"AL DI QUA DEL FARO" - La Collezione


 

 


 
Il francobollo nasce e si diffonde nella prima metà dell'800, come oggetto per pagare in anticipo la spedizione della corrispondenza, strumentale alla razionalizzazione del costo del servizio postale.
 
Ma è solo quando la sua funzione originaria svanisce, solo quando cambia il contesto tutto intorno e il profumo di antico acquista in intensità, è solo allora che il francobollo sprigiona la sua carica semantica e vi si può lanciare sopra uno sguardo nuovo, magico, capace di trascendere l'oggetto per coglierne significati più ampi e profondi.
 
Il francobollo si trasfigura, diventa un pezzo di storia che si sono dimenticati di alterare e ora da decifrare, un oggetto attraverso cui guardare nelle lontananze del mondo da cui proviene, e in cui è presente tutto un mondo col suo inserimento in un nuovo ordine appositamente creato, la collezione, un luogo sospeso tra il visibile e l'invisibile, in cui rifugiarsi per sottrarsi ai ritmi della vita di ogni giorno, per contemplare e riflettere, scoprire il passato e raccogliere intuizioni sul futuro.
 
Questa è "Al di Qua del Faro": la creazione di chi non ha nessuna velleità da studioso o esperto, ma vuole solo mostrarsi per quel che è, un amatore, un novelliere romantico, un bambino che ha appreso la sottile arte di abitare nelle cose che ha raccolto, senza fine.

 

"Da questa Piazza dove difendo piú che la mia corona l'indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano... Io sono Napolitano, nato fra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi non conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno; i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua è la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni".
 
Ognuno la pensi come vuole, se la racconti come desidera, ma in nessun discorso politico c'è più stato un trasporto emotivo paragonabile al "Proclama di Gaeta" di Re Francesco II di Borbone, dell'8 dicembre 1860.
  

 

Nella Napoli borbonica dell'800 - la Napoli dei Ferdinando e dei Francesco - un ducato valeva dieci carlini, un carlino corrispondeva a dieci grana, e per fare un grano ci volevano quattro tornesi.
 
"La prima volta che mi portarono lo stipendio mi sentii ricco" - racconta un funzionario borbonico, poi passato nelle fila della burocrazia del Regno d'Italia - "Sessantacinque ducati, e io non ne spendevo più di venti! Ero a Santamaria, e pagavo il fitto di casa per la mia famiglia ducati sei al mese".
 
Il pane costava 3 grana al rotolo, con 2 grana si aveva una caraffa di vino e per la carne servivano dai 9 ai 15 grana al rotolo; gli studenti più poveri ricevevano mensilmente dalle famiglie non più di 7 o 8 e pranzavano in piccole osterie con pochi grani al giorno; i napoletani più agiati pagavano 6 carlini per una sedia numerata in platea al teatro San Carlo.
 
Alla stazione di Nocera, andando a Napoli, i viaggiatori passavano per una porta sorvegliata da un birro, incaricato di controllare i passaporti. Chi era avvezzo al rituale gli metteva nelle mani anche 5 grana o 1 carlino, e il birro non si dava neppure la pena aprire il documento. Ma chi non conosceva l'uso subiva un sindacato comico e implacabile. Il birro fingeva di verificare il passaporto, per poi squadrare il malcapitato con aria indagatrice. "Questo non è il vostro naso, questi non sono i vostri occhi", e via così, finché quello non gli lasciava scivolare il carlino nelle mani, e solo allora il birro chiudeva il passaporto e lo riconsegnava al titolare. "Camminate, tutto è in regola".
 
Nei Comuni si era soliti offrire un caffè ai funzionari di Polizia, delle Intendenze e delle Dogane, quando si presentavano per un’ispezione: qualche decina di ducati per evitare angherie e soprusi, o per mettervi fine, oppure per avere dei favori.
 
Alla fiera di Caserta, Re Ferdinando II negoziò personalmente l'acquisto di due puledri. "Quanto ne vuò di sti pulidri?". L'allevatore si trovò in imbarazzo. "Con vostra Maestà non si fa prezzo". Ma il Re insistette, e l'allevatore richiese allora 500 ducati. Ferdinando sbuffò. "Ssò troppo: te ne dò quattociento, e te faccio no bello regalo".
 
L'esercito napoletano - 60.000 uomini in tempo di pace, con un potenziale di 100.000 in caso di guerra - assorbirva più della metà delle entrate del Regno: 18 dei 30 milioni di ducati. Nel 1848 aveva tutelato l'onore dei Borbone e mostrato la devota soggezione al Re, eppure Ferdinando non aveva fiducia che nei reggimenti svizzeri - entrati nel Regno quando ne uscirono gli austriaci,  nel 1825 - perché la loro origine più politica che militare li rendeva il più sicuro puntello del trono, la milizia più dinastica di tutto l'esercito, e quindi la favorita: il soldato napoletano godeva di un ristoro di 5 grana al giorno, ma quattro guardie svizzere costavano quanto sette napoletani, e l'intero reggimento svizzero pesava sul bilancio del Regno per più di 600.000 ducati l'anno.
 
Questa Napoli ottocentesca, dalle contraddittorie dinamiche sociali ed economiche, rimaneva un Regno tranquillo, con un'aristocrazia priva di qualsiasi potere politico, una borghesia agraria lieta d'esser la meno tassata d'Europa, un ceto medio impiegatizio pago di avviare i propri figli alla carriera amministrativa e giudiziaria, e una plebe rurale e urbana  felice di vedersi comunque garantito il lato materiale dell'esistenza.
 
"Il mio popolo non ha bisogno di pensare", sentenziava Re Ferdinando II. "Il mio popolo obbedisce alla forza e si curva, e io m'incarico di aver cura del suo benessere e della sua dignità, ma guai s'egli si raddrizzasse sotto gl'impulsi di questi sogni, che sono sì belli nei sermoni dei filosogi ed impossibili in pratica! Coll'ajuto di Dio, io darò al mio popolo la prosperità e l'onesta amministrazione cui ha diritto, ma io sarò re solo e sempre".
 
     
In questa Napoli borbonica - nei domini Al di qua del Faro del Regno delle Due Sicilie - nel gennaio del 1858 entrano in circolazione i francobolli del Cavalier Giuseppe Masini: sette esemplari di un sobrio color rosa, dal ½ grano al 50 grana, inframmezzati dai valori da 1, 2, 5, 10 e 20 grana, personalizzati dall'incisore con le lettere del suo nome accanto al tassello del valore - la "G" sul ½ grano e a seguire "M", "A", "S", "I", "N", "I" sui pezzi successivi - forse per ragioni di anti-contraffazione, più probabilmente per vanità, e a ogni modo un segno distintivo che non ha eguali in nessun'altra emissione al mondo.
 
I francobolli delle Due Sicilie arrivano per ultimi, quando le scelte degli altri Stati hanno già determinato una tendenza nella scelta delle vignette.
 
Se il francobollo era anche un'affermazione di sovranità, un modo per dire qui comando io, l'immagine del potere si era sino ad allora concretizzata negli stemmi della dinastia, con la sola eccezione degli Stati Sardi, che avevano preferito l'effigie del Re. Piuttosto singolare la scelta del Granducato di Toscana, che aveva rinunciato a ogni riferimento politico per lasciar spazio alla cultura e alle tradizioni di Firenze e alla sua simbologia, al cosiddetto "Marzocco".
 
E i francobolli di Napoli introducono proprio la variante toscana nel modello classico degli stemmi dinastici: l'emblema dei Borbone, sintetizzato nei tre gigli, viene collocato al centro del francobollo, ma al di sopra, sui due lati, compaiono il Cavallo sfrenato (simbolo di Napoli) e a la Trinacria (simbolo della Sicilia), una triade racchiusa in forme geometriche variabili col valore facciale, sulla cui cornice corre la scritta "BOLLO DELLA POSTA NAPOLETANA".
  
Questa è Napoli nel 1858, questi soni i grana del Cavalier Masini.
 

½ grano



1 grano




 
 






5 grana




10 grana

  

 

20 grana





50 grana

 

Il Cavalier Masini aveva contrattato un compenso di 8 grana per la stampa di ogni foglio di 200 francobolli. Sui costi di produzione, tuttavia, "pendono le superiori risoluzioni dell'E.V.", scriveva l'Amministratore delle Poste al Ministro delle Finanze, il 2 febbraio 1858; e nella stessa lettera accennava a un "nuovo Calcografo" che "è stato da me convenuto per grana 5 al foglio".
 
Il passaggio di consegne veniva ufficializzato nella lettera dell'Amministratore delle Poste del 18 marzo. "Con rapporto del 2 febbraio, n. 143, informando io V.E. di aver convenuto col calcografo (Gaetano de Masa) il prezzo di grana 5 a foglio, invece di grana otto [...] per la confezione dei bolli".
 
Il Masini reagì all'istante: se era solo un problema di costi, di risparmio economico, allora l'incarico poteva esser riconquistato privilegiando un tecnicismo di stampa meno oneroso. Predispose così una serie di "saggi" a stampa tipografica, ma rimase vittima incolpevole di una storia tutta napoletana: un suo operaio regalò un intero foglio di 100 "saggi" da 5 grana  a un giovane amico, che a sua volta ne distribuì in giro una dozzina, e un esemplare finì addirittura con l'affrancare una lettera; ne seguirono un'indagine amministrativa e un processo giudiziario, e solo dopo il recupero di tutti gli altri 99 esemplari fu abolito il procedimento penale; contestualmente, però, fu anche respinta la proposta di realizzare nuovi francobolli.
 
Masini non si rassegnò. Scrisse una "supplica" a Re Ferdinando, il 16 giugno 1858, in cui spiegava dettagliatamente il nuovo metodo di stampa, affinché "sia esaminata e discussa la nuova offerta, non essendo consentano alla ragione, che per un incidente innocuo, e già rischiarato, debba rimaner soppressa una offerta sotto ogni altro aspetto utilissima". Indirizzò una seconda "supplica" a Re Francesco, nel giugno del 1859, affinché riconsiderasse la sua proposta, e poi ancora nel 1860, quando morì Gaetano De Masa e ne prese il posto il figlio Gennaro, "il quale non spettavagli" - scriveva accorato - "perché non solo non era Maestro Capo d'arte, ma anche essere un ragazzo".
 
Non ci fu nulla da fare: l'incarico resto ai De Masa.
 
I nuovi incisori usarono al principio le stesse tavole del Masini, e in seguito ne prepararono di nuove, una seconda per i valori da ½ grano e da 1, 5, 10 e 20 grana, e una terza per il 2 grana.
 
Questo è il Regno di Napoli di Gaetano e Gennaro De Masa.
 

½ grano





1 grano












2 grana

Primo giorno d'uso del 2 grana dei De Masa.



5 grana

 

 

10 grana





20 grana

 

Il 28 ottobre 1857 le Poste di Napoli stipularono un contratto con i signori Bonaventura Tajani e Francescantonio Fusco, di Vietri, per precisare "patti e condizioni" per la fornitura della carta su cui stampare i francobolli.
 
L'articolo 18 chiariva il ruolo dei due appaltatori: "Il signor D. Francescantonio Fusco si costituisce fidejussore solidale e continuatore dell'appalto, in caso di morte, che sia lontano, del signor Tajani".
 
Il Tajani era dunque la figura principale, e già l'articolo 6 del contratto - nel precisare la forma della filigrana - ne rivelava la centralità: "la carta porterà impresso, secondo filograni, la leggenda, in giro de' quattro lati, bolli postali; più N. 40 gigli sparsi nel campo ripartiti in dieci linee orizzontali, ciascuna di quattro gigli, ed in uno degli angoli le lettere iniziali B-T-, le quali indicano il nome e cognome del Sig. Tajani".
 
Dopo il Cavalier Masini, con i suoi segni segreti accanto al tassello del valore, anche il cartaro Tajani trovò così occasione di passare alla storia, di tramandare il suo artigianato, di lasciare un ricordo imperituro di sé, con le sue iniziali al verso dei francobolli napoletani.
   
2 grana del De Masa con monogramma "BT" completo.
Un solo esemplare possibile, nel foglio di 200, in ipotesi di centratura perfetta.

 

Re Ferdinando II di Borbone, uno dei più singolari Sovrani assoluti: aggressivo, sospettoso, intrigante, volgare, insensibile a lettere, scienze e arti, ma anche generoso, bonario, frugale, sollecito e laborioso. 
 
"Ho ereditato molti rancori, molti desiderii insensati, tutti gli errori, tutte le debolezze del passato: bisogna ch'io restauri... Noi non siamo di questo secolo. I Borboni sono vecchi: e se volessero modellarsi sulla forma delle novelle dinastie, si renderebbe ridicoli. Ci tradisca la sorte, ma noi non ci tradiremo mai".
 
Regnò ventinove anni, senza mai subire influenze né di cortigiane né di Ministri né di Potenze straniere.

Ebbe una sola illusione, che l'accompagnò per tutta la vita e si rivelò fatale alla dinastia: la convinzione di poter vivere in eterno, di non dover morire mai.

Lettera assicurata del 29 aprile 1858, da Maglie a Napoli, affrancata per 18 grana,
- la tariffa per l'interno delle assicurate di peso tra 1 oncia e 1 oncia più 1/8 di oncia -
con gli esemplari del Cavalier Masini da 1, 2, 5 e 10 grana.
La lettera è indirizzata "Alle Sacri Mani di Sua Maestà Ferdinando 2° Re di Napoli",
da tre sorelle rimaste orfane di padre, che di lì a poco hanno perso anche lo zio.
Alle tre donne sono rimasti solo i debiti da saldare.
Nessuno ne sollecitava il rimborso, sinché gli uomini erano in vita,
ma ora bisogna restituire tutto, e pure con una certa solerzia. 
Le donne sono spaesate e confuse, disorientate:
vorrebbero pagare, ma non possono,
non nei tempi e nei modi pretesi dai creditori.
"Siamo disposte a toglierci il pane dalle mani"
- scrivono nella loro supplica a Re Ferdinando -
se solo i creditori fossero disposti a pazientare.
Si rivolgono al Re, le tre donne,
quel Re il cui popolo "non ha bisogno di pensare",
perché "io m'incarico di aver cura del suo benessere e della sua dignità".

 

Il dominio di Napoli in Sicilia si reggeva come il dominio dell'Austria nel Lombardo Veneto, sulla forza delle armi, e il napoletano era avversato nell'Isola quanto il croato a Milano.
 
Ma il dominio borbonico in Sicilia - dal gennaio del 1859 - utilizzò anche un strumento più sottile e raffinato, il francobollo, un oggetto carico di significati politici, con un potenziale simbolico, capace di evocare un altrove, una tradizione, un'autorità.
 
La scelta del soggetto dei francobolli siciliani - dei francobolli dell'Isola ribelle - non poteva cadere meglio che sull'effige di Re Ferdinando II - per ricordare ai siciliani chi comandava - e non poteva esservi miglior incisore di Tommaso Aloisio Juvara, la più alta espressione del legame esclusivo tra la burocrazia borbonica e la cultura artistica.

Se la Sicilia è "un'orgia inaudita di colori", nella metafora di Freud, se "la cedevole scambievolezza delle tinte, l'unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra" ne riassumono il ricordo di Goethe, allora i francobolli siciliani si collocano in una tradizione in cui i colori non si limitano a finire negli occhi, ma entrano in circolo nelle vene e penetrano nelle ossa, tingono e incensano l'anima, sino a restituire l'immagine più autentica dell'Isola.
 

Il giallo della Sicilia

½ grano




 

Il bruno e il verde della Sicilia

1 grano






50 grana




L'azzurro della Sicilia

 2 grana














10 grana

 
 
 

20 grana



 Il rosso di Sicilia

5 grana




Il tricolore siciliano

  

"Il Regno è protetto per tre quarti dall'acqua salata e per un quarto dall'acqua santa".
 
Con questa battuta, destinata alla celebrità, Re Ferdinando trasformava lo Stato Pontificio nel baluardo geografico a difesa di Napoli: se un esercito straniero avvesse voluto attaccare le Due Sicilie via terra, semmai un altro Stato avesse osato tanto verso un Regno amico di tutti e nemico di nessuno, avrebbe dovuto necessariamente attraversare i territori della Chiesa, di fatto invaderli, e nessuno Sovrano - nella percezione di Ferdinando - si sarebbe mai spinto così in là.
 
La guerra del 1859, la discesa dell'esercito piemontese nel 1860, e infine la presa di Roma nel 1870, s'incaricheranno di dimostrare quanto illusoria fosse quella convinzione.
 
L'acqua santa:
frontespizio di lettera da Bologna (Legazione pontificia) a Napoli,
 affrancato con un 5 bajocchi dello Stato Pontificio.

 

L'articolo 7 del Real Decreto di emissione dei francobolli napoletani disponeva la creazione di un nuovo timbro postale, con la parola "ANNULLATO" scritta in stampatello maiuscolo e collocata dentro un rettangolo, "[a]ffinché di un bollo di posta già usato non possa farsi uso fraudolento per la seconda volta".
 
La parola "ANNULLATO" aveva una notevole potenza comunicativa, ma la particolare forma del timbro - lineare e riquadrata, indistinta per le varie Officine di Posta - rendeva piuttosto semplice i raggiri, a spregio della definitività del messaggio.
 
"Un sospetto da più tempo mi è surto nella mente che in alcuni Uffizzi di Posta nelle province taluni, impiegati o altri ch'esser possano, da mal talento sospinti, inducansi a commetter frode in un secondo uso de' bolli postali, la originaria impressione del marchio col motto annullato con altra simile ricoprendo" - scriveva l'Amministratore delle Poste al Ministro delle Finanze, il 7 giugno 1860. "Di ciò ebbi l'onore in speciale conferenza far motto a Lei, nella quale sommessamente la necessità le rassegnai di sostituirsi a' bolli col motto annullato, attualmente in uso, altri per caratteri vari e per configurazione diversi, la forma unica rettangolare del tutto smettendo".
 
Se non era servita particolare fantasia per beffare l'ANNULLATO "in cartella", se l'inventiva del popolo napoletano non era poi stata messa così dura prova, la reazione istituzionale si caratterizzò invece per la più originale delle contromisure: trentasette timbri, tutti ancora con la parola "annullato", ma differenti per forma e caratteri, gli incredibili annulli "a svolazzo", i più fantasiosi al mondo, il più ampio complesso organico di bolli postali mai realizzato.

1 grano

 






2 grana

 















5 grana






10 grana



 20 grana

 

La notte del 18 agosto 1860 - nella baia di Giardini, in Sicilia - Garibaldi prende il comando del "Franklin", Nino Bixio del "Torino". I due piroscafi puntano verso Porto Melito, solcando il braccio di mare più largo, per eludere il pattugliamento della flotta borbonica. All'alba del 19 agosto la costa calabra è in vista dei garibaldini.
 
A Re Francesco II - a Napoli - sarà pur mancata l'esatta percezione di ciò che stava accadendo in Sicilia, però sapeva che stavolta non si trattava solo di stroncare l'insurrezione di una banda di avventurieri. "Don Peppino  ha le mani nette" - disse il Re nel concitato Consiglio di Stato del 30 maggio - "ma egli è un sipario; dietro di lui stanno le potenze occidentali e il Piemonte che hanno decretata la fine della dinastia".
 
Re Francesco sapeva che ad attraversare lo Stretto, il 18 agosto 1860, non erano  soltanto Garibaldi e Bixio, ma l'Inghilterra tutta, col tacito consenso della Francia e la resa delle altre Potenze europee, tra chi aveva sposato la causa italiana, chi quella dell'indifferenza, chi quella della rassegnazione, in un clima politico ormai insostenibile per chiunque.

 Lettera semplice da Chieti a Napoli, del 18 agosto 1860,
affrancata con un esemplare del 2 grana del Masini.
L'ultimo giorno del Regno di Napoli, prima dello sbarco dei garibaldini Al di qua del Faro.

 

Con una massa di invasori sul territorio, l'unica azione ragionevole sarebbe stata serrare le file e prepararsi a combattere. "Nel momento in cui Catilina è alle porte, non c'è tempo per le concessioni e le riforme" -  ammonì il Duca di Chambord - "Il re deve montare a cavallo e condurre le sue truppe contro il nemico". Lo stesso suggerimento arrivò da Antonini, uno dei più autorevoli diplomatici meridionali. "Sembra momento venuto in cui Sua Maestà montando a cavallo prenda suprema risoluzione e procuri lui di salvare Corona e Dinastia".
 
E invece Re Francesco tenta la via diplomatica, un'alleanza con la Francia per bloccare l'avanzata di Garibaldi: "Je me remets entre les mains de l'Empereur".
 
Napoleone III lo invita a cedere alle esigenze del momento, al trionfo dell'idea nazionale. "Si sacrifichi tutto a quest'idea... domani sarà troppo tardi. Il mio appoggio, leale e sincero, vi sarà in questo caso assicurato; altrimenti dovrò astenermi e lasciare l'Italia fare da sé".
 
Napoli si adegua, sacrifica tutto a questa idea. L'Atto Sovrano del 25 giugno rimette in piedi la Costituzione del 1848, peraltro mai formalmente abolita, e il Ministro dell'Interno Liborio Romano ne approfitta per un autentico colpo di mano. Sfrutta l'incompetenza degli altri Ministri e la confusione della Corte per stravolgere la la burocrazia napoletana e ribaltare le strutture di potere. Sostitusce gli intendenti e i sottointendenti al vertice di province e circondari, e impone funzionari e politici liberali e moderati al posto dei fedeli alla monarchia. Interviene sul sistema penitenziario e influenza l'assegnazione degli incarichi nel settore giudiziario. Lavora per rinnovare i sindaci dei centri più importanti, e anche dei minori, per dare spazio alla vasta area liberaleggiante moderata. Inibisce di fatto ogni possibilità della monarchia borbonica di guidare gli apparati del Regno.
 
Pasquale de Virgilii, a Teramo, è uno dei protagonisti oscuri di questa rivoluzione condotta nelle stanze del potere.
 
Aveva esercitato senza convinzione la professione di avvocato - sin quando non fu espulso dal foro per i toni eccessivi nella difesa di un imputato - per poi tornare alla sua antica passione per la poesia e gli studi letterari. Nel 1848 si era avvicinato alla politica, con idee liberali. Fu arrestato, scontò nove mesi di galera e rimase a lungo sorvegliato.
 
Nel suo ruolo di Intendente - dopo la svolta costituzionale - mantenne ancora un atteggiamento cauto, e solo nel settembre del 1860, dopo l'ingresso a Napoli di Garibaldi, si mise apertamente a capo dei liberali, con un proclama dove denunciò la situazione di un Regno "tenuto vergognosamente e per tanti anni ravvolto nella più bassa ignoranza" e "oggi a mala pena capace di scernere i vantaggi del regime costituzionale".
 
Assunse quindi la prodittatura dell'Abruzzo per gestire l'insurrezione di Teramo, e agli inizi di ottobre sollecitò Vittorio Emanuele ad attraversare il fiume Tronto.
 
Cavour, con ogni probabilità, rivide in lui la sua stessa accortezza politica, le sue stesse doti diplomatiche, sino a prenderne le difese contro chi esprimeva dubbi sull'opportunità di avere un poeta al governo di una provincia problematica come quella abruzzese. "De Virgilii sì è poeta ma è un poeta a modo mio e ne vorrei aver molti come lui".
   
Lettera semplice da Lanciano a Teramo, del 28 ottobre 1860,
affrancata con un esemplare del 2 grana dei De Masa
indirizzata "A. S. E. Sig. D. Pasquale De Virgilii Governatore delle Provincia di Abruzzo Ultra".

 

Una dinastia ne estromette un'altra, passano i Re e arriva la Republlica, passa una Repubblica e ne arriva una nuova, cala il sipario su un dramma e l'istante dopo si riapre su una farsa. Tutto cambia affinché tutto rimanga uguale, con i Borbone o senza i Borbone, contro i Borbone o contro i Savoia. Perché qualsiasi cosa accada, in Italia, le vere dinastie rimangono sempre al loro posto.
 
Le vere dinastie - in Italia - sono quelle dei farmacisti napoletani Ignone, furiosi reazionari, sì, ma pronti a rimuovere i gigli borbonici dalla loro bottega, proprio sotto gli occhi di Re Francesco e della Regina Maria Sofia, alla notizia dell'arrivo di Garibaldi.

Le vere dinastie - in Italia - sono quelle dei Don Liborio Romano, che Re Francesco minacciò velatamente di impiccare, ma che più probabilmente avrebbe di nuovo nominato Ministro,  semmai avesse riconquistato il suo Regno, perché Don Liborio era così divertente, così irresistibile, che persino la minaccia di condurlo alla forca poteva trasformarsi in un'affettuosa raccomandazione a guardarsi da Garibaldi e dal nuovo corso delle cose.
  
Le vere dinastie - le dinastie immutabili ed eterne, in Italia - sono le dinastie a due anime in un solo corpo: una che si confessa e una che bestemmia, una che va alla messa di mezzogiorno e l'altra che frequenta le riunioni massoniche di mezzanotte, una fedele e una che tradisce.
  
Lettera da Terlizzi per Napoli del 17 settembre 1860,
affrancata con un 2 grana del Masa annullato con lo "svolazzo" di Molfetta,
 indirizza a "Il Sig. D. Liborio Romano, Ministro Segretario di Stato per gli affari Interni",
con conseguente apposizione  del bollo "Napoli/Real Servizio".
Il mittente chiede l'assegnazione di un collocamento,
 a titolo di risarcimento per le persecuzioni subite sotto i Borbone.

 

Una preghiera al Dittatore Garibaldi

I giornali - a Napoli - avevano diffusione solo nei caffè, dove si leggevano gratuitamente, e presso i propri abbonati, a cui venivano recapitati per posta. Il costo di spedizione - la "tariffa postale uniforme pe' giornali e le stampe di ogni maniera" - era ½ grano per foglio.  
  
Giornale "L'Omnibus" del 15 settembre 1860,
affrancato con un esemplare del ½ grano dei De Masa.
 
"I giornali implorano dalla sua bontà che essendo mezzi pronti ed efficaci di diffusione di lumi godano delle franchigie postali per tutto il Regno d'Italia. Le gravi tasse per lo passato erano imposte appunto per arginare la diffusione de' lumi. I giornali che tutti unanimi spianavano la via e preparavano le menti alle sue gloriose geste meritano questa agevolazione".
 
E' il 13 settembre 1860, Garibaldi è a Napoli da nemmeno una settimana, e "L'Omnibus" riporta la richiesta degli editori di una riduzione della tassa sui giornali, tra le "Preghiere al dittatore".
 
Il gioco delle equivalenze tra monetazioni sarde e napoletane conduce ad abbassare la tassa a ½ tornese, corrispondente a ¼ di grano, la metà del costo in vigore.
 
Manca però l'oggetto necessario allo scopo - il francobollo con un facciale da ½ tornese - non contemplato dall'emissione del 1858. Bisogna crearlo bell'apposta, e la via più rapida è individuata in una modifica mirata alla tavola del francobollo da ½ grano: raschiar via la "G" (di grano), sostituirla con la "T" (di tornese) e stampare il nuovo francobollo in azzurro anziché in rosa, forse per facilitare la distinzione dal ½ grano, forse per la marcare l'avvento della nuova dinastia, o magari per entrambi i motivi.
 
Il 6 novembre 1860 - dalla metà di destra dell tavola del ½ grano dei De Masa, a opera dell'incisore Pasquale Amendola e del tipografo Gennaro De Masa - entra in circolo il francobollo napoletano da ½ tornese, con lo stesso stereotipo del francobollo borbonico, ma tinto dell'azzurro di Casa Savoia.

La Trinacria
(esemplare senza filigrana)

 

 Il 7 settembre 1860 Don Liborio Romano è alla stazione di Napoli, ad attendere Garibaldi.
 
Gruppi di popolani  si sono ammassati per le strade sin dalle dieci del mattino, con bandiere d'ogni grandezza, mazze e stendardi, coccarde e picche. Il Conte Giuseppe Ricciardi, in piedi, dentro una carrozza, sventola un tricolore. "A mezzogiorno arriva il dittatore, tutti alla stazione".
 
All'arrivo del treno c'è così tanta confusione che Enrico Cosenz, eroico difensore di Venezia, al quale Garibaldi ha ordinato di cavalcare accanto a lui, ne viene separato senza più avere possibilità di rivederlo, se non a sera.
 
Il Generale attraversa Napoli in carrozza, a passo lento, per la difficoltà ad aprirsi una via tra la folla. Accanto a lui c'è Demetrio Salazaro, che sventola un bandierone col cavallo sfrenato di Napoli da una parte, e il leone di San Marco di Venezia dall'altra. Garibaldi la bacia. "Presto saranno liberati i nostri fratelli".
 
Il successo nella Battaglia del Volturno,  a cavallo tra settembre e ottobre, fa in effetti sembrare possibile ogni cosa, persino la liberazione del Veneto.
 
Il 27 novembre 1860 - a Venezia - la polizia arresta un giovane sorpreso a cantare per strada un inno al Generale. "Con un canestro de orae e con quatro canonae... Vegnirà Garibaldi a ste palae".
 
La madre si precipita dal commissario per chiederne la scarcerazione, e si sente ironicamente replicare che il figlio sarà liberato quando per l'appunto verrà Garibaldi.
 
"Ogio da aspetar sin sto Marzo?", esclama ingenuamente la donna, per poi confessare alle guardie esterrefatte che dell'arrivo ormai prossimo del Generale "l'o sentio a dir per le strade".
 

Assicurata da Napoli per Torino del 15 dicembre 1860, affrancata con un falso d'epoca da 20 grana,
dalla Commissione Patriottica Veneziana in Napoli - istituita da Garibaldi il 20 settembre -
al Comitato Politico Centrale Veneto per l'Emigrazione italiana.
In una stessa lettera si intrecciano il Regno di Napoli, in dissolvenza,
il Regno d'Italia, centrato a Torino, in fase di formazione,
e un territorio, il Veneto, destinato a completare l'Italia che sarà.

 

Luigi Carlo Farini - già Dittatore della Regie Province dell'Emilia, che si vantava di non aver mai stretto la mano a Garibaldi - assume formalmente la carica di Luogotenente Generale delle Provincie Napoletane il 6 novembre 1860. 
 
Il 7 novembre Garibaldi è al fianco di Vittorio Emanuele, al momento del suo ingresso a Napoli; l'8 novembre presenta i risultati del plebiscito nella Sala del Trono di Palazzo Reale, e proclama Vittorio Emanuele II di Savoia  come primo Re d'Italia; rifiuta i titoli nobiliari, le promozioni e i doni, e all'alba del 9 novembre lascia Napoli.
 
Farini, lo stesso giorno, prende il governo effettivo della città.

Lettera del 9 novembre 1860, da Napoli ad Arezzo, affrancata con un 5 grana dei De Masa:
primo giorno effettivo della luogotenenza di Luigi Carlo Farini.   
La lettera contiene un resoconto degli eventi del periodo,
col richiamo alla Battaglia di Mola, l'ultima prima della ritirata dei Borbone a Gaeta: 
"il Re è a Napoli fin dal dì 7. Grandi feste a Napoli. A Mola di Gaeta grande macello". 
 
Per quanto gli fu possibile, nella misura in cui la situazione glielo permise, Farini diede una buona prova di energia: lanciò continui messaggi di pacificazione; si attivò per applicare i modelli amministrativi piemontesi ed estromettere dalla istituzioni le figure del potere garibaldino; estese le leggi sulla scuola pubblica e per la quotizzazione dei demani; valutò di volta in volta, con moderazione e buon senso, il contributo che potevano offrire i funzionari del regime decaduto alla causa nazionale.
 
Il cambio di passo nel governo - di là degli esiti che rimasero interlocutori - è emblematicamente testimoniato dal cambio nei valori postali napoletani. Dal francobollo azzurro da ½ tornese - sotto la luogotenenza di Farini - scompare la simbologia dei Borbone e subentra l'icona della nuova Casa reale: la Croce dei Savoia.
 
La Croce di Savoia,
usata in periodo di Regno d'Italia.

 

La mattina del 14 febbraio 1860 il cielo è cupo a Gaeta, come se il sole abbia deciso di nascondersi per assecondare l'angoscia perfetta di un'agonia ora giunta al termine: i Borbone sono stati sconfitti su ogni fronte, militare, politico, diplomatico.
  
Re Francesco e la Regina Maria Sofia escono dalla casamatta per dirigersi verso la porta di mare, dove li attende il piroscafo francese "Mouette", messo a disposizione da Napoleone III: direzione Terracina, e da lì dritti a Roma, dove i Sovrani decaduti saranno ospiti del Papa.
 
L'inno napoletano di Paisiello sovrasta il vociare della folla, la nave prende il largo, l'immagine del porto diventa sempre più sfocata.
 
I fanti piemontesi delle Brigata "Regina" entrano nella fortezza di Gaeta. Sulla Torre d'Orlando viene ammainata la bandiera borbonica bianco-gigliata e issato il tricolore con la Croce dei Savoia.
 
Lettera assicurata del 14 febbraio 1861 da Vallo a Salerno, affrancata per 6 grana,
con tre esemplari da 2 grana dei De Masa, annullati col timbro "a svolazzo"
  Gaeta è capitolata, l'ultimo lembo del Regno borbonico è scomparso,
ma il Regno d'Italia ancora non esiste, almeno non ufficialmente.
O forse ci sono ancora entrambi, il Reame di Napoli e il Regno d'Italia:
E' il 14 febbraio, il giorno dopo la caduta di Gaeta,
 e tre francobolli napoletani viaggiano accanto a un timbro dei Savoia, 
che proclama Vittorio Emanuele II come primo Re d'Italia. 

  

L'11 gennaio 1861 il Principe Eugenio di Savoia Carignano sostituisce Luigi Carlo Farini, nella luogotenenza della Province Napoletane.
 
Cavour gli affianca Costantino Nigra, un diplomatico cresciuto alla sua ombra, che sin dai primi incarichi aveva dato prova di intelligenza politica, intuito e duttilità, conquistando la fiducia di tutti.
 
Il 20 Maggio Nigra scrive a Cavour per "presentare a V.E. un sunto dell’amministrazione delle Provincie Napolitane dal principio del corrente anno fino ad oggi".

Rappresenta una situazione intricata, contraddittoria, in bilico tra un presente problematico, un futuro incerto e un passato che proprio non vuol andar via. 
  
"Lascerò Napoli diventata davvero provincia italiana, non nello spirito della popolazione (per questo ci vorrà un po' di tempo), ma nella forma dell'amministrazione. I pericoli però non sono affatto passati".
 
Lettera per l'interno della città di Napoli del 15 febbraio 1861,
due giorni dopo la caduta di Gaeta,
affrancata con un esemplare da 1 grano dei De Masa.
La lettera è indirizzata a "Sua Eccellenza Il Commentatore Costantino Nigra",
ospitato nel "Real Palazzo" che fu dei Borbone.

 

Il brigantaggio postunitario è un fenomeno con molteplici radici, che si sovrappongono e s'intrecciano, sino a confondersi: deliquenza comune, legittimità dinastica, azione politica, ribellione sociale. Tutto confluisce nel moto di contrasto al neonato Regno d'Italia, rendendolo variegato e di incerta decifrazione, perciò incredibimente complesso da stroncare.
 
Ma a Napoli ci fu pure un brigantaggio che non solo non fu mai contrastato, non solo fu tollerato e sopportato, ma addirittura favorito, e quindi incoraggiato, dagli stessi rappresentati delle istituzioni.
 
E' il brigantaggio dei falsari dei francobolli del Regno, perpetrato con la complicità  degli impiegati postali; è quell'intreccio di interessi privati che spingeva le guardie e i ladri ad accordarsi per frodare lo Stato, e contro cui ogni misura di contrasto sembrava impotente, allora come ora.

Questi sono i briganti della Poste, questi sono i falsi d'epoca del Regno di Napoli.

2 grana





10 grana




20 grana

 

Dopo la conquista militare delle Due Sicilie, e l'annessione politica col plebiscito del 21 ottobre 1860, il Governo di Torino assoggettò i nuovi territori all'istituto della luogotenenza.
 
A Napoli, dal novembre 1860 al luglio 1861, si alternarono Carlo Luigi Farini, il Principe Eugenio di Carignano, Gustavo Ponza di San Martino e il Generale Cialdini.

Le incertezze e le contraddizioni di questo interludio sono scolpite nei francobolli delle Province Napoletane, gli unici al mondo a esser nati con la faccia di un Re e il facciale del Re precedente.
 
Qui ora comando io, dice il profilo di Vittorio Emanuele, primo Re d'Italia.
 
Qui comandiamo ancora noi, dicono i tornesi e i grana, sotto l'effige del nuovo Sovrano, colpita talvolta da annulli borbonici, a rimarcare usi e costumi tutti napoletani nella neonata Italia.
 









 



 
 



 

La questione del Mezzogiorno è un tema classico nell'agenda politica italiana, di cui si ha traccia già nei primi anni dell'unità nazionale.
 
E' un tema complesso - sin dalla lettera del 15 maggio 1861 di Don Liborio Romano al Conte di Cavour - a cui nel tempo si sono dedicate numerose figure, istituzionali e non solo, con idee, analisi e proposte d'ogni tipo.
 
Ma ogni volta, dopo tanto discutere, resta la sgradevole sensazione di trovarsi invariabilmente al punto di partenza, di essere imprigionati in una perenne alba del Regno d'Italia.

Il 50 grana dell'emissione delle Province Napoletane:
emesso ufficialmente il 17 marzo 1861,
con prima data nota di utilizzo 18 marzo 1861.

 

Il Regno di Italia nasce ufficialmente il 17 marzo 1861.
 
L'Inghilterra lo riconosce immediatamente, il 30 marzo; gli Stati Uniti d'America si pronunciano poco dopo, il 13 aprile; la Francia arriva tardi, il 15 giugno, e accompagna il riconoscimento con una nota di scetticismo sul corso degli eventi che hanno condotto all'unificazione.
 
Sulla scia delle grandi Potenze si accodano le minori, come se stessero aspettando solo dei precedenti illustri per rinnegare la legittimità, il trono e la storia del Regno di Napoli.
 
Alla fine del 1861 rimane l'ostilità dell'Impero austriaco, della Corte di Spagna, della Russia, della Baviera, della Prussia e degli Stati della Confederazione germanica.
 
Ci fu però un'altra nazione che tardò a riconoscere il nuovo Regno, una nazione dentro il Regno, da contestualizzare in termini  antropologici, etnici, letterari, realmente umani.
 
E' quella nazione napoletana che continuò a stampare i francobolli borbonici ancora sino all'inizio del 1861, e a utilizzarli anche dopo la proclamazione dell’unità di Italia, sebbene già il decreto dittatoriale del 9 settembre 1860 imponesse ai suggelli dello Stato "lo stemma della real Casa di Savoia, con la leggenda Vittorio Emanuele Re d'Italia" e una disposizione del Ministero delle Finanze stabiliva di sospendere la produzione dei valori postali.
 
E' quella nazione napoletana che obbligò il Governo italiano a prolungarne l'utilizzo sino al 31 dicembre 1861, e che pure in alcuni casi rimase lettera morta, avendosi usi anche nel 1862 e addirittura nel 1863, a testimoniare un passato che permane, che proprio non vuol passare.

17 marzo 1861




30 marzo 1861



13 aprile 1861

Lettera indirizza a "All'Illustre Italiano... Avvocato in...",
perché, sì, a volere l'Italia erano loro: gli avvocati, i notai, i medici, i borghesi. 
L'impiegato tassò al principio la lettera per 2 grana (segno "2" a penna),
dubitando evidentemente della validità postale del francobollo da 1 grano
(per cui era come se la missiva non fosse affrancata affatto);
poi, accertato che i francobolli borbonici erano invece ancora in uso,
rettificò l'errata tassazione di 2 grana (col timbro ovale "Corretta", in rosso)
  ma contestualmente segnalò un'affrancatura che rimaneva insufficiente
(col timbro "Tassa per insofficiente francatura")
e applicò la giusta tassazione di 1 grano (segno "1" a penna).
La confusione nell'interpretazione dell'affrancatura
è lo specchio del particolare periodo storico.
    Era il 13 aprile 1861, come dice il datario circolare,
e due mesi prima, il 13 febbraio, la Direzione delle Poste di Napoli
aveva preso in carico la prima provvista di una nuova serie di francobolli,
  senza però diffondere alcuna comunicazione di cessazione di validità dei bolli borbonici.
Il primo marzo erano poi entrate in vigore le tariffe postali del Regno di Sardegna
e poco più di due settimane dopo - il 17 marzo - era stata proclamata l'unità d'Italia.
L'impiegato postale evidentemente non si raccapezzò in questo tourbillon,
- tra vecchi bolli e nuove emissioni e tariffe, sotto la potestà di un nuovo Stato -
e ne uscì fuori un documento che testimonia tutto il travaglio del momento.


17 aprile 1861



18 aprile 1861

 

I napoletani lo scrivevano sui muri, se non altro per sfogarsi, non avendo più la possibilità di invertire il senso di marcia della politica.

Fino a quando l'opposizione ingenua non si trasformò in una guerra civile, nel moto rivoluzionario più lungo e spaventoso dell'intero Risorgimento.
 
Savoia boia!
 
 Giornale "Il Salentino", affrancato con un esemplare da
½ tornese delle Province Napoletane,
annullato col doppio cerchio grande "Lecce 10 apr 1862"
(al verso il timbro di arrivo "Maglie 10 apr. 1862").
Per un'ironia della storia, l'effigie di Vittorio Emanuele, il primo Re d'Italia,
porta in giro per il nuovo Regno le notizie di episodi agghiaccianti di brigantaggio.
"La compagnia Coppi, Comandante la prima divisione Crocco (così si firma nei viglietti da visita)
forte di 150 briganti ricattò il signor Nannarone di Foggia di diecimila ducati,
di molte bardature, abiti, anelli, polvere e munizioni...
Il sacerdote Cibelli di Troia preso dagli stessi briganti poiché gli ebbero cavati gli occhi,
fu bruciato perché sacerdote liberale.
Otto cavalli ed un mulo sono stati scannati verso Manfredonia al sig. Roperzi.
Tra Ascoli e Cerignola dopo avere scannati bovi e pecore al signor Aulilio Anoli
hanno incendiato tutto quanto esisteva nella masseria, di utensili di campagna e foraggi!
Alle vicinanze dell'Ofanto 200 briganti, comitiva Cappa, aggrediti da 45 bersaglieri
sonosi dati alla fuga lasciando morti 15 dei loro, tra i quali il capo Coppi
- Il tenente e due soldati dei bersaglieri feriti...
Quanto vi è detto è quello che si conosce da tutti,
immaginatevi poi quanti altri avvenimenti passano sotto silenzio,
non potendosi tutto dire per non capitar peggio,
e sia perché siamo oramai stanchi di parlare al vento!!
Se non viene Garibaldi, e con poteri in queste parti meridionali
la completa rovina nostra è consumata già..."

 

Re Vittorio è alla stazione!

Re Vittorio Emanuele II entrò a Napoli per la prima volta il 7 novembre 1860, sotto un temporale che gli sciolse la tinta dei capelli, fece volar via i tendaggi e rovinò le cento statue in gesso di donne mitologiche seminude a simboleggiare altrettante città italiane.
 
"Lei resta a Napoli" - dirà Re Vittorio al Colonnello Thaon di Revel, direttore del Ministero della Guerra della Luogotenenza di Farini - "ma io per fortuna me ne vado".
 
Lo si rivedrà idealmente il 14 febbraio 1861, su quegli ibridi che sono i francobolli delle Province Napoletane, con la faccia di Vittorio e il facciale di Ferdinando.
 
E poi il primo ottobre del 1862, quando anche a Napoli sarà introdotta la IV emissione di Sardegna, già da tempo in uso nel resto del Regno d'Italia.

Lettera del 22 luglio 1863, da Napoli per Spoleto,
affrancata per 15 centesimi di lira sarda-italiana,
con una coppia più un singolo del 5 centesimi della IV emissione di Sardegna,
annullati col timbro in doppio cerchio "Napoli/Stazione Ferrovia".
 
 
 



Riferimenti bibliografici

 

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