore dell'Austria) con l'impegno a restituirlo a tempo debito ai legittimi sovrani, al ramo dei Borbone-Parma (parcheggiati intanto nel Ducato di Lucca).  
 
Copione analogo per il Granducato di Toscana: esisteva dal 1569, e dal 1736 era sotto il dominio degli Asburgo-Lorena, a cui spettava senza incertezze.

Piuttosto singolare fu invece quel che accadde a nord.

Genova era una repubblica, e le repubbliche non potevano invocare la legittimità, cosicché la Liguria confluì nel Regno di Sardegna di Casa Savoia, a inspessire il "cuscinetto" sulla Francia.

Venezia era un'altra repubblica, e per quanto aristocratica, anch'essa destinata a sparire. La localizzazione geografica ne rese semplice l'annessione all'Austria, che si prese pure la Lombardia, a formare un inedito Regno del Lombardo-Veneto, autonomo di diritto, ma nei fatti un'appendice dell'Impero asburgico. Questa curiosa provincia - sentita propria dall'Imperatore Francesco Giuseppe "per diritto di cessione e per diritto di conquista" - tradiva già nel nome la sua artificiosa natura bicefala, che anziché smorzare le differenze culturali e amministrative tra i due territori - com'era negli intenti - finiva con l'evocarle, persino accentuandole.

Ma era l'intera penisola a ritrovarsi immersa in un campo di tensione, per quell'ombra austriaca che - legittima o meno - vi si allungava un po' ovunque.

E come si può governare senza abusi, quando una rivoluzione può scoppiare da un momento all'altro, quando si vive sotto la costante minaccia di sette e cospirazioni, quando i  regicidi sono all'ordine del giorno? I Borbone di Napoli - solo per citare un caso - si troveranno a fronteggiare i moti siciliani nel 1820 e nel 1837, la rivoluzione calabrese nel 1847, i disordini a Napoli nel 1848, e una nuova rivolta in Sicilia nel 1848-49, sino all'attentato a Re Ferdinando nel 1856.

Per altro verso, i cospiratori giustificavano il loro agire con gli abusi di potere dei Sovrani, a iniziare da quel Congresso di Vienna che aveva arbitrariamente equiparato la sconfitta militare di Napoleone al tramonto delle grandi di idee - di libertà e uguaglianza - della Rivoluzione francese, senza capire che vincere una battaglia, o anche un guerra, sgominare sette e sopprimere le cospirazioni, non avrebbero comunque estirpato un principio educativo e morale, ormai penetrato nelle coscienze e altamente contagioso.

Era una circolarità di eventi - ognuno a un tempo causa ed effetto degli altri - che perpetuava uno stato di tensione: si abusava del potere perché si temeva una rivoluzione, ma le rivoluzioni erano la risposta agli abusi di potere, che pure si rendevano necessari perché la rivoluzione sarebbe stata peggio di qualsiasi abuso, e via così, a girare tra abusi e rivoluzioni, rimanendo arbitrario stabilire il punto di innesco, se l'abuso di potere o la prospettiva di una rivoluzione.

Forse si sarebbe potuta cogliere già allora, in tempo reale, l'inutilità di stringere i bulloni di tubature in cui si andavano accumulando pressioni crescenti, ché una perdita, uno scoppio o un collasso sarebbero prima o poi avvenuti, se non si fosse conferita dignità all'idea di "nazione", se non si fosse dato un seguito istituzionale al poetico "una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor" del Manzoni.

Ma a cosa doveva corrispondere - esattamente - questa ambizione nazionale? Quale forma politica doveva assumere, in concreto? Qual era la sua declinazione migliore?

L'idea prevalente contemplava una forma d'associazione, di unione, tra le varie parti della penisola - per salvaguardarne l'identità e rispettarne inclinazioni ed esigenze - e tendeva a escludere la formazione di un'unica realtà statuale, sotto un unico governo.

Nel "Primato morale e civile degli italiani", del 1843, il sacerdote piemontese Gioberti definiva una "demenza" l'idea che "l'Italia, divisa com'è da tanti secoli, possa pacificamente ridursi sotto il potere di un solo"; e l'anno dopo - nelle "Speranze d'Italia" - Cesare Balbo declassava l'obiettivo dell'unità politica a un sogno "da poeti dozzinali". 
 
Entrambi puntavano a una federazione di Stati, raccogliendo gli stati d'animo prevalenti dopo le delusioni dei moti modenesi del 1831 e della spedizione in Savoia del 1834: la rinunzia a risolvere il problema nazionale col proprio sangue e l'ambizione di delegarne la soluzione a una forza demiurgica (il Papa, da mettere a capo della federazione, per Gioberti) o a una sapiente combinazione diplomatica (con cui spostare il peso dell'Austria verso i Balcani, secondo Balbo).  

Di orientamento federalista era pure l'economista Carlo Cattaneo, ancorché di stampo repubblicano e con istituzioni democratiche, in stile Svizzera o Stati Uniti, da realizzare in accordo con un processo graduale di riforme.
 
Persino Cavour si mostrava scettico su una penisola politicamente unita da nord a sud - "una tragica corbelleria", così definì l'idea - e a ogni modo, quale che fosse l'estensione territoriale da voler dare alla nazione italiana, ça va sans dire che l'assetto politico sarebbe dovuto rimanere monarchico, sotto Casa Savoia.

L'unico a coltivare una visione unitaria rigorosa e indipendente dai retaggi del passato - a concepire un'Italia unita, repubblicana e democratica, l'Italia del 1945, insomma - era Giuseppe Mazzini, che la considerava l'unica soluzione adeguata alle aspirazioni nazionali, la via naturale per far si che la penisola italiana, "circondata da nazioni unitarie, potenti, e gelose", potesse esibire lo stesso rango. Qualsiasi alternativa - di matrice federalista - avrebbe ridato spazio a "rivalità locali oggi mai spente", e ne sarebbe venuto fuori uno Stato minato nelle fondamenta, esposto di continuo alle influenze delle nazioni vicine; e pazienza se - per raggiungere il nobile scopo - si dovevano piazzare ogni tanto delle bombe qua e là, giacché per Mazzini sarebbe bastato "cacciare una scintilla" per provocare un incendio. "La fiducia di quell'uomo ha del delirio!" diceva di lui Gustavo Modena.

Ribellione o dialogo? Potere centrale o Stato federale? Monarchia o repubblica?

Sul tavolo vi erano numerose proposte, tante vie si potevano percorrere in linea di principio, e varie configurazioni rimanevano possibili, tutte più ragionevoli o probabili di ciò che poi accadde.

 

1858-1859: l'inverosimile cammino da Plombières a Villafranca

"... ci mettemmo a percorrere insieme tutti gli Stati d'Italia,
per cercarvi questa causa di guerra così difficile da trovarsi...
...e passammo quindi alla grande domanda: 'Quale sarà lo scopo della guerra?'
L'Imperatore ammise senza difficoltà 
che era necessario cacciare del tutto gli Austriaci dall'Italia,
e non lasciar loro un pollice di terreno al di qua delle Alpi e dell'Isonzo.
Ma, dopo di ciò, come organizzare l'Italia?"
 
"Signori, dopo il disastro di Novara e la pace di Milano, due vie politiche si aprivano davanti a noi. Noi potevamo, piegando il capo avanti un fato avverso, rinunziare in modo assoluto a tutte le aspirazioni che avevano guidato negli ultimi anni il magnanimo Re Carlo Alberto; noi potevamo rinchiuderci strettamente nei confini del nostro paese, e, chinando gli occhi a terra per non vedere quanto succedeva oltre Ticino e oltre la Magra, dedicarci esclusivamente agli interessi materiali e morali del nostro paese [...].

L'altro sistema invece consisteva nell'accettare i fatti compiuti, nello adattarsi alle dure condizioni dei tempi, ma nel conservare ad un tempo viva la fede che inspirato aveva le magnanime gesta di Re Carlo Alberto. Consisteva nel dichiarare la ferma intenzione di rispettare i trattati, di mantenere i patti giurati; ma di contenere nella sfera della politica l'impresa che andò fallita sui campi di battaglia".
 
Il 16 aprile 1858 Cavour riassume al Parlamento piemontese dieci anni di logica politica del Regno di Sardegna, dopo della fallimentare esperienza della Prima Guerra d'Indipendenza: si poteva "rinunziare in modo assoluto a tutte le aspirazioni" (di conquista del Lombardo-Veneto) oppure le si potevano recuperare in blocco, portando "nella sfera della politica l'impresa che andò fallita sui campi di battaglia".

O a esser precisi e onesti - anche se Cavour non potevo dirlo - andava abbracciata la visione del Generale prussiano von Clausewitz in quel capolavoro di realismo che è "Della guerra", un'opera ben al di là dell'ambito militare, suscettibile d'influenzare tutta la scienza politica: "La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi".

Il Quarantotto era stato d'insegnamento: l'unità d'Italia - qualsiasi cosa volesse dire - non si sarebbe mai realizzata finché il progetto fosse rimasto circoscritto a una dimensione locale e popolare, finché non lo si fosse proiettato nella politica d'alto livello.
 
Per dirlo semplice: la "questione italiana" doveva smettere di essere prettamente "italiana", per entrare nell'agenda della diplomazia europea, e da qui, se necessario, trasbordare sui campi di battaglia (giacché "la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi").
 
Per dirlo in modo ancora più semplice: il Regno di Sardegna non sarebbe mai riuscito - da solo o spalleggiato dagli altri potentati italiani - a cacciar via gli austriaci dalla penisola, né con le buone né con le cattive.
 
Per essere brutali: gli entusiasmi ingenui, i sublimi sacrifici e il volontarismo tanto eroico quanto confusionario, andavano definitivamente archiviati; servivano battaglioni disciplinati e ben armati.
 
L'unità d'Italia - qualsiasi cosa volesse dire - imponeva il coinvolgimento della forza (politica, di fuoco, di denari) delle grandi Potenze europee - della Francia, dell'Inghilterra - e quindi occorreva, prima di tutto, un pretesto per sedersi ai loro tavoli.
 
Lo si trovò nel 1854, nell'insorgere di un conflitto in Crimea: "una guerra assurda, incomprensibile e inutile" - nel giudizio del Professor Barbero - "combattuta dalle due grandi Potenze occidentali, l'Inghilterra e la Francia, le due potenze liberali, contro l'Impero degli Zar, l'Impero più reazionario che ci sia, e venduta all'opinione pubblica come una 'guerra santa', addirittura una Crociata, contro l'Impero della frusta e dei cosacchi, anche se fatta in alleanza con l'Impero turco, che non è precisamente un baluardo democratico".
 
Il Piemonte partecipa con 15.000 soldati, per "rialzare la reputazione dell'Italia" - dirà Cavour - per "provare all'Europa che l'Italia ha senno civile abbastanza per governarsi regolarmente", per "far vedere che il suo valore militare è pari a quello degli avi suoi", anche se all'atto pratico, più che coi russi, i Piemontesi dovettero vedersela col colera (che si portò via oltre mille uomini) e di veri combattimenti ne sostennero uno solo (alla Cernaia, lasciandoci quattordici morti e centosettanta feriti). Checché ne dica la storiografia risorgimentale, il contributo sardo alla guerra fu piuttosto modesto, ma la mera presenza consegnava una poltrona al Congresso di Parigi del 1856, accanto ai vincitori, per dare visibilità internazionale alla "questione italiana".

L'Imperatore francese Napoleone III era l'interlocutore privilegiato: chi meglio di lui, che in gioventù aveva vissuto esule nella penisola dopo la caduta del Primo Impero, che parlava correttamente italiano, aveva un passato da carbonaro e più d'ogni altro desiderava stralciare le disposizioni del Congresso di Vienna per restituire alla Francia la sua grandeur?
 
"L'Italia spera nell'Imperatore" - scriveva Nigra (l'uomo fidato di Cavour) a Conneau (l'uomo fidato di Napoleone).
 
Bisognava portarlo a bordo "con tutti i mezzi che vi pare" - aveva ordinato un sibillino Cavour - e s'iniziò col mezzo più banale e prevedibile: una donna tra le bellezze più notevoli dell'Ottocento, la cugina di Cavour, Virginia Oldoini Contessa di Castiglione, una diciottenne consapevole della propria sensualità e senza alcuna vergogna nel metterla a frutto, che di amanti ne aveva collezionati sin dalla prima adolescenza.
 
Esordì nella società parigina a un ballo alle Tuileries (dove si presentò "seminuda come una dea dell'antichità", nel ricordo del Conte di Maugny); le arrivavano consigli estetici mirati da parte di Costantino Nigra, col sottinteso di seguirli rigidamente ("Fatevi bionda, tanto bionda perché le bionde piacciono. Bisogna farlo. Mi avete capito?"); e - serve dirlo? - si ritrovò coinvolta in un flirt patriottico con Napoleone III (anche se la prestazione sessuale la lasciò forse un filo delusa: "l'Imperatore che si offriva ai miei sguardi appariva un semplice mortale. Era bastata una sola mezz'ora per fare di me un'Imperatrice").

Le lenzuola e il tricolore si confusero sino a sembrare la stessa cosa, e l'ambasciatore inglese a Parigi poteva ben riferire al suo Governo che "l'imperatore è molto interessato alla contessa di Castiglione che [...] influisce certamente sulle decisioni dell'Eliseo".

Ci vollero ancora due anni affinché l'infatuazione di Napoleone per la Oldoini si trasformasse in una "pericolosa passione per l'Italia", come aveva già maliziosamente previsto l'ambasciatore austriaco nel luglio del 1856, dopo il Congresso di Parigi. 

Nel luglio del 1858, a Plombières, uno sconosciuto paesino francese (oggi belga), Cavour e Napoleone s'incontrano in segreto per tramare contro la geo-politica della penisola italiana: "una sordida cospirazione", la definirono a Vienna, che teneva comunque i suoi agenti sul pezzo.
 
L'Imperatore - rendicontava Cavour a Vittorio Emanuele, il 24 luglio - era "risoluto a sostenere la Sardegna con tutte le sue forze in una guerra contro l'Austria, a patto che la guerra avvenisse per una causa non rivoluzionaria e potesse trovare giustificazione dinanzi alla diplomazia e più ancora all'opinione pubblica di Francia e d'Europa". Espresso più semplicemente: veniva progettata una guerra d'aggressione, che doveva però scoppiare simulando una provocazione da parte dell'aggredito.
 
Nelle intenzioni, poi, la guerra doveva implicare una riconfigurazione dell'intera penisola, con la creazione di un Regno dell'Alta Italia di Vittorio Emanuele (una Sardegna allargata al Lombardo-Veneto e se possibile a una o più Legazioni pontificie); un Regno dell'Italia Centrale (che avrebbe assommato il Granducato di Toscana e ciò che restava dello Stato Pontificio - con l'eccezione di Roma - da assegnare a una figura gradita a Napoleone, se il Granduca si fosse defilato); uno Stato della Chiesa (ridotto a Roma e al suo circondario); e infine un Regno delle Due Sicilie (territorialmente invariato, ma su cui Napoleone avrebbe voluto piazzare Luciano Murat - figlio del più celebre Gioacchino - semmai Ferdinando II avesse optato per la ritirata). Le quattro nuove realtà avrebbero formato una confederazione, sulla falsariga del modello germanico, col Pontefice nel ruolo di presidente onorario (per indennizzarlo simbolicamente della sottrazione dei suoi territori, ma anche per tener buona l'opinione pubblica francese di stampo cattolico).
 
Rimase avvolta in una nebulosa la contropartita diretta per la Francia, che Napoleone aveva individuato nei territori della Savoia e di Nizza, all'epoca piemontesi. Il Conte di Cavour si mostrava ancora possibilista sulla prima (ché "anche se ha dato i natali alla sua famiglia" - scriveva a Vittorio Emanuele - "e ora abitata da francesi") ma nettamente contrario sulla seconda (ché "i nizzardi per origine, lingua e abitudini sono più piemontesi che francesi"). Napoleone intuì di dover concedere del tempo affinché l'argomento fosse accettato. Lasciò cadere lì - con noncuranza - che in fondo erano "questioni del tutto secondarie, di cui ci sarebbe stato il tempo di occuparsi più tardi". 
 
Diede a intendere - per contro - che vi erano affari personali su cui sarebbe stato più rigido: il matrimonio del cugino Girolamo Bonaparte con la Principessa Maria Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele, di appena sedici anni (e di vent'anni più piccola). Non la pose come una condizione discriminante, ma mostrò "di tenerci molto" - scrisse Cavour - per cui "accettare l'alleanza e rifiutare il matrimonio sarebbe un errore politico immenso".
 
Possibile? Sul serio la question du mariage era più rilevante della cessione territoriale, al punto da occupare più della metà della lettera di Cavour al suo Re? Sì, possibile, sul serio.  
 
"Chi è in fondo questo Napoleone III?" - se ne uscì un bel giorno Vittorio Emanuele, davanti all'ambasciatore francese - "E' l'ultimo dei sovrani d'Europa. Un intruso fra noi. Farebbe bene a ricordarsi chi è lui e chi sono io, che rappresento la più antica dinastia regnante"; e quando realizzò di aver esagerato, e tentò di rettificare, incontrò tutta la flemma del diplomatico transalpino: "Vostra Maestà voglia scusarmi di non aver potuto sentire una sola delle parole che ha pronunciato".
 
Questo era l'autentico problema, dalla prospettiva francese: i Bonaparte sapevano di essere ancora percepiti come dei parvenu, dei Signor Nessuno, personaggi senza una tradizione regale alle spalle, in un mondo popolato da teste coronate di lungo corso e titoli nobiliari risalenti nel tempo.
 
Per quanto bizzarro - non solo per la differenza d'età, ma anche per l'indole degli sposi: un vecchio libertino incallito e una ragazzina in odor di santità - questo matrimonio tra un Bonaparte e una Savoia s'ha da fare, perché creando un legame parentale tra "l'ultimo dei sovrani d'Europa" e "la più antica dinastia regnante" - per riprendere le altezzose parole di Vittorio Emanuele - legittimava la Casata francese e le scrollava di dosso quel senso di inadeguatezza avvertito un po' da tutti (in primis dagli stessi Bonaparte).
 
"Mi rendo conto che Vostra Maestà è più padre che Re" - ammetteva Cavour, davanti al Sovrano - "e che come padre desidera la felicità di sua figlia", ma - di nuovo - questo matrimonio s'ha da fare; e più che insistere con argomenti politici, il Conte stimò opportuno richiamare  il triste destino di tutte le figlie dello zio del Re, Vittorio Emanuele I: "La prima ha sposato il duca di Modena, universalmente detestato. La seconda il duca di Lucca e non ho bisogno di ricordarvi che è stata la donna più sfortunata del mondo. La terza, è vero, salì sul trono dei Cesari, sposando Ferdinando d'Austria, ma si trovò al fianco di un marito impotente e imbecille che fu deposto dopo due anni dal trono in favore del fratello Francesco Giuseppe. La quarta, la povera Cristina, andò sposa al re di Napoli e Vostra Maestà sa bene che in quella corte villana e grossolana fu condotta giovanissima alla tomba con la reputazione di una santa e di una martire. Vostra Maestà desidera che sua figlia vada incontro alla medesima sorte?".

Altre questioni personali orbitavano intorno a Plombières. "Sino a che l'Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell'Europa e quella Vostra non saranno che una chimera" - aveva scritto il mazziniano Felice Orsini a Napoleone III, prima di esser giustiziato per per aver attentato alla vita dell'Imperatore, all'inizio del 1858 - "Vostra Maestà non respinga il voto supremo d'un patriota sulla via del patibolo: liberi la mia patria e le benedizioni di 25 milioni di cittadini la seguiranno dovunque e per sempre".
 
Cosa fosse esattamente "l'indipendenza italiana" rimaneva oscuro a tutti, e comunque, nel sentire di Napoleone, non equivaleva certo a una penisola politicamente unificata (a semplice intuito, a normale buon senso: quale Stato gradirebbe veder sorgere una grande Potenza intorno a uno dei suoi confini, che un giorno potrebbe alzare la voce e persino rivoltarglisi contro?). L'Imperatore immaginava piuttosto una vasta zona d'influenza nella pianura padana, su cui la Francia avrebbe esercitato una supremazia politica e lo Stato Pontificio assolto il ruolo di arbitro. Nasceva da qui - da questa visione - l'appoggio francese alla costruzione di una media Potenza, un Piemonte sabaudo allargato alla Lombardia, al Veneto e dintorni.

L'alleanza di Plombières rispondeva in definitiva a due interessi politici complementari: per la Francia, l'esercizio di un'egemonia sull'Italia, in sostituzione dell'Austria; per il Piemonte, un'espansione lungo la pianura padana, com'era geograficamente naturale per un Regno stretto tra le Alpi e gli Appennini.
 
La sintesi di Cavour è fulminante, per capire quale Italia avesse in testa lui stesso: "Vostra Maestà diventerà di diritto il sovrano della metà più ricca e più forte dell'Italia" - scriveva a Vittorio Emanuele - "e sarà di fatto il sovrano dell'intera penisola".
 
Questi i programmi, gli intenti dichiarati. E poi - invece - cosa accadde?
 
 
Uno stralcio della "Rassegna di giornali" - dall'Omnibus di Napoli del 14 agosto 1860 -
con una visione retrospettiva sui fatti di Modena, Parma, Toscana e Romagne:
"La scienza politica tuttaquanta ne diventò stupida...
Tutti hanno bonariamente creduto che una siffatta modificazione di frontiere,
che d'un solo tratto ha fatto d'uno Stato di terz'ordine quasi una grande potenza,
richiedesse una discussione ed una conferma dell'Europa".
 
Dal centro della penisola si era sollevato un polverone, in prossimità della Seconda Guerra di Indipendenza: un soggetto indefinito - un ibrido tra un'agenzia di propaganda, una setta e un partito politico - aveva lavorato a un movimento di popolo e d'opinione suscettibile di destabilizzare i potentati italiani dall'interno.

Era la Società Nazionale, concepita a Torino nel 1857 dal veneziano Daniele Manin e dal siciliano Giuseppe La Farina, con la benedizione di Cavour. Legittima in Piemonte, e clandestina in tutti gli altri Stati, aveva l'obiettivo di sostenere il progetto unitario intorno al Regno di Sardegna, di mettersi alla testa di un più vasto movimento risorgimentale (di cui la conquista del Lombardo-Veneto era solo la prima tappa) 
 
Il conflitto dichiarato tra austriaci e franco-piemontesi aveva così attratto indirettamente le sorti dei Ducati di Modena e Parma, del Granducato di Toscana e della Legazione pontifica delle Romagne, che ora - a guerra conclusa - si trovavano in mano a figure favorevoli all'annessione al Piemonte.
  
Napoleone III rimase sconcertato dalla baldanza con cui prendeva forma una nuova e imprevista entità statuale. La parte centrale della penisola - nella sua percezione - era una sfera di influenza francese, e il Piemonte l'aveva invece fatta sua con la più spregiudicata delle mosse politiche: provocando un accavallarsi di eventi rivoluzionari, impossibili da decifrare in tempo reale, per approvarli o contestarli, e legittimati solo dal trascorrere del tempo, dal loro sedimentarsi.
 
Nel luglio del 1859, a Villafranca, le trattative di pace fra gli Imperatori di Francia e Austria contemplarono la restituzione di Ducati e Legazioni ai loro legittimi Sovrani, ma quando ad agosto si aprì la Conferenza di Zurigo - per la definitiva liquidazione delle pendenze - gli eventi si erano ormai incanalati lungo una traiettoria che toglieva all'Austria ogni possibilità di manovra. L'Inghilterra (com'era prevedibile) e persino Russia e Prussia (con cautela) si mostrarono propense ad accettare uno stato di fatto in sé cristallino: Modena, Parma, Toscana e Romagne avevano già stabilito autonomamente di appartenere al Piemonte, incuranti delle deliberazioni formali della diplomazia d'alto livello.
 
"L'Italia è come un carciofo: te la mangi foglia per foglia, non tutta in una volta" avevano profetizzato già altri Savoia; e di là dell'incerta attribuzione - per alcuni a Emanuele Filiberto (1528-1580), per altri a Vittorio Amedeo II (1666-1732), per altri ancora Carlo Emanuele III (1701-1773) - la similitudine era chiara: cogliere le occasioni favorevoli man mano che si presentano, impossessarsi di tutto ma un po' alla volta, come si mangerebbe un carciofo, foglia dopo foglia, sino a finirlo.
 
Prima la Toscana, poi Parma, dopo Modena, quindi le Romagne: un pezzo alla volta, una foglia dopo l'altra, il Piemonte si era preso assai più di ciò che gli spettava. Fu allora che Cavour provò a condividere il suo sfoglia-sfoglia con l'unico Sovrano italiano rimasto. Propose a Re Francesco II di spartirsi la penisola, prospettandogli un'estensione delle Due Sicilie alla Legazione pontificia delle Marche. Ne ebbe in risposta un netto rifiuto: "Chella è robba d'o Papa! La robba d’o Papa nun se tocca!".

Degno figlio - Francesco II - di suo padre Ferdinando, che in punto di morte rivelò di essersi chiamato fuori dal gioco dell'unità nazionale per non offendere il Papa. "Mi è stata offerta la corona d'Italia ma non ho voluto accettarla; se io l'avessi accettata, ora soffrirei il rimorso di aver leso i diritti del Sommo Pontefice. Signore, vi ringrazio d'avermi illuminato... Lascio il Regno ed il trono come l'ho ereditato dai miei antenati".
 
Quel "Regno come l'ho ereditato dai miei antenati" avrebbe subito da lì a breve un atto di pirateria internazionale - romanticamente definito "Spedizione dei Mille" - con cui si sarebbe prospettata per la prima volta l'unione tra il nord e il sud della penisola. 

Già dopo lo sbarco a Marsala, l'11 maggio 1860, Napoleone provò osteggiare il progetto nazionale italiano - ormai consapevole degli obiettivi infidi del Piemonte - e propose all'Inghilterra un pattugliamento navale congiunto, per impedire ai garibaldini di approdare in Calabria. Ma se sperava ancora di mantenere i Borbone nella parte peninsulare, a prezzo di una Sicilia da offrire a un'altra casa regnante, si rendeva ben conto di dover pure assecondare la nascente Italia, ché un atteggiamento ostile, o anche solo di chiusura, avrebbe lasciato campo libero agli inglesi.
  
Soltanto il 12 luglio 1861 - ben più tardi di Inghilterra e Stati Uniti, e persino dopo  la Turchia - l'Imperatore francese scriverà a Vittorio Emanuele per dirsi "felice di poter riconoscere il nuovo Regno d'Italia", annotando peraltro che "le circostanze sono sempre state tali da impedirmi di sgomberare Roma", per poi lanciare la stilettata finale: senza "pretendere di interferire con le decisioni di un popolo libero", era comunque chiaro che "un'aggregazione nazionale completa non possa essere durevole che a patto di essere stata preparata dall’assimilazione degli interessi, delle idee, dei costumi di vita", e quindi che "l'Unità avrebbe dovuto precedere l'Unione" (segnalando una differenza semantica tra "Unità" e "Unione" degna di approfondite analisi semiologiche).
 
Ancora nel 1866 - alla vigilia della Terza Guerra d'Indipendenza - da un lato la Francia napoleonica spingeva il Regno d'Italia ad affiancare la Prussia per conquistarsi il Veneto, e dall'altro firmava un accordo sottobanco con l'Austria, con cui si impegnava ad astenersi da qualsiasi intervento in caso di sconfitta dei prussiani - giudicata probabile da tutte le diplomazie europee - se nella penisola italiana si fossero avute sollevazioni per riportare sul trono gli antichi Sovrani.

La sorpresa arrivò proprio dalla vittoria delle baionette prussiane, che da lì a quattro anni avrebbero sbaragliato gli stessi francesi, lasciando campo libero all'ingresso dei piemontesi a Roma, il 20 settembre 1870.


11 maggio 1860: statista di prim'ordine o pirata privo di senno?

 
Così però è troppo facile, anzi è proprio inutile: giudicare Garibaldi a cose fatte, col senno del poi, conoscendo l'esito della sua iniziativa - per apparentarla a "quella di Guglielmo d'Orange in Inghilterra" o a "quella di Murat in Calabria", in ragione del successo o del fallimento - è un esercizio che potrà andar bene per un giornalista impegnato in un editoriale sensazionalistico, ma non per lo storico che voglia entrare nella realtà di un'epoca e restituirne la complessità.

Serve tornare indietro nel tempo, posizionarsi nella primavera del 1860, e fare affidamento soltanto su ciò che si poteva conoscere allora.

E' il 6 maggio 1860. Sono passati una trentina di giorni da quando il telegrafo ha informato l'Europa di un nuovo moto insurrezionale siciliano - cosiddetto "della Gancia", dal nome del monastero in cui i rivoltosi hanno trovato rifugio - e ora scatta un'operazione piratesca da tempo nota a tutti: un gruppo di garibaldini simula il furto dei piroscafi "Piemonte" e "Lombardo", della società Rubattino, e diverse scialuppe vi si accodano, muovendo da Quarto - uno scalo secondario del porto principale - diretti in Sicilia.

E sì che il progetto era stato a un passo dall'abortire: il fallimento del moto della Gancia aveva scoraggiato Garibaldi sino a fargli desiderare di ritirarsi a Caprera, o almeno così riferiva alla figlia, e soltanto l'insistenza di Crispi - il suo dargli a intendere che la Sicilia era ancora in ebollizione, che l'insurrezione proseguiva - lo aveva persuaso a restare al suo posto. "Voi solo mi incoraggiate ad andare in Sicilia" - gli dirà il Generale, il 2 maggio - "mentre tutti gli altri me ne dissuadono".

Tutti dissuadevano Garibaldi, lui stesso rimaneva perplesso, e si può forse biasimare il dilagare di così tanta sfiducia?

"Le spedizioni dello straniero di gente armata, nello scopo di promuovere la ribellione, non sono nuove nel nostro reame" - aveva esordito il Procuratore del Re, nel 1857, nel suo atto d'accusa alla Spedizione di Sapri - "ne fu sempre infelice il successo, e pur ciò non fu bastevole ad impedirne che altre ne fossero eseguite".

Vero. C'aveva provato Gioacchino Murat, nell'estate del 1810, con uno sbarco in Sicilia per riunire l'Isola al continente; e poi una seconda volta, nell'autunno del 1815, con l'approdo dalla feluca Sant'Erasmo alla marina di Pizzo, nella speranza di riprendersi il Regno di Napoli; c'avevano provato i fratelli Bandiera, nel 1844, a Crotone, in Calabria; e c'aveva provato Pisacane, nel 1857, a Sapri, presso Salerno.

"Come poté Murat pensare di aver successo?" - scriverà Napoleone Bonaparte nella sue memorie; e lo stesso si potrebbe dire di Pisacane, che si era lanciato nell'impresa "senza speranza di premio, senza calcoli di utilità", per riprendere il cliché mazziniano (tant'è che a domarlo bastò una banda di contadini armata di forconi).

Sempre infelice fu l'esito delle aggressioni al Regno delle Due Sicilie. E perché mai, ora, per i "Mille" di Garibaldi, sarebbe dovuto essere diverso? Forse perché stavolta - a differenza delle precedenti - vi era tanto una speranza di premio (per il Regno di Sardegna) quanto ben ponderati calcoli di utilità (dell'Inghilterra)?

Probabile. Fatto sta che il calendario garibaldino in Sicilia è scandito da una sfilza di vittorie: martedì 15 maggio, a Calatafimi, i "Mille" prevalgono su una colonna borbonica, se non proprio militarmente, di sicuro nella percezione diffusa; le Camicie rosse entrano a Palermo al primo sole di domenica 27 maggio, e tre giorni dopo Garibaldi negozia un armistizio con l'anziano e malfermo Generale borbonico Lanza, che alla fine accetta di sgombrare la città coi suoi ventimila soldati consegnandola ai mille garibaldini (dai quali pretende però "gli onori delle armi"); venerdì 20 luglio i garibaldini vincono anche Milazzo (col contributo fondamentale di una brigata sarda sbarcata a Palermo il 21 giugno).

E' un percorso che appare meraviglioso e fatale, agli occhi di un'Europa attonita, anche grazie alla propaganda di una stampa internazionale compiacente e faziosa. E se Napoli sa bene quanto sta accadendo nell'Isola ribelle - perché ne conosce l’aristocrazia ostile, il radicalismo delle città, la forza delle bande contadine, il miscuglio di politica e delitti - l'opinione pubblica percepisce invece un autentico prodigio.

Conquistata la Sicilia, Garibaldi non ha che un ostacolo di fronte a sé: lo Stretto di Messina.

 

11 maggio 1860: "ora cosa accadrà?"

"Garibaldi è sbarcato in Sicilia. Ora cosa accadrà?
E' impossibile il prevederlo.
L'Inghilterra lo aiuterà? E' possibile.
La Francia lo contrasterà? Non lo credo.
E noi?"

C'è da ammattire a voler leggere la "Spedizione dei Mille" in chiave istituzionale, o anche solo ad abbozzarne un'interpretazione logica.
 
Un interrogativo spinoso aleggiava già allora sul clamore dei successi militari: cos'era - esattamente - la "Spedizione"?
 
Un'azione militare subita dal popolo siciliano? Oppure un'insurrezione dei siciliani, al pari delle precedenti, che ora però coincideva con un'invasione di bande straniere? Era un colpo di Stato contro i Borbone? O celava obiettivi e manovre e di altri Stati, formalmente in pace col Regno di Napoli? Come poteva un liberale a là Cavour giustificare la dittatura garibaldina, pur mitigata dai riferimenti astratti "Italia" e "Vittorio Emanuele"? E chi aveva autorizzato Garibaldi ad agire in nome del Re di Sardegna? Cosa avevano mai da condividere Francesco Crispi, Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa - gli ideatori della "Spedizione", tutti mazziniani - con la monarchia sabauda? La Sicilia era il traguardo del moto di ribellione o l'innesco di una rivoluzione potenzialmente incontrollabile? E se questa armata di volontari si fosse trasformata da strumento occulto della politica regia in un soggetto autonomo in contrapposizione al Regno d'Italia?

Se è vero - come dice il Professor Barbero - che "Cavour non voleva la Spedizione dei Mille ma la dovette subire", e pur vero che lasciò fare, che si girò dall'altra parte e non oppose alcuna resistenza, in un'ambiguità per sua natura di complessa decifrazione. 
 
Casa Savoia aveva sin allora mantenuto un sostanziale controllo del movimento nazionale, sia nella dimensione istituzionale (la guerra all'Austria, per la conquista del Lombardo-Veneto) che in quella latente (le sommosse in Toscana, nelle Romagne, a Modena e Parma) laddove la "Spedizione" era sorta fuori dagli ambienti governativi torinesi, e non solo ne oltrepassava le capacità decisionali, ma sovrascriveva pure ogni riferimento sin allora conosciuto. 

D'altra parte, se la mente della "Spedizione" si trovava in Sicilia, i suoi bracci armati si andavano formano sul territorio dei Savoia, grazie alla benevola disattenzione del Regio Intendente Generale della Questura di Genova (avallata da Cavour) per cui l'iniziativa non aveva nulla di clandestino e assomigliava piuttosto a un'operazione militare coperta a tutto vantaggio della Sardegna (da sconfessare immediatamente in caso d'insuccesso, ma da ricondurre nell'alveo governativo in caso favorevole).
 
Cavour cavalcò i fatti, più che le idee. Accettò eventi ormai accaduti, perciò immodificabili, ma che lui - Cavour - non avrebbe mai potuto astrattamente approvare: "se facessimo per noi stessi quello stiamo facendo per l'Italia, saremmo dei gran farabutti", gli vien fatto dire in una ricostruzione storica a uso televisivo, e poco importa se forse testualmente la frase non l'ha mai pronunciata, perché con ogni probabilità ben esprimeva il suo stato d'animo.

"Le parole, le lettere e gli atti di Cavour dall'aprile al maggio del 1860 sono pieni di contraddizioni" - documenta lo storico britannico George Macaulay Trevelyan - "il che se lascia perplessi, non deve però sorprendere, avendo spesso egli ricorso al metodo dell'inganno [...] come pure [...] al pari di Garibaldi, egli mutò parere forse più d'una volta durante questa crisi difficile e dubbia", e di sicuro - in retrospettiva - "uno statista che abbia l'abitudine così spiccata di dire una cosa ad uno, e un'altra ad un altro, cancella le sue proprie piste agli occhi dello storico che vorrebbe rintracciarle per scoprire i suoi veri moventi". 

In questo ginepraio di contraddizioni - in cui di ogni verità potrebbe esser vero anche il contrario - abbiamo due lettere di Cavour, che se non altro ne fissano lo stato d'animo nelle fasi nodali della "Spedizione": lo sbarco in Sicilia e la prospettiva di passaggio sulla parte continentale. 

"Garibaldi è sbarcato in Sicilia" - scriveva il Conte al Barone Ricasoli, Governatore della Toscana, il 16 maggio 1860 - "E' gran ventura che non abbia dato seguito al pensiero d'attaccare il Papa. Che faccia guerra al Re di Napoli non si può impedire. Sarà un bene, sarà un male, ma era inevitabile. Garibaldi trattenuto violentemente sarebbe diventato pericoloso nell'interno. Ora cosa accadrà? È impossibile il prevederlo. L'Inghilterra lo aiuterà? E' possibile. La Francia lo contrasterà? Non lo credo. E noi? Il secondarlo apertamente non si può, il comprimere gli sforzi individuali in suo favore, nemmeno. Abbiamo quindi deciso di non permettere che si facciano nuove spedizioni dai porti di Genova e di Livorno, ma di non impedire l’invio d’armi e di munizioni, purché si eseguiscano con una certa prudenza. Non disconosco tutti gli inconvenienti della linea mal definita che seguiamo, ma pure non saprei segnarne un’altra che non ne presenti dei più gravi e più pericolosi".

A fine luglio la Sicilia era nelle mani di Garibaldi, ora intenzionato ad attraversare lo Stretto di Messina, non solo per conquistare  i dominî borbonici al di qua del Faro, ma per poter poi proseguire verso a Roma, e se possibile arrivare sino a Venezia.

"Se Garibaldi passa sul continente e conquista il Regno di Napoli e la sua capitale come ha già fatto per la Sicilia e per Palermo, diventa padrone assoluto della situazione" - scriveva un angosciato Cavour al fidato Costantino Nigra, all'inizio di agosto - "Re Vittorio Emanuele perde quasi tutto il suo prestigio, e non è più altro, agli occhi della grande maggioranza degli Italiani, che l'amico di Garibaldi. Probabilmente conserverà la corona, ma quella corona non brillerà più se non per il riflesso della luce che un eroico avventuriero giudicherà opportuno far cadere su di essa. Avendo egli a disposizione le risorse di un regno di 9 milioni di abitanti, circondato come sarà da un prestigio popolare irresistibile, noi non potremo lottare con lui. Sarà più forte di noi. Allora che ci resterà da fare? Una sola cosa: associarci a lui apertamente, per andare insieme a lui a far guerra all'Austria. Per un principe di Casa Savoia meglio vale perire per la guerra che per la rivoluzione. Una dinastia può risollevarsi se cade su un campo di battaglia, ma la sua sorte è segnata per sempre se la si trascina in un rigagnolo".

  

"Abbiamo somministrato tutti i mezzi per fare la rivoluzione"

"Se Napoli chiude elementi di rivoluzione essa deve scoppiare,
poiché gli abbiamo somministrato tutti i mezzi per farla, 
armi, danari, soldati, uomini di consiglio, uomini d'azione.
Se poi la materia nel regno e talmente infracidita da non essere più suscettibile di fermento, 
io non so che farci e bisogna rassegnarsi a al trionfo di Garibaldi o della reazione"
(Camillo Benso Conte di Cavour)

"Benché la nostra decisione sia presa, nell'ipotesi di un successo completo dell'impresa di Garibaldi nel Regno di Napoli" - proseguiva Cavour, nella lettera a Nigra d'inizio agosto - "credo che sia nostro dovere di fronte al Re e di fronte all'Italia fare tutto quello che dipende da noi affinché non riesca. C'è un solo mezzo per raggiungere questo fine. Far sì che il governo di Napoli cada prima che Garibaldi passi sul continente, o almeno prima che di questo si faccia padrone. Una volta partito il Re, prendere noi il governo in nome dell'ordine e dell’umanità, strappando dalle mani di Garibaldi la suprema guida del movimento italiano. Questa misura ardita, se volete audace, farà lanciare alte grida all'Europa, provocherà serie complicazioni diplomatiche, ci porterà forse, in un avvenire più o meno remoto, a batterci contro l'Austria. Ma ci salverà dalla rivoluzione e conserverà al movimento italiano quel carattere che ne fa la gloria e la forza: il carattere nazionale e monarchico".
 
Prendere il comando delle operazioni "in nome dell'ordine e dell’umanità"; togliere a Garibaldi il primato "del movimento italiano", anche al prezzo di "serie complicazioni diplomatiche"; e non vi è che un modo: "che il governo di Napoli cada prima che Garibaldi passi sul continente".

Che poi, a dirla tutta, a Torino si nutriva ancora la speranza che Garibaldi sul continente non c'arrivasse proprio.
 
"Non aiuti il passaggio di Garibaldi sul continente; anzi veda di ritardarlo per via indiretta il più possibile", scriveva Cavour all'Ammiraglio Persano, che presidiava con la sua flotta le acque siciliane. Per via indiretta, come a dire lasci pure che le navi borboniche lo incrocino lungo lo Stretto, semmai decidesse di passarlo.
 
L'altalena dei sentimenti piemontesi era ancor più evidente nelle parole di Vittorio Emanuele all'ambasciatore francese, una volta saputo dell'approdo di Garibaldi in Calabria. "Dio mio! Sarebbe stata certo una grande disgrazia se gli incrociatori borbonici avessero catturato e impiccato il mio povero Garibaldi. Ma una sorte così triste sarebbe proprio andato a cercarsela da sé. Le cose si sarebbero molto semplificate a quel modo. Che bel monumento gli avremmo fatto".

Il 19 agosto Garibaldi sbarca a Melito Porto Salvo, nei pressi di Reggio Calabria, e paradossalmente la guerriglia delle Camicie rosse è finita: da lì fino a Napoli non sarà più sparato un colpo di fucile. "La mancanza di resistenza a Garibaldi non provava tanto il consenso delle popolazioni napoletane quanto piuttosto riaffermava la loro disposizione all'indifferenza" - scriverà Benedetto Croce.

Ma  conflitto è appena iniziato, dalla prospettiva del Piemonte, ed è un conflitto tra i più speciosi: contro il tempo e contro l'incertezza, ancor prima che contro Garibaldi.   
 
Con la complicità del Generale borbonico Alessandro Nunziante - "di lui possiamo fidarci" scriveva Cavour a Persano, "perché ci ha dato tanto in mano da farlo impiccare se occorre" - e del Ministro degli Interni di Napoli, Don Liborio Romano - "vecchio liberale unitario, provato ed onesto" - prende forma un colpo di Stato filosabaudo, per sbalzare i Borbone dal trono, sollecitare l'annessione delle Due Sicilie al Regno di Sardegna e "fare trionfare a Napoli il principio nazionale senza l'intervento di Garibaldi" (con le parole del solito Cavour al solito Persano).

Il Conte aveva istruito l'Ammiraglio già il 30 luglio: "il marchese [l'ambasciatore] Villamarina gli avrà trasmesso il telegramma che le ordinava di recarsi a Napoli [...]. Scopo apparente di questa sua missione si è di tenersi a disposizione della principessa di Siracusa [...]. Scopo reale è di cooperare alla riuscita di un piano, che deve fare trionfare a Napoli il principio nazionale senza l'intervento di Garibaldi. Principali attori in esso debbono essere il ministro dell'Interno, il signor Liborio Romano, ed il generale Nunziante".

Da Torino arriva per via di mare un carico d'armi, che Don Liborio affida alle cure dei suoi camorristi, con l'idea di distribuirle al popolo napoletano affinché si sollevi contro i Borbone prima che Garibaldi possa metter piede nella capitale. "Se il movimento riesce" - scriveva Cavour a Nigra - "si costituisce un Governo provvisorio con a capo Liborio, il quale invoca subito la protezione della Sardegna. Il Re accetta il protettorato e invia una divisione che mantiene l'ordine e arresta Garibaldi".

Nientemeno che arrestare Garibaldi!

Peccato che Don Liborio stia giocando su tutti i tavoli: è col Conte di Cavour (che lo ha ingaggiato rivolgendogli "mes compliments affettueux") ma è pure col Generale Garibaldi (che accoglierà a Napoli come "Redentore d'Italia") e ovviamente non può che essere anche con Re Francesco (di cui è pur sempre Ministro dell'Interno).

A Nunziante, invece, le cose girano storte: tra borbonici fedeli, spie, soffiate mazziniane e rinnovo dei corpi militari, il Generale si ritrova isolato, e di fatto privo di margini di manovra, per quanto possa aver ancora voglia di agire.

E poi - di là di tutto - quei moderati che nell'immaginario di Cavour avrebbero dovuto stimolare l'insurrezione, nei fatti sollecitavano una consegna pacifica del Regno a Garibaldi proprio per impedire quelle azioni scomposte da cui si sentivano minacciati.

Ognuno conduceva insomma il proprio gioco, all'insaputa degli altri, e la possibilità di un colpo di mano - alla fine - si rivelerà illusoria.
 
"I napoletani sono gente senza sangue nelle vene, ignominiosa, disgustosa" - chioserà un Cavour oltremodo mortificato - gente che continua ballare la tarantella mentre i patrioti stanno facendo l'Italia, un autentico fallimento di popolo (quando a fallire era stata solo la sua subdola manovra, su cui peraltro lo stesso ambasciatore piemontese nutriva perplessità sin dal principio).

Quel giudizio cavourriano - slittato sul piano antropologico - conoscerà numerose varianti a opera di tutti piemontesi che si ritrovarono a fronteggiare il popolo napoletano: "una cancrena" (Farini); "un vaioloso" (d'Azeglio); "un'ulcera" (Pantaleoni); "una razza di briganti" (Carlo Nievo, il fratello di Ippolito); "un lascito della barbaria" (Saffi).
 
E tuttavia gli ultimi pensieri di Cavour - sul letto di morte -  saranno proprio per questo strano popolo: "l'Italia del Settentrione è fatta, non vi sono più né Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli, noi siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i Napoletani".

Sì, nel 1861 c'erano ancora i napoletani, e ci sarebbero stati per altri dieci anni, sino al 1870, a tenere il neonato Regno d'Italia avvolto in una fitta nebbia sbrigativamente etichettata "brigantaggio", una delle pagine più inquietanti della storia nazionale, giacché mai - al mondo - un ribellione così disarticolata è durata così a lungo in presenza di una forza così imponente - metà dell'esercito piemontese - chiamata a reprimerla.
 
"A Napoli, noi abbiamo cacciato il sovrano per stabilire un Governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti, per contenere il regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne" - dovrà ammettere Massimo d'Azeglio, per poi trarre l'inevitabile conclusione - "Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore; e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani, un'altra volta per tutte, se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani, che restando italiani non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate".

 

7 settembre 1860: "pensai di prevenire le tristi opere dei camorristi"

Garibaldi: "Vedete, c'ho messo un po' di tempo, ma alla fine ho capito"
Don Liborio Romano: "E che cosa?"
Garibaldi: "Che solo se vi faccio Ministro, posso contare su almeno diecimila volontari napoletani"
Don Liborio Romano: "Oh! Voi mi sopravvalutate... e dove lo prendo tutto questo potere?"
Garibaldi: "Non siete il capo riconosciuto della Camorra?" 

La verità storica cede qui il passo alle esigenze di regia e sceneggiatura: no, Don Liborio Romano non era il capo della Camorra, anche se in quel periodo - parole del de Cesare - la Camorra "lo inneggiava senza tregua"; e, no, la sua nomina a Ministro dell'Interno non fu un atto riflessivo di Garibaldi, ché già il 7 settembre il Decreto dittatoriale n. 2 - "circa la nomina o conferma di Ministri e Direttori di varii Dipartimenti" - manteneva "il Signor Liborio Romano [...] al suo posto del Ministero dell'Interno".
 
Ma chi era questo Don Liborio Romano, osannato dai camorristi e al tempo stesso seduto su una poltrona istituzionale tra le più rilevanti?
 
"Un tumultuoso demagogo". Così le prime carte della polizia borbonica descrivono questo avvocato originario di Patù - un paesino delle Puglie - con alle spalle una famiglia compromessa col cosiddetto "decennio francese" - gli anni a Napoli di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat - e politicamente impegnata nella lotta settaria, a seguito della restaurazione.

Già dal 1820 il giovane Liborio si era trovato coinvolto nelle trame della Carboneria, e in seguito, nel suo ruolo di avvocato, aveva abbracciato una linea anti-borbonica, con la presa in carico delle ragioni britanniche nella questione degli zolfi siciliani e la difesa gratuita degli accusati di cospirazione. 

Fu imprigionato e inviato al confino. Scarcerato nel 1830, dopo la salita al trono di Ferdinando II, si rituffò nella mischia nel 1848: partecipò ai moti che condussero alla concessione della Costituzione napoletana, e finì di di nuovo in carcere per i fatti del 15 maggio. Implorò la commutazione della pena in un esilio ("Io supplico di un passaporto per Milano o per un luogo qualsiasi della Toscana") e fu accontentato. Rimise piede a Napoli nel giugno 1854, mostrando "la più viva sua gratitudine e riconoscenza" a Re Ferdinando, "per essersi la M.V. degnata di accogliere le sue suppliche e concedergli la grazia di ritornare nel Regno".
 
Ecco chi era Don Liborio Romano, che ora Garibaldi manteneva "al suo posto del Ministero dell'Interno".

Al suo posto? Don Liborio era quindi già Ministro, quando Garibaldi arrivò a Napoli? Era cioè il Ministro dell'Interno di Re Francesco? E cosa ci faceva un nemico storico dei Borbone - la dinastia osteggiata per una vita intera, da cui era stato perseguitato per una vita intera - su una poltrona ministeriale così delicata e per di più in una fase così intricata? Com'era possibile che un "tumultuoso demagogo" si trovasse a dirigere "la macchina dell'amministrazione civile", come lui stesso la definì nel giuramento a "l'augusto Sovrano " Francesco II?
 
Serve tornare indietro nel tempo e nello spazio - giusto un minimo: in Sicilia, intorno alla metà di giugno del 1860 - per dare una parvenza di giustificazione a un fatto altrimenti inspiegabile.
 
Garibaldi è il padrone dei dominî al di là del Faro, e al di qua del Faro - preso atto del fallimento dei presidî militari sull'Isola - il Generale Carlo Filangieri declina l'invito a ritentare l'impresa di riconquista della Sicilia - brillantemente riuscita nel 1849 - e persuade Re Francesco a battere piuttosto la via diplomatica, a coinvolgere Napoleone III, giocando su una rinnovata consapevolezza dell'Imperatore francese in fatto di questioni italiane. "Je me remets entre les mains de l'Empereur" - sussurrerà  Francesco - in un triste e paradossale epilogo di una dinastia che con Ferdinando II aveva impedito a chiunque d'immischiarsi nei fatti del Regno.

Parigi viene chiamata in causa, e Parigi risponde, con toni e contenuti che lasciano esterrefatti. "La Sardegna sola può arrestare la rivoluzione. Piuttosto che a me è al Re di Sardegna che avreste dovuto dirigervi. Un mese fa le riforme avrebbero potuto prevenire tutto, ora è troppo tardi. La Francia è in una posizione difficile, le rivoluzioni non si arrestano con le parole, ed ora la rivoluzione esiste e trionfa. È a Torino che dovete agire. Date a Cavour un argomento di fatto. Dategli un'arma valida, un interesse da sostenervi, e lo farà".
 
Se Napoli vuol arrestare le scorribande garibaldine, allora - secondo Napoleone - l'unico modo è un'alleanza col Regno di Sardegna, una comunione d'intenti tra Case reali.
 
Ma il Piemonte costituzionale non si sarebbe mai alleato con una monarchia da Ancien Régime. Il patto coi Savoia - semmai fosse stato possibile - presumeva l'introduzione di una Carta, e con essa un esteso e profondo rinnovo dei quadri governativi, in linea con i principî liberali, sconfessando uno stile di governo, avversato quanto si vuole, ma caratteristico della dinastia napoletana.

C'era da restare esterrefatti. Neanche tre mesi prima, il 15 aprile 1860, Vittorio Emanuele II aveva scritto al "caro cugino" Francesco II, su consiglio di Cavour, per prospettare la nascita di due Stati italiani indipendenti da influenze straniere, con una politica condivisa. L'iniziativa piemontese mirava ad arrestare i programmi del Re di Napoli, del Papa e dell'Austria, per riportare la geopolitica della penisola alla situazione precedente alla Seconda Guerra d'Indipendenza, ma aveva anche un tono minaccioso, suonava come un ultimatum, visti i preparativi di Garibaldi per la spedizione in Sicilia.

"Siamo così giunti ad un tempo in cui l'Italia può essere divisa in due stati, l'uno del Settentrione e l'altro del Mezzogiorno, i quali, adottando una stessa politica nazionale, sostengano la grande idea dei nostri tempi, l'Indipendenza Nazionale. Ma per mettere in atto questo concetto è, com'io credo, necessario che V.M. abbandoni la via che ha finora tenuta. Il principio del dualismo, se è bene stabilito, e onestamente seguito, può essere tuttora accettato dagli italiani. Se Ella lascerà passare qualche mese senza attenersi al mio suggerimento amichevole, V.M. forse dovrà sperimentare l'amarezza di quelle parole terribili: troppo tardi".

Le parti si erano ora ribaltate: era Napoli a invocare, ad auspicare, l'alleanza col Piemonte, per il quale, però, era ormai troppo tardi, visto l'andazzo degli eventi bellici in Sicilia.

Furono giorni tormentati, alla Corte borbonica. Si viveva un dramma politico con risvolti familiari, che non toccava solo il Regno, ma l'Europa tutta, perché tutta Europa aveva gli occhi su Napoli, nella speranza di alcuni, e nel timore di altri, che il fuoco rivoluzionario siciliano divampasse sulla parte continentale. I sospetti e le paure crescevano di giorno in giorno. Mille voci avvertivano Re Francesco da ogni parte, sui vantaggi e i pericoli di ogni sua decisione, ma la sensazione - sgradevole, opprimente - era di trovarsi ormai all'angolo. 
 
"Povero spirito!" - lo biasimava il Conte de Viel Castel - "Non ha compreso che un Re deve anticipare le concessioni, ma è perduto se se le lascia strappare. Nella sua situazione, occorreva cadere con onore e invece si è abbassato a rendere i bastimenti dei filibustieri e a sollecitare l'alleanza col Piemonte, che risponde con insolenza alle sue avances. Checché faccia il Re di Napoli, io lo credo perduto".
 
Perso per perso, Re Francesco cede: il 25 giugno 1860 - "desiderando di dare a' nostri amatissimi sudditi un attestato della nostra sovrana benevolenza" - emana un Atto Sovrano con cui stabilisce "di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno, in armonia co' principii italiani e nazionali", con un occhio di riguardo alla Sicilia - per la quale s'immaginano "analoghe istituzioni rappresentative che possano soddisfare i bisogni dell'Isola" - e la prospettiva di stabilire "con S. M. il Re di Sardegna un accordo per gli interessi comuni delle due Corone in Italia". 

"Un singolo sovrano può non essere all'altezza, ma l'idea monarchica rimane lo stesso quella che è; essa è svincolata dalle persone" - fa notare Màlvica al Principe di Salina, nel romanzo "Il Gattopardo" -avendone in risposta una qualificazione che precisa la situazione di fatto: "Vero anche questo; ma i Re che incarnano un'idea non possono, non devono scendere per generazioni al di sotto di un certo livello; se no, caro cognato, anche l'idea patisce".
 
Con l'Atto Sovrano l'idea borbonica patisce, e si chiude ogni discorso su ogni possibile iniziativa militare nei dominî al di là del Faro - "una lotta ulteriore in Sicilia è impossibile", aveva già sentenziato Parigi - e forse fu allora che il Generale Nunziante - che pure aveva prospettato a Re Francesco una spedizione di riconquista, con 25.000 soldati - iniziò a meditare il cambio di casacca.

Il punto 2 dell'Atto Sovrano impegnava a rinnovare il Governo: "Abbiamo incaricato il Commendatore D. Antonio Spinelli della formazione di un nuovo Ministero, il quale compilerà nel più breve termine possibile gli articoli dello Statuto sulla base delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali".

Don Liborio non entrò subito nelle file governative - l'incarico di Ministro dell'Interno sarebbe comunque arrivato da lì a poco - ma gli fu a ogni modo affidato un ruolo nodale per il controllo di una città - Napoli - divenuta una polveriera: Prefetto di Polizia. Era dunque il responsabile diretto dell'ordine pubblico, e si vide chiamato ad agire già il giorno dopo la sua nomina. 

"Mentre la parte sana e intelligente della nazione napolitana accoglieva l'Atto Sovrano da noi pubblicato il dì 25 come arra di prosperità e di sicurezza" - scriveva il supplemento n. 141 del Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie - "una mano di sconsigliati quasi generalmente del volgo osava intorbidar in tutt'i modi possibili i primordi dell'era novella. Non curati da prima per la futilità de' loro conati ed anche per la scarsezza del loro numero, costoro riguardarono come impunità la generosa tolleranza con che l'Autorità mostrossi indulgente. Siffatta stolta persuasione si mutò bentosto in albagia, siccome ieri sera, non ostante la presenza della forza tutelatrice della pubblica quiete, i mentovati perturbatori di esse proruppero in atti criminosi dei quali mal sapemmo determinare il numero e la tendenza, nel momento che scriviamo".
 
Il nuovo Gabinetto napoletano era un consesso di uomini miti e dottrinari, senza alcuna preparazione o esperienza per contrastare una simile marea. Il primo atto governativo fu perciò la proclamazione dello stato d'assedio, non esattamente l'esordio auspicato.
   
Ma da un giorno all'altro, dalla sera alla mattina,  torna la calma. L'odiosa polizia del regime è scomparsa e per le strade si aggira ora una "nuova e strana guardia, senza uniforme e senz'armi, che solo portava un nodoso bastone in mano e una coccarda tricolore al cappello" - nella descrizione del de Cesare. Sono i nuovi tutori dell'ordine - "mezzo patrioti e mezzo camorristi" - amici dei liberali e dei democratici, nemici dei borbonici. Li ha reclutati Don Liborio Romano, il 28 giugno, per ristabilire una situazione di normalità.
 
"Fra tutti gli espedienti che si offrivano alla mia mente agitata per la gravezza del caso, un solo parsemi, se non di certa, almeno probabile riuscita; e lo tentai" - scriverà Don Liborio nelle sue "Memorie" - "Pensai prevenire le tristi opere dei camorristi, offrendo ai più influenti loro capi un mezzo di riabilitarsi; e così parsemi toglierli al partito del disordine, o almeno paralizzarne le tristi tendenze".
 
La sicurezza di Napoli è nelle mani di Michele 'o Chiazziere, di Tore 'e Crescenzo, dello Schiavetto. Sono "i più rinomanti di quei bravi" - ancora Don Liborio, nelle sue "Memorie" - a cui è stato spiegato che è il momento di "riabilitarsi dalla degradazione" con l'ingresso in una pubblica sicurezza non più "composta di tristissimi sgherri e di vilissime spie, ma di uomini valorosi e di cuore", dove gli sgherri e le spie sono i poliziotti borbonici, e i valorosi sono i camorristi, in ragione di un criterio di legittimità che ha cambiato segno dalla sera alla mattina.
 
Erano le stesse figure contro cui Re Ferdinando II aveva avviato una vigorosa offensiva poliziesca e giudiziaria nel 1848, dopo la partecipazione della Camorra ai moti rivoluzionari, e che si sarebbe prolungata sino alla stretta repressiva del 1858. Fu in quel decennio che la mala setta si pose al servizio del movimento costituzionale: ne proteggeva le riunioni clandestine, assicurava l'assistenza ai detenuti politici, facilitava la fuga dalle prigioni. Quei membri dell'onorata società si ritrovavano ora inquadrati nelle istituzioni, beneficiavano di un'amnistia incondizionata, di un ruolo pubblicamente riconosciuto e di uno stipendio governativo. 
 
Pure - con Don Liborio divenuto nel frattempo Ministro dell'Interno - i camorristi ebbero il compito di tenere a bada la città di Napoli, in vista dell'arrivo di Garibaldi. "Chi vi raccomanda l'ordine e la tranquillità in questi solenni momenti è il liberatore d'Italia, è il generale Garibaldi" - scrisse Don Liborio in manifesto indirizzato al popolo napoletano - "Osereste non esser docili a quella voce, cui da gran tempo s'inchinano tutte le genti Italiane ? No certamente". No, certamente. Ma non già perché a raccomandarlo era Garibaldi, bensì perché a imporlo era la Camorra.
 
In quel periodo irreale, lungo quella assurda stagione politica, Don Liborio aprì linee di comunicazione con tutti, senza sbilanciarsi con nessuno, nel più spregiudicato dei giochi politici. Serviva Francesco II, ma si teneva in segreta corrispondenza con Cavour, e volle mettersi in rapporti pure con Garibaldi: "con la stessa incoscienza" - scrive il de Cesare - "lasciava credere ai cavurriani, che egli era lì per indurre il Re a lasciar Napoli e ad affrettare il compimento dell'unità nazionale; ai garibaldini e ai mazziniani del Comitato di Azione, ch'egli stava lì ad impedire che l'unità d'Italia si compisse a benefìzio del Piemonte; ed agli autonomisti, che fosse in pericolo l'autonomia e l'indipendenza del Regno! Banderuola in balia dei venti, Liborio Romano si dava l'aria di dominar lui i venti, compiaciuto e soddisfatto di sé; dava ragione a tutti ed era il solo dei ministri, che non sembrasse impensierita del domani".
 
Non gli riuscirà solo di far liquefare il sangue di San Gennaro - per quello servirà il cappellano di Garibaldi, che brandendo un crocifisso nella mano destra, "avvezza a reggere anche la spada", spiegò al clero napoletano cosa sarebbe accaduto se fosse venuto meno quel fondamentale segno di gradimento del patrono di Napoli: "il sangue, domani, deve liquefarsi e si liquefarà, sennò a farlo liquefare ci penserà Garibaldi" - ma per tutto il resto Don Liborio fu un "esempio di popolarità, cosi generale e indiscussa" - nella rievocazione del de Cesare - che per ritrovare un caso simile serve risalire ai "pochi giorni del potere di Masaniello".
 
Col beneficio della retrospettiva, tuttavia, può ben dirsi che Don Liborio non fu una pianta esotica della nostra Italia, e rappresentò piuttosto il caposcuola di tutti i voltagabbana che sarebbero venuti in seguito, sino ai giorni nostri: un nome - Liborio Romano - che funziona ancor oggi da giustificativo storico per tutti coloro che nuotano tra opposte correnti senza un fine preciso, senza alcun concetto politico né una visione del domani, invariabilmente sorridenti e sicuri di sé, col temperamento tipico di chi rifugge da ogni responsabilità, e che forse non si può neppure dire che tradiscano, perché sprovvisti dell'esatta coscienza di ciò che fanno.
 
La micidiale ambiguità del personaggio è stilizzata nell'ultimo scambio di battute con Re Francesco, prima della partenza della Corte borbonica per Gaeta. "Don Libò, guardat'u cuollo!" fu l'ammonimento del Re, che i più interpretarono come una minaccia - un avviso che sarebbe finito sulla forca, semmai i Sovrani fossero rientrati a Napoli, avendone smascherato il tradimento - ma che Don Liborio, nelle sue "Memorie", rievoca come una premura del Re nei suoi riguardi, l'invito a far attenzione alla propria incolumità, in presenza di un filibustiere come Garibaldi. Quale che fosse il significato - esplicito o latente - la replica di Don Liborio fu, ancora una volta, l'espressione di chi sa bene come restare a galla, quali che siano la marea, i venti e le correnti. "Sire, farò di tutto per farlo rimanere sul busto il più che sia possibile".
 
Sarà l'intervista impossibile di Leonardo Sciascia alla Regina Maria Sofia, a rivelare l'esatta natura del personaggio e dei suoi epigoni, a mostrare il sottile filo rosso tra il passato e il presente della nazione italiana.
 
"Don Liborio era così divertente... più che divertente, irresistibile...

In Italia, i traditori, i ladri di passo e ladri di tavolino, gli assassini persino, sono tutti divertenti, tutti irresistibili... Passa una repubblica, ne viene un'altra, e sono sempre al loro posto.
 
'Ruba, ma è così divertente'; 'ha fatto ammazzare il tale, ma è così simpatico'; 'so quello che è, forse mi tradisce: ma è irresistibile'. La conversazione degli italiani abbienti e potenti e tutta intessuta di frasi simili... 
 
Le vere dinastie erano quelle dei farmacisti Ignone, dei Don Liborio: le dinastie a due anime. Dinastie immutabili, dinastie eterne. In un solo corpo, due anime: una reazionaria e una progressista, una fascista e una anarchica, una massimalista e una riformista, una che si confessa e una che bestemmia, una che va alla messa di mezzogiorno e l'altra che frequenza le riunioni massoniche di mezzanotte, una fedele e una che tradisce".

 

11 maggio 1860-13 febbraio 1861:

"Gelosi custodi di quest'onor militare"

"Sire, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, 
di cui la tristezza dei tempi ci à fatto spettatori afflitti ed indegnati;
noi sottoscritti, uffiziali della Guarnigione di Gaeta, veniamo, uniti in una ferma volontà,
rinnovare l'omaggio della nostra fede innanzi al vostro trono,
reso più venerabile e splendido dalla sventura.
Cingendo la spada, giurammo che la bandiera affidataci da V.M.
sarebbe difesa da noi, a costo del nostro sangue.
E' a questo giuramento che intendiamo restar fedeli;
quali che siano le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dei nostri capi,
sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e tutt'altro bene
per il successo o pei bisogni della causa comune.
Gelosi custodi di quest'onor militare che distingue solo il soldato dal bandito,
vogliamo mostrare a V.M. ed all'Europa intera
che se molti fra noi ànno col tradimento o viltà macchiato il nome dell'Armata Napolitana,
grande fu pure il numero di quelli che si sforzarono
di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità"
(Messaggio degli Ufficiali a Re Francesco II,
in risposta al termine ultimo del 31 dicembre 1860
dato dal Re a chi avesse voluto lasciare Gaeta)
 
Giugno 1860. 
 
Il Regno delle Due Sicilie è nel mezzo di un conflitto irreale: non è invaso da eserciti stranieri, non ha rotto le relazioni diplomatiche con le Potenze europee né con gli Stati italiani, e le navi da guerra nella baia di Napoli - con bandiere francese, inglese, austriaca e spagnola - sono tutte amiche; ma i napoletani hanno intuito che Torino, Parigi e Londra sono entrate di prepotenza nel loro mondo, che il Regno sta crollando sotto la pressione di eventi maturati altrove.
 
Torino: Cavour si mostra attendista verso gli sviluppi della "Spedizione dei Mille", ma davanti all'Europa dichiara di averla sempre avversata, e infine ordina all'Ammiraglio Persano di raggiungere Napoli, per "una guerra non dichiarata, sotto neutralità apparente, contro Francesco II, per modo che resti sempre al governo del Re, se questa fallisse, qualche appiglio per uscire d'inciampo"; è una strategia politica basata su una "guerra per procura", che sarà emulata più tardi da Umberto Rattazzi - la prima volta nel 1862, poi nel 1867 - nella speranza di conquistare Roma senza uno scontro frontale con la Francia (avvalendosi ancora dei servigi di Garibaldi, stavolta fallimentari).
 
Parigi: A Napoleone III è sfuggito tutto di mano; nulla si è avverato, di ciò che aveva contrattato a Plombières con Cavour, se non il possesso di Nizza e della Savoia, che adesso appaiono relativamente poca cosa davanti alla prospettiva di veder sorgere uno Stato gigantesco accanto ai confini francesi; ora non può che assistere gli eventi, e abbozzare di quando in quando delle proposte per arginarli, ma è invariabilmente frenato dal timore che ogni suo intervento si possa interpretare come un tentativo di piazzare un napoleonide sul trono di Napoli; e la sostanziale inazione produce la più perniciosa delle conseguenze, il sedimentarsi degli stati di fatto.
 
E poi c'è Londra, che richiede un discorso più articolato, risalente nel tempo, ma il cui distillato è nella posizione di metodo del Visconte Palmerston: "la Gran Bretagna non ha alleati, amici o nemici eterni, ma soltanto interessi permanenti, il perseguimento dei quali costituisce l'unico dovere imprescrittibile per ogni suddito inglese".
 
1799 - L'Ammiraglio Nelson, Duca di Bronte

L'incalzare della rivota giacobina e dell'invasione francese costringe i Sovrani di Napoli a ripiegare Palermo. Li scorta una flotta navale inglese, che si fermerà in Sicilia a presidio e tutela del territorio isolano.
 
Re Ferdinando ringrazierà il comandante della flotta - l'Ammiraglio Nelson - assegnandogli il titolo di Duca di Bronte, corredato da 7.000 ettari di un fertile e ricco territorio sulle pendici occidentali dell'Etna.
 
1806-1816 - Il decennio inglese
 
Quel che a Napoli è il "decennio francese" (per il regnare di Giuseppe Bonaparte prima, e di Gioacchino Murat poi) in Sicilia è il "decennio inglese" (per il ruolo centrale dell'Inghilterra nel tutelare e supervisionare i Borbone, ripiegati sull'Isola sotto l'incalzare dell'esercito napoleonico).
 
Un solo episodio è sufficiente a restituire la pervasività dell'influenza d'oltremanica: il comandante delle forze inglesi, Willima Bentinck, obbliga Re Ferdinando (all'epoca IV di Napoli e III di Sicilia) a concedere una Costituzione, a lasciare temporaneamente il potere al figlio Francesco (minacciando altrimenti di elevare al trono il nipotino Ferdinando, il figlio di Francesco, colui che sarebbe diventato Ferdinando II) e ad allontanare la Regina Maria Carolina (per le sue continue cospirazioni).
 
"A Palermo, sin dal primo giorno di esilio, i sovrani si sono messi all'opera per riconquistare Napoli" - scrive Domenico Notari - "La più febbrile, come al solito, è Maria Carolina [...]. Ferdinando, invece, è apatico, dopo più di quarant'anni di regno, e le tante avversità, si sente stanco e inutile: un vassallo tenuto in vita dagli interessi degli inglesi".
 
1816 - Su Malta sventola bandiera inglese
 
Malta apparteneva al Regno di Sicilia dal 1091, quando i Normanni l'avevano sottratta alla dominazione araba.
 
Nel 1530  i Cavalieri Ospitalieri la ricevevano in vitalizio, al prezzo simbolico di una fornitura annuale di un falco da caccia ammaestrato, e col Viceré di Sicilia che preservava il titolo onorifico di Conte di Malta.
 
Il dominio dei Cavalieri terminava nel 1798, all'arrivo di Napoleone, diretto in Egitto: vi rimase pochi giorni, saccheggiò i beni dell'Ordine, imbastì un'amministrazione di fedelissimi, e lasciò una guarnigione militare sul posto, prima di riprendere il viaggio.
 
I maltesi si ribellarono, supportati dall'Inghilterra e dal Regno di Sicilia, che con le loro flotte realizzarono un blocco navale, sino a obbligare i francesi alla resa, nel 1800.
 
Gli inglesi presero quindi possesso dell'isola, nonostante le rimostranze di Re Ferdinando, legittimo Sovrano.
 
Il Trattato di Parigi del 1814, e il successivo Congresso di Vienna del 1816, ufficializzarono lo stato di fatto: Malta diventata inglese, anche sul piano formale.
 
"Il punto dei miei diritti di sovranità su Malta deve cedere all'interesse maggiore, di cui oggi si tratta, qual è quello di riavere il mio Regno di Napoli" - si giustificherà Re Ferdinando, davanti alla sofferta perdita dell'isola (giacché a Vienna si era prospettata l'eventualità di assegnare Napoli e Sicilia a Gioacchino Murat, e il sacrificio di un piccolo presidio mediterraneo ben valeva la certezza del reintegro nel proprio reame di provenienza).
  
8 novembre 1830 - Il Re che regalava sigari
 
Sul trono delle Due Sicilie sale un vigoroso ventenne, dall'incedere sicuro e regale, con modi semplici e diretti, un viso quadrato e uno sguardo vivace che emanano energia, e poi una voce dalla marcata inflessione napoletana, perfetta per far valere le proprie ragioni: è Ferdinando II di Borbone, determinato nel rilanciare un Regno che ha perso parecchio smalto negli ultimi anni di Ferdinando I e nella breve esperienza di Francesco I.
 
"Non era affatto un poltrone come suo padre e suo nonno" - scrive Montanelli - ed era pronto a farsi carico di "tutte quelle responsabilità che suo padre e suo nonno avevano sempre cercato di evadere".
 
E' un Re a cui piace dare del "tu" e affibbiare nomignoli, che ama scendere tra il popolo, togliersi di bocca il il suo pregiato sigaro e regalarlo al primo lazzaro di passaggio.
 
Consapevole che un Sovrano debba operare per il bene esclusivo dei sudditi, senza tuttavia rinunciare alle sue prerogative - in accordo con l'assolutismo illuminato - Ferdinando II concepirà il suo Regno come una realtà "nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé" - nella sintesi di Benedetto Croce - e paradossalmente sarà proprio la tenace difesa dell'indipendenza a pregiudicare la stabilità dei suoi dominî.

1831 - L'isola dai 7 nomi
 
Una serie di scosse sismiche a elevata intensità, avvertite sino a Palermo, agitano il tratto di mare fra Sciacca e Pantelleria, nei primi giorni d'estate del 1831. Gli abitanti della zona e gli equipaggi delle navi raccontano di dense colonne di fumo e della fuoriuscita dalle acque di pietra pomice assieme a violenti zampilli di lava. Nei giorni a seguire i pescatori parlano di una zona in cui il mare ribolle di continuo. Fin quando il 12 luglio emerge - è il caso di dire - il risultato di tutto quel trambusto: un'isoletta alta poco più di 60 metri e un'estensione di circa 4,5 chilometri quadrati.
 
Gli inglesi la puntano all'istante, e non solo per la loro smania di collezionare isole intorno al mondo, ma perché la particolare posizione la rende base militare ideale. La Francia non può rimanere spettatrice e si attiva per far valere le sue presunte ragioni. E poi c'è il Regno delle Due Sicilie, a cui quel nuovo territorio dovrebbe appartenere "naturalmente" - alla lettera: per natura - considerata la sua localizzazione geografica.
 
Sull'isoletta sbarcano corvette di ogni provenienza - inglese, francese e duosiciliana - tutte con l'idea di piantare la loro bandiera, se non per primi, almeno sul punto più alto, per rivendicarne il possesso.
 
Quella che per i pescatori siciliani era semplicemente u' bummuluni - l'isola emersa da un'esplosione - conobbe così i nomi più vari, in ragione dei poteri che ne volvevano rivendicare un diritto di proprietà, reale o presunto: era "Graham" per gli inglesi, "Julie" per i francesi, "Ferdinandea" per i napoletani, ma si chiamò anche - in ragione delle contingenze - "Sciaccia", "Nertita", "Corrao" e "Hotham".
 
Intorno all'isola dai 7 nomi sorsero controversie diplomatiche del tutto sproporzionate rispetto alla sua oggettiva importanza, ma rivelatrici di un Inghilterra che percepiva le acque siciliane alla stregua di un suo protettorato, una Francia desiderosa di trasformarle in una propria zona d'influenza, e un Regno delle Due Sicilie determinato a liberarsi di ogni sudditanza. 
 
Sul finire dell'anno ci penso dio Nettuno a placare gli animi: u' bummuluni - "Graham", "Julie", "Ferdinandea" - tornò da dov'era venuta, nelle profondità del mare, e con essa si inabissarono anche tutte le rivendicazioni.

Rimasero però a galla i rancori verso il Regno borbonico, che di rimando, e non senza ragione, conservava immutata la sua diffidenza nei confronti di Francia e Inghilterra: se uno scoglio grezzo, avvolto da fumarole di zolfo e nebbia giallastra, stava per diventare  una causa di guerra, cosa mai sarebbe potuto accadere per un isola ben più importante, come la Sicilia?
 
1834 - Amici di tutti, nemici di nessuno
 
Nel mezzo della Prima Guerra Carlista - per la successione al trono di Spagna - Ferdinando II rifiuta di schierarsi a favore di Isabella II, appoggiata da Francia e Inghilterra, contro Carlo Borbone-Spagna.

Anzi, a dirla per bene, rifiuta di schierarsi e basta: non desidera immischiarsi in questioni che non lo riguardano direttamente, che non coinvolgono gli interessi del suo Regno, non domanda altro che poter condurre i suoi affari nel modo da lui, napoletano, ritenuto più consigliabile, vuol rimanere amico con tutti e non essere nemico di nessuno.
 
Francia e Inghilterra vivono il rifiuto come un atto di insubordinazione, e Londra probabilmente ci vede qualcosa di più: il desiderio delle Due Sicilie di affrancarsi da antiche subalternità, per elevarsi al rango - se non altro - di media Potenza.
  
1835 - Questo matrimonio non s'ha da fare
 
Nell'inverno del 1835 il fratello di Ferdinando II s'innamora dell'irlandese Penelope Smith, di lì a poco comunica a Corte che intende sposarla e ne riceve una diffida da Ferdinando in persona: il Re non approverà mai un'unione tra un esponente della dinastia e una borghese, e semmai il messaggio non fosse chiaro, un Decreto del 1836 stabilisce la nullità di ogni matrimonio borbonico sprovvisto della benedizione del Sovrano.
 
La coppia ripara in Scozia, e dà comunque seguito all'avversata unione matrimoniale sotto la protezione del Visconte di Palmerston (imparentato con la famiglia della ragazza) che sarà Primo Ministro del Regno Unito tra il 1859 e il 1865, all'apice dei sommovimenti guerreschi e rivoluzionari che agitavano la penisola italiana.
 
Dieci anni dopo - con Decreto del 27 febbraio 1847 - Ferdinando concederà il titolo personale di Duchessa di Villalta a Penelope Smith, nonché quello di Duca di Villaformosa al piccolo Francesco nato dal matrimonio, ma non perdonerà mai il fratello (che peraltro, dall'esilio, gli procurava ogni imbarazzo possibile, tra malaccorte iniziative finanziarie e continui contatti con esuli siciliani, che tenevano deste le principali Cancellerie europee).
 
Vicende strettamente familiari funzionarono da mezzo di propaganda per osteggiare ancora una volta i Borbone, per stigmatizzarne il dispotismo e la durezza, che nella vulgata arrivavano a invadere persino negli affari di cuore.
 
1838 - Profumo di zolfo
 
L'Inghilterra importava di tutto dalla Sicilia: vino, olio d'oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla; e poi lo zolfo, la risorsa mineraria piu valida dell'Isola, di facile estrazione e buona qualità, così richiesta da coprire i quattro quinti della domanda mondiale, e con un valore - all'epoca - paragonabile a quello che oggi ha il petrolio (trovando gli usi più vari: nella preparazione della soda artificiale, dell'acido solforico e della polvere da sparo).
 
"Se un interesse commerciale è di una qualunque rilevanza, è anche un interesse politico" - avrebbe affermato Disraeli nel 1842, davanti la Camera bassa, offrendo una chiave interpretativa per una nuova possibile guerra tra Napoli e Londra, quando la monarchia borbonica sottrasse il monopolio dell'estrazione alle imprese inglesi - che lo esercitavano a fronte di un canone irrisorio - per attribuirlo a delle compagnie francesi.
 
Il Regno Unito inviò una squadra navale da guerra nelle acque di Napoli e Sicilia, per catturare tutte le navi napoletane e dirottarle nel porto di Malta, subordinandone il rilascio alla risoluzione del contratto con le compagnie francesi e al pagamento dei danni.

Ferdinando II non indietreggiò di un passo: decretò l'armamento delle coste, l'istituzione di un campo militare presso Reggio Calabria, un vasto richiamo alle armi e l'immediato invio di dodicimila uomini in Sicilia, preparandosi lui stesso a partire, nel sospetto che gli inglesi potessero approfittare del casus belli per impadronirsi della Sicilia. "Io rimango capo della mia casa. Realizzerò il mio progetto anche se gli Inglesi minacciassero la mia capitale con la loro flotta".
 
La disputa commerciale era a un passo dal trasformarsi in una guerra. Le diplomazie europee operarono per scongiurarla: nessuno voleva che lo zolfo dell'Etna incendiasse l'intera penisola.
 
Ferdinando II - alla fine - si vide obbligato ad annullare il trattato con i francesi e a risarcire gli inglesi.
 
Ma i rapporti tra Napoli e Londra erano ormai in frantumi.

 1848 - Buon compleanno, Ferdinando
 
Il 12 gennaio 1848, nel giorno del trentottesimo compleanno di Re Ferdinando, la sua città natale, Palermo, dà il via a un moto rivoluzionario destinato a incendiare l'Europa intera. 
 
I siciliani coltivano velleità separatiste, rincuorati dagli inglesi, pronti a schierarsi al loro fianco, se la scelta cadrà su un membro di Casa Savoia.

Poi la svolta: il Papa si defila dal conflitto tra Piemonte e Austria; Re Ferdinando richiama l'esercito appena giunto sulle rive del Po, scioglie il Parlamento e la Guardia Nazionale, forma un nuovo Governo, proclama lo stato d'assedio e si riappropria di Napoli; e la Sardegna sta prendendo troppe sberle dagli austriaci, per immaginare di entrare in contrasto anche con i Borbone.

La Sicilia finisce nelle mire di Francia e Inghilterra, entrambe attratte dall'idea di trasformarla in un proprio avamposto per il controllo del Mediterraneo. La Francia è favorevole a una repubblica, in vista della formazione di una Lega di Stati Sovrani affrancanti dal protettorato austriaco. L'Inghilterra sponsorizza un regime costituzionale e un ampio ventaglio di autonomie, nella prospettiva di accrescere la sua influenza economica e politica.

Lo stallo istituzionale volge a favore di Re Ferdinando, il legittimo Sovrano, che avvia la riconquista: prima Messina, poi Catania e infine Palermo tornano sotto il dominio borbonico, a seguito di una campagna militare che varrà a Ferdinando l'appellativo di "Re Bomba" (per il cannoneggiamento ininterrotto sulla città di Messina).
 
La delusione dei siciliani per lo sviluppo degli eventi è seconda solo alla rabbia per l'ipocrisia degli inglesi.
 
"Il gabinetto di Sua Maestà non aveva mai mancato di consigliarvi un accomodamento con il vostro legittimo Sovrano per evitare la triste situazione alla quale la vostra ostinazione vi ha condannato".
 
Lord Palmerston giustifica così il voltafaccia inglese, ma il suo doppio gioco è manifesto nella nota del settembre del 1849, indirizzata al Ministro degli Esteri napoletano: la rivoluzione siciliana - nell'opinione inglese - era stata provocata "dal malcontento generale, antico, radicato, causato dagli abusi del governo borbonico" e se Ferdinando II avesse perseverato nella sua "politica di oppressione", il Regno Unito non avrebbe assistito passivamente a una nuova crisi tra il governo di Napoli e il popolo siciliano.
   
1851 - Nientemeno che la negazione di Dio
 
Il 13 novembre 1850 il "Giornale Ufficiale delle Due Sicilie" informava dell'arrivo a Napoli "[dell'] onorevolissimo Guglielmo Edoardo Gladstone, consigliere di Stato, membro del Parlamento britannico, con moglie, figlia, cameriera e domestico".

La visita aveva uno scopo squisitamente personale - agevolare la convalescenza della figlia Mary - e la famiglia Gladstone si trattenne a Napoli sino al febbraio del 1851. 
 
L'11 luglio iniziò a circolare a Londra il testo di una lettera - datata 7 aprile - di Lord Gladstone al Conte di Aberdeen (già Segretario degli Affari Esteri e futuro Primo Ministro); a stretto giro ne seguì una seconda, e le due lettere formarono un pamphlet dal sorprendete successo editoriale, oggetto di un dibattimento alla Camera dei Comuni inglese, e da qui spedito ai vari Governi europei; era scritto con un'apprezzabile abilità retorica, in una prosa vibrante, che oscurava la superficialità del metodo d'indagine (rivelata dalla ricorrenza dei "si dice", "mi è stato riferito", "a quanto pare"); vi si denunciava un diffuso degrado politico e sociale della realtà napoletana, sino a definire il Regno borbonico "la negazione di Dio eretta a sistema di governo" (passata alla storia come una metafora dello stesso Gladstone, ma da lui attribuita a degli ignoti napoletani).
 
Cos'era accaduto? Perché un soggiorno privato si era trasformato in un'inchiesta sulla politica interna delle Due Sicilie? Quando e come era avvenuto lo slittamento di obiettivi?

Gladstone era arrivato Napoli in un periodo particolare.

Dopo i fatti del '48, e in particolare del 15 maggio, una serie di arresti eccellenti aveva portato a istituire il cosiddetto "processo della Società dell'Unità Italiana". L'ambasciatore inglese Temple - fratello del Visconte di Palmerston - ne era piuttosto preoccupato, perché vi erano coinvolte delle figure di vedute liberali che negli anni avevano sviluppato una certa familiarità con il corpo diplomatico d'oltremanica. L'ambasciatore seguiva personalmente pressoché ogni seduta, avendo anche ottenuto il permesso di sedere accanto al Procuratore Generale, e la sua presenza era divenuta così abituale da permettergli di interrompere il dibattimento ogni volta che non comprendeva un'espressione italiana.

L'ovvia frequentazione tra Temple e Gladstone portò lo stesso Gladstone a divenire uno spettatore del processo, e il suo interesse si appuntò in particolare sulle condizioni di vita nelle carceri napoletane. Forse fu un caso, o forse no, ma la partenza di Gladstone da Napoli avvenne poco dopo l'emissione della sentenza (su quarantadue imputati, otto furono assolti, due - tra cui Settembrini - condannati a morte, altri due all'ergastolo e i restanti - tra cui Poerio - a numerosi anni di carcere duro).
 
La risposta formale delle Due Sicilie arrivò il 25 agosto, col libretto "Rassegna degli errori e delle fallacie pubblicate dal sig. Glasdstone in due sue lettere indirizzate al Conte Aberdeen sui processi politici nel Reame delle Due Sicilie" - un testo anonimo, ma con ogni probabilità  redatto dal Giudice della Gran Corte Criminale - dalla marcata impronta istituzionale, senza lasciar spazio alla retorica e all'attacco personale.
 
Fu una replica dagli effetti deboli, se valutati secondo la metrica delle reazioni politiche, ma di sicuro non lasciò indifferente Gladstone, che nel gennaio 1852 licenziò un nuovo scritto - "An examination of the official reply of the Napolitan Government", a tutti gli effetti una terza lettera - in cui emendò parecchi punti, anche di notevole rilevanza: ammise che la tortura di Luigi Settembrini era solo una voce senza riscontro, priva di fondamento; corresse le affermazioni a proposito della "pena de' ferri", l'avere cioè sostenuto che dei rei fossero stati incatenati senza aver subito la condanna al carcere duro, così come ritirò l'insinuazione che tale pena fosse stata istituita appositamente per i condannati di quel processo; ritrattò l'affermazione secondo cui molti imputati assolti fossero ancora detenuti nonostante il proscioglimento; si schernì riguardo al numero dei prigionieri politici, precisando che la stima di 20.000 fosse solo una credenza comune (da lui ritenuta plausibile).
 
Nel tempo, le analisi di merito dimostrarono che gran parte delle accuse non reggevano, che le due lettere originarie contenevano molte più imprecisioni e informazioni errate di quanto l'autore non fosse disposto ad ammettere, addirittura in una misura tale che - se si ragionasse coi parametri del diritto odierno - vi si potrebbe ravvisare il reato di diffamazione.
 
Ma all'epoca non si andò troppo di fino, e il giudizio sferzante di Gladstone colpì non solo un sistema di governo e un equilibrio di potere,  ma l'avventura di un'intera dinastia, anche perché a parlare non era più un esule napoletano, bensì un eminente politico inglese, e la sua denuncia ebbe un ruolo capitale nel sensibilizzare l'opinione pubblica europea a favore della causa degli unitari italiani, segnando l'avvio di una martellante propaganda anti-borbonica che negli anni avrebbe portato a ingrossare le file dei volontari disposti a concedere, se non  il proprio braccio, perlomeno un finanziamento a ogni iniziativa per destabilizzare le Due Sicilie.
 
Si dice che il tempo è galantuomo, ma le lettere di Gladstone sembra siano riuscite a sottrarsi al giudizio di questo gentleman: diffusero un ritratto a tinte fosche dei Borboni di Napoli tra le generazioni dell'epoca, e riuscirono a tramandarlo anche alle generazioni future, sino ai giorni nostri, dove l'aggettivo "borbonico" cade inesorabilmente su tutto ciò che appare arretrato, sottosviluppato o corrotto, farraginoso, inefficiente e indolente, spietato e crudele, contrario al progresso, alla libertà, allo spirito del mondo civilizzato.
 
"Peggio dei nazisti, terrificanti erano" - poteva ancora sbeffeggiarli Roberto Benigni, al Festival di Sanremo 2011 - "Bastava dire una cosa diversa da quella che pensava un altro, e subito ti buttavano in galera".
 
1853 - Amici di tutti, nemici di nessuno... again
 
La Russia aggredisce la Turchia, a seguito del successo diplomatico della Francia in una disputa sul controllo dei luoghi santi della cristianità in territorio ottomano. La Gran Bretagna sposa la causa francese, per il timore di un'espansione dell'Impero russo verso il Mediterraneo, e nel 1854 le due Potenze gli dichiarano guerra, con l'appoggio politico dell'Austria. Il Regno di Sardegna  invia un contingente militare a sostegno dell'esercito anglo-francese, vuoi per ritagliarsi uno spazio di visibilità, vuoi per il timore di vedere austriaci e francesi affratellati.
 
E il Regno delle Due Sicilie? 
 
Ferdinando II continuava a dichiararsi amico di tutti e nemico di nessuno, pur simpatizzando per la Russia più di quanto non si addicesse a un Sovrano neutrale: negò alle Potenze occidentali l'approdo al porto di Brindisi, e non permise alle navi che transitavano tra Marsiglia e i Dardanelli di utilizzare Messina come stazione di rifornimento; si rifiutò di contrastare i pirati greci che mettevano a dura prova la vita delle navi inglesi e francesi; vietò l'esportazione di bovini per il sostentamento dell'esercito, sino a far dire Lord Palmerston che il Regno Borbonico aveva dimostrato "sfrontatamente al sua ostilità alla Francia e all'Inghilterra".
 
Quando nel 1856 si aprì il Congresso di Parigi - col blocco occidentale vittorioso - il Ministro degli Esteri sbatté la porta in faccia alla delegazione napoletana: "il comportamento delle Due Sicilie negli Affari d'Oriente non può consentirgli di far udire la propria voce nelle negoziazioni rivolte a stabilire i termini della pace".
 
Aveva invece titolo a parlare il Regno di Sardegna, nella persona di Camillo Benso Conte di Cavour, che non solo pose la questione italiana all'attenzione internazionale, ma approfittò pure del clima di generale ostilità verso le Due Sicilie per accreditarsi come unico interlocutore credibile della penisola.   
 
1856 - Naples: bye-bye, au revoir 
 
La tensione ormai conclamata - tra Napoli da un lato e Londra e Parigi dall'altro - ha il suo epilogo nel ritiro degli ambasciatori.
 
Londra non usava perifrasi: il Governo della Regina non reputava più conveniente tenere rapporti con uno Stato che si ostina "a non volersi togliere da un contegno condannato da tutte le nazioni civili". Più sfumata la posizione di Parigi, che esprimeva il proprio rincrescimento per l'insensibilità della Monarchia napoletana "alle sollecitazioni leali fatte dalla Francia nell'interesse generale dell'Europa".
 
Entrambe le Potenze si dichiaravano contrarie ad atti apertamente ostili - "non volendo fornire pretesti a quanti cercassero di far crollare il trono delle Due Sicilie" - e si dicevano pronte "a riannodare l'antica amicizia con la monarchia di Ferdinando II, non appena questi si fosse mostrato disposto a tutelare i suoi veri interessi".
 
Ma il Re delle Due Sicilie alzava un muro: ribadiva che nessuno aveva il diritto di intervenire negli affari del Regno, e avrebbe anzi imputato all'atteggiamento di Francia e Inghilterra - segnatamente alle accuse lanciate durante il Congresso di Parigi - l'insorgere di un qualsiasi futuro tentativo rivoluzionario.
 
1857 - C'erano un napoletano, un piroscafo sardo e due macchinisti inglesi...

"Se io fossi sicuro di essere seguito da un numero ragguardevole presentandomi con una bandiera sulla scena d'azione del mio paese soltanto con una piccola probabilità di successo - dubitereste voi che io mi lancerei con gioia febbrile al conseguimento di quell’idea di tutta la vita, abbenchè mi si presentasse, per compenso, il martirio più atroce? Combattete - io sono con voi - ma io non dirò agl'italiani: sorgete! per far ridere la canaglia".
 
Con queste parole Garibaldi declinava la proposta di una spedizione in Sicilia, avanzatagli da Jessie White, una corrispondente nella penisola del Daily News, la "Giovanna d'Arco della causa italiana" nell'immagine di Mazzini.
 
L'iniziativa insurrezionale trovava comunque una via: sul finire di giugno un gruppetto di rivoluzionari capitanati da Carlo Pisacane sbarcava a Ponza, liberava oltre trecento detenuti - solo in minima parte detenuti politici, e per la maggioranza delinquenti comuni - per poi dirigersi verso Sapri, nella convinzione di trovare l'appoggio delle masse popolari.
 
La realtà si rivelò giusto un filo diversa: a bloccarli saranno propri dei contadini armati di forconi.  
 
Le notizie più interessanti arrivarono dopo, a ribellione sedata: la spedizione era partita da Genova, il piroscafo era il "Cagliari", della Rubattino, di cui Pisacane si era impossessato con la benevolenza della stessa società di navigazione, e l'equipaggio accoglieva due macchinisti inglesi.

Cavour protestò vibratamente per riavere indietro il "Cagliari" (catturato dalle navi napoletane) così come l'Inghilterra pretese il rilascio dei macchinisti (inconsapevolmente invischiati nella faccenda, nella versione di Londra).
 
Carlo Pisacane era già deceduto durante la fuga a Sanza (aggredito ancora una volta dalla popolazione); i superstiti, inizialmente condannati a morte, furono graziati dal Re (con la commutazione della pena capitale in ergastolo);  i due inglesi furono dichiarati fuori causa per infermità mentale (!) e il "Cagliari" tornò al suo armatore.
 
Garibaldi c'aveva visto lungo - "non dirò agl'italiani: sorgete! per far ridere la canaglia" - e tuttavia, per quanto fallimentare, nella Spedizione di Sapri riecheggiano tutti quei quei fattori strutturali - l'ostilità inglese, l'ambiguità piemontese - che in altro contesto, sotto contingenze più favorevoli, avrebbe avuto un esito spettacolarmente diverso. 
 
1859 - A Suez, attraverso un canale

Il 17 novembre 1869 viene inaugurato il Canale di Suez, dopo dieci anni di lavori: un budello artificiale di 193 chilometri, da Porto Said (sul Mar Mediterraneo) sino a Suez  (sul Mar Rosso) che collega l'Europa all'Asia in sicurezza e rapidità, elimina la circumnavigazione dell'Africa sulla rotta del Capo di Buona Speranza, e riporta l'area mediterranea al centro dei traffici economici mondiali.  
 
L'idea risaliva niente meno che a Napoleone Bonaparte, e fu raccolta da Napoleone III per acquisire il controllo su un bacino di cui si intravedevano tutte le potenzialità commerciali verso i mercati dell'Estremo Oriente e del sud-est asiatico; ma l'Inghilterra non poteva certo rimanere una semplice spettatrice, doveva muoversi per tempo, e assecondare il Piemonte nella sua espansione territoriale era la via più efficace per garantirsi una presa su una zona geografica - la parte meridionale della penisola - destinata a diventare strategica (e comunque da sottrarre alla sfera d'influenza transalpina).
 
22 maggio 1859 - Fece scorrere parecchie lacrime, poche ne saranno versate per lui

Re Ferdinando II abdica prematuramente dalla vita terrena, depone scettro e corona davanti alle cose del mondo.
 
"Finalmente è stato chiamato dal Suo trono terreno dinnanzi al Tribunale cui dovrà rendere severo conto del suo governo" - scriveva il "Times" di Londra - "Durante la sua vita fece scorrere parecchie lacrime, poche ne saranno sparse per la sua morte" (senza sapere che di lì a poco ne sarebbero state versate in abbondanza, quando la Camorra diventò padrona di Napoli e il brigantaggio infuriò nelle province).

Se in linea di principio le monarchie ereditarie beneficiano della più stretta continuità dell'assetto di potere, nella transizione da Sovrano all'altro, il prematuro passaggio di consegne a Francesco II genera di fatto un vuoto d'aria.

Francia e Inghilterra provano a riallacciare le relazioni diplomatiche; l'Austria vuol preservare l'antica alleanza, rinsaldata dal matrimonio tra Francesco e Maria Sofia; Cavour propone un'intesa, uno schieramento al suo fianco proprio contro gli austriaci, in cambio della garanzia dell'integrità territoriale del Regno, inclusa la Sicilia.

Francesco sulle prime fa muro, come il padre, e preserva una politica intransigente, senza però averne la forza, il carattere e la reputazione per sostenerla sino in fondo.
 
"Un seminarista vestito da Generale" - così il Principe di Salina vede Francesco II, nel romanzo "Il Gattopardo", e probabilmente è proprio così che lo percepivano realmente i suoi contemporanei, da Caserta a Londra, passando pe Torino e Parigi. 
 
"Ma se l'Europa non lo vuole, perché dobbiamo farci ammazzare per lui?" - protestava un alto militare borbonico, in quel agosto bollente del 1860.
 
 
"Quest'isola non rappresenta per l'Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico,
da preservare ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia
che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni militari e politiche
che il Regno Unito intende intraprendere nell'Italia e nel Mediterraneo"
(Giovanni Aceto, in "De la Sicile et de ses rapports avec l'Angleterre", 1827)

Tanto altro si potrebbe aggiungere - a iniziare dalla contrapposizione tra il cattolicesimo dei Borbone e gli inglesi anglicani - ma tanto basta a realizzare che tutto era pronto, che vi erano premesse in abbondanza per sferrare un colpo letale alle Due Sicilie, da questioni diplomatiche e di alta politica sino ad affari di bassa cucina, passando per i fondamentali risvolti economici. 
 
Ora serviva solo un'occasione per aprirsi una via verso Napoli, e la si trovò in una Sicilia in fermento come l'acqua in una pentola sotto una fiamma sempre accesa per tenere una lieve ma costante ebollizione: un aumento d'intensità - anche minimo, al momento opportuno - sarebbe stato sufficiente a farla strabordare; e il momento arrivò quando i mazziniani persuasero Garibaldi ad abbandonare ogni velleità di un'inverosimile riconquista di Nizza - la sua città natale, ceduta da Cavour alla Francia - per indirizzare le forze verso un luogo che non aspettava altro per esplodere.

La cosiddetta "Spedizione dei Mille" operò sotto la più ampia egida britannica: dalle più ambigue argomentazioni diplomatiche, a iniziare dal principio double face di non-intervento - "non-intervention est un mot diplomatique et énigmatique qui signifie a peu près la même chose qu'intervention" aveva già annotato Talleyrand -  sino alle manovre operative per agevolare lo sbarco a Marsala e il passaggio dello Stretto di Messina, come lo stesso Garibaldi riconoscerà nelle sue "Memorie": "io, beniamino di cotesti signori degli oceani, fui per la centesima volta il loro protetto".
 
D'accordo, Garibaldi è sul territorio delle Due Sicilie, ma l'esercito borbonico dov'è?
 
La forza militare delle Due Sicilie contava 60.000 uomini in tempo di pace e poteva mobilitarne sino a 100.000 in caso di guerra. Era la più imponente dell'intera penisola, da sola superava quella di tutti gli altri Stati messi assieme e assorbiva 18 dei 30 milioni di ducati del bilancio Regno. I suoi soldati - per quanto bersaglio di critiche ingenerose e pretestuose - avevano sempre compiuto il loro dovere. E ora dov'erano? 
 
"Ma quello che non capirò mai" - scriveva d'Azeglio ai primi di giugno - "è come il Re, con 24 fregate a vapore, non abbia potuto guardare tre o quattrocento miglia di costa. Una fregata ogni, ogni 25 miglia, faceva dalle 12 alle 16 fregate e mai più bella occasione si presentò di servire meglio il proprio sovrano".
 
E ancora: "nessuno più di me stima Garibaldi, ma quando s'è vinta un'armata di 60 mila soldati, conquistando un regno di 6 milioni di abitanti, colla perdita di 8 uomini, si dovrebbe pensare che c'è sotto qualcosa di non ordinario".
 
"Viviamo all'epoca dei miracoli", scriverà il solito Massimo d'Azeglio all'Ammiraglio Persano: miracolosa è la cavalcata dei "Mille", miracolosa l'invincibilità del leader.
 
Il primo miracolo avviene già a Calatafimi - il 15 maggio 1860 - quando i "Mille"  e un centinaio di rivoluzionari siciliani assaltano un monte chiamato Pianto dei Romani, su cui sono attestati oltre duemila borbonici: "ma subito mi tremò il core" - scrive Giuseppe Cesare Abba nelle sue "Notarelle da Quarto al Volturno" - "credei di indovinare che al Generale [Garibaldi] paresse impossibile il vincere, e cercasse di morire [...]. Ci pareva miracolo aver vinto".
 
Calatafimi non fu una tragedia per i borbonici e non fu un trionfo per i garibaldini, e si può persino dire che rappresentò una battaglia di poco conto in termini propriamente militari; ma si caricò di significati da tregenda nell'immaginario di chi vi prese parte, quasi che l'esito dell'intera "Spedizione" dipendesse da un inizio favorevole. Il mito racconta della spavalda risposta di Garibaldi - "qui si fa l'Italia o si muore" - a un Bixio ormai disperato che suggeriva il ritiro delle truppe, durante l'impervia ascesa del colle. La vera risposta - secondo il garibaldino Bandi, per vero da lui non udita - sarebbe stata decisamente meno eroica e molto più realistica: "ma dove ritirarci?".
 
Di sicuro Calatafimi gettò nel panico i Generali borbonici, ed è nella natura del panico l'essere sproporzionato al pericolo incombente, come testimonia la concitata lettera del Generale Landi al Principe di Castelcicala, da cui traspare tutta l'incapacità di interpretare la realtà della situazione (che non era affatto compromessa, visto che le forze garibaldine erano ancora ridotte e mal organizzate).
 
"Soccorso - pronto soccorso. La metà della mia colonna è uscita di scoverta [in ricognizione] e giunta a portata di far fuoco si è attaccata coi rivoltosi, i quali sbucarono a migliaia da per ogni dove. Il fuoco fu nutrito, ma le masse di siciliani uniti alla truppa italiana sono d'immenso numero... la mia colonna ha dovuto col fuoco di ritirata ripiegare sopra Calatafimi, dove mi trovo sulla difensiva, giacché i ribelli in numero immenso fanno mostra di volermi aggredire... le masse sono enormi ed ostinate a combattere.., qui la mia colonna trovasi circondata da nemici senza fine, i quali hanno pure assalito i mulini presa la farina che doveva panizzarsi [servire a preparare il pane] per la truppa".
 
Il 4 giugno 1860 il Generale Garibaldi teneva a battesimo il suo "Esercito siciliano", qualificandolo bizzarramente come 15° Divisione dell'Esercito sardo (!). I "Mille" si erano dimezzati, per le perdite sui campi di battaglia, ma i rinforzi arrivavano a getto continuo: i primi furono quelli della "Spedizione Agnetta", sbarcata a Marsala l'1 giugno; seguirono i 2.500 uomini al comando di Giacomo Medici; altri 800 volontari partirono da Genova a inizio luglio; le file si ingrossarono nella Battaglia di Milazzo, e il flusso proseguì anche una volta sbarcati in Calabria, e l'esercito, da "siciliano", diventò "meridionale", arrivando a contare un numero di arruolati variabile - secondo i criteri di censimento - tra le 30.000 e le 50.000 unità.
 
La loro sorte - una volta conquiste le Due Sicilie - fu una storia profetica, paradigmatica, del modus operandi della nostra Italia. I volontari in Camicia rossa erano uomini imbevuti di uno "spontaneo entusiasmo patriottico" -  nell'interpretazione più benevola, del Generale Manfredo Fanti, tra i fondatori del Regio Esercito -  e quindi, sottinteso, utili solo in specifiche fasi di emergenza; nella visione più brutale erano rimasti ciò che erano sempre stati - gentaglia sovversiva e rivoluzionaria - non solo da tenere fuori dai ranghi dell'Esercito italiano - nel timore di una politicizzazione delle forze armate in antagonismo al potere regio - ma da sottoporre pure a  un sistematico controllo poliziesco. Si tentò una via di mezzo - il loro isolamento in un "corpo separato dall'esercito regolare", la cui "durata della ferma per la bassa forza sarà di due anni" - ma già nel marzo del 1862 dei garibaldini non vi era più traccia, in quella nazione che pure si era formata con il loro contributo decisivo. Per lavarsi la coscienza, e togliersi d'impaccio, si tentò di "retribuire il garibaldinismo" con un uso generoso di onorificenze - e persino con una pensione per i cosiddetti "Mille di Marsala" - a titolo di compenso per la mancata integrazione nell'esercito.
 
Questa massa di Camice rosse ancora non lo sa - non può saperlo, forse neppure immaginarlo - ma sta andando incontro al più ingrato dei destini. Loro - le Camice rosse - sul momento sanno solo di marciare a gran ritmo verso Napoli, senza incontrare resistenza, ingrossandosi sempre più a ogni miglio.
 
E a Napoli - intanto - i Generali borbonici si dicevano conviti ch'era meglio rinunciare alla difesa del Regno a Salerno - e meno che mai tentarla dentro la capitale - per realizzarla al meglio tra Capua e Gaeta. Solo il vecchio Carrascosa parlò apertis verbis a Re Francesco: "se Vostra Maestà mette il piede fuori di Napoli, non vi tornerà più".
 
"Il futuro storico dovrà bene fermarsi su questo punto, per determinare tutte le responsabilità militari di quei giorni" - scrive il de Cesare - "Dico tutte, perché non è giustizia chiamar capro espiatorio dello sfacelo il solo Pianell, come fecero gli scrittori legittimisti. I consigli dei militari erano anzi più inconcludenti e contradittorii di quelli dei ministri; lo spirito di corpo si era affievolito nei capi più che nei soldati; e i capi seguitavano a denigrarsi ed a diffidare l'un dell'altro, ed erano venuti quasi tutti in sospetto al Re. [...]. Oggi però, spente le ire, si può bene affermare che né i comandanti dei forti ebbero mai ordine di bombardare Napoli, come generalmente si temeva e forse da taluni si crede ancora; né l'idea di tentare la difesa a Napoli fu messa innanzi con precisione e coraggio. Fu davvero desolante lo spettacolo, che presentavano in quei giorni i capi dell'esercito".
 
Si è spesso presentato l'esercito napoletano come fatto da Soldati-leoni, Ufficiali-asini e Generali senza testa.

"Eccelle', guardate quanti siamo. E dobbiamo scappare accussì?" - si lagnò un soldato col Generale Lanza, davanti alla decisione di far ritirare da Palermo un esercito di ventimila uomini, per sentirsi rispondere dall'Eccellenza "statti zitto, 'mbriacone".

In Calabria, i soldati fucilarono il Generale Briganti, quando furono solo punti dal dubbio che stava per tradire.
 
Ma da chi era realmente composto questo esercito, di là di singoli episodi scenografici? Quale spirito di corpo lo teneva unito? Quali imprese aveva compiuto? A cosa era stato allenato? Raffale de Cesare ne traccia uno schizzo in chiaro-scuro, a luci e ombre.

"Esercito essenzialmente dinastico, che prima del 1848 quasi non aveva spirito di corpo. Dopo il 1848, pur continuando tra gli ufficiali superiori le reciproche iperboliche denigrazioni, onde apparivano peggiori della lor fama, un certo spirito di corpo cominciò a manifestarsi, benché vi entrassero dalle leve contadini e popolani, per i quali nulla rappresentavano i bisogni morali, tutto i materiali.
 
Era venuto in superbia per aver soffocata la rivoluzione il 15 maggio, e poi riconquistata la Sicilia e domata la Calabria; perché sentiva di essere l'unico sostegno della dinastia; perché vedeva tutte le cure del Re ad esso rivolte.
 
La stessa animosità pubblica, da cui si sentiva colpito, contribuiva non poco a stringerlo più dappresso al trono. Inoltre, l'esser cresciuto di numero lo faceva credere più valoroso. Esercito dinastico, anzi personale di Ferdinando II, esso temeva il Re, disprezzava il proprio paese e odiava la libertà.
 
La rozzezza e la spavalderia prevalevano nei soldati e nei capi, ma soprattutto nei capi. Il Re era il capitano generale, cioè il capo supremo dell'esercito, ma più che a ravvivarne lo spirito, studiava di renderselo, devoto.
 
Ferdinando II non si diede mai pensiero dell'eventualità di una guerra, perché si credeva sicuro in casa sua. Egli non si preoccupava che dei moti interni e per reprimere questi, l'esercito soverchiava; e c'erano poi gli svizzeri. Nonostante però il numero esagerato dell'esercito e la devota soggezione di questo, parrà strano, ma Ferdinando II non aveva vera fiducia che nei reggimenti svizzeri.
 
Questi erano quattro, raccolti nei Cantoni principalmente cattolici. Entrarono nel Regno quando ne uscirono gli austriaci, cioè nel 1825, Gli svizzeri furono dunque destinati a sostituire gli austriaci, cioè ad essere il più sicuro puntello del trono e della dinastia. E l'origine loro più politica che militare, faceva di essi una milizia affatto dinastica, anzi la più dinastica di tutto l'esercito, e quindi più favorita, essi rappresentavano la vera forza della dinastia, la quale cadde quando gli svizzeri non ci furono più. Essi si trovavano sempre in prima linea, allorché c'era da menare le mani. Così il 15 maggio nelle vie di Napoli; così in Sicilia nello stesso anno e nel successivo.
 
Nella stessa misura, colla quale in lui si aumentavano gli scrupoli religiosi, Ferdinando II voleva che crescessero le pratiche di devozione nel suo esercito. Ogni arma aveva il suo santo patrono, e nelle città di presidio, per la festa del protettore, gli ufficiali in alta tenuta con lunghe candele accese in mano, seguivano le processioni e dietro loro, una o due compagnie di soldati con musica.
 
La disciplina nell'esercito napoletano veniva mantenuta con pene severissime, persino crudeli, le quali aumentavano la paura dei soldati verso la persona del Re. Non il sentimento del dovere, né l'onore della divisa rattenevano il soldato dalle indisciplinatezze o dalle cattive azioni, ma la bacchetta e le legnate, pene che raggiungevano l'orrore di una flagellazione.
 
Più che una raccolta di uomini d'arme, avidi di gloria e di avventure, l'esercito poteva dirsi una raccolta di frati armati, desiderosi di quieto vivere. Le imprese contro il nemico interno li trovavano disposti a menar le mani; ma se il nemico veniva di fuori, era un'altra cosa.
 
Alla mancanza di ogni vera educazione militare si aggiungeva la meschinità del soldo. L'esercito borbonico era il peggio pagato degli eserciti italiani. Mal retribuiti e carichi di debiti, ufficiali e sottufficiali avevano quasi tutti famiglia, che si rimorchiavano appresso nel cambio delle guarnigioni, onde, movendosi un reggimento, pareva che si movesse una tribù.
 
Altra piaga dell'esercito era la clientela. Ufficiali superiori avevano ufficiali inferiori da proteggere; e questi, i sottufficiali; e i sottufficiali, alla loro volta, i soldati; catena di dipendenze, cause ed effetti ad un tempo, d'una situazione moralmente anormale, che spegneva ogni sana energia e manteneva una specie di malessere quasi morboso fra gli ufficiali, e nei soldati un'indomabile disgusto per il mestiere delle armi: disgusto o avversione divisa dal paese, il quale non si era potuto abituare alle leve che rappresentavano un pubblico lutto.
 
Per quanto il partito liberale si adoperasse a far proseliti nell'esercito e diffondervi le idee di nazionalità e di patria, non vi riuscì finché visse Ferdinando II. Fu in appresso, quando, lui morto cominciò a sfasciarsi tutto l'edifizio suo, che la propaganda liberale si fece strada nell'esercito, ma aiutata da due circostanze capitali: la partenza degli Svizzeri e l'atto sovrano del 25 giugno 1860".
 
La partenza degli Svizzeri fu un'oggettiva riduzione di potenzialità militare, ma l'Atto Sovrano del 25 giugno 1860 rappresentò una vera e propria destabilizzazione a livello di pensiero, di spirito di appartenenza. 
 
Per Re Francesco c'era una sola azione ragionevole da intraprendere, davanti a una masnada di invasori sul suo territorio: mettersi a capo dell'esercito e andare incontro a Garibaldi e alle sue Camice rosse, buttarli tutti a mare, e  fargli fare un bagno che dovevano ricordarselo per il resto della vita.
 
E cosa fa - invece - il Re di Napoli? Chiede la mediazione diplomatica di Napoleone, che si sfila signorilmente: l'unica via di salvezza - sostiene l'Imperatore francese -  è tentare un'alleanza col Piemonte, un gentlemen agreement tra Case reali, un suggerimento che presumeva - assurdamente - l'onestà (intellettuale e non solo) della classe politica piemontese rispetto alla spedizione garibaldina, la sua terzietà rispetto agli eventi.
 
Eppure è proprio questo il consiglio di Napoleone III - alleanza col Piemonte sabaudo - il che però presumeva una virata istantanea da una monarchia assoluta a una costituzionale: con l'Atto Sovrano del 26 giugno 1860, Francesco II concede la Costituzione, rinnova gli assetti di potere (in cui troverà spazio Don Liborio Romano) e cambia addirittura la bandiera del Regno.

Fu una scelta suicida, fuori tempo, che non gli valse le simpatie dei liberali e mandò in confusione i fedeli alla monarchia. L'esercito - in particolare - si trovò totalmente spiazzato: quando ai soldati veniva chiesto di gridare "Viva la Costituzione!", loro, di rimando, rispondevano "Viva il Re!".
 
Neanche troppo alla lunga venne così fuori una massa di imbelli e profittatori, che quando fu chiaro chi fosse il vincitore "si dichiararono partigiani del nuovo ordine di cose e si sarebbero dichiarati anche sans culottes o maomettani se vi avessero trovato tornaconto" - scriverà il cappellano borbonico Giuseppe Buttà.
 
Perché sudarsi galloni e promozioni, se tutto poteva aversi semplicemente con un cambio di casacca e di padrone, per di più giustificato dalla più nobile delle motivazioni? Perché impegnarsi in una partita già in mano all'avversario, soprattutto se a reggere il banco era Cavour, il maggiore statista dell'epoca? Perché combattere, se tutto era già scritto, e l'alternativa era così allettante?
  
Si dice spesso che la Storia non si fa coi "se" e coi "ma", e lo si ripete ossessivamente sino a ritenere inutile o insignificante soffermarsi sui "se" e sui "ma". Certo, ciò è insignificante rispetto ai fatti, che nessun "se" e nessun "ma" potrà mai cancellare né modificare né ritoccare. I fatti non ammettono appello. Ma altro è il giudizio sui fatti e l'immaginazione di scenari alternativi ai fatti compiuti, che forma un'intero filone di indagine storica, le cosiddette ucronie.
 
E  di fronte a tradimenti e cospirazioni, a sotterfugi e manipolazioni, anche il più raffinato degli storici non può far a meno di dare voce al pensiero dell'uomo della strada: l'esercito delle Due Sicilie avrebbe agito allo stesso modo nei confronti di Re Ferdinando?

 

21 ottobre 1860: Italia e Vittorio Emanuele

"Io non ho altra ambizione che quella di essere il primo soldato dell'indipendenza italiana"
(Re Vittorio Emanuele II di Savoia)
 
Venerdì 11 maggio 1860, a sbarco ultimato, l'avvocato di Ribera - "vero organizzatore e reggitore dell'invidiato Governo del '60", nel giudizio di Garibaldi - sollecita la definizione di una base legale per l'azione militare in Sicilia. "Si cominciò a parlare di Dittatura" - ricorda Garibaldi - "ch'io accettai senza replica poiché l'ho sempre creduta la tavola di salvezza, in qualunque circostanza d'urgenza in cui possa trovarsi un popolo".
 
Il 14 maggio, nel palazzo municipale di Salemi, Garibaldi si attribuisce la qualifica di "Comandante in capo le forze nazionali in Sicilia" e dichiara di "assumere nel nome di Vittorio Emmanuele Re d'Italia la Dittatura in Sicilia".
  
E' un binomio - Garibaldi-Dittatore - da contestualizzare con rigore, da ricondurre entro i suoi esatti limiti, ai significati caratteristici dei suoi tempi, per evitare suggestioni improprie (che dopo oltre mezzo secolo avrebbero deviato d'Annunzio e Mussolini) e possibili anacronismi (col riferimento alle più recenti esperienze europee).
 
La dittatura ottocentesca è una forma di governo monocratico (o al più collegiale) finalizzata ad assicurare l'unità del comando e la tempestività delle decisioni in situazioni eccezionali - "in qualunque circostanza d'urgenza in cui possa trovarsi un popolo", per riprendere la parole di Garibaldi - col superamento temporaneo del principio di divisione dei poteri e l'attribuzione all'organo dittatorio della piena autorità in materia legislativa ed esecutiva.  
 
Di un istituto analogo si era avvalso anche il Regno di Sardegna per governare la convulsa fase politica successiva alla Seconda Guerra d'Indipendenza, nei territori di confine col Lombardo-Veneto: parliamo della figura del Commissario Regio, assolta da Luigi Carlo Farini nei territori dei Modena e Parma, che si tramutò poi nella qualifica esplicita di Dittatore - istituita da Cavour - con riferimento alle Regie Province dell'Emilia (inclusive delle Romagne).
 
I presupposti impliciti di "straordinarietà" e "temporaneità" vincolavano il mandato di ogni dittatura, perciò Garibaldi sapeva bene, sin dal principio, che in caso di successo dell'azione militare nelle Due Sicilie, il comando politico di quei territori sarebbe poi dovuto tornare a un assetto di potere riconosciuto.
 
Ma qual era questo assetto? Chi poteva arrogarsi le conquiste della dittatura garibaldina? E più a fondo, a un livello più sottile, come andava declinato il concetto astratto di "normalità"? Era "normale" adagiarsi sulla linea di minor resistenza (e consegnare le Due Sicilie ai Savoia) o era "normale" sfruttare la situazione per affermare un ideale politico più elevato (la Repubblica)?

Dieci giorni dopo il suo ingresso a Napoli, Garibaldi era stato raggiunto da "un brigante italiano", un uomo "magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato", o così almeno lo avrebbe dipinto von Metternich, ammettendo che nessuno gli aveva procurato "maggiori fastidi" ai tempi in cui, da Cancelliere austriaco, aveva pur lottato contro "il più grande dei soldati, Napoleone" e faticato ad accordare tra loro "imperatori, re e papi".
 
A Napoli - il 17 settembre 1860 - era arrivato Giuseppe Mazzini, l'ideologo dell'unita nazionale, repubblicano della prima ora, fondatore della "Giovine Italia" e della "Giovine Europa", triumviro nella Repubblica romana del 1849, direttore di giornali politici e ispiratore di progetti insurrezionali, da decenni obbligato a un girovago esilio.

Crispi, Pilo, La Masa e Garibaldi - le tre menti e il braccio operativo dell'invasione delle Due Sicilie - erano tutti "mazziniani", e la "Spedizione dei Mille" - prima facie - sembrava avere l'obiettivo di riequilibrare il rapporto tra le correnti del patriottismo democratico, se non proprio repubblicano, e le linee d'ispirazione liberale e moderate, e in ultima istanza monarchiche.

Certo, aver esordito in Sicilia al grido "Italia e Vittorio Emanuele",  e aver disposto, una volta a Napoli, che "tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali, materiali di marina, sono aggregati alla squadra del Re d'Italia VITTORIO EMANUELE, comandata dall'Ammiraglio Persano", erano inequivocabili segnali di chiusura verso qualsiasi ambizione repubblicana. Rimaneva però in piedi una visione genuinamente democratica della futura Italia, con cui contemperare le istanze di tutte le parti in gioco, per dare a ognuna una voce politica, senza appiattire il discorso nazionale sull'intonazione monocorde del Piemonte che se ne trovava alla guida.

Lo stesso Mazzini aveva pragmaticamente accantonato ogni idea repubblicana, una volta giunto a Napoli, purché si formasse un'Assemblea Costituente. Voleva piuttosto conferire alla nuova realtà statuale - il Regno d'Italia - un assetto istituzionale che non fosse il prolungamento arbitrario di una Carta - lo Statuto Albertino - espressione di una stagione politica circoscritta, di una cultura locale, di un unico ceto e una sola dinastia. Per conciliare tutte le legittime ragioni in gioco - nella visione mazziniana - si doveva passare per la redazione di testo costituzionale di ampio respiro e non per meccanici plebisciti d'annessione al Regno sabaudo.

"Il problema non era soltanto di forma giuridica" - scrive Indro Montanelli - "Del patto che i mazziniani invocavano, il parlamento sarebbe stato il depositario e garante, e questo gli avrebbe dato una grossa arma per frenare le interferenze del Re in campi che non gli competevano, e anche per rimetterne in discussione il potere sovrano se questo avesse esorbitato".

L'idea non era nuova: se n'era discusso già nel 1848 per regolare i rapporti tra la Sardegna e la Lombardia insorta, per stabilire "le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale con la dinastia di Savoia", e allora ci pensarono gli austriaci sul campo di battaglia a piallare ogni innovazione istituzionale (a cui il Piemonte aveva peraltro opposto una forte resistenza); ora - a Napoli - si aveva l'opportunità concreta di attuarla, ma anche stavolta andò tutto alle ortiche, sebbene per ragioni diverse.

L'incontro tra Mazzini e Garibaldi - a Napoli - fu tempestoso. I due, pur uniti dall'avversione per Cavour, si trovavano su posizioni opposte sul ruolo di Vittorio Emanuele (e della monarchia in generale). Mazzini ne uscì profondamente amareggiato, e con la sola consolazione che anche Garibaldi stimava al momento inopportuno il plebisciti d'annessione delle Due Sicilie alla Sardegna (che avrebbe verosimilmente bloccato l'avanzata della "Spedizione" verso Roma).
 
Le prospettive tuttavia cambiarono dopo la battaglia del Volturno: i garibaldini ne uscirono vincitori, ma una buona parte di borbonici era rimasta asserragliata nelle fortezze di Gaeta e Formia, e non si poteva marciare verso lo Stato Pontificio avendo alle spalle delle ingenti forze nemiche. 
 
La questione dell'annessione tornò sul tavolo.

Crispi, Cattaneo e altri democratici - a Napoli - riproposero la Costituente di Mazzini, con cui fissare le condizioni dell'unione con lo Stato piemontese. Il partito monarchico - a Torino - operò la sua contromossa: il 2 ottobre il Parlamento autorizzò Cavour - con 286 voti a favore e 6 contrari - ad annettere i territori occupati da Garibaldi, per mezzo del plebiscito.
 
Questa parola - plebiscito: l'appello diretto alla volontà popolare, la legittimazione di un'investitura dal basso - segna l'intero dibattito politico di metà Ottocento. La penisola italiana l'aveva importata dalla Francia, e nella strategia di Cavour serviva proprio a disarmare Napoleone III, semmai si fosse opposto all'unità d'Italia: era col plebiscito che il nuovo Napoleone aveva legittimato il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, e ancora al plebiscito si era appoggiato per ristabilire la sua dignità imperiale, e sarebbe perciò suonato ben strano se avesse sconfessato altrove quell'istituto su cui aveva fondato il suo potere (e infatti - nel suo pur tardivo riconoscimento del Regno d'Italia - dovrà giocoforza dichiarare che "gli italiani sono i migliori giudici di ciò che loro conviene e non tocca a me, sorto dall'elezione popolare, pretendere di pesare sulle decisioni di un popolo libero").
 
A Napoli - su iniziativa di Cavour - arrivò Giorgio Pallavicino, un nobile piemontese che nel 1858 aveva favorito un incontro privato tra il Conte e Garibaldi (prestando l'abito di gala al Generale). Formalmente rivestiva il ruolo di prodittatore, col compito di accelerare l'annessione immediata (in uno slancio di entusiasmo arriverà a indire un plebiscito l'8 ottobre) ma il vero obiettivo era cacciar via Mazzini (che rimase al suo posto, senza però più partecipare alle riunioni indette da Garibaldi per arginare le pressioni di Torino).
  
L'11 ottobre il Parlamento subalpino confermava l'annessione incondizionata al Regno di Sardegna degli ex territori  borbonici,  e i moderati meridionali - favorevolmente impressionati dalla chiarezza d'indirizzo politico - alzarono la voce: migliaia di manifestini con un eloquente "Sì" apparvero sin dalle prime luci dell'alba del 12 ottobre, sulle porte, le finestre, i muri delle case e degli edifici pubblici; furono affissi persino sui cappelli degli uomini e sui vestiti delle donne, sulle carrozze e nelle vetrine dei negozi.
 
Le manifestazioni a favore del Piemonte si moltiplicavano, e anche la Guardia Nazionale e la Polizia presero posizione a favore dell'annessione. I toni si infiammarono. "Abbasso Crispi! A morte Mazzini!" era il grido che serpeggiava per la città.

Garibaldi accorse a Napoli, per denunciare i faziosi: "In questi tumulti soffia un partito avverso a me e ad ogni opera mia. Si è gridato morte a questo, morte a quello, ai miei amici. Gli ita­liani non debbono gridare morte che allo straniero e fra loro rispettarsi e amarsi tutti, perché tutti concorrano a formare l'unità d'Italia".
 
Il 13 ottobre, a Caserta, si riunì il movimento patriottico, in un'atmosfera incandescente: Cattaneo rifiutò di stringere la mano a Pallavicino; Turr - l'esponente del partito monarchico nello Stato maggiore garibaldino - mostrò un fascio di lettere firmate dagli Ufficiali della Guardia Nazionale che imploravano un plebiscito immediato; Garibaldi - esausto e sfiduciato - minacciò di tornarsene a Caprera.
 
La dittatura era alla fine: Garibaldi non aveva più ragioni per rimandare la consegna di Napoli e Sicilia alla monarchia sabauda, rinunciò all'elezione di un'Assemblea e diede il via libera al plebiscito.
 
La scelta - nel sacrificare le istanze democratiche - segnava il prevalere di una metà del nuovo Stato sull'altra, ben prima che la cosiddetta "piemontesizzazione" - l'applicazione meccanica di un ordinamento già esistente a una nuova realtà statuale - rivelasse negli anni successivi l'inadeguatezza della classe dirigente unitaria ad armonizzare le variegate componenti territoriali e sociali della penisola. Questo Regno d'Italia - sorto dalla progressiva espansione territoriale della monarchia sabauda, sorretta dall'automatismo politico del plebiscito - finì con l'offendere profondamente tutti i patrioti, perché colorava il Risorgimento con le tinte proprie di una conquista (che da lì a poco sarebbero diventate così intense - con stati d'assedio, governi militari ed esecuzioni sommarie - da far sembrare il processo unitario una forma di colonizzazione).
 
Se nel 1859 si poteva ancora parlare di una legittima lotta di liberazione dallo straniero - di sicuro nel Lombardo-Veneto, una delle creazioni più anomale del Congresso di Vienna - gli eventi del 1860-1861 rimasero come minimo in chiaro-scuro e lasciarono uno strascico di rancori, incomprensioni e discriminazioni, mai del tutto esaurito.
 
A cose fatte, Garibaldi scrisse a Mazzini per giustificarsi con l'impossibilità di far meglio, un argomento che sarebbe ritornato nelle sue "Memorie", in una nota a piè di pagina, in cui echeggia un certo rimorso: "in altri tempi si sarebbe potuto riunire una costituente, in quell'epoca era impossibile ed altro non si sarebbe ottenuto che perdita di tempo ed uno svolgimento ridicolo della questione. Allora erano di modo le annessioni coi plebisciti. I popoli ingannati dalle consorterie, tutto speravano dal Governo riparatore".
 
Mazzini - per parte sua - non sarebbe mai arretrato di un passo, neppure davanti a decisioni ormai irreversibili.
 
Il 19 ottobre 1860 scrisse due articoli ("Assemblea e Plebiscito" e "Chi rompe la concordia") sul giornale "Il Popolo d'Italia" - da lui stesso fondato, in simultanea con l'avvio dell'impresa garibaldina - in cui prospettava lo stato dell'arte con ineguagliabile nitore, affinché "insegnando all'Italia quale sia il vero significato dell'annessione immediata, l'Italia provveda a scongiurarne i pericoli".
 
"Per due sole vie può sciogliersi la questione dell'oggi: prolungando la Dittatura sino al termine dell'impresa italiana e confondendosi allora nella Patria comune o affrettando l'annessione al Piemonte.
 
La prima era la via logica e conducente piú securamente e piú rapidamente allo scopo, ma il Governo ha scelto la seconda, e torna inutile la discussione.
 
Accertare nel modo piú solenne e incontrovertibile la volontà del paese intorno al punto: se voglia o no l'annessione immediata se la voglia incondizionata o con patti è questo il problema da sciogliersi.
 
E la soluzione ha essa pure due vie: L'Assemblea; Il Plebiscito. 

La logica e la tradizione di tutti i popoli liberi additavano la prima. Non v'è libertà morale di voto senza discussione, senza esame, senza esposizione degli argomenti che militano contro o a favore della proposizione che deve votarsi
".

Solo l'Assemblea, dunque, sarebbe stata rispettosa della fisiologia delle cose: l'Assemblea è "il metodo d'eventi logico", da tenere in mente "come l'ideale, dal quale bisogna allontanarsi il meno possibile", per chiudere la via "a tutte le incertezze, a tutte le insidie che possono venirgli dal di fuori, a tutte le divisioni a tutte le gelosie che possono sorgere dal di dentro".
 
La scansione logica - nella visione di Mazzini - era lineare. "Fare, prima l'Italia, poi la monarchia Italiana: affratellare tutte le provincie italiane nella Patria comune, non aggiogarla ad una o ad un'altra provincia: dettare in Roma il Patto della Nazione, non imporre a tutte le terre italiane leggi costituzionali date in momenti anormali per súbita e forzata concessione al popolo, dodici anni addietro, una frazione dell'Italia settentrionale".
 
Servivano - in definitiva - "leggi italiane, non piemontesi", perché altrimenti, "annettendo le provincie del Sud incondizionatamente al Piemonte", si sarebbero diffusi "germi di gelosia, di dissenso, d'irritazione tra una popolazione e l'altra"; e invece il Governo di Garibaldi, "cedendo all'ispirazione franco-sarda", alla "scuola politica impiantata in Francia da Luigi Napoleone", aveva optato per il "Pleiscito non preceduto dall'Assemblea", preferendo un "voto muto, non illuminato dalla discussione, dato dall'individuo isolato, ineducato, sottomesso ad ogni artificio di seduzione", che "offende inutilmente la dignità del paese".
 
"Plebiscito e annessione immediata - è inutile dissimularlo - non hanno che un significato: rompere il corso dell' azione di Garibaldi, annullarne il programma [...]. L'annessione immediata vale la sostituzione di Cavour a Garibaldi, quindi l'abbandono, per un tempo indefinito, di Venezia e Roma".
 
E lo stesso plebiscito - per colmo d'impostura - sottraeva in verità ogni possibilità di scelta, per com'era stato impostato. "La formola del Plebiscito chiama gli uomini dell'Italia meridionale a dichiarare: se vogliono o no l'Italia una e Indivisibile sotto la dinastia di Vittorio Emanuele. "Vogliamo, tutti noi, l'Unità Nazionale d'Italia. Chi può dire: no, non vogliamo l'Italia indivisibile ed una? La formola del Plebiscito costringe dunque ogni uomo a rispondere: sí [...]. Davanti a quest' artificio gesuitico, che dunque avanza pei cittadini?".

L'unica speranza era trasformarlo in "un'arme con doppio taglio", per "dar solenne consecrazione al nostro programma: Venezia e Roma".


"Un'Assemblea dica, dopo il voto popolare, a Cavour: 'I popoli dell'Italia meridionale non hanno votato per l'annessione immediata, incondizionata: hanno votato perché l'Italia sia una e indivisibile sotto la dinastia di Vittorio Emmanuele. Fate dunque l'Unità, perché, se non la fate, il voto è nullo, incompiuto; la faremo noi coll'insurrezione. Andate a Venezia: poi, riconquistateci Roma. Senza Roma e Venezia, l'Italia non è né una né indivisibile'. Venezia e Roma, è ciò che chiediamo, e che chiede l'istinto anche di coloro che insistono. traviati, sull'annessione immediata: è ciò che bisogna ripetere in modo solenne al ministero Torinese e all'Europa".

E a ogni modo - anche all'intero di un sistema manifestamente deviato - Mazzini non rinunciava all'idea di un'Assemblea, successiva al plebiscito, per quanto l'inversione metodologica la svuotasse di contenuti effettivi, riducendola un atto puramente formale. "Logicamente, la convocazione d'un'Assemblea dopo il Plebiscito, è irrazionale. Gli uomini discutono prima, poi votano. Un'Assemblea che sottentri a un voto di popolo è, per forza di cose, un'Assemblea di notari chiamati a rogare un atto. Pur nondimeno, una Assemblea. raccolta anche dopo il decreto del popolo, salverebbe l'ombra almeno della dignità del paese".

  

Il 21 ottobre 1860 ai sudditi del "Mezzogiorno" - come i piemontesi avevano iniziato a chiamare Napoli e Sicilia - fu chiesto se fossero favorevoli a "l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale". Si registreranno 1.302.064 "sì" contro 10.312 "no" sulla parte continentale, e 432.053 "si" e appena 667 "no " in Sicilia. I numeri - nell'interpretazione prevalente - esprimevano la volontà popolare di chiudere l'esperienza garibaldina e stabilizzare il nuovo Governo sabaudo. "L'iniziativa, signori, non è stata né del governo né del parlamento" - poteva ben dire Cavour - "l'iniziativa è stata presa dal popolo, che a quest'ora ha già salutato ed intende salutare per sempre Vittorio Emanuele II come Re d'Italia".
 
Il 26 ottobre - a Teano - Vittorio Emanuele salutava Garibaldi come "il mio migliore amico", e Garibaldi lo riconosceva come "Re d'Italia", un Re invero piuttosto curioso, che aveva  mantenuto il numerale II (della Sardegna) anziché rinominarsi da I (d'Italia) a confermare - in modo affatto subliminale - che la cosiddetta "Italia" altro non era che un Piemonte allargato. 
 
Il regolamento dei conti tra Garibaldi e Cavour sarebbe avvenuto il 18 aprile 1861, nella prima e memorabile seduta del Parlamento del Regno d'Italia, con all'ordine del giorno il destino dell'Esercito Meridionale (che Vittorio Emanuele non si degnò mai di onorare della sua presenza, tanto grande era il suo imbarazzo).

Garibaldi irruppe a Palazzo Carignano in camicia rossa, sombrero e poncho grigio sulle spalle, tra gli applausi della Sinistra e i sarcasmi della Destra. "Domando ai rappresentanti della Nazione se come uomo potrò mai stringere la mano a colui che mi ha reso straniero in Italia", con chiara allusione alla cessione di Nizza, sua città natale, escogitata da Cavour per far digerire alla Francia i plebisciti che hanno sancito l'annessione al Piemonte dell'Emilia e della Toscana.
 
Il Conte non reagì e l'onorevole Garibaldi prese forza. "I prodigi operati dall'armata meridionale furono offuscati solamente quando la fredda e nemica mano di questo ministero faceva sentire i suoi effetti malefici. Quando l'orrore di una guerra fratricida provocata da questo ministero...". Stavolta Cavour perse le staffe. "Non è permesso di insultarci!". Ma il Generale gli diede sulla voce. "Sì, una guerra fratricida!".
 
Il cerchio del trasformismo si chiuse nella seduta parlamentare del 18 novembre 1864, con l'intervento a giravolta di Francesco Crispi - il repubblicano Crispi, il mazziniano Crispi, l'ideologo della spedizione garibaldina - emblematicamente scelto come passaggio finale del film "Noi credevamo":
 
"La monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe. Noi unitari innanzi tutto siamo monarchici, e sosterremo la monarchia meglio dei monarchici antichi".

 

1851-1863: dal Piemonte al Regno d'Italia

"Il francobollo fin dall'inizio non è stato soltanto un mezzo per affrancare una lettera,
ma la dichiarazione del potere di uno Stato. E' una dichiarazione di proprietà: qui comando io"
(Franco Filanci)
 
Il Regno di Sardegna emette i suoi primi francobolli l'1 Gennaio 1851: una serie di tre valori, da 5, 20 e 40 centesimi, di colore rispettivamente nero, azzurro e rosa, col profilo di Re Vittorio Emanuele II volto a destra, in un ovale; lungo la doppia cornice rettangolare corrono le diciture "FRANCO", "C. POSTE" (seguita dal valore in cifre), "BOLLO" e "C." (di centesimi) con l'indicazione del valore (a lettere); tutt'intorno vi è un sottile riquadro di perline; piccoli fregi decorativi impreziosiscono gli angoli curvilinei formati dall'ovale con la prima cornice e i quattro angoli della doppia cornice.
  
Il foglio originario - su carta a macchina, senza filigrana - accoglieva 50 esemplari, divisi in due gruppi di 25 (5 righe per 5 colonne) separati da un interspazio di circa 5 millimetri e mezzo.
 
L'incisore e litografo Francesco Matraire fu al tempo stesso il bozzettista e lo stampatore.

Biglietto da visita del 1855 del "graveur" (incisore) Matraire,
con officina in "Rue du Po" (Via Po) a Torino.



Il Cavalier Matraire sconta la nomea di artista modesto.
Non la pensava così Warren De La Rue, 
un'esponente della prestigiosa Casa De La Rue che avrebbe poi preso il suo posto:
 "ho visitato il laboratorio dell'attuale fornitore di francobolli [il Matraire];
l'ho giudicato persona di grande capacità e ho informato il cav. Perazzi 
di ritenerlo idoneo all'incarico di direttore presso il reparto di Ormond Hill".
D'altra parte non si rimane per tredici anni di fila al servizio di Sua Maestà
- fornitore unico dei francobolli, prima per il Regno sardo, poi per il Regno d'Italia -
senza il saldo possesso di conoscenze, abilità e doti di un certo spessore.
In questa lettera del 4 novembre 1862 - scritta in francese -
il Matrarire dà la propria disponibilità al Direttore delle Poste del Regno, Giovanni Barbavara,
a preparare un nuovo francobollo da 15 centesimi (il primo con la dicitura estesa "italiano"). 
 
La prima emissione sabauda si colloca in un vasto progetto di riforma del sistema postale, di cui il francobollo rimane però una semplice ancella.

Le principali modifiche toccavano infatti la parte tariffaria - sulla falsariga dello schema inglese, realizzato oltre dieci anni prima - e precisamente la riduzione del costo medio di spedizione, la sua uniformità sul territorio (inclusivo della Sardegna, sin allora rimasta ai primordi del servizio postale) e la riduzione dei privilegi, che se da un lato - sotto il profilo contabile - portavano a stimare una perdita annua di oltre 500 mila lire, dall'altro si giustificavano con l'idea che "la posta non debbesi considerare mai come un ramo finanziario bensì come un servizio di pubblica utilità".
 
Circolare da Chieri (Torino) a Biella dell'11 agosto 1852, 
affrancata con un esemplare da 5 centesimi nero intenso.
 
 
 
 Lettera da Cuneo a Torino del 3 giugno (1852)
affrancata con un esemplare da 20 centesimi azzurro.



Lettera da Torino a Firenze del 13 dicembre 1852,
affrancata con un esemplare da 40 centesimi rosa.

Nelle intenzioni originarie i francobolli si sarebbero dovuti realizzare con la tecnica d'incisione tipografica, giudicata la migliore contro le falsificazioni; all'atto pratico era stata accettata la modalità litografica, sia per la buona apparenza del soggetto presentato dal Matraire, che per il desiderio di velocizzare il progetto.
 
Nel tempo, tuttavia, la qualità della produzione andò peggiorando, e s'iniziò a temere la possibilità di eliminazione o occultamento degli annulli, segnatamente sul valore nero da 5 centesimi.

Spettacolare affrancatura per la Spagna, con la prima emissione al completo,
in cui però gli esemplari iniziano a mostrare una minor qualità di produzione.
 
Il Matraire giocò d'anticipo, per non perdere l'appalto: realizzò di propria iniziativa una nuova serie, con un sistema inedito di sua invenzione - cosiddetto "rilievografico" -  in cui neppure l'inchiostro era più necessario e grazie al quale il francobollo - con le sue parole - "ne pourront plus servir après la marque annulée et qu'il sera absolument impossible de contrefaire".
  
Rimasero invariati sia il soggetto (il profilo di Vittorio Emanuele, il cui bozzetto fu curato da Giuseppe Ferraris, capo incisore della Zecca) che i valori facciali (da 5, 20 e 40 centesimi) con la differenza che il più basso (da 5 centesimi) fu realizzato in verde.
 
La stampa era in rilievo a secco - su carta colorata, a macchina, non filigranata - in fogli da 100 pezzi, divisi in 4 gruppi di 25 separati da interspazi.
 
Il Decreto del 7 maggio 1853 formalizzò la nuova emissione, senza peraltro indicarne la data di entrata in circolo; la distribuzione sarebbe dovuta iniziare l'1 ottobre 1853 - in fogli da 50 pezzi - ma di tutti e tre gli esemplari si conoscono utilizzi precedenti alla data ufficiale.
 
Lettera da Thonon per Parigi dell'8 febbraio 1854, affrancata per complessive 1,5 lire,
a mezzo di una coppia del 5 centesimi, un esemplare da 20 centesimi, e tre da 40 centesimi.
E' l'affrancatura più alta, tra le poche note con la seconda emissione al completo.
 
L'incisione della seconda emissione è pregevole, se solo si ha la fortuna di scovare esemplari che la valorizzino a dovere.
 

Un 5 centesimi della seconda emissione,
particolarmente ben riuscito.


 
 Lettera da Novara a Torino, del 30 giugno 1854,
affrancata con un esemplare da 20 centesimi con doppia impronta a secco.
 
Di regola, però, la qualità dei rilevi lasciava piuttosto a desiderare, al punto che gli impiegati postali faticavano nell'identificare i valori facciali, anche perché gli stessi colori (il verde del 5 centesimi e l'azzurro del 20) mal distinguevano con la scarsa luce degli uffici; le autorità avrebbero poi gradito un maggior risalto dell'effigie sovrana, magari imprimendola su uno sfondo bianco.

Due lettere affrancate con esemplari della seconda emissione sarda:
è complicato distinguere il colore del francobollo verde da 5 centesimi (nella prima lettera)
dal colore azzurro del francobollo da 20 centesimi (nella seconda)
che appare come un verde appena più chiaro.
 
Le varie questioni furono sottoposte al Matraire, che si rimise al lavoro per realizzare una  terza serie, con i soliti facciali delle emissioni precedenti e sempre con sistema rilievografico a secco (su carta bianca, a macchina, non filigranata).
 
Il foglio di stampa contava ora 50 pezzi, organizzati in 10 file da 5.
 
Non vi fu alcun atto formale per questa nuova serie, evidentemente percepita come una variante tecnica della precedente; la sua distribuzione iniziò il 18 Aprile 1854.
 

Lettera da Genova a Modena del 29 novembre 1855,
affrancata col 5 centesimi della terza serie di Sardegna.



Lettera per l'interno, da Biella a Torino, del 3 dicembre 1855,
affrancata col 20 centesimi della terza serie di Sardegna.
Ex Collezione "Luxus".


 
Lettera "Valentina" da Torino a Modena dell'8 agosto 1855,
affrancata col 40 centesimi della terza serie di Sardegna.
Ex Collezione "Luxus".
 
A sfregio degli intenti con cui nasceva, e dell'impegno messo per realizzarla, la terza serie continuava a trascinarsi dietro gli stessi problemi della precedente: si faticava ancora a distinguere i facciali, specialmente il 5 e il 20 centesimi, e pure le diciture, il riquadro e gli ornati erano appena percepibili (a meno di casi fortunati).
 
Un esemplare da 40 centesimi, 
particolarmente ben riuscito.
 
Il Matraire si rimise al lavoro, con l'idea che il problema (della bassa qualità dei rilievi) non andava più risolto ma aggirato: eliminò il colore pieno e lo sostituì con un disegno e delle scritte.
 
Ancora una volta la modifica fu considerata una mera variante tecnica, quindi attuabile senza un intervento legislativo. Servirà arrivare al 29 novembre 1857 per avere l'ufficializzazione della nuova serie, ampliata nei valori facciali con i pezzi da 10 e 80 centesimi (a cui si sarebbe aggiunto il 3 lire, nel settembre del 1860). 
 
I fogli erano ancora da 50 esemplari (10 file di 5) su carta a macchina, non filigranata; la stampa fu in larga parte tipografica, ma la produzione di alcune provviste sembra aver combinato i metodi tipografico e litografico (forse per operare con maggior celerità, e forse perché il Matraire era pur sempre un litografo).

Questa nuova emissione - cosiddetta "IV di Sardegna" - assunse un ruolo istituzionale ben oltre la funzione tecnica di affrancatura della corrispondenza: scandì l'espansionismo sabaudo sui territori della penisola italiana, a partire dal giugno 1859 e sino a tutto il 1863, e nei fatti si rivelò l'ambasciatrice (postale) del Regno d'Italia.
 
L'avevano avuta in dotazione in via informale gli uffici del cosiddetto Oltrepò mantovano - la parte della provincia di Mantova situata sulla sponda meridionale del Po - dal 15 luglio al 15 dicembre 1859 (quando i territori furono restituiti all'Austria); gli uffici dell'Oltreappennino modenese, dal 15 giugno al 15 ottobre; e quelli del decaduto Ducato di Parma, dall'1 agosto 1859 (prima di battere in ritirata, quando Napoleone III s'indispettì per la fuga in avanti del Piemonte su un territorio governato da una Casata - i Borbone Parma - amica dell'Imperatore).
 
Questo fu il calendario della sua apparizione nella penisola:
  • in Lombardia, dal luglio 1859;
  • in Emilia (ex Ducati di Modena e Parma, ex Legazioni romagnole) dal febbraio 1860;
  • nelle Marche, in Umbria e Sabina, dal settembre 1860;
  • in Toscana, dal gennaio 1861;
  • in Sicilia, dal maggio 1861;
  • nelle Province Napoletane, dall'ottobre 1862 (e tollerata da qualche giorno prima).
 
 
Una voce dalla folla in piazza: "Viva l'Italia! Viva l'Italia!"
Lazzaro napoletano: "Uè guaglio'! Ma ca' dici? 
Si nun saje neanche aro' sta 'stu pais!"
(Dalla miniserie televisiva "Napoli 1860 - La fine dei Borboni" del 1970)

Il 17 marzo 1861, l'Italia è fatta. O meglio, si sta facendo da qualche mese. Anzi, è ancora tutta da fare, così come gli italiani, tra litigi, tasse e scandali. Venezia si concederà a breve, Roma si farà attendere ancora un po', mentre Napoli e Torino forse c'hanno già ripensato.

Ma - insomma - quando è nata questa Italia?

Forse il 21 ottobre 1860, quando si tennero i plebisciti a Napoli (che saldavano il nord col sud) o il 4-5 novembre 1860, con le ultime votazioni nelle Marche e in Umbria (che completavano l'unificazione) in coerenza col fatto che oggi celebriamo la festa della Repubblica il 2 giugno (collochiamo cioè la sua data di nascita nel giorno del referendum con cui prevalse sulla monarchia). 

Oppure l'Italia potrebbe aver visto la luce il 17 dicembre 1860, con l'emanazione dei Regi Decreti che rendevano il meridione "parte integrante dello Stato Italiano" dando un seguito formale al voto plebiscitario.

Così come la data fatidica potrebbe essere il 18 febbraio 1861, quando a Torino si riunì il Parlamento dopo la resa di Gaeta, o magari il 20 febbraio 1861, quando Vittorio Emanuele II tenne il classico "Discorso della Corona" di fronte allo stesso Parlamento (nel presupposto implicito che il nuovo Regno e il relativo Re erano già sulla scena).

E ovviamente si potrebbe trattare del 17 marzo 1861 - come da tradizione - quando col decreto n. 4671 Vittorio Emanuele accettò il titolo di Re d'Italia "per sé e per i suoi discendenti", che sarà pur stata una mera formalità, ma rimaneva fondamentale per dimostrare al mondo - in particolare a Napoleone III - che il nuovo Stato non era un'ambigua conquista militare, bensì la chiara espressione di una volontà di popolo (resa evidente dalla nuova specifica al titolo regale, che al tradizionale "per grazia di Dio" aggiungeva l'innovativo "e per volontà della Nazione", di cui i Savoia si sarebbero pentiti neanche un secolo più tardi).

Ma i cultori di Storia postale vi diranno che vera data è l'1 marzo 1861, quando nascono le Poste italiane - un servizio istituzionale cruciale, per il nuovo Stato - e le tariffe sarde vengono estese al complesso dei territori sotto il dominio dei Savoia.

Certo è - comunque - che qualsiasi data si scelga per l'unità d'Italia, ovunque si voglia collocare la nascita di questa nuova entità geopolitica, la IV di Sardegna era lì a testimoniarla, a diffonderla. 
 
Affrancatura mista Sardegna-Francia, in periodo di Seconda Guerra d'Indipendenza.
 
 
 
La IV di Sardegna a Milano (ex Regno del Lombardo-Veneto).



La IV di Sardegna a Borgotaro (ex Ducato di Parma).



La IV di Sardegna a Pisa (ex Granducato di Toscana).
 
 

La IV di Sardegna a Ferrara (ex Stato Pontificio).
 
 

La IV di Sardegna a Rieti (ex Stato Pontificio).
 
 
 
La IV di Sardegna a Napoli (ex Regno delle Due Sicilie - Dominî al di qua del Faro).
 
 
 
La IV di Sardegna a Palermo (ex Regno delle Due Sicilie - Dominî al di qua del Faro).
 
 
 
Il 13 febbraio 1861 Francesco II di Borbone dichiara la resa.
Il 18 febbraio si riunisce il primo Parlamento sardo
con competenze sui territori del decaduto Regno delle Due Sicilie.   
Il 19 febbraio parte da Genova - diretta a Odessa, in Russia - 
una lettera affrancata in tariffa di triplo porto con due esemplari del 3 lire,
destinata a diventare una delle più grandi rarità della filatelia sarda.

Davvero strabiliante, se si pensa che il Regnum Sardiniae et Corsicae era nato come espediente diplomatico per risolvere la disputa tra la Corona d'Aragona e la dinastia capetingia d'Angiò, a seguito della Guerra del Vespro per il controllo della Sicilia: un reame fantoccio, infeudato da Giacomo II di Aragona a fronte del pagamento di una rendita annuale al Papato, che ne esercitava il controllo di fatto (in pratica una licenza d'invasione offerta dalla Chiesa di Roma agli Aragonesi).
 
Nel 1720 i Savoia ne entravano in possesso - controvoglia - in forza del Trattato dell'Aia, incorporandovi i territori francesi su cui già esercitavano la loro influenza; con Carlo Emanuele III i confini venivano estesi sino al Ticino, a seguito della partecipazione alle Guerre di Successione Polacca (1733-38) e Austriaca (1740-48); e il 18 febbraio 1861, all'apertura del primo Parlamento proto-italiano - con un Regno d'Italia ancora ufficialmente inesistente - Re Vittorio Emanuele II poteva parlare di una nazione "libera ed unita quasi tutta, per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei Popoli, e per lo splendido valore degli Eserciti".
 
La IV di Sardegna stava ora lì a suggellare la più improbabile delle cavalcate; lo smisurato ampliamento del suo territorio di riferimento - dal Regno di Sardegna a pressoché l'intera penisola - creò una vasta casistica di tariffe e affrancature, ma influì anche sui ritmi di produzione, e di conseguenza sulle caratteristiche tecniche dei francobolli.
 


L'Italia si andava formando sui campi di battaglia (con gli scontri tra eserciti) e sui tavoli diplomatici (con le negoziazioni tra i politici) ma l'Italia si costruiva a gran ritmo anche nel laboratorio del Matraire: quanto più il Regno di Sardegna s'allargava, tanto maggiore e rapida doveva essere la produzione di francobolli con cui marcare l'avvento dei Savoia nei nuovi territori, ché il francobollo - sin dai suoi esordi - "non è stato soltanto un mezzo per affrancare una lettera, ma la dichiarazione del potere di uno Stato", una rivendicazione "di proprietà", un modo per dire "qui comando io".
 
Un primo effetto di quel vertiginoso incremento dei volumi di produzione fu il loro progressivo scadimento qualitativo: l'utilizzo di carta di pessima qualità, l'uso sovrabbondante del colore e la pulizia approssimativa dei cliché tipografici (già usurati) produssero numerose stampe dove la perlinatura era pressoché scomparsa e i caratteri erano spesso mancati o deformati.

Le conseguenze più clamorose si registrarono però nelle varianti di colore: a ogni nuova provvista si tentava di rispettare le indicazioni cromatiche della normativa (verde il 5 centesimi, fuliggine il 10, turchino il 20, rosso il 40, arancio l'80) ma il processo rimaneva artigianale, non standardizzato, cosicché tra imitazioni mal riuscite della tiratura precedente, errate miscelazioni dei coloranti, residui d'inchiostro nei recipienti usati per altri valori, e non ultimo diverse mani a compire le varie operazioni, ecco venir fuori uno spettro di tonalità senza eguali, in cui sono accolte colorazioni radicalmente differenti - talvolta senza soluzione di continuità, con variazioni infinitesime tra l'una e l'altra - ancorché tutte riferibili a uno stesso ceppo cromatico.
 
 
L'ampio spettro delle colorazioni della  IV di Sardegna apre la via a un un filone di per sé affascinante, se la speculazione commerciale, trovando la sponda della stupidità dei collezionisti, non l'avesse trasformato in una macchietta filatelica.
 
"Partiamo dal primo elemento fondamentale per una corretta classificazione, 'LA LUCE'. Solo una luce corretta ci eviterà di fare errori grossolani, una luce ideale si può misurare in gradi di calore Kelvin e la nostra deve stare tra i 5.500 e 12.000 gradi, cioè la corrispondente luce diurna di un cielo appena coperto da nubi bianche. Altre luci tipo incandescenza, alogene e neon normali ci daranno sempre delle alterazioni nei colori".
 
Ho stralciato questo passaggio da una delle principali opere per il collezionismo della IV di Sardegna.
 
Così - a pelle, a sensazioni immediate - non avvertite anche voi qualcosa di anomalo, di sproporzionato? Misurare in gradi di calore Kelvin... deve stare tra i 5.500 e 12.000 gradi: non avete l'impressione di aver imbracciato un bazooka per sparare a una zanzara?

E siamo solo all'inizio. Tutti i discorsi dei Quartisti - i collezionisti maniacali della IV di Sardegna - sono infarciti di parole dal sapore esasperatamente tecnico, sconosciute ai più: colorimetria, sintesi sottrattiva e adattiva, decomposizione spettrale, analisi di Fourier. Va benissimo - per carità - sfruttare le filatelia per saltare da un campo all'altro del sapere umano, usarla strumentalmente come pretesto per ampliare e raffinare la propria cultura, ma qui - in questo caso specifico - non avete la sensazione di un volersi baloccare con le parole, di un deprecabile abuso di metodi e tecniche, se non addirittura di un gratuito atteggiarsi, rispetto a un obiettivo - la corretta definizione del colore - a cui si vuol ingenuamente dare una precisione irreale, e di fatto irraggiungibile?
 
Ma si sa: il moto perpetuo, l'alchimia per trasformare il ferro in oro e il terno al lotto rivelato dai defunti sono suggestioni troppo intense e pervasive, per potervi rinunciare a cuor leggero; e così, per quanto sciocche, ciclicamente ritornano ad alimentare i sogni degli ingenui entusiasti.


Lasciatemi esordire con un'annotazione di pura tecnica espositiva: il linguaggio scritto è una spia che segnala ciò che nelle intenzioni si vorrebbe occultare.
 
Vi ricordate quando a scuola il professore annunciava l'interrogazione, per poi passare in rassegna la classe con lo sguardo, alla ricerca degli studenti da chiamare alla cattedra, e voi vi chinavate fingendo di cercare qualcosa nello zaino, per evitare di esser visti? Quel gesto - chinarsi sullo zaino - nelle vostre intenzioni serviva a uscir fuori dal campo visivo del professore (e quindi a evitare l'interrogazione) ma era proprio quel gesto - il vostro chinarvi - che attirava la sua attenzione, e gli mandava quel messaggio che voi avreste voluto occultare ("sono impreparato, speriamo non mi interroghi").
 
Con la scrittura funziona allo stesso modo: quando non se ne dominano i tecnicismi si finisce con lo scrivere "a sentimento", e il testo - agli occhi di chi ne possiede la chiave di decifrazione - finisce col rivelare quegli stati d'animo che il suo estensore avrebbe voluto tener nascosti.
 
Osservate: la parola "oggettivare" è scritta a stampatello maiuscolo e in rosso, a voler iper-compensare l'insicurezza avvertita nel lanciare il progetto. Si ambisce a rendere oggettivo ciò che non può esserlo, si è consapevoli dell'impossibilità dell'impresa, e allora "si alza la voce" (si scrive in stampatello maiuscolo, in rosso) per dare a intendere che sia invece possibile; ma è proprio questa scompostezza di modi (lo scrivere in stampatello maiuscolo, in rosso) a rivelare tutta la fragilità della proposta.
 
Vediamo poi di chiarire - sempre a livello testuale - un equivoco ricorrente, precisando il significato delle parole "oggettivo" e "soggettivo".
 
Nel sentire comune la parola "soggettivo" evoca atteggiamenti bizzarri e capricciosi, o comunque insindacabili, non passabili di un vaglio critico, laddove "oggettivo" si direbbe invece di comportamenti seri e ragionevoli, ponderati e meditati; vi è quindi una certa esitazione ad accettare la soggettività, perché si ha l'impressione che se tutto è soggettivo, allora tutto è arbitrario e nessuna legge possa valere.
 
Ma nel suo significato rigoroso, libero da condizionamenti emotivi, "soggettivo" significa semplicemente "relativo a un soggetto" - col richiamo all'etimologia latina: subiectivu(m) - e le valutazioni soggettive sono semplicemente delle valutazioni realizzate da un soggetto - da un individuo, da una persona - che ne assume la responsabilità e ne accetta le conseguenze; "soggettivo", quindi, è tutto ciò che coinvolge il giudizio di un individuo, laddove in ciò che è "oggettivo" l'individuo è solo il registratore passivo di uno o più dati di fatto.
 
Tanto basterebbe a bandire la parola "oggettivare" dai processi di classificazione dei colori. Perché il colore - fatto noto dalle scuole medie - non è una proprietà fisica degli oggetti (qualcosa di incorporato nell'oggetto, che noi dovremmo cercare di scoprire) ma rappresenta una relazione tra l'oggetto e il soggetto che l'osserva, che risente della fonte di illuminazione, delle modalità con cui la luce si riflette, si rifrange o viene assorbita, nonché della capacità percettive dell'osservatore. I colori esistono perché c'è un soggetto a osservarli sotto determinate condizioni, o a volerla mettere in negativo, non ha senso parlare di colori senza un osservatore e una specifica situazione osservazionale, così come non ha senso dire "Marco è simpatico" se non si dice "per chi", o "Roma è lontana" senza precisare "rispetto a dove".
 
Quel che si può fare non è dunque "oggettivare" la classificazione - ché la valutazione del soggetto rimarrà dirimente, e non sarà mai eludibile - ma ricercare  un largo accordo intersoggettivo - trovare una base di valutazione massimamente condivisa tra un gran numero di soggetti - nella consapevolezza che entreranno in gioco numerosi aspetti di pura convenzione, e che dunque - per quanto ci si possa trovare individualmente d'accordo con la metrica proposta - in nessun caso si potrà parlare di "verità" o di "oggettività".

 
Sarà anche il caso di ricordare - visto che se ne dà occasione - che un principio direttivo della Scienza - da ultimo trasbordato in ambito sociologico - è la rinuncia alla possibilità di conoscere "le cose in sé", in favore di una conoscenza subordinata alla "relazione tra le cose".
  • "Vi è chi è rimasto colpito dal carattere di libera convenzione che viene riconosciuto ad alcuni principi fondamentali delle scienze [...]. Eppure ogni giorno la vediamo all'opera [la Scienza] sotto i nostri occhi. Ciò non sarebbe possibile se non ci facesse conoscere qualcosa della realtà; tuttavia, ciò che la scienza può attingere non sono le cose in sé, come ritengono i dogmatici ingenui, ma solo le relazioni tra le cose. Al di fuori di tali relazioni non c'è realtà conoscibile" (J.H. Poincaré, "La Scienza e l'Ipotesi", Edizioni Bompiani 2003, p. 5).
  • "Nel procedimento scientifico gli elementi di carattere metafisico vanno messi da parte e si devono sempre considerare i fatti osservabili come la fonte ultima delle nozioni e delle costruzioni. La rinuncia a comprendere 'la cosa in se', a conoscere la verità ultima, a svelare la più riposta essenza del mondo, sarà forse psicologicamente ardua per gli ingenui entusiasti, ma è in realtà uno degli atteggiamenti più fruttuosi del pensiero moderno" (R. Courant, H. Robbins, "Che cos'è la matematica?", Edizioni Boringhieri 1971, p. 31).
  • "[...] non è possibile dire di una singola decisione che è sbagliata ma solo che un complesso di decisioni è coerente oppure incoerente. La cosa importante sono le relazioni tra eventi o decisioni, non i singoli eventi o le singole decisioni" (D.V. Lindley, "La Logica della decisione", Edizioni Il Saggiatore 1990, p. 29).  
La splendida Fraffrog (Francesca Presentini) vi spiegherà meglio di me - e di sicuro con toni più gioiosi e accattivanti - come il nostro cervello possa vedere colori che non esistono, non vedere colori che esistono, vedere colori che non dovrebbe vedere, e via così con tutte le configurazioni possibili.
 
 
Alcuni passaggi nodali:
minuto 0.15: "questo spiegherebbe molte cose, tra cui anche il fatto
 che persone diverse vedano colori diversi nella stessa immagine"
minuto 2.05: "qui entriamo in un discorso che si allontana
dall'oggettività delle grandezze fisiche e si avvicina alla soggettività della percezione"
minuto 3.09: "il cervello è finalmente in grado di elaborare il colore finale:
evviva, è 'azzurro", o 'verde acqua' o 'acqua marina' o 'petrolio',
o... vabbè, un conto è vedere i colori, un conto è sapere come si chiamano"
minuto 4.53: "so che a molti dopo aver visto queste illusioni
verrebbe da ridere dicendo 'ma quanto è stupido il nostro cervello?'
eppure questo stratagemma biologico è in realtà geniale,
e ci fa vivere la realtà come molto più costante".
minuto 8.14: "arrivati a questo punto possiamo dirlo:
i colori sono uno strumento fondamentale per capire il mondo che ci circonda,
ma... esistono solo nella nostra testa".
minuto 8.30: "... e se domani arrivasse un alieno
a spiegarci che vede il colore 'pantunfriano', 
noi non potremmo fare altro che credergli.
Io e Konrad non possiamo sapere se il verde di questo pennarello
lo vediamo allo stesso modo; possiamo solo supporre che sia uguale".
 
Voglio pizzicare ancora un passaggio, dal bel video di Fraffrog: i colori sono onde - sul piano della realtà fisica -, "l'insieme di onde che possiamo vedere con i nostri occhietti si chiama spettro visibile" e "noi approssimiamo questo spettro con i colori dell'arcobaleno: fuori da questo spettro ci sono ultravioletti, microonde e tutto ciò che non vediamo".  
 
 
E in questo passaggio -  a sua volta - c'è un punto che voglio portare in rilievo: "noi approssimiamo questo spettro con i colori dell'arcobaleno", o a voler essere ancor più sintetici e generalisti, "noi approssimiamo".
 
Noi approssimiamo: tutta la nostra vita è fatta di approssimazioni, tutta la nostra cosiddetta "conoscenza" altro non è che uno stratificarsi di approssimazioni successive, e il desiderio di approssimare sempre meglio - di per sé legittimo - incontra talvolta un limite naturale nelle nostre percezioni immediate. 

Vi siete mai chiesti perché le note musicali sono proprio 7 e non - per dire - 3 o 14? Non già perché siano 7 "in natura"- figurarsi! - ma perché nel crearle si è capito che aggiungerne altre - continuare cioè a intercalare frequenze sonore nella scala,  una volta arrivati a 7 - non avrebbe più prodotto alcun suono distinguibile all'orecchio umano.
 
 
Una spiegazione eccellente delle 7 note musicali.

Quale mai sarebbe l'intelligenza nel costruire una scala musicale con note che non si possono distinguere con naturalezza? O nel creare una scala di colori con sfumature che non si possono apprezzare a occhio nudo? E - per esser pratici - a quali conseguenze conduce il voler inseguire una precisione illusoria?

Ne registro almeno due, entrambe nefaste, con riguardo al tema di nostro interesse.
 
Primo: il collezionismo (la capacità attiva di raccontare una storia attraverso gli oggetti) viene trasformato in pornografia (la contemplazione passiva di una situazione senza scopo o significato, ma comunque capace di trasmettere una scarica d'eccitazione).
 
Secondo: la fondamentale attività di filtraggio - la messa a punto dei criteri di selezione dei pezzi per la formazione e o sviluppo della propria collezione - degenera nell'assurda pretesa di realizzare sistematicamente delle "pescate".

   
Una delle migliori selezioni di un Quartista:
vi lascio immaginare le altre.
 
Il Quartista vede la tinta e solo la tinta, e verso tutto il resto - lo sterminato resto che non è tinta - è invariabilmente apatico, svogliato, disinteressato e indolente.
 
E quale storia - quale narrazione, quale fil rouge, quale liaison - si potrà mai trovare dentro il suo album, se prima viene la tinta, poi viene la tinta, dopo viene la tinta, poi per un bel pezzo non viene più niente, e poi - forse, ma è improbabile - può venire qualcos'altro? Nessuna, ovviamente, così come non esiste alcuna trama in un film porno, che pure mantiene la capacità di eccitare, così come la pretesa visione di una sfumatura di colore iper-dettagliata emoziona il Quartista.
 
Persino il concetto elementare di "qualità" viene arbitrariamente rimosso in nome della tinta, e così nell'album trovano posto - vengono ammessi nel cerchio magico della collezione - francobolli privi di margini, sporchi, multi-annullati, strappati, macchiati, senza rilievo, sfaldati, bucati, piegati, col verso che sembra un campo di battaglia, ma - se capita, quando capita - di tinta rarissima.
 
 
Il mondo filatelico, nella prospettiva di un Quartista.
  
E sia: prima viene la tinta, poi viene la tinta, dopo viene la tinta, poi per un bel pezzo non viene niente, e solo allora - forse - verrà qualcos'altro. D'accordo. Ma almeno - in presenza di una tinta rara - si sarà disposti a profondere tutto quel che occorre - a pagare la tinta rara per quel che è: una tinta rara, appunto - pur di entrarne in possesso. Giusto?
 
No, sbagliato: le tinte rare si devono pagare poco, e se possibile ancora meno (sic!) e anzi tanto più son rare quanto meno serve pagarle, altrimenti il divertimento dove sarebbe?

Pagare ogni francobollo (leggasi: ogni tinta) meno, molto meno, di quel che vale, è l'aspirazione suprema (e forse unica) del Quartista, che peraltro non di rado - per punizione divina o effetti karmici - finisce col pagare ogni cosa assai più del suo valore, giacché guardando solo la tinta - e null'altro che la tinta - trascura elementi assai più basilari - la qualità, in primis - che molto più della tinta concorrono a quantificare il valore monetario.
 
"... sempre in prima fila, quando finisce la battaglia"
 
La IV di Sardegna è l'emissione risorgimentale per eccellenza, e intorno alla IV di Sardegna - guarda un po' - orbitano una cultura posticcia e progetti strampalati, furberie variamente assortite e polemiche distruttive, divisioni continue, la falsa profondità dei cavilli e lo sperpero di parole per esprimere il più insulso dei concetti; e, sì, questa emissione e i suoi fautori rappresentano davvero bene la nostra Italia e noi italiani...


2025: Il Regno di Sardegna, oggi

"Era appena nata, che già l'Italia cominciava a contestare se stessa, e non ha più smesso di farlo.
A una storiografia aulica, che presenta il Risorgimento come una gloriosa epopea
intessuta solo di eroismi e sacrifici, si contrappone quella radicaleggiante
che lo presenta come una 'rivoluzione fallita' o 'tradita'.
Non vogliamo entrare in questa polemica.
Vogliamo solo chiarire, a mo' d'epilogo, perché l'Italia fu fatta, 
come e da chi fu fatta, e cosa fin dapprincipio ne derivò.
Non c'è alcun dubbio che protagoniste del processo unitario
finirono per essere le forze moderate, che riuscirono ad accaparrarsene l'iniziativa 
anche quando questa veniva assunta da quelle democratiche,
come fu il caso dell'impresa garibaldina nel Mezzogiorno.
I moderati non erano partiti dall'ideale dell'unità,
che anzi rappresentava il patrimonio e l'orgoglio dei democratici mazziniani.
Erano tutti o quasi tutti autonomisti, 
e la soluzione a cui miravano era una confederazione di Stati,
sia pure sotto la corona dei Savoia. 
E in questo senso erano orientati particolarmente quelli del Sud,
che nello spazio di pochi mesi diventarono invece i più accesi fautori dell’unitarismo.
A convertirli fu l'agitazione contadina, da cui compresero che solo uno Stato forte,
basato sull’autorità dei prefetti e dei carabinieri, poteva garantirli.
Dopo averlo fatto, i moderati confiscarono lo Stato,
e per qualche decennio seguitarono a trasmetterselo di generazione in generazione
come un bene di famiglia da non doversi dividere con nessuno.
Del Risorgimento, cui questo monopolio attingeva la sua legittimazione storica e morale,
fecero un culto coi suoi sacerdoti e i suoi riti, cui solo gl'iniziati potevano partecipare.
Solo parecchio più tardi, attraverso quell’operazione che poi si chiamò 'trasformismo',
l'integrazione fu allargata un po' a tutti i ceti borghesi, ma con estrema cautela.
Le masse ne furono del tutto estraniate fino a Giolitti:
e lo dimostrano sia il sistema scolastico che fece dell'istruzione un appannaggio di classe, 
sia le riforme elettorali che allargarono il diritto di voto con una lentezza che sapeva di renitenza.
Questo era il lascito dei moderati.
Essendo stati essi a fare l'Italia, e avendola fatta a quel modo,
era fatale che la gestissero come un feudo di classe.
Ma altrettanto fatale era che le masse, rimaste aliene alla sua formazione,
continuassero a sentirsi tali, identificando lo Stato nella borghesia;
e che, così a lungo e ostinatamente ritardato, il loro inserimento non potesse avvenire senza le crisi,
i traumi e le scosse provocate dal rancore per l'antico ostracismo.
E' la storia di oggi. Ma cominciò allora"
(Indro Montanelli)

Cosa rimane - oggi, anno 2025 - della nostra unità nazionale? Di base, la sensazione che sia stata una catastrofe.
 
Sembra impossibile ricostruire - anche solo in laboratorio - un passato di cui andar tutti fieri, da cui scorgere un futuro ricco di possibilità; si vive piuttosto di recriminazioni incrociate, coi nordisti che si immaginano ricchi e felici, come svizzeri e bavaresi, se solo non ci fosse stato Garibaldi, e i sudisti pronti a replicare che loro felici lo erano da sempre, e lo sarebbero ancora oggi, se solo non ci fosse stato Garibaldi; e così entrambi - nordisti e sudisti - finiscono col dire la stessa cosa, che la colpa dei loro guai non è loro, ma di altri italiani, perché i cosiddetti "italiani" sono sempre gli "altri", laddove noi siamo rimasti siciliani, napoletani, emiliani, veneti, lombardi.
 
Sapete chi sono gli unici ad andar fieri del Risorgimento? I piemontesi! Quelli che l'Italia l'hanno fatta, che davanti a tutta la chiamano "Italia" e parlano di "Italia", ma al fondo - non essendo diversi dagli altri: siciliani, napoletani, emiliani, veneti, lombardi - continuano a sentirsi piemontesi, e quindi a percepire non già quella "Italia" di cui blaterano in pubblico, bensì un Piemonte allargato all'intera penisola, un Regno di Sardegna che si estende da nord a sud.
 
Sono i Barbero (Torino), i Cazzullo (Alba) e tutti gli altri nati nelle province piemontesi, i soli a magnificare il Risorgimento, a parlare del Risorgimento come di un'avventura meravigliosa, e non già perché ne traggano dei vantaggi materiali, ma solo come forma suprema di regionalismo, una versione campanilistica radical chic che ostenta la parola "Italia" per compiacersi intimamente di quanto è diventato grande il loro Piemonte.
 
"Discutere con i neoborbonici non è difficile; è inutile" - sentenzia Aldo Cazzullo -
ma discutere con i vari Cazzullo sparsi per la penisola, peggio che inutile, è imbarazzante.
"Sono riusciti persino a vendere la storia dei Borbone come di una monarchia napoletana,
quando i Borbone di sangue napoletano - o siciliano - non avevano una goccia,
essendo come tutti sanno o dovrebbero sapere una dinastia straniera,
il ramo spagnolo di una famiglia di origine francese".
Come si fa a replicare a una simile affermazione, 
senza farsi carico quel tremendo imbarazzo
che con tutta evidenza non viene avvertito da chi la proferisce?
"Tutti sanno o dovrebbero sapere" (cit.) che le grandi dinastie del passato
davano fisiologicamente vita a dei rami cadetti, a delle diramazioni locali.
Sì, certo, alle origini dei Borbone vi è una famiglia francese,
ma poi quella famiglia si è sparsa per l'Europa, dando vita, tra l'altro ai Borbone di Napoli.
Carlo - il primo della dinastia - aveva per metà sangue italiano, essendo figlio di una Farnese.
S'innamorò all'istante di Napoli, e fu istantaneamente ricambiato,
al punto da voler imparare il dialetto per sentirsi più vicino al popolo.
La "napoletanità" di suo figlio Ferdinando, poi, è fin troppo nota, e persino eccessiva:
nato a Napoli, dispensato a lungo da incombenze di governo, e perciò cresciuto tra i popolani,
e poi, insomma, già il soprannome di "Re lazzarone" è di per sé un manifesto del personaggio.
"Pur acca' me véneno a romp’e bballe!" - brontolò questo Re lazzarone,
quando i Carbonari gli mandarono una deputazione fin sulla nave,
in vista della sua partecipazione al Congresso di Lubiana per discutere della Costituzione -
che, insomma, non sembra propriamente un'espressione francese o spagnola.
"Tutto ciò, che l'obbligava a non parlare il suo favorito dialetto, lo infastidiva potentemente"
- scrive Raffaele de Cesare a proposito di Re Ferdinando II di Borbone -
"Non parlava bene che il dialetto napoletano e il siciliano e la lingua francese,
e il suo pensiero non trovava più fedele manifestazione che nel linguaggio dialettale,
e il suo italiano era la traduzione di quello, e però non spontaneo, né arguto,
né vivace e assai meno immaginoso. Era un principe tutto napoletano",
che interpretava Napoli - secondo Indro Monatelli -
"se non nella sua espressione più bella, certo in quella più vera".
Sì, era un principe tutto napoletano: "Nè, Ascoli, stu progresso fete nu poco de curtiello",
 - disse rivolto al Duca di Ascoli, zittendo tutti coloro che magnificano il fantomatico "progesso" -
che, ancora una volta, non sembra propriamente un espressione francese o spagnola.
E poi Francesco II di Borbone Napoli:
"Io sono Napolitano, nato tra voi, non ho respirato altra aria,
non ho veduto altri paesi, non conosco altro suolo che il suolo natio.
Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno, i vostri costumi sono i miei costumi,
la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni sono le mie ambizioni".
Serve altro per convincersi che i Borbone erano una dinastia naturalizzata napoletana?
Cazzullo - forse - farebbe meglio a preoccuparsi dei Savoia,
questa dinastia che prende il nome da un'area della Francia
ben separata geograficamente dall'Italia, e non a caso ceduta a Napoleone III
(creando comunque una situazione ben strana: un nome sganciato dal dominio sul relativo territorio).
Farebbe meglio a preoccuparsi di Cavour, che il 17 marzo scriveva francese rigurado all'Italia (sic!):
"Dès ce jour, l'Italie affirme hautement en face du monde sa propre existence".
E sorvoliamo sulle volgarità espressive - "quattro cadaveri trovati a Fenestrelle",
giacché c'ha già pensato Pino Aprile a dare una brillante risposta a tono.
Anche perché a Cazzullo e a tutti i Cazzullo sparsi per la penisola
non interessa sapere come stanno le cose, perché le cose devono stare come vogliono loro,
e quindi, sì, oltre che inutile è anche imbarazzante abbozzare anche solo un principio di discorso.
 
Sono loro - i Barbero, i Cazzullo, i Bossuto, i Vigna e tutti gli altri fàuss e cortèis, fatti così perché il Piemonte li ha fatti così - a gloriarsi dell'unità italiana.
 
Sono loro - i Barbero, i Cazzullo, i Bossuto e i Vigna - e quasi dimenticavo il nome che per primo mi sarebbe dovuto balzare in testa: i Bolaffi.
 

 
 
 
 

 
Sorteggiate un catalogo di vendita di una qualsiasi casa filatelica, italiana o straniera, degli ultimi cinquant'anni. Ci troverete invariabilmente la stessa modalità di presentazione delle proposte degli Antichi Stati Italiani: i vari Stati si susseguono in ordine alfabetico (Lombardo-Veneto, Modena, Napoli, Parma, Pontificio, Romagne, Sicilia, Toscana) e la sezione di ogni Stato accoglie sia le emissioni delle antiche case regnanti sia quelle dei governi provvisori (quindi, ad esempio, sotto la voce "Parma" troverete sia i francobolli ducali dei Borbone che quelli provvisori riconducibili al Governo sardo).

Questo è lo standard universale, adottato anche dal Catalogo Sassone, in risposta a una basilare esigenza di compattezza, utile anche a fini commerciali: è comodo riunire tutti francobolli di un dato territorio in una stessa sezione, perché i collezionisti seguono tendenzialmente proprio una logica territoriale, nel costruire le proprie raccolte, quindi gli fa piacere trovare tutto il materiale di loro interesse concentrato in uno stesso punto.

Questo è lo standard seguito da tutte le case filateliche... o quasi. Tutte, tranne una: la Bolaffi (di Torino).

La Bolaffi presenta le proprie offerte adagiandosi lungo la linea del tempo: separa i francobolli emessi degli antichi Regni e Ducati (Lombardo-Veneto, Modena, Napoli, etc.) dai francobolli dei Governi provvisori; i primi formano gli "Antichi Stati Italiani", i secondi la sezione "Italia - Periodo Antico", secondo la nomenclatura aziendale (usata nei cataloghi); e al principio - consapevoli dell'anomalia - ci si premurava di chiarire la separazione.

Una pagina del catalogo d'asta della Collezione "Pedemonte", relativa ai lotti del Ducato di Modena,
in cui si rinvia alla sezione "Italia - Periodo Antico" per le offerte dei valori del Governo Provvisorio.
 
Nulla quaestio, di per sé. È una scelta che privilegia la cronologia degli eventi piuttosto che la logica commerciale, e non ci sarebbe davvero nulla da dire se non fosse che la scelta solleva un interrogativo: dove vanno collocati i francobolli del Regno di Sardegna? 
 
In linea di principio, se l'Italia unita fosse stata una nuova realtà statuale, se avesse cioè inglobato, eliminandoli, tutti gli Antichi Stati pre-unitari per far sorgere un'entità geopolitica sino ad allora inesistente, allora - per stretta coerenza - i francobolli del Regno di Sardegna dovrebbero trovarsi tra gli "Antichi Stati Italiani", perché così come - con l’unità d'Italia - sono spariti il Lombardo-Veneto, i Ducati di Modena e Parma, il Granducato di Toscana, e le Due Sicilie, allo stesso modo si sarebbe dovuto dissolvere il Regno di Sardegna, tutto in nome - appunto - di un Regno d'Italia in cui nessuna antica patria preservava più il proprio status, ma tutte si potevano rivedere in una nuova creazione statuale.

E invece no. La Bolaffi (di Torino) colloca i francobolli di Sardegna nella sezione "Italia - Periodo Antico", tra i Governi provvisori di cui il Regno sabaudo era a capo, e li presenta per primi, a voler affermare - in modo affatto subliminale - il ruolo guida e di fondamento del Piemonte in ciò che chiamiamo Italia.
 
La suggestione permane, dopo oltre centosessanta anni: il Regno di Sardegna è ancora lì, e la nostra nazione - vista da Torino - è solo un Piemonte che si estende fino a Siracusa.

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