QUARTA LEZIONE DI ECONOMIA (FILATELICA)


Ci sono due modi per acquistare un francobollo (degli Antichi Stati): a "prezzi netti" oppure in "asta". La differenza è ovvia, se ci limitiamo a osservare l'esecuzione dell'acquisto: con i "prezzi netti" il collezionista accetta e paga il prezzo richiesto dal commerciante, pubblicizzato sul suo catalogo di vendita; in "asta", invece, il prezzo lo fa il gioco dei rilanci, innestato su una base di partenza variamente fissata, e maggiorato per le commissioni di agenzia.

Dietro la semplice differenza materiale si celano però due mondi profondamente diversi, per lo stile e le attitudini dei personaggi che li popolano, per i rischi e le probabilità a cui si espone chi decide di entrarvi.

Partiamo da due fatti. Primo: le aste rappresentano oggi la forma di vendita, più che prevalente, quasi esclusiva; tutti si son messi a fare aste, anche quelle case filateliche un tempo culturalmente distanti da questa modalità commerciale, per tradizione e tipologia di clientela. Secondo: i prezzi spuntati in asta sono in media sensibilmente più bassi di quelli pretesi nelle ormai ben rare vendite a prezzi netti, che sono perciò snobbate da una quota crescente di collezionisti, e in definitiva avvitate nella spirale della loro scomparsa.

Il connubio è perfetto, in apparenza.

Da un lato, il commerciante è esonerato dal selezionare, mantenere e aggiornare un stock proprietario, un'attività onerosa che implica un immobilizzo di capitali, richiede intelligenza e lungimiranza nella gestione delle vendite, presuppone la capacità di intuire e magari saper pilotare le tendenze di mercato; l'azione commerciale viene circoscritta alla pura intermediazione di materiale di terzi, all'occorrenza integrata con pezzi del proprio stock ereditato dal passato; il profitto è nelle commissioni d'asta, che oggi viaggiano intorno al 45%, equamente divise tra acquirente e proponente (anche se il primo può tarare la propria offerta scalandola preventivamente per il costo d'agenzia, che nei fatti viene così a pesare per intero sul venditore, e il secondo può negoziare privatamente una commissione più bassa, per materiale di particolare pregio o rarità).

Per altro verso, il collezionista può realizzare i suoi acquisti a un costo percepito di gran lunga più conveniente, in special modo nel settore degli Antichi Stati, storicamente dispendioso. Altro non sembra interessargli, se non spendere il meno possibile, e l'asta sembra messa lì bell'apposta per soddisfare questa sua unica ambizione. Il costo, oltre che più basso, gli sembra poi anche più giusto, perché trasparente, fissato da un anonimo "meccanismo di mercato" e non dalla deprecata ingordigia di un ben preciso commerciante .

Tutti avvertono la sensazione di aver marcato una tacca di efficienza negli scambi; ma è solo una sensazione, appunto.


Le aste - tutte le aste - sono meccanismi impersonali, probabilmente la più alta spersonalizzazione dei rapporti commerciali, anche quando connotate da un certo folklore. L'asta vive di freddi numeri, inframmezzati da pochi termini gergali: "100 alla chiamata, 100 alla chiamata, 110 in sala ma il lotto è ancora da noi, 120 in sala, il lotto è ancora da noi, 150 in sala, 160 al telefono, 170 in sala... going, going... gone!". Molti lo ignorano, ma le aste, i meccanismi d'asta, formano un importante e corposo capitolo di teoria economica, cui sono dedicati interi libri, con un elevato grado di formalizzazione. Tutto molto tecnico, elegante e preciso, e spaventosamente disumano.

Il bisogno di umanità - il sangue scorre anche nelle vene dei più cinici - trova la sua valvola di sfogo nelle immancabili lagnanze dei collezionisti verso alcune peculiarità delle vendite all'incanto. All'improvviso si scorgono anche altre cose, oltre a un prezzo basso che più basso non si può: si leggono descrizioni vuoi criptiche, vuoi generiche, vuoi enfatiche, che in ogni caso trasferiscono sul collezionista l'onere di capire cosa sia esattamente quel lotto; si scoprono condizioni di vendita capestro, che nei fatti inibiscono la restituzione del materiale aggiudicato; i cataloghi sono rilasciati con breve anticipo sulla data dell'asta, assemblati senza logica, difficili da consultare; l'asta è in giorni e orari parecchio scomodi per un normale collezionista; c'è il travagliato rapporto con la paletta - coi compulsivi click sul mouse, diremmo oggi - con la competizione pronta a degenerare in un fatto d'orgoglio personale; e sorvoliamo sulla quella pletora di artifici per "indirizzare" le aggiudicazioni, per rispettare la lettera dell'asta (e del contratto) tradendone lo spirito.

Per quell'accozzaglia di fatti e situazioni che vi infastidiscono - variabile nel tempo e nello spazio, da una casa d'asta all'altra - è stato implicitamente fatto un prezzo, implicitamente dedotto dal costo finale del vostro acquisto, e implicitamente da voi accettato. Avete cioè trovato conveniente - ne siate o no consapevoli - sobbarcarvi tutta una serie di "fastidi" variamente assortiti, per beneficiare di un costo monetario più basso. Eliminare quei "fastidi" ha un costo, che, se vi sforzate di monetizzare, scoprirete assai prossimo a ciò che manca per portare il realizzo d'asta nell'ordine di grandezza del prezzo netto richiesto dal commerciante. Il cerchio è chiuso.

C'è parecchia mitologia intorno al ruolo delle case d'asta e al significato dei prezzi di aggiudicazione.

C'è ancora chi propaganda la favoletta dell'asta ideata e realizzata per far risparmiare i collezionisti, una scorciatoia per oltrepassare il commerciante old-style e porre in "contatto diretto" acquirenti e venditori. Falso, storicamente falso, falso in passato e falso oggi, e non solo perché acquirente e venditore tanto "direttamente" poi non comunicano - ché in mezzo c'è la casa d'asta col suo bel 45% di commissioni - ma falso per un motivo più profondo, strutturale.

Ogni settore economico utilizza una filiera produttiva, tra il produttore e il consumatore ci sono passaggi intermedi, spesso più d'uno. Esistono quanto meno un mercato all'ingrosso e un mercato al dettaglio. C'è un luogo dove i commercianti si riforniscono e un altro luogo in cui poi vendono. E' esperienza comune, e non serve indugiarvi oltre.

Le aste filateliche nascono come mercato all'ingrosso della filatelia, come un luogo in cui in cui i mercanti si approvvigionano del materiale, da dettagliare poi presso i singoli collezionisti. L'asta parla ai commercianti, si rivolge a chi è del mestiere. Loro, i commercianti, fan questo di mestiere, quindi fa poca differenza che l'asta o la visione del materiale siano in un giorno o in un altro, un sabato alle 15.00 o un mercoledì alle 10.00. Loro fan questo di mestiere, e gli basta poco per capire cosa merita e cosa no, quindi poco importa se il catalogo lo hanno un mese o una settimana prima. Loro fan questo di mestiere, e si disinteressano sovranamente della precisione delle descrizioni, perché le descrizioni se le scrivono da sé, visto che è proprio il loro lavoro.

L'asta è la sezione all'ingrosso del mercato filatelico, da sempre. Portiamo indietro le lancette del tempo, sino al 2 marzo 1991, il giorno della vendita all'incanto della Collezione "Pedemonte", un irripetibile complesso filatelico costruito "per raggiungere l'elegante ed esclusiva meta prevista dal 'Gran Tour Filatelico'", per evadere dal "ristretto ambito di un'angusta specializzazione", come scriveva Alberto Bolaffi nel presentarla.


Sfogliamo questo splendido catalogo d'asta e tiriamone fuori alcuni lotti (di Parma, Pontificio e Toscana).








Spostiamo ora le lancette del tempo giusto di un anno, portiamole al marzo del 1992, e posizioniamoci sul catalogo di vendita a prezzi netti n. 7 dell'Ingegner Giacomo Avanzo.


Sfogliamo questo catalogo e ... cosa ci troviamo? I lotti dell'asta "Pedemonte"! Ve li propongo di seguito, col prezzo netto richiesto dal mercante (marzo 1992) seguito dal realizzo spuntato in asta (marzo 1991).


   





       




      

Già trent'anni fa, quando la Bolaffi entrò nel mondo delle vendita all'incanto, la fisiologia del mercato prevedeva la presenza intermedia di un mercante, capace di valutare il materiale in asta, selezionarlo e batterlo, per riproporlo infine ai propri clienti a un prezzo anche notevolmente maggiorato - il 60 crazie "P.aR." fu rivenduto sopra la quotazione piena di catalogo, all'epoca £ 100.000.000) - come giusto compenso per il lavoro eseguito e per i rischi presi in carico.

C'è un episodio gustoso (e educativo) raccontatomi da chi quel 2 marzo 1991 era lì a Torino, nel Salone Bolaffi, per partecipare all'asta "Pedemonte". Questo mercante batteva alcuni lotti in proprio e altri - più impegnativi - in sociale con un altro mercante. Chiamate, rilanci e aggiudicazioni si susseguivano, e i soci portarono a bordo un pezzo di particolare pregio. L'asta era nel vivo, quando uno dei due si alzò, richiamato discretamente dal Signor B., un collezionista presente all'asta. Tornò dopo qualche minuto, riprese posto accanto al socio rimasto in sala, e gli sussurrò in un orecchio: "Il Signor B. vorrebbe il lotto pregiato che ci siamo appena aggiudicati: offre più del 50% del realizzo. Che facciamo?". "E cosa dobbiamo fare?" - replicò l'altro - "Vendiamoglielo!".

Questo episodio - ma se si vuole già il catalogo 7 di Giacomo Avanzo - apre una fessura su un mondo che non solo non c'è più, ma che oggi stenteremmo a credere sia esistito davvero, se non ne avessimo qualche (rara, sommaria) testimonianza. E' un mondo in cui il collezionista non fa i conti in tasca al mercante, e non s'interroga sui profitti del commercio filatelico (che implica anche costi, tasse e rischi, come ogni intrapresa economica) ma accetta volentieri di pagare quel che c'è da pagare, in nome di un divertimento superiore.

C'è di più, se scaviamo a fondo, se andiamo a riscoprire i sentimenti e le sensazioni dell'epoca. C'è la consapevolezza che l'asta è il segmento all'ingrosso del mercato filatelico, c'è la consapevolezza - in parole più vivide - che le aste sono luoghi pericolosi, campi minati, mari inquieti, montagne franose, sono posti dove ci si può fare molto male, perciò da riservare ai professionisti, a chi è del mestiere.

Le aste - tutte le aste - sono ambienti rischiosi, lo sono oggi come lo erano ieri, e di esempi se ne potrebbero portare a piacimento: di esemplari comuni e pregiati, di rari e ordinari, di nuovi e usati, sciolti, su frammento o documento. Qui ne chiamo uno solo, a rappresentarli tutti: l'asta Italphil del 15-17 ottobre 1976 - condotta in tandem con la Robson Lowe di Londra, in occasione della "Mondiale di Filatelia" di Milano - per la quale abbiamo addirittura una testimonianza diretta del banditore dell'epoca.



Che meraviglia, non trovate? La Italphil, la casa italiana d'aste filateliche, il nome all'epoca più blasonato. La Robson Lowe, un mito sempiterno della filatelia internazionale. In sala, tra mercanti e collezionisti, il gotha del mondo filatelico. Sul rostro, "un giovanissimo battitore d'asta con il martelletto in mano, alla sua prima esperienza fuori dalle mura amiche", stretto tra una famosa banditrice poliglotta e Robson Lowe in tutta la sua persona. Straordinario! Roba da rimpiangere di avere avuto all'epoca solo due anni, e farti venir voglia di regalare vent'anni di vita, così, a cuor leggero, per poter esser lì, all'asta Italphil dell'ottobre del 1976, su cui le Poste Italiane congegnarono addirittura un'emissione filatelica.


Apriamolo dunque questo catalogo, il catalogo di questa straordinaria vendita all'incanto. Chissà quali gemme ci troveremo...



Meravigliosa! E' la coppia che dieci anni dopo riapparirà in "Scilla e Cariddi".

Proseguiamo.


Incantevole! Oggi è custodita in quello scrigno di cose preziose che è la Collezione "Naples" del Dottor Melone.

Su, andiamo avanti, sino alla guest star, una mista risorgimentale... da brivido: un'assicurata da 7,25 grana, assolta con un esemplare da 5 grana dell'emissione del 1858, un falso d'epoca da 2 grana e una Crocetta col suo facciale da mezzo tornese equivalente a 0,25 grana.



Sì, sono passati più di trent'anni, e questa mista da brivido, arricchita da due autorevoli firme peritali, la ritroviamo nella Collezione Naddei, il più prestigioso complesso filatelico risorgimentale dei giorni nostri, premiato con l'Oro Grande a "Romafil 2010".


E' lo stesso Bernardo Naddei a cui Enzo De Angelis e Mauro Pecchi rivolgono il loro sincero ringraziamento per aver contribuito a un libro cult sulla filatelia napoletana, il celeberrimo volume sulle "Cento Croci".




Già, più di trent'anni sono passati, da quell'asta di respiro internazionale targata dalla coppia d'eccezione Italphil-Robson Lowe; e più di trent'anni sono serviti per conoscere la sorte del lotto 121, per svelarne l'attuale proprietario, l'inarrivabile Bernardo Naddei; ma già trent'anni prima dell'asta Italphil-Robson Lowe, e anzi di più, questa zompaperata napoletana era ben nota a tutti, come ci ricordano proprio De Angelis e Pecchi, nel capitolo XI del loro volume sulle "Cento Croci".



Chissà cosa sarà accaduto in quei giorni, a Milano, tra il 15 e il 17 ottobre del 1976. Chissà quanti "squali affamati" avranno mostrato le loro fila di denti, nel sorridere di fronte a quei "poveri collezionisti ignari e sprovveduti" che si contendevano a colpi di paletta (e di milioni) un oggetto ritenuto falso già dagli anni '30 e su cui un'incisore di carta-moneta e perito della Banca d'Italia aveva appuntato e documentato la sua critica già negli anni '50 (poi emendata da De Angelis e Pecchi, senza peraltro alterarne le conclusioni).
 
Chissà, poi, se chi ha trascorso "trentacinque anni dall'altra parte del banco", e ne ha "viste veramente tante", vorrà un giorno raccontarci per bene anche questa, e chissà se qualcuno vorrà spiegarci come due semplici firme siano state sufficienti a sotterrare un consolidato giudizio di falsità, come sia stato possibile che il proprietario di un pezzo costatogli centinaia di migliaia di euro abbia partecipato alla stesura di un libro che marchia quel pezzo come un falso storico, come sia stato possibile che nessun giurato di "Romafil 2010" abbia mosso un fiato.
 
Chissà se a qualcuno - in questo affollato salotto buono della filatelia - andrà mai di dare delle spiegazioni, chissà...


"Io non so nulla di suffragio universale" - scriveva Massimo D'Azeglio, nel commentare il fenomeno del brigantaggio - "ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che di là sono necessari. Ci deve essere per forza qualche errore...".

Io non so nulla di filatelia. So soltanto che un inquietate filo rosso - di lunghezza secolare - intreccia l'evento filatelico degli anni '70, immortalato persino in un'emissione postale, con uno dei più grandi collezionisti viventi, pluri-medagliato, che ha contribuito a un testo must in cui uno dei suoi pezzi è definito "storicamente falso", senza che ciò abbia inibito le firme di un noto commerciante dell'epoca (Asinelli), di un padre della filatelia italiana (Alberto Diena), di uno dei più rinomati periti odierni (Giorgio Colla) e di un nome storico della filatelia mondiale (Alberto Bolaffi) ma pur sempre nella totale indifferenza del Catalogo Sassone, che ben si guarda dall'accreditarlo tra le maggiori rarità della Dittatura e della Luogotenenza, nonostante sia la sola mista risorgimentale con un falso d'epoca del Regno di Napoli.


Io non so nulla di filatelia, ma... ci deve essere per forza qualche errore


L'asta guarda ai commercianti, parla ai commercianti, si rivolge ai commercianti, e non ai collezionisti, a cui comunque non viene preclusa. Il collezionista non è invitato, ma può ugualmente presentarsi in sala, se proprio lo desidera, con tutti i suoi batticuori, a fronteggiare quei rischi che solo una figura di alta competenza può soppesare, e consapevole che gli errori di valutazione non ammetteranno rimedi, come alcune case d'asta iniziano a segnalare esplicitamente, nel presentare le proprie vendita.



Chi partecipa a un'asta, tuttavia, non lo fa solo per pagare meno, ma anche perché percepisce una maggiore fairness del realizzo, rispetto al prezzo imposto dal commerciante. Una stessa spesa per uno stesso francobollo suscita infatti sensazioni psicologiche diverse, in ragione dell'ambiente un cui si realizza, della situazione che fa da sfondo all'acquisto. Una cosa è spendere 1.000 euro per acquistare un francobollo da un commerciante che pretende quella cifra, e in definitiva prendere o lasciare. Altro è spendere 1.000 euro per comprare l'identico francobollo in un'asta  in cui partiva da 100 euro, per poi arrivare sino a 1.000, rilancio dopo rilancio. Sono usciti 1.000 euro in entrambi i casi, e si possiede lo stesso francobollo, ma quale enorme differenza percettiva tra le due situazioni. La seconda - l'asta - appare più "solida", più "vera", sicuramente dà maggior compiacimento, soddisfa di più.

Questa percezione è reale, perché esprime una sensazione realmente provata dal collezionista, ma è anche illusoria, perché non ha fondamento nella logica di mercato.

Prendiamo a esempio una delle più belle vendite all'incanto degli ultimi anni, l'asta Vaccari del 6 maggio 2017, in cui due lotti dello Stato Pontifico registrarono le aggiudicazioni più sorprendenti, da una base di un centinaio di euro a realizzi di svariate migliaia (circa 30 volte la base).

 


Una caratteristica di un mercato è lo "spessore": un mercato - semplifichiamo in modo abominevole -  è tanto più "spesso" quanta più gente vi prende parte.  Lo "spessore" del mercato è auspicabile, perché quanto più intenso e consistente è il via-vai di acquirenti e venditori - i cosiddetti "contributori" - tanto più "attendibile" è il prezzo, nel riassumere le preferenze e le opinioni alla base dello scambio.
 
Quanti sono i "contributori" in un'asta (filatelica)? In quanti avranno battuto all'inizio i due lotti del Pontificio? In dieci? In quindici? Diciamo pure in venti o in cinquanta, se vi fa piacere. E in quanti saranno rimasti dopo che la base ha triplicato? In cinque? In dieci? Non di più, nella mia previsione. E chi è restato ad alzare la paletta, una volta toccata la soglia psicologica dei 1.000 euro? Forse in due o tre. Sono solo ipotesi, ma non penso di andare lontano dai reali ordini di grandezza. E quei tre sono infine rimasti in due, soltanto due, a palleggiarsi i lotti rialzo dopo rialzo, ognuno sperando che l'altro si stancasse. Poi il martelletto ha avuto l'ultima parola, ma... quanti sono i contributori? Due! E saranno sempre e solo due, gli ultimi due che son rimasti, gli unici due disposti a spingersi in un intorno di quel prezzo. Sono solo due, e non c'è nessun altro. Che ne è allora della domanda e dell'offerta, che in una visione più infantile che scolastica sarebbero sospinte da migliaia di collezionisti, desiderosi di vendere e acquistare, conferendo "certezza" al prezzo di scambio? In una vendita a prezzi netti ci sono due controparti (il mercante e il collezionista) e in un'asta ce ne sono tre (il banditore e gli ultimi due collezionisti rimasti). Altro che "spessore", questo è un mercato "sottile", anzi "sottiletta", si parli di vendite all'incanto o a prezzi netti. Capite perché, nell'antiquariato filatelico, il concetto di "prezzo" è intrinsecamente labile e vago?

Se il collezionista del penultimo scatto smettesse di collezionare, l'aggiudicatario si scoprirà il solo a esser disposto a spingersi sino a quella vetta. E' la "maledizione del vincitore", nel gergo della auction theory: essere gli unici ad assegnare un valore così grande a una cosa, pur di averla. Non è una sensazione piacevole, se la si razionalizza. Tutto sta nell'immaginare che, nell'ordinario fluire delle cose, per ogni collezionista del penultimo scatto che esce dal giro ce ne sarà uno pronto a subentrare, o magari anche due o tre, chissà, e magari più agguerriti e vogliosi del fuoriuscito. Il mercato rimane "sottile" - è "sottile" per sua natura - ma non scompare, e il prezzo continuerà a viaggiare su quei livelli come un acrobata su un filo sospeso in aria. La scommessa è nel credere che al modo si troverà sempre qualcun altro, almeno uno, capace di apprezzare certi oggetti come lo facciamo noi, e disposto come noi al nostro stesso sforzo pur di averli, se non a uno maggiore. E' una scommessa fondata, ragionevole? Difficile dirlo. Dietro l'acquisto di un francobollo c'è passione, sentimento, tormento - c'è molta "irrazionalità" - per cui non è mai facile tirare le fila del ragionamento che ha condotto alla decisione. L'acquisto di un oggetto antiquariale esprime l'atteggiamento di chi accetta di rischiare, e anche parecchio, per qualcosa da cui si sente irresistibilmente attratto, come insegna la lotta tra Scilla e Cariddi.

Ma il punto economico rimane: il "mercato", se esiste, è fatto al più da tre o quattro persone, e è proprio una di quelle che speriamo di trovare al momento di vendere, perché quelle tre o quattro persone, per noi, esauriscono il "mercato" (che parolone!). Che ci importa, infatti, delle centinaia di altri collezionisti, magari ugualmente bramosi di possesso, ma disposti a pagare non più della metà, o addirittura meno, di quel che abbiamo pagato noi? Noi vogliamo solo quei tre o quattro come noi, disposti ora, come noi all'epoca, a profondere lo stesso impegno nell'acquisto. Cerchiamo, vogliamo, quegli spiriti affini, e non solo per un mero fatto economico, di denari. Vogliamo quei tre o quattro spiriti affini per non sentirci soli, perché il collezionista, alla fine, è un animale sociale.



Il commerciante old-style - quello che custodisce un proprio stock, costruito e aggiornato nel tempo, in funzione del suo target di clientela, quella clientela magari non così numerosa, ma sicuramente fidelizzata - questo genere di commerciante, dicevo, è oggi veramente old, diciamo pure giurassico, una specie già estinta, più che in via di estinzione, anche se di quando in quando se ne avvista ancora qualche esemplare.

Il banditore d'asta chiama i clienti con i numeri delle palette; il mercante col loro nome e cognome, e più spesso solo col nome, vista la confidenza; il banditore vive di quantità intermediate, il mercante di prezzi praticati; il banditore ha l'esclusiva preoccupazione di assemblare con la più alta frequenza possibile la maggior quantità di materiale possibile, da pubblicizzare il più possibile, per assicurare la più ampia partecipazione possibile, che si consuma interamente nella tornata d'asta; il mercante vende con minor frequenza e in minor quantità, ma nel suo operare c'è una dimensione intertemporale - spesso indotta dalla rateizzazione degli acquisti - su cui poi si innestano altri fenomeni tipici del suo commercio; il banditore consente di visionare il materiale in giorni e ore predefinite, invariabilmente presso la sua sede, che spesso non è la città in cui vive il collezionista, e tanto deve bastare per decidere se e quanto offrire; il mercante lascia in visione il materiale di interesse, che il collezionista può esaminare con comodo, guardare e riguardare seduto sul divano di casa, per tempi anche lunghi; il banditore esprime una tendenziale e fiera opposizione a qualunque contestazione del cliente, invocando se necessario i codicilli delle condizioni di vendita, e comunque non contempla mai la restituzione del materiale a distanza di tempo per ragioni personali - per quei 1.001 motivi che portano a disinnamorarsi di un francobollo - se non reinserendolo nella prossima asta, traslando sul collezionista un nuovo costo di intermediazione; il mercante è ben predisposto a riprendersi indietro il suo materiale all'originario prezzo di vendita, se ciò che il collezionista domanda è la permuta con altro materiale ora più gradito, e talvolta accetta pure di restituire il denaro, in nome di un rapporto di clientela da preservare, percepito comunque stabile e redditizio; il banditore emette puntigliose e standardizzate bolle di aggiudicazione, in cui ogni componente di costo (aggiudicazione, commissioni, spese di spedizione) è conteggiata al centesimo di euro, per poi procedere per bruta somma, non importa quale sia la cifra finale; il mercante - qui davvero old-style - esegue i suoi calcoli con carta e penna, poi toglie una certa percentuale, variabile da cliente all'altro e in funzione della rilevanza dell'acquisto, e infine arrotonda per difetto, per fare cifra tonda; il banditore non consegna nulla, se la fattura non è prima saldata, e quando consegna, consegna e basta, senza una parola di commento; il mercante considera normale consegnare il materiale a fronte di dilazioni di pagamento - e senza pretendere interessi, se è un grande mercante - e se interpellato, ma spesso anche di sua iniziativa, ci tiene a una pur minima narrazione del pezzo venduto, che ne faccia apprezzare appieno le caratteristiche al collezionista.

Tutti noi - lo so - vorremmo un commerciante old-style con i prezzi del banditore d'asta o, specularmente, un banditore d'asta con le squisitezze del mercante old-style. Ma questa pretesa non ha più speranze di realizzarsi della mia convinzione, da bambino, che qualcuno avrebbe scovato un vaccino contro la morte, prima che io diventassi vecchio.


La complessità è una dimensione inestricabile del collezionismo degli Antichi Stati, ne rappresenta l'anima, il soffio vitale, e non si può pensare di estirparla senza che tutto il resto appassisca e muoia.

La complessità prende varie forme - ovvio: altrimenti che complessità sarebbe? - e alcune di queste forme sono ora un po' più chiare.

E' complesso muoversi nel mondo delle aste, tra descrizioni sibilline, clausole al limite del vessatorio, ostacoli nell'esame del materiale, prassi corsare dei banditori, gestione dei propri impulsi e errori valutativi. Ma l'attrattiva e il divertimento - per alcuni - sono proprio in tutte queste complessità da superare per arrivare a dama. Il divertimento - per alcuni - è nel mettere alla prova le proprie capacità, conoscenze e competenze per catturare il pezzo desiderato, in una sorta di safari nella giungla delle aste, per scoprire se e quanto si è bravi, se e come se ne uscirà vivi, con quali ferite addosso, con quali prede nella rete. 

Per altri, invece, è una benedizione potersi avvalere di una guida indigena nel mondo del collezionismo, di un mercante old-style che con la sua mediazione permetta di saltare a pie' pari un lavorio percepito faticoso e ingrato, per godere di aspetti di più immediato piacere intellettuale. Ma ciò non elimina la complessità, che prende solo un'altra forma. Anche la vita nelle suite degli alberghi di lusso ha le sue complicazioni. Il proprio mercante old-style serve sceglierlo con gran cura, con saggezza e perspicacia. Perché se di mercanti old-style ce ne sono pochi, e pur vero che tutto intorno germogliano cespugli di new-age, figure che sotto le spoglie (e i prezzi) del mercante vecchie maniere covano gli atteggiamenti e i modi del più pirata dei banditori.

Ognuno, alla fine, trova il suo piacere dove può, ma la complessità rimane ineliminabile, per tutti.

(Franco Filanci)

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