COLLEZIONE "AL DI QUA DEL FARO" - Li dissero briganti


"Tu si' lu giurici re li miei signuri
i' so' lo capo re li fuorilegge
tu scrivi co' la penna e dai ruluri
i' vao ppe' lu munno senza legge.
Tu tieni carta, penna e calamaio
ppe' castia' a sti poveri pezzienti,
i' tengo povole e chiummo, quanno sparo:
giustizia fazzo a chi non tene nienti"
(Canto raccolto a Mercato Cilento)

"L'Italia del Settentrione è fatta, non vi sono più né Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli, noi siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i Napoletani. Oh! vi è molta corruzione nel loro paese. Non è colpa loro, povera gente: sono stati così mal governati! E quel briccone di Ferdinando! No, no, un governo così corruttore non può essere più restaurato: la Provvidenza non lo permetterà. Bisogna moralizzare il paese, educar l'infanzia e la gioventù, crear sale d'asilo, collegi militari: ma non si pensi di cambiare i Napoletani ingiuriandoli. Essi mi domandano impieghi, croci, promozioni. Bisogna che lavorino, che siano onesti, ed io darò loro croci, promozioni, decorazioni; ma soprattutto non lasciar passargliene una: l'impiegato non deve nemmeno esser sospettato. Niente stato d'assedio, nessun mezzo da governo assoluto. Tutti son capaci di governare con lo stato d'assedio. Io li governerò con la libertà, e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le provincie più ricche d'Italia. No, niente stato d'assedio: ve lo raccomando".
 
Le ultime parole di Cavour - raccolte sul letto di morte dalla nipote Giuseppina Alfieri, il 5 giugno 1861 - segnalavano tutta la sua angoscia per la drammatica situazione delle Province Napoletane. I Ducati di Modena e Parma, il Granducato di Toscana e i territori pontifici erano entrati nel Regno di Vittorio Emanuele senza che le popolazioni opponessero resistenza, così come sarebbe poi accaduto per il Veneto. Solo il Meridione - come avevano preso a chiamarlo i piemontesi - era un incessante sommovimento di forze, uomini e idee. Solo nel Meridione stava prendendo forma il cosiddetto brigantaggio postunitario, la fase più inquietante del Risorgimento, una pagina buia dell'intera storia d'Italia.
 

 
Il brigantaggio postunitario è un fenomeno complesso, con molteplici radici - banditismo, resistenza armata, malcontento sociale, giochi politici, sino al mito del brigante-eroe - che si sovrappongono e s'intrecciano sino a confondersi.
 
C'è un brigantaggio endemico, strutturale, un brigantaggio che c'era già prima - nel Regno di Napoli, sotto i Borbone -  una classe di malfattori di professione, figure liminari distinte dal resto del corpo sociale, autentici banditi sempre pronti ad approfittare di ogni fase di destabilizzazione, e facilmente arruolabili nel gioco del conflitto proprio perché abituati a lasciar andare la furia.
 
C'è un brigantaggio legale e legittimo, almeno all'inizio, di contadini armati contro gli invasori, perché il Re e i suoi Generali hanno ordinato così, di combattere i piemontesi con ogni mezzo, per cui le prime bande di briganti si sentono nella piena legalità (anche se i militari sabaudi non sono propriamente attrezzati per capirlo).
 
C'è un brigantaggio politico, guidato da un Governo in esilio, sulla scia di un banditismo popolare che si era sempre levato in difesa della dinastia in occasione dei moti rivoluzionari. E' il brigantaggio finanziato dallo Stato Pontificio, dove il Re FrancescoPapa Pio IX radunano volontari e li pagano, "aizzando le passioni e i risentimenti del povero contro il ricco o l'agiato, del proletario contro il possidente", come si legge nella relazione di sintesi sulle opinioni di notabili, funzionari e militari interrogati nel 1863 dalla Commissione parlamentare.
 
C'è, sì, un brigantaggio sociale, legato alla lotta di classe, del povero contro il ricco, dei cafoni contro i galantuomini, dei contadini contro chi si è impadronito delle terre comuni. E' il moto di chi vuole solo un aratro e del pane, un sacerdote e un carnefice, e che deve esser lasciato in pace, perché per quanto santa sia la ragione che lo muove, ogni suo moto finisce in rapine, sangue, e delitti, e quando ha realizzato la propria forza, è difficile poi renderlo debole.
 
E poi c'è la repressione del brigantaggio, la repressione di una minaccia che il Regno d'Italia non conosce e non sa valutare, la repressione di chi fu incapace di reagire diversamente da come ha reagì - fucilando, fucilando e ancora fucilando -, la repressione di chi ridusse il tutto all'azione criminale di "facinorosi" e di "fuggiti dalle galere", di chi diede la colpa ai "precedenti storici" e alle "abitudini del Paese", con le parole del Primo Ministro Bettino Ricasoli nella nota diplomatica del 24 agosto 1861, finalizzata a negare qualsiasi attributo sociale, politico o ideologico.
 
Ma sul brigantaggio s'interroga anche la Corte borbonica, per separare l'insurrezione genuina da una guerriglia squalificante sul versante diplomatico, per non compromettere - stavolta irrimediabilmente - la reputazione della dinastia. Gli osservatori internazionali - si legge in uno scritto dell'epoca - erano quotidianamente subissati da notizie sulle violenze commesse dalle "orde brigantesche" emanazione dei "tristi maneggi" di Francesco II, e d'altra parte - lo ricordò Pietro Calà Ulloa - se anche la controrivoluzione avesse trionfato "in un reame sconvolto da cima a fondo", il Re non avrebbe certo potuto "reggere i suoi popoli con Ninco Naco o Chiavone".

Eppure questa soldataglia eterogenea e irregolare suscitò anche empatia e ammirazione. Il brigante si trasfigura - nel mito popolare - in un personaggio cavalleresco e generoso, un paladino del povero, un riparatore dei torti, e non stupisce che la più compiuta apologia del brigantaggio sia dovuta a Garibaldi, che pure costruì il proprio mito sfoggiando evocativi abiti banditeschi.
 
Nelle pagine del suo romanzo storico "Clelia" - pubblicato alla vigilia della breccia di Porta Pia - si dichiara "innamorato dei briganti"; prende le distanze dalle "jene assetate di sangue", ma empatizza con quei ribelli che "piuttosto di sottostare ai soprusi ed alle umiliazioni" avevano scelto  "la vita vagante della foresta" e - seppur "ispirati da falso principio" - "combattono contro polizie, carabinieri, guardie nazionali, esercito, un mondo di nemici, senza che questi giungano mai a vincerli o domarli".
 

Il brigantaggio postunitario è un capitolo della Storia d'Italia fatto di tante piccole storie, di un'infinità di episodi di complesso raccordo in una visione d'assieme. Sono storie di braccianti, pastori, soldati, banditi e donne - sì,  anche donne, e nemmeno poche - e in tutte queste storie che dilatano di continuo i propri confini, volendo, si può far posto anche ai briganti delle Poste.
  
"La Commissione si è primieramente occupata dell'esame della convenienza di adottarsi il sistema del franco bollo, che è oramai in uso presso quasi tutti gli altri Stati di Europa, per la francatura delle lettere. Ed ha riputata necessaria l'introduzione di un tal sistema, siccome il solo mezzo sicuro ed efficace per impedire le frodi che in danno del Regio Erario abitualmente si commettono" - si legge nella sezione "DELLA CONVENIENZA DI ADOTTARSI IL SISTEMA DEL FRANCO BOLLO OBBLIGATORIO" della "Relazione" della Commissione formata nel 1857 "per disaminare e proporre tutti gli immegliamenti che sia necessario od utile di arrecare all'Amministrazione generale delle Regie Poste e de' Procacci".
 
Anche il Regno delle Due Sicilie - sebbene per ultimo - volle ammodernare il proprio sistema postale, tra l'altro proprio per arginare il fenomeno delle frodi.
 
Ma la frode è come l'acqua - trova sempre una via - e per chi voleva usufruire del servizio postale senza pagare, o pagando meno del dovuto, era solo cambiato l'oggetto del raggiro, che ora diventava il francobollo.
 
La falsificazione dei valori postali colpì più d'uno Stato, ma a Napoli prese una dimensione del tutto peculiare. I falsi di Napoli - scrive Emilio Diena - "sono forse quelli che furono adoperati su più larga scala in confronto ad altre imitazioni eseguite per frodare Amministrazioni postali di altri Paesi. Il pregiudizio che ne risentì l'Amministrazione postale napoletana deve essere stato considerevole".

I falsari dei francobolli borbonici erano "fra quei modesti ma talora valenti artefici, allora frequenti a Napoli, che eseguivano in calcografia e stampavano con piccoli torchi a mano biglietti da visita, monogrammi ed intestazioni di carte da lettera". La loro opera si concentrò sul 2 grana (il pezzo a più alta frequenza d'uso) e sugli alti valori da 10 e 20 grana (per i quali la spesa valeva l'impresa), tutti stampati uno alla volta. Tuttavia "le imitazioni sono in massima parte grossolane", e chiunque sarebbe stato in grado di distinguere un falso da un originale, tanto poco era curata la loro realizzazione.
 
Come fu allora possibile il loro dilagare, addirittura "su lettere assicurate, talora anche affrancate con esemplari autentici, affianco ad altri falsi dello stesso valore"?
 
Semplicemente perché vi fu un brigantaggio - il brigantaggio delle Poste - che non solo non fu mai contrastato a livello istituzionale - se non nelle disposizioni dei regolamenti, rimaste lettera morta - non solo fu tollerato e sopportato, ma addirittura fu incoraggiato e favorito dalla complicità degli stessi impiegati postali, da quell'intreccio di interessi privati che spingeva le guardie e i ladri ad accordarsi per frodare lo Stato, e contro cui ogni misura di contrasto sembrava impotente, allora come ora.
 
Questi sono i falsi di Napoli.

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