«MA A COSA SERVE COLLEZIONARE FRANCOBOLLI?»


Ma si può sapere cosa ci fate con questi rettangolini di carta colorata vecchi di secoli? Quali vantaggi ci sono nel possederli? Insomma: a cosa serve collezionare francobolli antichi?
 
Il Blog ha dato più d'una risposta - su diversi piani - a queste domande ricorrenti all'infuori della nostra cerchia: dalla redazione del "Manifesto" dei collezionisti, alla scoperta della radici del collezionismo, sino alle "Conversazioni" sul collezionare.
 
Il Blog ha dato più d'una risposta - su diversi piani - a queste domande ricorrenti all'infuori della nostra cerchia: dalla redazione del "Manifesto" dei collezionisti, alla scoperta della radici del collezionismo, sino alle "Conversazioni" sul collezionare.
 
Ma è con il progetto "Collezionare il Risorgimento" - e in particolare con la Collezione "Al di qua del Faro", che ne rappresenta la manifestazione tangibile - che è arrivata la replica decisiva. Ritornate sui post che lo compongono, leggeteli in sequenza o a grappoli, create i vostri personali itinerari di lettura, oppure limitatevi a sorteggiarne alcuni, e tutto vi sarà chiaro, per quel minimo di sensibilità che vi è richiesto di avere.
 
E se non siete ancora del tutto persuasi, se residuano dei dubbi, consentitemi un commento a margine, solo per mettere le cose in prospettiva.
 
 
Non si può capire a cosa serve collezionare francobolli, se prima non si chiarisce il significato generale dell'espressione servire a. Cosa vuol dire - esattamente - che una determinata azione serve a qualcosa?
 
Se domandandoci a cosa serve, noi intendiamo chiedere quale sia l'utilità pratica immediata della nostra azione, quale beneficio materiale istantaneo scaturisca da ciò che stiamo facendo, insomma quale bruto tornaconto se ne può trarre adesso, allora, sì, collezionare francobolli non serve a nulla.
 
Dopodiché, però, se davvero vogliamo dare un significato così limitativo all'espressione servire a, se accettiamo sul serio questa versione mortificante del "qui e ora", allora dobbiamo onestamente riconoscere che gran parte di ciò che facciamo nella vita non serve a nulla. D'accordo, ci sono cose che realmente non servono a nulla - e più che inutili le definirei stupide - ma anche al netto di questa frazione di cose effettivamente sterili - si spera non troppo ampia - tutto ciò che rimane sono anch'esse cose che di per sé non servono a nulla.
 
Tutte le nostre azioni si inquadrano sempre in un progetto, e ogni progetto si realizza necessariamente passo dopo passo. Il singolo passo non ha altro scopo - non serve a nient'altro - che a metterci in condizione di compiere il passo successivo, e il passo successivo serve solo a compiere il passo ancora dopo. E si procede così, attraverso una sequenza di passi, ognuno funzionale ad avanzare nel cammino, ma tutti privi di una loro utilità intrinseca. Fin quando non si compie l'ultimo passo, il passo "n", con cui si taglia il traguardo e si mettono all'incasso i tanto agognati benefici materiali (oppure si segna un intertempo, giacché ogni progetto si compone di regola di più sotto-progetti).
 
Ma cosa ha reso possibile l'ultimo passo, il passo "n"? Ovvio: il passo precedente, "n-1". E il passo "n-1" da dove viene? Dal passo "n-2", e così a ritroso, sino a risalire al primo passo, il passo iniziale, il passo "1". I progetti si realizzano così - passo dopo passo, senza soluzione di continuità - e quindi non ha senso, è proprio un no-sense, domandarsi a cosa serve il singolo passo, perché equivarrebbe a valutare con una logica locale ciò che può essere apprezzato solo con una visione globale.
 
Bisogna piuttosto interrogarsi sullo scopo del progetto che richiede quei passi, perché sono i passi a concretizzare il progetto e a ricevere dal progetto il loro significato. Con una precisazione ulteriore, che può suonare paradossale: tanto più l'obiettivo finale del progetto rimane indefinito a priori, quanto più grandi potranno essere i benefici materiali ottenibili a posteriori.
 
Suona paradossale, sì, ma il paradosso è solo un ribaltamento delle convinzioni comuni, che permette di vedere le cose da un'angolazione diversa, da cui spesso si rivelano nuovi e inattesi significati.

Siamo tutti afflitti - e non da oggi - da un malinteso senso pragmatico. Vorremmo che ogni nostra azione avesse un'utilità sua propria, indipendente dal contesto, dalla situazione presente e dalle prospettive future, e se proprio non può averla, almeno pretendiamo che il progetto in cui si colloca abbia un obiettivo concreto, definito con estrema precisione, che ci dica con esattezza cosa ne verrà di materialmente vantaggioso dal nostro agire.
 
Questa ossessione - ché di un'ossessione si tratta - ha finito per toccare persino quegli ambienti dove per tradizione si ragionava con paradigmi opposti.
 
"Per molto tempo a scuola ci andavano in pochi, e andava bene così
perché guarda caso, quando a scuola ci andavano in pochi
- penso al settecento, all'ottocento ancora all'inizio del novecento - 
si dava però per scontato che andare a scuola, andare al liceo, intendo dire fare le superiori,
era indispensabile per avere poi un ruolo dirigenziale nella vita.
L'esercito italiano, durante la prima guerra mondiale, ha un disperato bisogno di ufficiali,
tanto che alla fine manda a comandare i plotoni e le compagnie dei diciannovenni,
ma su una cosa non transige: devono aver finito le scuole superiori.
Perché sapere il latino serve per fare l'ufficiale in trincea? Sì, evidentemente!
Questa era la loro risposta.
Così come in Inghilterra, se uno voleva fare il pastore anglicano,
la via normale era: intanto ti iscrivi a Oxford o a Cambridge,
e quando ti sei laureato potrai fare il pastore anglicano.
Poi lo sappiamo tutti cosa è successo. E' successo che si è detto:
'In un grande movimento democratico tutti devono avere accesso a questo
 tutti devono avere tanti anni durante i quali studiano e si impadroniscono della cultura comune.
Non si deve più avere un mondo in cui solo l'élite - quelli che comandano-
possiedono la cultura: tutti devono averla,
tutti i ragazzi devono avere anni e anni durante i quali studiano e imparano
anziché dover lavorare come è sempre successo ai loro padri e ai loro nonni'.
Ma mentre prima, finché a scuola ci andavano i figli dei padroni,
tutti sapevano che andare a scuola era importantissimo
per fare di te una persona più forte e con più possibilità,
quando hanno cominciato ad andarci anche i figli degli operai si è cominciato a dire:
'Ma in fondo in fondo siamo sicuri che poi tutto questo serve?' 
E adesso siamo arrivati al punto che questa grande conquista per cui si era detto:
'Tutti devono avere davanti molti anni durante i quali studiano
senza chiedersi a cosa mi servirà questo specificamente'
non va più bene, si è cominciato a dire e a pensare che per mandare la gente a scuola
la cosa poi deve essere spendibile sul mercato del lavoro,
e si è arrivati adesso all’assurdità che si è tornati a dire ai ragazzi, come ai loro nonni analfabeti:
'Anche se avete soltanto sedici, diciassette o diciotto anni, però un po' di lavoro lo dovete fare.
Che è questo lusso di passare quegli anni solo a studiare a scuola?"
 
Guardate all'università italiana, ripetutamente accusata di essere "troppo teorica", "troppo accademica" (sic!). A cosa serve laurearsi con 110 e lode in economia, se poi, a conclusione del percorso di studi, non si è nemmeno capaci di leggere un estratto conto bancario o di compilare il 730 per la dichiarazione dei redditi?
 
Chi si pone questa domanda, o domande simili, è qualcuno che chiaramente non ha mai studiato un solo giorno in vita sua. Potrà pure aver conseguito dei titoli - lauree, dottorati, master - ma il punto rimane: non ha mai studiato un solo giorno in vita sua (perché aver letto uno o più libri, averne ripetuto il contenuto a un professore, aver strappato un voto eccellente, e aver proseguito così fino alla laurea e oltre, non implica automaticamente l'aver studiato).
 
Perché lo studio - io intendo lo studio autentico, genuino - non ha nessun obiettivo pratico immediatamente individuabile.
 
Lo studio serve a spalancare tutte le porte del cervello, così da potergli far entrare di tutto, da tutte le parti, in qualunque momento; lo studio serve a concimare il cervello, a renderlo un terreno massimamente fertile, di modo che gli si possa piantare di tutto, confidenti che tutto germoglierà; lo studio serve a tenere il cervello costantemente vigile, pronto a rispondere a ogni eventualità, a ogni sollecitazione; lo studio serve a ingrandire le dimensioni stesse del cervello, se mai fosse possibile.
 
Un'università sviata da necessità troppo pratiche - come avvenuto con la cosiddetta "riforma 3+2" - disattende il suo mandato, tradisce la sua stessa natura. E' solo lo studio alto e generale - della storia economica e degli economisti, delle teorie economiche e dei modelli econometrici, e prima ancora di tutta la matematica, la statistica e la probabilità che vi stanno dietro - a poter formare la figura professionale dell'economista, che all'occorrenza, se necessario, imparerà all'istante anche a leggere un estratto conto o a compilare un 730. Ma se l'insegnamento universitario viene invece mortificato da esigenze pratiche immediate, se tutto si risolve nell'insegnare direttamente a leggere estratti conto e a compilare 730, i corsi di laurea sforneranno insuperabili lettori di estratti conto, eccellenti compilatori di 730... e nient'altro.
 
Nel mio corso di laurea c'era una materia dal nome agghiacciante: algebra. E se questo nome non fosse già stato abbastanza terrificante, vi avevano aggiunto una qualifica ancor più sinistra: astratta.
 
Algebra astratta: roba da brividi per chi è assillato dal bisogno di sapere a cosa servono esattamente le cose.
 
Già: a cosa serve l'algebra astratta?

Facciamola vergognosamente semplice: l'algebra astratta studia insiemi di oggetti, per l'appunto "astratti", nel senso che astrae dalla natura specifica degli oggetti in sé - che possono esseri numeri, figure geometriche, ma anche, francobolli, monete o orologi - e si preoccupa solo di analizzare le relazioni tra gli oggetti, e in particolare indaga se il risultato di un'operazione sugli elementi di un insieme abbia come risultato un elemento incluso ancora nell'insieme di partenza.
 
Immaginiamo - giusto per rendere l'algebra astratta un filo meno astratta - che il nostro insieme di partenza sia l'insieme N dei numeri naturali, i numeri usati dai bambini per contare: 1, 2, 3, 4, ... e via così.
 
Definiamo - sull'insieme N - l'operazione di somma, che indichiamo col segno "+". Si può dimostrare - e il risultato è parecchio intuitivo - che scelti ad arbitrio due numeri naturali, x e y, la loro somma s=x+y è sempre un numero naturale: si dice allora che l'insieme N è chiuso rispetto all'operazione di addizione.
 
La proprietà di chiusura ha grande rilevanza - ci sono molti vantaggi nell'operare liberamente sugli elementi di un insieme, sapendo di rimanere sempre al suo interno - anche perché non è affatto scontata. Già con l'operazione di sottrazione, indicata col segno "-", non è più rispettata. Se scegliamo arbitrariamente due numeri naturali, x e y, non siamo più sicuri che la loro differenza d=x-y sia ancora un numero naturale. Se x=3 e y=5, ecco che d=-2, e -2 non è un elemento di N: l'operazione di sottrazione ci ha portato fuori dall'insieme di partenza.
 
Questo è l'esempio più semplice; volendo se ne possono dare di più complessi, anche coinvolgendo l'infinito, ma questo post non è e non vuol essere un corso di algebra astratta; e poi, se non siete già scappati venti righe fa, all'inizio di tutto il discorso, se siete ancora qui, allora sicuramente vi starete ponendo la solita domanda: ma a che serve?
 
Ebbene, l'algebra astratta ha un'infinità di applicazioni; e non parlo di applicazioni esplicite e dirette, quelle in cui si è consapevoli di mettere all'opera uno schema teorico in una situazione pratica, per formalizzarla, comprenderla e governarla; da questo punto di vista, anzi, l'algebra astratta non ha forse nessuna applicazione (e se le ha, io non le conosco); io mi riferisco alle applicazioni implicite e indirette, quelle in cui inconsapevolmente, senza volerlo, ci lasciamo guidare dai formalismi dell'algebra astratta, che diventano un paio di occhiali attraverso cui guardare il mondo.
 
Di esempi ne potrei esibire a volontà, e anche di notevole e obiettiva rilevanza, ma preferisco restare aderente al tema e al contesto, quindi parliamo semplicemente... dei blog.
 
Cos'è un blog, sul piano formale? E' un insieme di post disposti in sequenza temporale (e già compare il concetto di insieme). E' poi prassi taggare i post, attribuirgli una o più etichette. Ma cosa vuol dire - formalmente - taggare (etichettare) i post? Vuol dire creare dei sottoinsiemi omogenei rispetto alle etichette attribuite, vuol dire isolare (chiudere in un recinto) tutti i post attinenti a un certo argomento, vuol dire - in definitiva - offrire dei percorsi di lettura ai frequentatori del blog, con la certezza che tutto ciò che tocca quell'argomento si trova nell'itinerario. E quando un blog, dopo anni, accoglie centinaia di post, ecco che avere dei percorsi di lettura costruiti sui tag - passare cioè da una semplice esposizione cronologica a una schematizzazione logica - è fondamentale per rendere piacevole l'esperienza dei frequentatori (e se si vuole è necessario allo stesso blogger, per tenere sotto controllo l'evoluzione della sua creatura).
 
Tutta l'abilità sta nel definire tag pertinenti, da affibbiare ai post con la massima precisione; e allora si vede - eccome se si vede! - se uno ha studiato o no algebra astratta; accidenti se si vede!
 
Chi ha studiato algebra astratta sa bene quanto sia delicata l'operazione di etichettatura; sa quante accortezze occorrono per soddisfare la proprietà di chiusura, per avere dentro un insieme tutto e solo ciò che in quell'insieme deve effettivamente stare (in modo che, combinando liberamente i singoli elementi, si abbia un risultato che appartiene ancora all'insieme).
 
Chi non ha mai studiato algebra astratta - perché tanto l'algebra astratta non serve a niente - finirà con l'auto-sabotarsi; affibbierà una marea di tag ai post iniziali, in preda a un mal controllato entusiasmo (ignaro che quante più etichette si mettono tanto peggio la singola etichetta assolve la sua funzione caratterizzante); poi ne metterà meno e sempre meno, e nei post successivi i tag andranno così a scemare; finché il capriccio dei tag non gli passerà del tutto  e allora non ne metterà più, con l'effetto di trasformare il blog in una selva oscura (per il lettori) o in un'idra a nove teste (per lui stesso).

Vi porto un altro esempio a tema, specifico del collezionismo (filatelico).  
 
Cos'è una collezione (filatelica) sul piano formale? E' un insieme di oggetti (postali). Ma il mero elenco degli oggetti non esaurisce la collezione, o meglio, non la caratterizza. E' decisiva la modalità di presentazione, vale a dire - tecnicamente - la chiave di aggregazione dei singoli pezzi. E si vede - eccome se si vede! - se uno ha studiato o no algebra astratta, quando si tratta di precisare la chiave, di scegliere il modo con cui presentare l'insieme di oggetti.

Chi ha studiato algebra astratta vede l'intero spettro delle possibilità; sa distinguere ciò che è logico da ciò che ha natura empirica (una distinzione cruciale in ogni attività che voglia definirsi "scientifica"); sa caratterizzare tutte le chiavi di aggregazione formalmente ammissibili, e quindi logicamente legittime, e tenerle separate dal complesso delle ragioni empiriche che portano a preferire l'una o l'altra, in funzione della tradizione, del buon senso, della sensibilità di ciascun collezionista.
 
Chi non ha studiato algebra astratta difficilmente riuscirà a immaginare qualcosa di diverso dalla presentazione canonica, standardizzata, "da catalogo"; e vedremo così - a esempio - l'emissione di Napoli sgranata con la prevedibilità di un rosario, con la pagina del ½ grano della I tavola seguita dalla pagina del ½ grano della II tavola, poi dall'1 grano I e II tavola, dal 2 grana I, II e III tavola, e avanti così, fino al 50 grana, per passare quindi ai falsi per servire, e a chiudere la Trinacria e la Crocetta. Tutto già visto centinaia di volte.

Mi piace offrirvi una declinazione specifica di questo esempio: la Collezione "Castrovillari", dell'architetto Francesco Civale.
 
Perché il collezionista Francesco Civale è prima di tutto un architetto, e si vedono - accidenti se si vedono - i suoi studi di architettura.
 
Chi è e cosa fa un architetto? Un architetto è - e fa - tante cose, ma nel sentire comune è fondamentalmente un ottimizzatore. E' un classico: compriamo una casa e vogliamo ristrutturarla, magari buttare giù tutto e rifarla daccapo, in modo da sfruttare al meglio ogni spazio, da non avere zone morte o disfunzionali, ma la vogliamo pure esteticamente gradevole, che trasmetta un senso di accoglienza (e vogliamo ovviamente che stia in piedi). Difficilmente saremo in grado di avere una visione corretta delle cose, di realizzare il progetto di ristrutturazione in autonomia. Abbiamo bisogno di un architetto.
 
Ma la rilevanza sta tutta nel fatto che gli studi di architettura - a prescindere che si svolga o meno la professione di architetto - plasmano una personalità, forgiano una carattere, trasmettono una visione del mondo - come avviene con ogni forma di studio, quando condotta con rigore, impegno e passione - e tutto ciò dà continui segni di sé in ogni cosa che si realizza, dalla ristrutturazione di una casa sino a... una collezione di Storia postale.
 
E "Castrovillari", sì, è un autentico capolavoro di architettura: tutto è ottimizzato - dalla selezione dei pezzi, alla costruzione delle pagine, all'ordine di presentazione, alla cura nella scrittura delle didascalie sino alla scelta del logo e alla creazione delle immagini a corredo - per renderne la visione un'esperienza che merita di essere vissuta.

Chi se lo immaginava, quando eravamo lì sui libri, a sudare tra i sorrisi, che tutte quelle cose astratte e generali sarebbero servite a tutto questo e a un'infinità di altre cose pratiche?
 
Perché - vedete - un progetto definito a priori in tutti i suoi dettagli, ben caratterizzato in ogni sua minuzia, potrà forse vantare il pregio della chiarezza, ma di sicuro si preclude le infinite possibilità a disposizione di quei progetti che restano invece flessibili, aperti all'imprevedibile.
 
Perché - a voler portare il discorso alle sue conseguenze ultime - solo un obiettivo inutile, purché ben scelto, può soddisfare in automatico un'infinità di bisogni pratici e utili.
 
Il matematico David Hilbert sosteneva che la più grande impresa tecnologica del ventesimo secolo sarebbe stata la cattura di una mosca sulla luna. E a questo punto - da soli - dovreste aver capito il perché, e da soli - a questo punto - dovreste anche aver capito a cosa serve collezionare francobolli antichi.
 
„Era uno di quegli uomini che pretendono di rinchiudere l'universo in un armadio. Questo è il sogno di ogni collezionista. E siccome questo sogno è irrealizzabile, i veri collezionisti, come gli amanti, anche nella felicità vengono colti da tristezza infinita. Sanno che non potranno mai chiudere a chiave la terra intera, mettendola in una vetrina. Da qui viene la loro profonda malinconia.“

Fonte: https://le-citazioni.it/argomenti/collezionista/

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