UNA COLLEZIONE DI COLLEZIONISTI



Il rizoma come metafora del collezionismo.
"Un modello a rete prevede la definizione di ogni concetto (rappresentato da un termine)
grazie all'interconnesione con l'universo di tutti gli altri concetti che lo interpretano,
ciascuno di essi pronto a diventare concetto interpretato da tutti gli altri.
Allargando idealmente all'infinito la rete dei nodi interconnessi,
da un concetto assunto come type è possibile ripercorrere, dal centro alla periferia più estrema,
tutto l'universo degli altri concetti, ciascuno dei quali può diventare a sua volta centro
e generare infinite periferie".

Perché collezioniamo? Qual è il movente? Quale la finalità?

Quanti collezionisti saprebbero dare risposte precise, sintetiche e intellegibili, a queste semplici e legittime domande?
 
Quanti, tra noi, saprebbero rinunciare alla propria auto-referenzialità e rispondere in modo da invogliare altri, fuori dalla nostra cerchia, ad avviare un percorso collezionistico? 

Nessuno, nella mia opinione. Non sarei anzi sorpreso se più d'un collezionista si rifiutasse di replicare, vedendo nella pretesa di una risposta un tentato omicidio alla sua passione. Le passioni sono specifiche - diranno in molti, non senza ragioni -, colpiscono in modo mirato, sollecitano sensibilità individuali, perciò sono inspiegabili. Nella scelta di collezionare c'è una magia che non può e non deve esser spiegata, che può solo esser sentita, se non si vuol farla svanire. Quale fascino potrà mai emanare una bella donna, se la descriviamo con suoi dati anagrafici, le analisi cliniche e una serie di nitide radiografie? Saranno tutte cose pur vere, ma altrettanto certamente la sua bellezza sta altrove.

Curiosità, passatempo, prestigio, vanità, amore per il rischio, spirito di competizione, ambizione di eccellere, attrazione per la bellezza, costruzione di una propria identità, gratificazione sensuale, desiderio di ordine, volontà di acquietare il proprio ego, di esser ricordati. Qualunque sia il leitmotiv dichiarato del collezionista, c'è la sensazione che il primum movens sia altrove, che sia inutile il tentativo di isolare i moventi del collezionare. Ogni pretesa razionalizzazione - di collezionisti e collezioni - è avvolta in una nebulosa di significati, e se vuol essere esaustiva, anziché precisare e circoscrivere, finisce col riproporre la vastità, l'assenza di confini del campo che vorrebbe delimitare.
 
Ma allora perché collezioniamo?


E' ingenuo pensare di ridurre il collezionismo a pochi postulati validi erga omnes, e tuttavia non è completamente inutile provare a capire meglio noi stessi, tracciare una linea epistemologica del collezionismo, abbozzare un'ontologia dei suoi oggetti, "gettare uno sguardo dentro il rapporto che un collezionista ha con le sue raccolte, uno sguardo dentro il collezionismo più che dentro di una collezione", com'era nel programma di Walter Benjamin.

Il collezionismo continuerà a scontare statuti labili, mutevoli nel tempo e nello spazio, e collezionare rimarrà una pratica aperta a incertezze, a problemi irrisolti per i quali spesso sarà necessario improvvisare soluzioni arbitrarie (senza che arbitrio e improvvisazione conducano necessariamente a commettere degli errori). Ma saremo almeno in un territorio di ignoranza consapevole - sapremo ciò che non sappiamo -, un'ignoranza dotta e razionale: ignoranza, perché molte cose di fatto non le sapremo spiegare; dotta, perché comunque non partiremo più da zero; razionale, perché il nostro non-sapere sarà inquadrato in un sistema di valutazioni critiche, in una struttura organizzata di molte altre conoscenze pertinenti. 






Fermare il tempo, bloccare le situazioni di vita, lottare contro la dispersione:
sono questi i moventi profondi del collezionare, le ragioni ultime del collezionismo.
Il racconto "I palloni del signor Kurz"
di Michele Mari, nella raccolta "Euridice aveva un cane" -
esprime meravigliosamente queste ambizioni,
che probabilmente sembrano bizzarre ai profani
("ma bizzarra è qualunque cosa venga detta dall'angolo visuale di un autentico collezionista",
annota Walter Benjamin con una sottile autoironia).
 Gli allievi di un collegio giocano le loro partite di calcio
sotto la costante minaccia del diabolico Signor Kurz,
il vicino che s'impossessa dei palloni caduti accidentalmente nel suo cortile.
Il signor Kurz - nell'immaginario di Bragonzi, il ragazzino protagonista del racconto -
è "un enorme ragno nero immobile nel mezzo del suo cortile,
ma rapidissimo a gettarsi sui palloni che come grassi insetti cadevano nella sua rete".
I ragazzi, stanchi dei soprusi, si decidono un giorno a un atto estremo:
una spedizione notturna nel giardino di Kurz,
per riappropiarsi di quei palloni ingiustamente sottratti al loro piacere.
Ma quando Bragonzi si trova finalmente dall'altro lato del muro divisorio,
ciò che vede lo lascia dapprima confuso e poi strabiliato. 
Il signor Kurz colleziona i palloni, li marca con le date delle partite,
li custodisce e li protegge, li ordina, li dispone in sequenza,
"in modo da porne in vista la parte migliore, quella meno ammaccata o meno scucita,
o quella con le facce o le firme, come se a quei palloni volesse bene".
Protetti dall'amore di Kurz, i palloni sopravvivono ai legittimi proprietari,
per diventare la memoria storica delle partite giocate:
"le discese di Serceni, il caracollar di Saniosi, i fallaci di Piva, le teghe di Fognin",
 e poi "le facce sudate, le nubecole di terra, le crosta sui ginocchi" 
e ancora "le discussioni sui fuorigioco e i pari e dispari per fare le squadre"
e infine "l'ira e la gioia", tutto questo fluire viene cristallizzato nel pallone,
salvato dall'inesorabile trascorrere del tempo.
L'ossessione dell'adulto si trasferirà inaspettatamente al bambino:
Bragonzi lancerà volutamente il pallone appena ricevuto in regalo nel cortile di Kurz,
per intrappolare l'infanzia in una collezione che sottragga i suoi reperti al movimento della vita,
fuori da ogni flusso, da ogni dispersione, tra il visibile e l'invisibile,
aggrappati, o sorretti, sempre e comunque, a ciò che fa star bene e tiene in vita,
traghettando sogni, speranze, entusiasmi e ricordi.

Alla base del collezionismo c'è il possesso, perché il collezionista è un amatore, e come ogni amatore vuole primariamente possedere: "il possesso è, fra tutti, il rapporto più profondo che sia possibile stabilire con le cose", con le parole nette di Walter Benjamin. 
 
Collezionista è chi ha in circolo il dolce veleno del desiderio di possesso, chi vive l'esaltazione e l'angoscia proprie dell'ossessione del possedere.

"Perché dentro di lui ci sono degli spiriti, o meglio degli spiritelli, 
che operano in modo che per il collezionista - io intendo il vero collezionista -
il possesso sia la più profonda relazione che in assoluto si possa avere con gli oggetti"
(Walter Benjamin)

Gli oggetti amati dal collezionista, gli oggetti di cui il collezionista brama il possesso, hanno una caratteristica distintiva: sono inutili, privi di qualsiasi valore d'uso o finalità pratica. "Il carattere fondamentale che distingue gli individui collezionisti puri è l'inutilità logica e pratica della loro raccolta", osservava con spietata lucidità Arturo De Sanctis Mangelli, nel 1934, nella prefazione al libro "6 periti e un francobollo" di Gaetano Garofalo.

Possiamo indagare sul perché si colleziona, o interrogarci sul come si costruisce una collezione, ma non ha senso chiedere a cosa serve la collezione. Ogni collezionista non potrebbe che rispondere parafrasando l'autodiagnosi del matematico Godfrey Harold Hardy, sulla sua vita professionale: "Non ho mai fatto niente di 'utile' [...]. Giudicato secondo tutti i parametri pratici, il valore della mia vita è nullo".
 
Lo scopo e l'utilità del collezionare non li troveremo mai tra "i parametri pratici" della vita di ogni giorno. Sono altrove, tra i sentimenti, tra "le ragioni del cuore, che la ragione non conosce", citando Blaise Pascal; e d'altra parte, se il godimento del collezionista può essere totale e appagante, è proprio perché - e solo perché - è totalmente libero, svincolato da finalità materialmente vantaggiose, non limitato da alcun tornaconto personale.


Il possesso di cose inutili è l'istinto di base del collezionista, che tuttavia non lo qualifica, non lo caratterizza. Cantine, soffitte e le stesse case sono stipate di cose inutili e dimenticate, che ingombrano e tolgono spazi di vita, e da cui tuttavia non riusciamo  a separarci. Accumulare non è collezionare e una mera accumulazione - pur precisa, ordinata e quantitativamente rilevante - non è una collezione. Il desiderio di possesso di cose inutili è condizione necessaria ma largamente insufficiente, affinché si possa parlare di collezionismo.

Il collezionista ha "un rapporto assai enigmatico con la proprietà", un legame con le cose "che non ne mette in primo piano il valore funzionale, e dunque la loro utilità, ma li studia e li ama in quanto scena, teatro del loro proprio destino", ancora con le parole di Walter Benjamin.
 
Le cose marcano il nostro passaggio nel mondo e trattengono sensazioni - come la conchiglia raccolta sulla spiaggia in cui riecheggia lo sciabordio del mare - e il collezionista le accumula sulla scia di una spiccata capacità di meravigliarsi ed entusiasmarsi per la loro scoperta, di coglierne la potenza evocativa, di sfiorare il loro passato, di percepire l'eco dei sentimenti che vi hanno trovato riparo.
 
Il collezionista svincola la cosa dal valore d'uso, per investirla di affettività, di significati simbolici e intellettuali. La funzionalità lascia il posto a un diverso e più ampio sistema di valori - sociologici, storici, culturali scientifici - fissati negli oggetti e nelle relazioni tra gli oggetti, all'interno della collezione. L'amore del collezionista preserva l'oggetto e lo protegge, ne fa un segno di evoluzione e civiltà contro la labilità della memoria,, sino a trasformarlo una reliquia, con un valore sacrale collegato alla ritualità del collezionare.

Il collezionista soggiace al potere sottile e sensuale di cose impregnate di memoria, che riportano in luoghi immaginari e lontani cui sono legati ricordi e sentimenti. Il collezionista annoda pezzi di storie passate a cordoni di vite future, in una tacita staffetta che al traguardo premia chi ha saputo custodire gli oggetti come si fa con le esperienze più belle e istruttive. Il collezionista sperimenta una sospensione del tempo e dello spazio, una sensazione di serenità e raccoglimento nel rapporto di contiguità, di fusione, con la propria collezione. "Basta osservare come un collezionista maneggia gli oggetti della sua vetrina. Appena li tiene in mano, pare guardare ispirato attraverso di loro, nelle loro lontananze", ancora con Walter Benjamin.
 
Come in un puzzle, creativo e evocativo, gli oggetti si posizionano e s'incastrano sino ad assumere - tra identità e differenze - una precisa forma narrativa. Il sapiente lavoro di accostamenti e rimandi, guidato da criteri cronologici e tematici, produce una narrazione che non si risolve in puro nozionismo, ma culmina in una complessità culturale in cui gli oggetti creano un "luogo" carico di pathos, da cui nessuno può uscire a cuor leggero, una volta entrato.
La "Presentazione" della Collezione "Castrovillari", di Francesco Civale.
"Colleziono, quindi imparo" è la divisa per caratterizzare il collezionista:
  quante cose si scoprono, quante nozioni si apprendono,
quante persone si incontrano, quante avventure si vivono,
quando si è intenti nell'acquisizione di questi "inutili oggetti"!
"Gli oggetti artistici stimolano il collezionista 
ad allargare le sue conoscenze, a entrare in altri scenari storici.
Gli oggetti estetici, così densi e stratificati di significato,
ci costringono ad indagare il mondo e anche ad assecondare la loro natura [...].
Gli oggetti tolti alla loro vita quotidiana assumono un'altra vita nella collezione:
cessano di essere beni mondani, diventano pensieri e sentimenti reificati, cose pensanti.
Nel collezionismo, attraverso gli oggetti, si costruiscono gerarchie di valori;
un nuovo senso viene dato all'ambiente circostante e a sé stessi, per poi comunicarlo al mondo. [...].
Questi particolari oggetti si distinguono
per le stratificazioni dei riferimenti e delle allusioni, per l'accumularsi di significati;
sono oggetti particolarmente preziosi, vivi,

dove materiale e immateriale (spirituale) trovano un'eccezionale fusione.
Sottoposti a una operazione paradossale, tolti dal circuito delle attività e dell'uso,
il loro contesto viene distrutto, sono esiliati, sottratti alla loro origine,
ma, con il loro trasferimento in un'altra cornice e accanto ad altri oggetti,
creano una nuova storia e una nuova origine. [...].
Alla cosa inanimata vengono attribuite le caratteristiche di un organismo perennemente vivo,
la proprietà di influenzare sentimenti e modi di pensare;
ed esso racchiude al suo interno una quantità di oggetti analoghi,
condensando nella sua forma molteplici indizi culturali e storici. [...].
Assieme alla raccolta, inizia una nuova vita,
la necessità di interessarsi e studiare l'epoca di cui fanno parte gli oggetti,
i collegamenti tra cose simili, le derivazioni e le influenze del periodo storico sull'oggetto,
ogni riferimento alimenta la relazione tra il collezionista e l'oggetto
e costruisce insieme una nuova identità per entrambi [...].
Il gusto della collezione non è solo un modo di controllare, classificare, manipolare il mondo esterno,
ma anche di conquistare il proprio mondo interno, quello delle emozioni e dei pensieri,
sottintendendo a ciò il processo che conduce all'equivalenza tra sentimenti, pensieri e cose.
Collezionare serve dunque a maneggiare le emozioni,
nel senso di incarnare e distanziare negli oggetti, come fa il teatro con i personaggi,
la vita affettiva, credendo finalmente di dominarla [...].
Per il collezionista ogni oggetto rappresenta un modo di ricordare.
Addensa in sé un teatro di memorie, una magica enciclopedia di messaggi [...].
Era la volontà di rianimare il passato raccogliendone i frammenti,
ricomponendo un contesto a lungo sognato o studiato".
(Francesca Molfino, Alessandra Mottola Molfino)

Il collezionista volge il suo sguardo verso il mondo e scorge un indistinto affollamento di oggetti. Come scegliere nel marasma soverchiante, nella sua grigia e soffocante densità? Come salvarsi dall'abisso della possibilità illimitata? Come individuare gli oggetti utili e significativi?  Bisogna staccarne uno o più, isolarli dagli altri, e comporli in una collezione.

Il collezionista porta ordine in un sistema entropico; è armato di "parole-chiave", con cui partizionare lo spazio delle alternative; possiede un talento matematico-insiemistico, per creare associazioni, cogliere somiglianze e differenze, riconoscere la struttura comune di oggetti distinti e le diversità di oggetti simili; l'oggetto smette di essere una cosa tra le cose, per diventare il risultato di un pensiero, uno status logico posto dalle facoltà intellettive, e per questa via sollecita la consapevolezza, la capacità di conoscere, comprendere, discernere.

Il collezionista sviluppa un'attitudine all'organizzazione degli oggetti dispersi nel mondo, colloca l'oggetto in una catena do altri oggetti, la singola cosa in un sistema di relazioni; tiene alta l'attenzione, formula ipotesi e traccia percorsi di indagine, allena senza posa le capacità di valutazione e giudizio, di scelta e decisione.
 
Il collezionista procede con un meticoloso e inesausto lavoro di ricerca, selezione, sistemazione e risistemazione dei suoi oggetti, per offrirgli una casa ospitale, un'eroica seppur provvisoria contestualizzazione, sapendo che il destino degli oggetti è d'esser continuamente composti e ricomposti, nell'inevitabile passaggio da un collezionista all'altro.

La pagina n. 10 della Collezione "Scilla e Cariddi", anno 1989.



La "pagina di Tagliacozzo" della Collezione "Naples", anno 2018.



Il collezionista è mosso dalla volontà di definire un ordine nel mondo,
attraverso un sistema di oggetti costruito sull'atto ripetitivo della ricerca.
Il processo rassicura e gratifica, regala una sensazione di controllo sul caos dell'esistenza, 
dà l'impressione di padroneggiare un territorio delimitato,
di cui si vanta non solo il possesso, ma anche il potere di selezione.
Questa ambizione di ordine - come l'altra, speculare, di completezza - rimane utopica,
rappresenta un asintoto, un'ideale irraggiungibile, cui ci si può solo approssimare.
"Cos'è, infatti, questa raccolta" - osserva malinconico Walter Benjamin -  
se non un disordine in cui l'abitudine si è talmente ambientata da farlo apparire ordine? [...]
Qualsiasi ordine è, in questi ambiti, null'altro che lo stare sospesi sopra un abisso [...] 
In tal modo l'esistenza del collezionista si colloca
nella costante tensione dialettica tra i poli del disordine e dell'ordine".

I desideri di possesso e ordine, di bellezza e armonia, hanno conseguenze emotive sulle persone; invadono la sfera dei sentimenti; implicano coinvolgimenti esistenziali.

Collezionista è chi è sopravvissuto alle emozioni, chi ha educato il sentimento e imparato a governare la congerie di impulsi che a ogni momento lo scuotono, lo eccitano, lo spingono in una direzione e verso la sua opposta, collezionista è chi ha represso l'insofferenza verso sé stesso e l'ha sostituita con l'attiva e paziente sorveglianza che il buon giardiniere rivolge al suo orto.

Ogni collezionista testimonierà di aver vissuto tre fasi: la prima, la voracità, quando l'entusiasmo iniziale sovreccita il desiderio di possesso purchessia; la seconda, la riflessione, quando subentrano la razionalità e la consapevolezza, che restringono il campo d'azione e conferiscono una fisionomia alla collezione; la terza, il godimento, quando la contemplazione della collezione trasmette il piacere più intenso, pur persistendo l'ambizione - ineliminabile - di ampliarla ulteriormente.

Criteri selettivi mal-posti, sudditanza verso i condizionamenti esterni, foga e cupidigia - sino a invertire il rapporto di possesso: non più padrone ma succube delle cose - sono le classiche derive del neofita, che diventano terreno di speculazione per gli psicologici e per gli stessi collezionisti.

"Sottoposta a psicanalisi la figura del collezionista ne esce male, e dal punto di vista etico c'è certamente in lui qualcosa di profondamente egoistico e limitato, di gretto addirittura", affermò il celebre collezionista Mario Praz, forse per non lasciare ad altri l'ultima parola. Il padre della psicoanalisi - quel Sigmund Freud che pure confessò "molti sacrifici" per la sua raccolta di antichità, nonché la lettura di "più libri di archeologia che di psicologia" - vedeva nel collezionismo un feticismo per ripararsi dall'angoscia, con l'immancabile venatura di stampo sessuale. Le sorelle Molfino - la psicanalista Francesca e la storica dell'arte Alessandra - "si mettono sotto di buzzo buono a sezionare la figura del Collezionista" e la striano "con lunghe e pesanti ombre maniacali", leggiamo nella spassosa recensione di Sergio Frau al libro "Il possesso della bellezza".

Sono diagnosi centrate se circoscritte al collezionista-vorace, se contestualizzate al primo stadio dell'evoluzione del fenomeno collezionistico. Già nella fase successiva - della riflessione, in cui si fugge dalla smania del possesso, per conquistare più ampi orizzonti - collezionare è un delicato equilibrio tra passione e raziocinio, un continuo incanalare le emozioni nei percorsi della ragione. Analiticità, rigore, oculatezza, perseveranza, e poi la somma virtù della pazienza - il  saper attendere, senza scoraggiarsi, nonostante gli insuccessi e le frustrazioni - segnano l'originalità dell'itinerario collezionistico, lo trasformano in un viaggio tra le stanze segrete dell'anima, per rispondere a sollecitazioni culturali che orientano idee e progetti.


 Il desiderio di possesso di cose prive di utilità 
mette in contatto la semplicità del bambino e la sofisticatezza del magnate:
per il primo, le cose non sono ancora oggetti d'uso, non sono valutate sull'utilità;
per il secondo, i bisogni primari sono già soddisfatti, perciò svaniti, 
e le cose possono esser trasfigurate e collocate su un piano culturale più elevato.
Il bisogno di conoscere gli oggetti e classificarli, di coglierne analogie e differenze,
è presente già nella prima infanzia, tra i sei e i dieci anni,
e trova una prima soddisfazione in raccolte indifferenziate, 
basate su caratteristiche qualitative molto generali,
per poi reindirizzarsi entro una classe più precisa e ristretta.
Se la stessa tendenza permane in età adulta, con gli stessi meccanismi,
gli psicologi parlano di "bisogno di controllare l'ansia di separazione" (dagli oggetti dell'infanzia).
Se però le scelte si affinano e si perfezionano di pari passo con la maturazione dell'uomo,
se si acquisiscono e si sviluppano le tecniche e i sistemi di selezione, di catalogazione e esposizione,
allora subentrano delle necessità più evolute e sofisticate, di compiutezza e ricerca,
e cambiano tanto gli oggetti della collezione, quanto i moventi del collezionare.

Collezionare - superata la fase ingenua - non è più un'occupazione preminente o secondaria, a fianco di altre occupazioni futili o importanti, ma è un'attività totalitaria che ingloba tutte le altre e le alimenta, per quella naturale circolarità di interessi che trova riscontro nelle diverse parti di un'anima, nelle varie sfaccettature di una stessa personalità. L'uomo, il marito, il papà, il professionista, lo studioso, lo sportivo non sono più antagonisti o gregari del collezionista, ma entrano in un'immensa sala degli specchi, che a ogni momento riflette e proietta una stessa identità da varie angolazioni.

Collezionare - nelle fasi evolute - è un prolungamento della propria persona, un modo di stare al mondo, che può rendere la vita parecchio vivace, segretamente godibile, florida di contatti, sviluppi e piaceri; e nella collezione che sopravvive al collezionista, nella collezione che permane anche quando il collezionista sarà andato via, se ne può rintracciare l'intera esistenza, se ne tramanda il ricordo sino a eternizzare la sua presenza nel mondo, con una retorica ricca di informazioni sulla cultura che lo ha circondato.

Dalla Prefazione alla Collezione "Prince Doria", London, 19 novembre 1963.


Dalla Prefazione alla Collezione Burrus, London, 1-2 dicembre 1964.



Dalla prefazione alla Collezione "Scilla e Cariddi", Roma, febbraio 1989.



Dalla prefazione alla Collezione "Pedemonte", Torino, 2 marzo 1991.



Dalla prefazione alla Collezione "Seta", Zurich, 5 dicembre 1998.



Dalla prefazione alla Collezione "Ghirlandina", Milano, 13 giugno 2002.



Dalla prefazione alla Collezione Vullo, London, 12 novembre 2003.



Dalla prefazione alla Collezione Aquila, Torino, 27 maggio 2011.



Dalla prefazione alla Collezione Orlando, Torino, 25-26 novembre 2011.

Ogni collezione ha le fattezze di un mondo visionario e organizzato, con un potenziale di fantasie e creatività che alimenta un piacere rinnovato a ogni momento, sulla scia del legame intimo tra il collezionista e gli oggetti collezionati, della forte connessione tra il collezionista e la sua vita affettiva. "E' vero, come è vero, che il termine di 'collezionismo' deve significare un interesse per l'opera d'Arte che non si esaurisce nel semplice dato di erudizione ma che è sorretto da un viva, genuina esigenza a partecipare, con un'assidua vicinanza, alla voce poetica che l'opera esprime, sì da fare di questa un essenziale elemento della vita di tutti i giorni". Parola di Federico Zeri.

La collezione è l'esito delle scelte di un'individualità, di cui esprime lo stile, la conoscenza teorica e la competenza tecnica, la base culturale e la sensibilità estetica. Raccontare una storia attraverso una sfilata di oggetti - per dirlo con Italo Calvino - è un'operazione comunicativa e il suo risultato, la collezione, recepisce, riecheggiandoli, tutti i sentimenti e gli obiettivi dell'autore, il collezionista. Studio, cultura, educazione, buon gusto, diletto, ma anche ambizione, prestigio, sacrificio, solitudine, il tutto sospinto da una bramosia in cui al minimalismo dell'oggetto fa da contraltare l'immenso desiderio di possederlo.

Collezionare - per cristallizzare l'idea in uno slogan - è un'avventura introspettiva che coinvolge l'evoluzione del proprio gusto.

La parola "gusto" ha due significati principali:
"gusto" come capacità sensoriale, per apprezzare i sapori;
"gusto" come capacità intellettiva, per apprezzare l'estetica e il pregio.
Il dualismo - tra sensi e intelletto - rende il gusto una metafora,
un traslato con cui il più corpulento dei cinque sensi
(che per avvertire i sapori dei cibi li distrugge)
passa a indicare il più spirituale degli apprezzamenti
(che ci pone a contatto con la bellezza e invita a contemplarla).
Vedere nel gusto un sentimento così soggettivo, da vanificare ogni discussione,
è l'atteggiamento tipico degli individui volgari e ignoranti.
Se così fosse, se davvero "de gustibus non est disputandum",
saremmo privati di quella base comune, di quell'insieme di valori condivisi,
indispensabili per comunicare, intendersi e accordarsi,
e tutto si ridurrebbe a un caotico autoscontro di istinti personali.
E il gusto, invece, è un tema ricorrente nei discorsi quotidiani,
si parli di moda, arte, arredo, musica o altro.
Sicuramente il "gusto" si trascina dietro vicende intricate e complesse, ambigue e sfuggenti,
e ricostruirne il cammino, anche solo a grandi linee, è una vera sfida per la storia delle idee. 
Facoltà ora dei sensi, ora dell'intelletto, ora intermedia tra l'uno e l'altra;
erede e concorrente del giudizio;
espressione di un conoscere che diletta e di un diletto che accresce la conoscenza,
il gusto rimane un tratto distintivo delle classi sociali istruite e colte.
Sorge, sì, come manifestazione squisitamente soggettiva,
ma poi evolve in un accordo inter-soggettivo, se si vuole "convenzionale",
e però basato sulla ripetuta osservazione, sull'introspezione, sull'analisi,
che ne consentono una codificazione, di sicuro né automatica né meccanica. 



















Il gusto del collezionista
trasforma la pagina di un catalogo d'asta in un bignami di storia postale
e conferisce all'oggetto lo splendore di un gioiello.




Il gusto del collezionista
riconosce il pregio di un oggetto irripetibile,
lo sottrae dalla cattiva compagnia in cui si trova,
lo colloca nel suo ambiente naturale, che lo valorizza e lo esalta.
 
Come si forma il gusto del collezionista? E' la conseguenza di un'erudita elaborazione teorica o di un'abilità tecnica acquisita sul campo? Presuppone una specifica preparazione o si risolve in uno spiccato intuito? E' una forma di distinzione tra classi sociali o un dono di natura? E' una dimensione istintiva o razionale? Probabilmente una miscela di tutto questo e di altro ancora, con proporzioni indefinibili.

Nessuna collezione nasce con un'idea già precisata in ogni dettaglio - nessun collezionista sa quale forma prenderà la sua collezione, quando decide di comporla, ché troppe variabili entreranno in gioco e poche saranno controllabili - ma sicuramente tutte le collezioni si sviluppano con l'evoluzione del gusto del collezionista, con la sua abilità nel selezionare gli oggetti giusti, secondo la metrica, il canone, della cerchia dei suoi pari.

La formazione del gusto è un processo lungo, incerto e doloroso, che lascia ferite profonde nell'animo (e nel portafoglio e nella collezione), segni e tracce che non scompaiono quando il gusto è stato finalmente acquisito e consolidato, come sparisce un'impalcatura dopo aver ultimato i lavori di restauro della facciata di un palazzo. Il demone dell'errore non smette mai di tormentare il collezionista, e ogni collezionista è condannato a convivere con spettri e fantasmi.

Gli spettri sono gli acquisti sbagliati, quelli fatti di pancia, senza pensare troppo, accecati dal desiderio del possesso o da qualche caratteristica appariscente dell'oggetto, senza averne prima recuperato la visione d'assieme e ponderato il suo ruolo nella collezione. Perché, ora, si definiscono sbagliati? Perché non lo erano allora, quando sono stati realizzati? (e dovevano anzi sembrare azzeccati, se ci si era decisi per l'acquisto). Cos'è successo tra ora e allora? L'oggetto, in fondo, è sempre lo stesso, non è cambiato. E allora cos'è cambiato? E' cambiato il collezionista, il suo gusto.

I fantasmi sono le occasioni perdute, andate vie per inesperienza, per aver pensato troppo, per non aver saputo cogliere l'attimo o non aver allenato a sufficienza il fiuto. Perché, ora, si definiscono perdute? Perché non lo erano allora, quando sono state ignorate? (e dovevano anzi sembrare irrilevanti, se quei pezzi furono affidati alla misericordia di altri collezionisti). Cos'è successo tra ora e allora? L'oggetto, in fondo, è sempre lo stesso, non è cambiato. E allora cos'è cambiato? E' cambiato il collezionista, il suo gusto.

"Chi compera deve possedere, in aggiunta al denaro e alla competenza, anche un buon fiuto.
Data e luogo, formato, precedente proprietario, bottega, e così via
- tutte queste cose devono parlargli e non solo prese aridamente in sé e per sé:
devono essere in consonanza tra loro, e dall'armonia e dalla nitidezza di questa consonanza
il collezionista deve poter riconoscere se un oggetto gli si confà o no"

(Walter Benjamin)

Il collezionista è un "tipo", nella sociologia; se ne studiano i profili, le specie, le patologie.

Seriosi, matti, precisi, distratti, vanitosi, narcisisti, conformisti, stravaganti, pignoli, sbrigativi, vendicativi, invidiosi, avidi, colti, rapaci, silenziosi, discreti, loquaci, passionali, istrionici. Tra i collezionisti c'è di tutto, e di tutto si può trovare nelle loro esperienze, che traboccano di fatti curiosi e sorprendenti, di tragedie, apoteosi e follie.

C'è la gazza, attratta dal luccichio della collezione di provenienza, come se il precedente famoso proprietario potesse trasferire un quid del suo lustro al nuovo temporaneo custode dell'oggetto. C'è il topo, inguaribilmente critico e sospettoso, ossessionato dall'affare, che passa il tempo a esaminare con timore tesori d'ogni sorta, per poi comprare due ciotole e un cucchiaio, a meno di tre soldi. C'è il paguro, rinchiuso nella conchiglia con la sua collezione, che non mostra a nessuno, e che se lancia uno sguardo sulla collezione di un altro sente più il disagio che il privilegio, ha l'impressione di penetrare in una stanza che non gli appartiene, di violare il segreto di un'intimità turbinosa. C'è il pavone, che della sua collezione ne fa invece un oggetto d'esibizione, da mostrare ripetutamente in pubblico, col patto implicito di scatenare il più chiassoso degli applausi, la più acuta delle esclamazioni di meraviglia, il più retorico degli apprezzamenti, fossero anche soltanto il rumore dell'ignoranza e della follia.

Ma tutto ciò riguarda in fondo solo le insindacabili vite private dei singoli collezionisti, è soltanto folklore, pura aneddotica, interpretazione psicologica spicciola, laddove l'interesse primario è per una catalogazione - per una collezione di collezionisti -  che dia ai significati privati un contenuto più elevato, più pregnante, per la storia del collezionismo.


"Ce n'è di quelle che entrano nella bottega con la febbre, che prorompono in grida di ammirazione,
in esclamazioni di gioia, in risa, in trilli di piacere, da parer che ammattiscano.
Alcune, non di meno, si mostran poi ragionevoli, si contentano
o, meglio, si rassegnano a quella che conviene alla borsa del padre o della madre.
Ma altre no, e fanno scene di tragedia, singhiozzando e pestando i piedi,
fino a buttarsi sul pavimento e a rivoltarvisi, menando in aria le piote, come frenetiche.
Ma anche quelle che si rassegnano [...] che sguardi lanciano alle bambole a cui debbono rinunziare:
sguardi d'amore, sospiri, [...], addii, col capo rivolto all'indietro,
con certe espressioni di tenerezza e di struggimento
che nessuna attrice drammatica sarebbe capace di rifarle"

Per tutti c'è il brivido del nuovo acquisto, dell'ultimo arrivato nella collezione, che sul momento chiude un vuoto, ma già l'istante dopo (ri)apre una voragine, col richiamo a tutti i pezzi ancora mancati. E' il dramma desiderio, la vertigine dell'infinità. Perché è nella natura del desiderio rinnovarsi in continuazione, è nella natura del collezionista avanzare verso un orizzonte che si sposta con lui, è nella natura della collezione il suo essere una catena di infiniti anelli.
 
L'intero sistema si regge sull'esistenza di una casella che rimane vuota, per quante acquisizioni si siano già realizzate. Mancherà sempre l'ultimo pezzo, quell'immaginifico pezzo capace di chiudere la serie infinita del rinnovo del desiderio, di far raggiungere quella completezza evocativa di un sogno di perfezione.
 
La collezione è un vuoto che non può e non deve essere colmato. Perché chiudere ogni vuoto significa smettere di desiderare, e la cessazione del desiderio è la pietra tombale del collezionismo. Perché il collezionista è per definizione un animale desiderante, perché persino in punto di morte il collezionista spera ancora, desidera che qualcun'altro raccolga il testimone della collezione e ne perpetui l'esistenza.




Prometeo rubò il fuoco agli dèi, per donarlo agli uomini.
Zeus ne ordinò la cattura e lo fece incatenare, nudo, nella zona più alta della Terra.
Inviò poi un'aquila, affinché gli squarciasse il petto e gli dilaniasse il fegato,
che però ricresceva ogni volta, durante la notte, cosicché quel supplizio non aveva mai fine.
La condanna di Prometeo ben simboleggia la condanna all'incompletezza inflitta al collezionista.
Perché a ogni collezione mancherà sempre "quel pezzo" che l'arricchisce e la perfeziona, 
che aggiunge nuovi significati al messaggio originario veicolato dal collezionista.
Perché il desiderio - come il fegato - si genera e si rigenera, senza soste, senza pause,
e il suo continuo rinnovarsi alimenta e ravviva la sensazione di incompiutezza,
che per un verso condanna a una perenne insoddisfazione,
e per il verso opposto tiene viva la tensione emotiva propria del collezionismo. 
Perché se il possesso è l'istinto di base del collezionista, 
se la situazione statica del possesso è ciò a cui il collezionista mira, 
è solo l'amore per la dinamica della ricerca, della selezione e dell'assemblaggio,
che tiene in vita quel desiderio ultimo di possesso.

Il collezionismo regala gioie sottili, piaceri sofisticati, soddisfazioni eleganti, ma rende anche sensibili e vulnerabili.
 
Dietro ogni passione può nascondersi una delusione, un dolore, una ferita spirituale, impossibile da rimarginare. La collezione -  nel suo essere un insieme organico, un'entità viva che non tollera mutilazioni - è una sorgente di emozioni contrastanti. Che sofferenza lacerante, che angoscia profonda, per l'oggetto perduto, per la raccolta incompleta. Manca un pezzo della collezione, manca una parte di noi.

Quel "rapporto enigmatico con la proprietà", di cui parla Walter Benjamin, mostra ora "lo stato d'animo, niente affatto elegiaco, teso e ansioso piuttosto", che gli oggetti "suscitano in un autentico collezionista". Da questo atteggiamento, "teso e ansioso", emerge un piacere assimilabile a un erotismo sottile, palpitante, con l'oggetto che acquista una carica di sensualità e può essere  anche investito di significati sessuali, di sicuro ben diversi da quelli freudiani.

"Intanto è trascorsa da gran tempo la mezzanotte, e ho davanti l'ultima cassa semivuota.
Altri pensieri, altri da quelli di cui ho parlato, mi si affollano nella mente.
Anzi, nemmeno pensieri; sono immagini, ricordi.
Ricordi delle città in cui tanti tesori ho trovato:
Riga, Napoli, Monaco, Danzica, Mosca, Firenze, Basilea, Parigi;
Felicità del collezionista, felicità del privato cittadino!
Di nessuno ci si è interessati di meno, 
e nessuno, in quel disinteresse, si è trovato più a suo agio di lui, 
Già, perché dentro di lui si sono insediati degli spiriti, o quanto meno spiritelli, 
che fanno si che per il collezionista 
- quello autentico, intendo, il collezionista così come ha da essere -
il possesso sia la più profonda relazione che si possa instaurare con gli oggetti:
non già che questi ultimi vivano in lui, è egli stesso ad abitare dentro di loro".

Il collezionista è un superuomo, invulnerabile, al di sopra del comune senso del bene e del male, quando è preso dall'atto del collezionare; è uno di quei mitici semidei, figlio di un dio e di una mortale, che non può esser ucciso, che vive in eterno, che vanta poteri in parte soprannaturali.
 
Il collezionista paga poco se può, ma non esita a pagare molto, se deve, e in ogni caso non discute mai sul prezzo di un oggetto, perché sa di rischiarne il possesso se inizia a negoziare, sa che a lungo andare è vantaggioso pagare di più che meno, e nel profondo è consapevole che non c'è niente di peggio dell'incrociare un mercante disposto a cedere alle sue insistenze per strappare uno sconto.
 
Il collezionista vive nella costante sensazione di essere un magnate, un nababbo, anche se stretto tra le pieghe del bilancio familiare o limitato da ristrettezze economiche. Quando un pezzo gli piace, quando lo sente suo e se ne innamora, lo acquista senza timore, senza lesinare sacrifici, se necessario. Può immolare qualunque cosa per la sua collezione, impegnare un intero stipendio e accettare privazioni anche fondamentali, anche per lungo tempo, pur di inserire il pezzo mancante.
 
Perché ogni rinuncia rimane comunque relativa, e nulla invece permane come l'oggetto collezionato. Perché la collezione must go on: la collezione "vive di vita propria, entità mossa da forze oscure e inconoscibili", nelle accattivanti parole di Marco Belpoliti.

"Dichiarò la base d'asta.  
Io, con il cuore in gola e la chiara consapevolezza di non poter competere 
con nessuno dei grandi collezionisti presenti, rilanciai di poco.
Ma il battitore, senza far nulla per ottenere l'attenzione dei partecipanti,
passò alla formula di rito: 'nessuno offre di più?', seguita da tre colpi di martello
- a me parve che a separarli uno dall'altro ci fosse un'eternità - 
e procedette all'aggiudicazione.
Per me, studente, la somma era comunque ancora alta.
La successiva mattinata al banco dei pegni tuttavia non rientra più in questa storia".
(Walter Benjamin)




I collezionisti sono commoventi per gli azzardi delle loro spese - affettive, prima ancora che economiche - per il disorientamento, e a volte la disillusione, insieme alla fede nei loro tesori, tra delusioni cocenti e scoperte esaltanti, senza mai smarrire il gusto per l'imprevisto.

L'acquisto di un oggetto da collezione "ha poco in comune con quelli fatti in libreria dallo studente che deve procurarsi un manuale, dal signore di mondo che deve fare un regalo alla sua dama o dall'uomo d'affari che vuole alleviare la durata del prossimo viaggio in treno". Perché "il possesso e l'avere" di un oggetto da collezione "esigono una loro tattica", annota Walter Benjamin con tutta la sua esperienza. "Né il solo denaro né la sola conoscenza specifica sono sufficienti" e "anche entrambi insieme non bastano" per creare una vera collezione, "che deve sempre avere qualcosa di inafferrabile e inconfondibile".

Collezionare vuol dire entrare in un mercato affascinante e coinvolgente, un mercato che non è un mercato, ma esprime piuttosto la dimensione pubblica di una religione privata, animato com'è da meccanismi estranei a qualsiasi regola commerciale convenzionale, in cui interagiscono una sfera razionale - che vive di prezzi - e una sfera passionale - che vive di emozioni - in una continua danza tra persone e oggetti, tra relazioni latenti o conclamate.

  
Nel mercato degli oggetti da collezione s'incontrano e s'accordano due sistemi di valori di regola staccati, se non in conflitto: quello economico-razionale, basato sulla presunzione di misurabilità e convertibilità di ogni cosa in termini monetari, e quello sentimentale-passionale, fondato sull'unicità dell'oggetto mitico, sul piacere suscitato dalla collezione, virtualmente impossibile da commisurare a un numero.
 
E' un'economia complicata, paradossale, perché le proiezioni affettive inducono una vischiosità formidabile nella fredda legge della domanda e dell'offerta. Il cosiddetto prezzo è solo il vertice di una piramide di valutazioni in cui si realizza la summa del sistema economico e del sistema passionale. Il concetto di valore si situa in un cono d'ombra, in un'area grigia non del tutto soggettiva e non del tutto oggettiva, sicuramente fuori dagli ordinari schemi economici, e però a essa in qualche senso riconducibile, se è vero che molti pezzi sono riconosciuti preziosi e esprimono valori monetari quantificati a volte in esorbitanti somme di denaro.


L'acquisto di un oggetto da collezione non è mai un'asettica compravendita, non si risolve e non si esaurisce nella semplice consegna dell'oggetto a fronte di un pagamento in denaro. L'acquisto è un gioco per intenditori, condotto sui segnali di un sismografo piantato in territori misteriosi. Ogni acquisto è una pièce drammatica, che crea una piena di ricordi pronta a riversarsi sul collezionista, quando si occupi dei suoi tesori. Ogni acquisto è celebrato con racconti evocatori di un ricongiungimento con una persona amata - una donna, un amico ritrovato - perché l'oggetto porta con sé il retaggio dell'essere vivente e dei pericoli emotivi insiti nei rapporti umani.

Corteggiamento e conquista, caccia e competizione, bottini, prede e razzie sono modalità narrative ricorrenti, nelle storie di vita dei collezionisti. L'oggetto del desiderio - come nelle fiabe - è una principessa prigioniera di un mago, che obbliga a peregrinazioni inquiete e chiama a lotte di astuzie. Si acquista l'oggetto da collezione "così come nelle fiabe delle Mille e una notte il principe comprava una bella schiava", allo scopo di "donargli la libertà" - scrive Walter Benjamin - perché la libertà di un oggetto desiderato - per il collezionista - consiste nel trovarsi da qualche parte dentro il suo album, sistemato nella sua teca, appeso su uno dei muri della sua casa.

Le procedure di acquisizione sono spesso segrete, complici o poliziesche, e semmai diventano pubbliche, se si mostrano alla luce del sole, come nelle aste, allora assumono la forma di una cerimonia liturgica, in cui la posta in gioco smette d'essere l'oggetto in sé, per trasformarsi nel trionfo sugli altri contendenti: l'umiliazione del vinto, il sacrificio in battaglia, il sublime godimento nel poter dire "è mio, io ce l'ho... e tu no!".

"Imbottito di ordini prevalentemente 'al meglio', sarebbe come dire 'comprare contro tutti',
le azzeccai una dopo l'altra senza perdere un colpo.
Mi battei da consumato marine contro una falange di fratelli della costa 
abituati a tutte le navigazioni e intenzionati a farmi pagare dazio, dogana e spiccioli;
e riuscii così bene a mandare a carte e quarantotto i loro piani
che alla fine dello scontro la coalizione si trovò fra le mani decine di lotti del tutto non graditi 
- meno che meno a me, anche se a tutti era parsa chiara la mia feroce volontà di conquista -
mentre la gran parte di ciò che veramente volevo mi era rimasta per una pipata di tabacco, 
compresa una famosa lettera della seconda emissione sarda usata a Monaco 
che mi fu contrastata da un robusto e famoso intenditore transalpino fino a un roboante 'un million' sparato con tutta la forza e la sufficienza del grande professionista
infastidito dal petulante e sconosciuto insetto;
che tuttavia ebbe l'impudenza di rilanciare ancora beccandosi torve occhiate di disgusto.
Avesse saputo, il grande fratello, la consegna del Giulio:
'fino a cinque milioni senza batter ciglio ma se qualcuno insiste non le venga in mente di fermarsi"
(Agostino Zanetti)

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