LINE EDITING DI "NAPLES"

 

Cos'è il line editing?

Il line editing è una procedura di controllo della qualità di un testo narrativo, che opera linea per linea, parola per parola, alla ricerca di sbavature logiche, lessicali, strutturali e soprattutto stilistiche; muove dall'unicità del linguaggio artistico - le regole con cui uno scrittore progetta e scrive la sua storia sono le stesse con cui l'editor la revisiona - ed è condotta con spirito intransigente, perché solo un atteggiamento di tolleranza zero verso gli errori permetterà di non commetterne troppi e realizzare un testo presentabile.
 
Tutta la forza del line editing è nella sua oggettività: il riferimento continuo ed esclusivo a standard di scrittura esterni al soggetto che lo esegue, accettati all'interno della comunità degli autori, libera il giudizio dagli incontrollabili gusti personali, legittimamente variabili da un individuo all'altro, ma irrilevanti per una valutazione razionale, non sviata dalle proprie fissazioni.
 
Nessun autore può sottrarre il suo testo al line editing - neanche i più bravi - perché tutti gli autori - anche i più bravi - fronteggiano almeno tre limitazioni che solo un line editing - ben fatto - può aiutare a superare: forzature, eccessive riletture, attaccamento emotivo.
 
Uno scrittore può forzare la storia - senza accorgersene, in buona fede - quando non riesce più a svilupparla secondo le migliori regole di sceneggiatura; oppure - pressato dalla necessità di andare avanti - può illudersi che un piccolo strappo alle regole non è poi così grave, che la scrittura in fondo non è matematica, e un minimo di flessibilità bisognerà pur averla (e dimentica che le regole di scrittura e sceneggiatura sono nativamente flessibili, nascono già malleabili proprio per adattarsi all'inventiva di ogni autore, e allentarle ancora equivale a violentarle).
 
Generalmente, poi, lo scrittore legge ciò che ha scritto e lo corregge, perché la prima stesura è per definizione solo una bozza. Ma spesso lo sono anche la seconda, la terza e la quarta, così lo scrittore riscrive e si auto-corregge più volte, e a furia di correggersi da sé - di scrivere, leggere e riscrivere - perde gran parte della sua sensibilità, tutto gli sembra chiaro, perfetto, fluido. Non perché lo sia davvero - il più delle volte non lo è - ma per effetto delle eccessive riletture, che inducono una confidenza così stretta col testo, da impedirgli di riconoscere gli errori.

Il tempo dedicato alle stesure determina infine un legame affettivo via via più intenso tra l'autore e il suo testo: "è il tempo che hai dedicato alla tua rosa che ha reso la tua rosa così importante", leggiamo nel libro "Il Piccolo Principe", e il crescente coinvolgimento emotivo dell'autore, tutto quel tempo speso a coltivare la sua opera, priva il giudizio della necessaria lucidità, sino a vivere una critica tecnica al testo come una gratuita offesa personale.
 
E' allora che arriva l'editor, col suo line editing, a salvare lo scrittore... da sé stesso: l'editor agisce come un secondo cervello creativo a sostegno (tecnico) dell'autore, è un occhio esperto, neutro rispetto alla storia, che mostra solo ciò che è evidente e che tuttavia l'autore, da solo, non riesce più a vedere.
 
Vivere un line editing con serenità d'animo - interpretarlo come un passaggio necessario per la propria crescita autoriale, di cui essere grati - è segno di grande maturità artistica. 
 
     

La collezione come narrazione: stile, struttura, editing

Collezionare è un'operazione comunicativa e il suo risultato, la collezione, è un oggetto comunicativo, esattamente come avviene con la scrittura di narrativa e il suo prodotto finito, il romanzo, con la notevole differenza che  una collezione racconta una storia con degli oggetti anziché con le parole.

Le collezioni filateliche - in particolare - esibiscono un tratto privilegiato ed esclusivo, perché il francobollo si presta più di ogni altro oggetto ad assecondare e valorizzare la fantasia del collezionista.

"La fantasia è quello che ci arricchisce, che ci dà la gioia della scoperta" - ricorda il perito filatelico Giacomo Bottacchi - "e la filatelia è l'unico hobby davvero pregnante perché sei tu che dipingi il quadro della tua collezione. Gli altri hobby - i quadri, gli orologi, le automobili - ti portano a fare un semplice elenco di cose, ma senza poter costruire un discorso, mentre con la filatelia si può dare davvero il meglio della propria espressività".

Forse è un'esagerazione ridurre tutte le altre forme di collezionismo a "un semplice elenco di cose", ma di sicuro nessun altro oggetto, come un francobollo, concentra così tante caratteristiche di potenziale interesse da aprire una molteplicità di percorsi collezionistici virtualmente impossibile da riscontrare altrove: le varietà di tavole, di tinte, di stampa, di cliché, di filigrana, i primi e gli ultimi giorni d'uso, e poi - per i documenti ancora integri - gli annulli, le tariffe, i cammini postali, le destinazioni, tutto ciò concorre a prospettare un universo di possibilità che ognuno può configurare come  desidera, in linea con il suo gusto, le sue passioni, i suoi interessi culturali.

E tuttavia bisogna pure riconoscere che raramente la libertà d'azione offerta della filatelia viene poi sfruttata in tutto il suo potenziale. "Una delle asserzioni più comuni nel mondo filatelico, quasi un modo di dire, è che in filatelia le possibilità sono praticamente infinite. Ciascuno di noi, se solo vuole, può farsi una collezione o ritagliarsi uno spazio di studio del tutto vergine, differente, personale" - annota Franco Filanci, sin qui in linea con la posizione di Bottacchi - "Poi però nella realtà finisce che, grazie a tradizioni e abitudini e condizionamenti (come i regolamenti internazionali), tutti fanno le stesse collezioni, e l'originalità consiste solo nelle ovvie diversità dei pezzi presenti". 

Filanci dà una pregnante chiave di lettura di questo conformismo auto-imposto, che va al di là della pigrizia, del tempo e delle convenzioni, per enfatizzare  la personalità dei collezionisti, lo stile con cui si approcciano alla filatelia. "I collezionisti attivi si dividono probabilmente in due sole classi: i competitivi e gli innovativi. I primi, la maggioranza, sono felici di fare ciò che già altri hanno fatto, per avere qualcosa di preciso su cui confrontarsi, e il loro maggior impegno sta nell'aggiungervi qualcosa in più (pezzi, soldi, talvolta intelligenza) per riuscire a mettersi in evidenza. I secondi invece cercano di battere strade nuove, oppure esaminare le strade già battute con un’ottica nuova, perché vogliono essere i primi se non gli unici".

L'intonazione spingerebbe a simpatizzare con gli "innovativi" e a prendere le distanze dai "competitivi" - a strizzare l'occhio a chi ha l'intraprendenza "di battere strade nuove" e a stigmatizzare chi si limita a "fare ciò che già altri hanno fatto" - ma questo atteggiamento tradirebbe un giudizio di valore che non deve avere alcuna rilevanza nell'apprezzamento tecnico di un'opera. La scelta di replicare il già fatto - solo con l'aggiunta di "qualcosa in più (pezzi, soldi, talvolta intelligenza)" - è legittima, quindi insindacabile, o meglio, sindacabile solo in base a gusti personali, e noi non vogliamo che i nostri gusti - le nostre fissazioni - inquinino il giudizio tecnico.
 
Noi vogliamo giudicare su base certa, stabile e condivisa, vogliamo giudicare la solidità della struttura sui cui si regge la collezione, quale che sia la forma esteriore che il collezionista ha scelto di darle; e per formulare un giudizio razionale ci viene in aiuto il parallelo con le metriche di valutazione dei testi narrativi.  
 
Un romanzo è la narrazione scritta di una storia, progettata per restituire al lettore un messaggio che risuoni col suo animo, col suo vissuto; i romanzi si presentano suddivisi in capitoli, e ogni capitolo è una micro-storia connessa alle micro-storie (capitoli) precedenti, che fa da sponda alle micro-storie (capitoli) successivi, ma anche suscettibile di reggersi da sé, con una sua autonomia rispetto alle parti precedenti e successive; se poi ci si addentra nei singoli capitoli, si scopre che sono formati da sequenze di scene, e ogni scena è una micro-micro-storia, anch'essa a un tempo connessa e parzialmente autonoma dalle altre scene, e nel suo piccolo evocativa dell'intera storia.
 
Questa struttura nidificata, o più propriamente frattale, è il segno distintivo delle grandi opere.
 
"La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro...
Egli è scritto in lingua matematica,
e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche".
Nel leggere questo celebre passo di Galileo Galilei su Madre Natura,
viene da chiedersi se per caso Galileo non fosse cieco.
Le nubi non sono sfere, la corteccia non è liscia, le montagne non sono coni,
le linee di costa non sono cerchi e i fulmini non viaggiano in linea retta.
Alberi,  nubi e montagne somigliano piuttosto a delle loro parti più piccole,
riproducono in grande ciò è possibile osservare a scale più ridotte.
Tutti gli oggetti di Madre Natura si possono stilizzare con due caratteristiche:
da un lato sono frammentati, frastagliati, spezzati,
e dall'altro si appoggiano su una "forma base" che si ripete più volte.
Osservate l'intero ramo di una felce (in verde scuro):
le sue forme richiamano i triangoli, ma non sono triangoli,
e il motivo che guida il ramo principale si ritrova in tutti i rami secondari.
Se osservate il sotto-ramo 1 (in rosso) ritrovate il ramo principale su scala ridotta; 
se osservate il sotto-ramo 2 (in blu) trovate sempre il ramo principale, su scala ancora più piccola;
stessa storia per il sotto-ramo 3 (in azzurro) e se nella realtà fattuale a un certo punto ci si ferma,
nella realtà matematica nulla vieta invece di proseguire all'infinito,
e di ritrovare lo stesso motivo di fondo a ogni scala di osservazione.
Non è così invece per gli oggetti creati dagli esseri umani.
Se osservate una palla da tennis a una distanza normale, vedete una sfera;
se vi allontanate, vi apparirà come un puntino;
se vi avvicinate fino a poggiarvi sopra il naso, vedrete una superficie piana.
Quel che vedete varia cioè con la distanza da cui l'osservate.
Gli oggetti frattali, al contrario, non perdono mai di dettaglio,
a guardarli da molto vicino né da molto lontano,
ma fanno sbocciare continuamente universi rigogliosi.
Non li potete di disarmare semplicemente andando in profondità,
in nome dell'antico adagio "divide et impera":
i frattali sono creature indomabili, con una forza che dà i brividi.

 
 

Dal manuale di scrittura "Into the Woods", di John Yorke:
"Immagina di guardare una fotografia della ramificazione di un albero:
togli ogni conoscenza di scala o di contesto
e sarà impossibile dire se stavi guardando un ramoscello, un ramo o un tronco;
ogni unità replica sia la parte più grande che quella più piccola.
E così è con il dramma.
Le storie sono costruite da atti, gli atti sono costruiti da scene
e le scene sono costruite da unità ancora più piccole chiamate ritmi.
Tutte queste unità sono costruite in tre parti: versioni frattali dello stesso schema".
 
Ovviamente, via via che ci sposta dal micro al macro - dalla scena al capitolo, dal capitolo a un atto, sino all'intero libro - e si recuperano quindi le "conoscenze di scala o di contesto", l'elemento sotto osservazione si arricchisce di nuovi significati rispetto alla visione isolata, proprio in virtù delle connessioni registrabili alla scala di osservazione fissata. Ma ciò che qui rileva è il meccanismo generativo: ogni sezione dell'opera, per quanto piccola, imita la struttura dell'intera opera, lo stesso motivo di fondo si ripete lungo tutta la storia, lo stesso messaggio riecheggia senza posa a scale diverse, con diversi ingrandimenti, e dona eleganza e coerenza alla narrazione, ne assicura l'ordine dietro la facciata di libertà artistica.
 
Quale che sia lo stile di un'artista - uno scrittore o un collezionista - la sua opera deve avere una struttura solida, al pari di una costruzione edile: si possono tirar su a piacimento - secondo gusti e disponibilità - case, palazzi, ville o castelli, ma in ogni caso la costruzione deve stare in piedi.
 
Il line editing sta all'opera di un'artista come le leggi della fisica stanno ai progetti di un ingegnere. La situazione è diversa solo nel senso che non si tratta di comprendere il funzionamento di meccanismi esterni a noi, ma di governare una nostra stessa creazione, che altrimenti rischia di sfuggirci di mano.
 
E se la funzione è la stessa, l'utilità non è altrettanto grande ma enormemente di più, perché la violazione delle leggi della fisica darà immediati segni di sé e ci riporterà istantaneamente alla realtà, mentre nessun impedimento esterno è lì a proteggerci contro la presunzione di aver costruito bene una storia o una collezione che in realtà traballano o non si reggono affatto.
 

Cos'è  "Naples"?

"Naples" è la collezione filatelica di Napoli del Dottor Francesco Melone, costruita in oltre 25 anni, "to show how the oldest Kingdom in the world faced all its many changes over its long history".


Dalla presentazione dell'ultima versione pubblicamente disponibile di "Naples".
 
"Naples" parla col suo palmares, con i successi conseguiti nelle principali manifestazioni nazionali e internazionali, in oltre quindici anni: "Cagliari 2006", Oro; "Milano 2009", Oro; "Palermo 2014", Oro Grande, "Portogallo 2016", Oro Grande e Premio Speciale; "Finlandia 2017", Oro; "Thailandia 2018", Oro; "Milano 2019", Oro Grande.
 
Nella più recente "Londra 2022", la Collezione ha toccato quota "92", il suo punteggio più alto di sempre, che la consolida in un'area di eccellenza.
  

Line editing della pagina dell'1 grano di  "Naples"

"Naples" è una narrazione classica, familiare; parte con una corposa sezione di prefilateliche, a cui fa seguire il periodo filatelico, presentato con la tradizionale scansione "da catalogo" (½ grano I tavola, ½ grano II tavola, 1 grano I e II tavola, 2 grana I, II e III tavola, ...) e solo nella parte finale introduce un tocco di originalità, col capitolo dedicato a "particular uses and cancellations". 
 
E' quindi pacifica l'appartenenza del Dottor Melone alla classe dei "competitivi" - secondo la definizione di Filanci - quei collezionisti "felici di fare ciò che già altri hanno fatto, per avere qualcosa di preciso su cui confrontarsi" e il cui "maggior impegno sta nell'aggiungervi qualcosa in più (pezzi, soldi, talvolta intelligenza) per riuscire a mettersi in evidenza".
 
Diamo per acquisito lo stile del collezionista, la macro-chiave di aggregazione - tradizionale, ortodossa - e scendiamo di livello, per vedere cosa accade nelle singole pagine, e precisamente nelle pagine dell'esemplare da 1 grano della II tavola.
 
Nell'ultima versione pubblicamente disponibile, la Collezione vi dedica 11 fogli espositivi, numerati dal 28 al 38, di cui vi mostro i primi cinque, dal 28 alla 32, già sufficienti per il lavoro di line editing.
  





 
Riusciamo a percepire il messaggio inviato dagli 11 fogli dell'esemplare da 1 grano II tavola, o da un suo sottoinsieme scelto (a esempio le prime cinque mostrate) e al limite da ogni singola pagina?
 
Sicuramente ce ne sono un paio ad alta espressività (Benevento, Tagliacozzo); sicuramente scorgiamo più d'una assonanza (a esempio nel primo foglio, nella sequenza delle tre coppie verticali annullate "a svolazzo"); ma dove sono - in generale - i cosiddetti sub-plot, le sotto-trame, le linee narrative secondarie funzionali a mostrare, in proporzione, "how the oldest Kingdom in the world faced all its many changes over its long history"?
 
Prediamo a esempio la pagina 31, che accosta la coppia con interspazio di gruppo (nobilitata da alcune peculiarità di stampa) a una lettera (tassata) con un esemplare isolato. Cos'hanno da dirsi tra loro questi due pezzi, e cosa dovrebbe comunicare la loro associazione allo spettatore, per averli messi nella stessa pagina? In che modo i due oggetti dialogano tra loro e, dialogando tra loro, parlano a chi li osserva?
 
Sembra che il collezionista abbia dimenticato che il valore (filatelico) di una collezione non è tanto nello splendore singoli pezzi, quanto nella chiarezza delle loro interrelazioni. Verrebbe da dire - se ci trovassimo in ambito scrittura - che l'autore è caduto nell'errore di chi scrive immaginando che le idee vengano da sé, durante la scrittura e grazie alla scrittura.
 
Ma la buona progettazione - di una collezione come di un testo narrativo - procede in senso inverso: parte dall'obiettivo finale e, a ritroso, ricerca la miglior situazione che lo realizza.
 
Cosa voglio far sapere al lettore?
 
E, dato che voglio far sapere certe cose, qual è la scena migliore per fargliele sapere? Qual è, cioè, la scena in cui le informazioni da trasmettere vengono fuori da sé - come naturale conseguenza di azioni, pensieri, percezioni e dialoghi dei personaggi in quella specifica situazione in cui sono stati collocati - e col massimo coinvolgimento emotivo del lettore?
 
Non possiamo illuderci che altri colgano un messaggio nelle pagine della nostra collezione, se noi, consapevolmente, non gliene abbiamo impresso uno il più possibile chiaro, preciso, emozionante; non possiamo sperare che altri capiscano e apprezzino ciò che non è prima di tutto cristallino a noi stessi.

Cosa voglio comunicare con questa pagina della collezione?
 
Quali sono i pezzi a mia disposizione che si prestano meglio a trasmettere il messaggio?
 
Come conviene disporli per massimizzare l'impatto emotivo?
 
Il collezionista si è posto queste domande fondamentali, nel costruire gli 11 fogli dell'1 grano? Oppure ha accostato i pezzi sulla scia di suggestioni magari anche interessanti, rimaste però vaghe e alla fine passeggere, forse col retro-pensiero di essere sostenuto dal talento o dall'ispirazione?
 
Tutte le pagine sono bellissime, ma nelle collezioni, come in narrativa, le cose non devono star lì per la loro presunta bellezza; le cose  - francobolli o parole che siano - stanno lì per favorire l'immersione in un mondo - della collezione, della narrazione - per farlo sembrare vero, reale, vivido, a chiunque lo osserva.

Il mio line editing dovrebbe finire qui - a rigore, in teoria - perché il compito di un editor è indicare la frase problematica o il passaggio critico, argomentare sugli errori o le imperfezioni che contiene, e dare al più dei suggerimenti alti e generali su come reimpostare la scrittura; ma deve poi essere l'autore a mettere materialmente mano al testo, a modificarlo in accordo con le indicazioni ricevute dall'editor, e non certo l'editor a sovrascrivere con frasi sue proprie ciò che l'autore ha scritto in modo sbagliato o subottimale.
 
I motivi sono ovvi: l'eventuale soluzione estemporanea immaginata dall'editor sarà con tutta probabilità di qualità inferiore rispetto alla soluzione che lo scrittore può trovare da solo, ragionando in autonomia per tutto il tempo necessario, una volta che l'editor gli abbia segnalato il problema; e se pure, per avventura, la soluzione dell'editor fosse ottima, sarebbe comunque una soluzione "bruciata", perché un artista può sì accettare delle correzioni, ma non potrà mai inserire nella sua opera qualcosa di immaginato e realizzato da un altro.
 
Il line editing dovrebbe fermarsi qui, e lo si può riassume nell'indicazione a porsi domande (interessanti) e ricercare le risposte (migliori) tra i pezzi disponibili; e tuttavia fermarsi qui significherebbe tradire le aspettative dei più, di chi vorrebbe capire cosa fare in pratica.
 
Quindi, sebbene un editor non dovrebbe mai mettersi a scrivere (comporre) pagine al posto dell'autore, qui farò un'eccezione, per rendere massimamente chiaro cosa voglia dire farsi domande e dare risposte in linea con l'obiettivo della collezione; come contrappeso limiterò il mio intervento al minimo indispensabile.
 

Questa potrebbe essere la seconda pagina (dopo quella degli esemplari nuovi, anch'essa da rivedere) dell'1 grano II tavola di "Naples".
 
Si nota subito una delle caratteristiche di ogni collezione filatelica evoluta e raffinata: il gioco della ripetizione del singolo pezzo, uguale e ogni volta diverso
 
Balza all'occhio di chiunque - anche di chi non sa nulla di filatelia napoletana, o di filatelia in generale - la diversità (di annulli) all'interno un ceppo comune (il francobollo da 1 grano), la differenza nella similarità e la similarità nella differenza, esattamente come avviene in una struttura frattale.
 
E cosa racconta questa struttura, cosa comunica? Ci comunica la varietà di timbri annullatori utilizzati nel Regno di Napoli. La pagina non li documenta tutti - e non coglie neppure tutte le varianti di quelli presenti - ma riesce comunque a restituire il messaggio, lo ottimizza tenuto conto dei pezzi a disposizione e del vincolo di spazio. Completezza - d'altra parte - non significa avere tutto, ma avere il minimo per rendere comunicativa ogni parte della collezione, in coerenza col messaggio da consegnare allo spettatore, con lo scopo della collezione.
 
E qual è lo scopo di "Naples"? Ce lo dice lo stesso collezionista: "to show how the oldest Kingdom in the world faced all its many changes over its long history".
 
E la pagina dell'1 grano è stata editata proprio con l'idea di votarla interamente all'obiettivo della Collezione, perché la varietà di annulli ben comunica una parte dei "many changes" a cui il Regno di Napoli è andato incontro "over its long history"; una scrittura sapiente delle didascalie - da lasciare all'autore - permetterebbe poi di creare un sottofondo di accompagnamento alla visione della pagina, per chiarire la dinamica degli eventi all'interno del Regno di Napoli, la situazione sotto il Regno d'Italia e la fase di transizione dai Borbone ai Savoia.
 
Anche un pezzo nominalmente modesto come l'1 grano sciolto, usato, acquista così un notevole pregio collezionistico, in virtù della sotto-trama che riesce a innestare sulla narrazione principale.
 

"Bourbon cancellations on Foreign stamps"?

Il capitolo 4 di "Naples" introduce un elemento originale rispetto all'ortodossia dell'impostazione; parla di "particolar uses and cancellations", e dedica un paragrafo ai "bourbon cancell[ations] on Foreign stamps".
 
 
Bourbon cancellations - preso alla lettera - vuol dire annulli borbonici, e i Borbone regnavano sulle Due Sicilie, su Napoli e Sicilia.
 
Il collezionista intende quindi documentare anche gli annulli siciliani, borbonici a tutti gli effetti?
 
Sembrerebbe di sì, a giudicare dalle pagine dove compaiono lettere siciliane affrancate con esemplari della IV emissione di Sardegna.
 
 
Ma la collezione si intitola "Naples", parla di Napoli, del Regno di Napoli, dei cosiddetti Domini al di qua del Faro.
 
Come hanno fatto a finire in collezione delle lettere con francobolli di Sardegna annullati con timbri dei Domini al di là del Faro? Dove sarebbero i collegamenti, i nessi, gli agganci - anche solo indiretti - con Napoli?
 
Non giriamoci intorno: semplicemente non ci sono, se non - appunto - nella dinastia che regnava sui quei territori. Ma la collezione - di nuovo - parla di Napoli, non dei Borbone. Questa pagina andrebbe espunta - senza se, senza ma - perché manifestamente sconnessa dal messaggio che si vuole mandare, un corpo estraneo al "Purpose and Scope of the Exhibit".
 
Pure, l'intestazione "bourbon cancellations on Foreign stamps" - nel trascinarsi dietro l'ambiguità tra i Borbone (una dinastia) e Napoli (un territorio) - rischia di mettere il collezionista in una posizione insostenibile.
 
"Foreign" non è una proprietà intrinseca di un (s)oggetto, non è cioè una caratteristica che si preserva a prescindere, qualunque cosa accada; si è "foreign" rispetto rispetto a un riferimento terzo utilizzato per definire la propria sfera di appartenenza.
 
Io sono catanese, e se la mia città natale definisce la mia comunità di riferimento, come spesso avviene per un catanese,  allora mi sentirò "foreign" già trovandomi a Palermo (città storicamente "nemica" di Catania); se però incontro un palermitano a Milano, è probabile che la dimensione regionale prevalga sulla cittadina, perché siamo entrambi "foreign" rispetto al luogo in cui ci troviamo e - dato il contesto - sentiamo in modo più forte di appartenere a una terra comune, la Sicilia, di essere entrambi siciliani, più che divisi dalla provenienza da città avverse l'una all'altra; e se invece fossi uno di quei pochi catanesi con un legame debole o assente con la terra di provenienza, città o regione che sia, allora forse mi sentirò "foreign" solo una volta varcati i confini nazionali, solo quando sentirò parlare una lingua diversa dall'italiano, da persone con tratti somatici poco o molto diversi da quelli italiani.
 
"Foreign" - in definitiva - è una relazione di estraneità, di non appartenenza, tra un (s)oggetto e un parametro scelto per cristallizzare una realtà di riferimento.
 
Cosa vuol dire - alla lettera - "foreign stamps"? Rispetto a quale parametro un francobollo è "foreign"? Scrivere "bourbon cancellations on Foreign stamps" dà a intendere che i francobolli siano "foreign" rispetto ai "bourbon cancellations", cioè, in definitiva, ai Borbone. Scrivere "bourbon cancellations on Foreign stamps" equivale - a tutti gli effetti - a scrivere "annulli borbonici su francobolli non-borbonici".
 
Questo è ciò che il collezionista ha scritto, ma è questo ciò che voleva dire? Vuole davvero imbarcarsi nell'impresa colossale di documentare gli annulli borbonici sui francobolli non-borbonici? Perché i francobolli borbonici sono solo ed esclusivamente i francobolli dell'emissione del 1858. La Trinacria non è borbonica (fu emessa sotto Garibaldi); meno che meno lo è la Crocetta (con il simbolo dei Savoia); e non lo sono neppure i francobolli delle Province Napoletane (con l'effigie di Vittorio Emanuele).
 
Quindi, se davvero si volesse aprire una sezione di "bourbon cancellations on Foreign stamps", cioè di annulli borbonici su francobolli non-borbonici, servirebbe riferirsi come minimo alle seguenti casistiche (limitate ai francobolli della penisola italiana):
 
Trinacria con annullato "in cartella" nero
 
Trinacria con annullato "in cartella" rosso

Trinacria con annullato "a svolazzo"

Crocetta con annullato "in cartella" nero
 
Crocetta con annullato "in cartella" rosso
 
Crocetta con annullato non riquadrato
 
Crocetta con annullato "a svolazzo"
 
Crocetta con annullo circolare
 
Province Napoletane con annullato "in cartella" nero
 
Province Napoletane con annullato "in cartella" rosso
 
Province Napoletane con annullato non riquadrato
 
Province Napoletane con annullato "a svolazzo"
 
Governo Provvisorio di Toscana con annullato "in cartella"
 
Governo Provvisorio di Toscana con annullato "a svolazzo"
 
Stato Pontificio con annullato "a svolazzo"
 
IV di Sardegna con annullato "a svolazzo"
 
Regno d'Italia con annullato "a svolazzo"
 
Il collezionista vuole davvero imbarcarsi in una simile impresa, che tra l'altro lo obbligherebbe a smantellare il capitolo 3 e a espungere lo "svolazzo su Ferdinando", visto che i francobolli siciliani sono borbonici?
 
Perché è questo che dice, è questo il messaggio che manda, quando scrive "bourbon cancellations on Foreign stamps", ma io dubito - da editor - che sia questo ciò che vuol realizzare.
 
Presumo piuttosto - a buon senso, a intuito - che voglia documentare gli annulli napoletani su francobolli emessi al di fuori dei territori che furono del Regno di Napoli. Può sembrare una sfumatura linguistica, ma è una sfumatura che cambia parecchie cose, perché smazza via le Trinacrie e le Crocette (che possono così restare al loro posto) e le Province Napoletane (la cui attuale assenza, quindi, non è un problema) e preserva la corretta collocazione dello "svolazzo su Ferdinando".
 
I titoli - del capitolo e dei paragrafi - vanno in definitiva riscritti, per renderli coerenti con il contenuto effettivo delle pagine associate, per per non ingenerare, con le parole, aspettative poi disattese dagli oggetti mostrati.
 
Un'annotazione a margine, visto che la contingenza ne dà occasione.
 
Spesso si asseconda una fantasia del momento perché sì - o, il che è lo stesso, perché si ha occasione di acquisire un singolo pezzo a un costo conveniente, magari di realizzare una pescata - anziché ragionare a fondo su ciò che si vuol comunicare con la collezione, sui pezzi necessari a far passare il messaggio, sui vincoli alla loro effettiva acquisizione; e questo chiaramente non va bene.
 
Altre volte, invece, si viene colti da una fascinazione momentanea per qualcosa può portare a cercare un modo per inserire quella cosa in collezione, per renderla necessaria e utile alla collezione, elegantemente incastrata con tutto il resto, e questo va invece benissimo. 
 
Attenzione, però. Perché non c'è alcun rapporto tra voler trovare e poter trovare, ed è fondamentale che la nostra idea del momento non conduca ad aprire in collezione delle sezioni che poi restano monche, parziali, insopportabilmente approssimate per la mancanza dei pezzi chiave, e che tuttavia, una volta avviate, rimangono in collezione perché sì, perché ormai le abbiamo messe e non ci va di toglierle, e allora tutti liberi di fare tutto.
 
Documentare gli annulli napoletani su francobolli emessi al di fuori del Regno di Napoli è sì un obiettivo minore, rispetto a documentare gli annulli borbonici su francobolli non-borbonici, ma rimane un obiettivo sfidante, "assorbente" se così si può dire, uno di quegli obiettivi che imporrebbe - a rigore - di mettere in stand-by gran parte della Collezione, per dedicarsi interamente al suo conseguimento. 
 

Alcune quisquiglie e qualche pinzellacchera

Stralcio il passo iniziale del box "Purpose and Scope of the Exhibit", a pagina 1 della Collezione.
 

Invito l'autore ad accertarsi della correttezza dell'affermazione secondo cui il Regno di Napoli sarebbe "the oldest Kingdom in the world".
 
Il Regno più antico al mondo - ammesso lo sia, ché pure questo è da verificare - è il Regno di Sicilia; il Regno di Napoli è una sua emanazione successiva.
 
L'autore trova qui l'indice di una storia stilizzata di Napoli e Sicilia, che mi auguro gli sia di aiuto per le sue riflessioni.
 

 
Diverse pagine di "Naples" sono abbellite da piccole immagini a vario titolo evocative dei pezzi mostrati; è un modo raffinato di valorizzare la Collezione, di farla parlare, ma che richiede anche alcune accortezze se non si vuole incappare in incoerenze da improbabili viaggi nel tempo (simili alla "carne di pecora con salsa cruda di peperoni", di cui scrive Umberto Eco nel romanzo "Il nome dalla rosa" ambientato nel 1327, quando i peperoni arrivarono in Europa solo dopo la scoperta dell'America).
 
Questa è una delle tre pagine di "Naples" dedicate alla Trinacria.
 
 
 
L'immagine di un "Newspaper Screaming Boy" - miglior versione inglese dell'intraducibile strillone - fa da corredo al giornale "L'INDIPENDENTE" affrancato con la Trinacria.

Qui abbiamo due problemi, uno di logica stretta, l'altro di merito.
 
La Trinacria affrancava i giornali, serviva a pagare il servizio postale per la consegna dei giornali agli abbonati.
 
Lo strillone - per contro - vendeva i giornali per strada, richiamava l'attenzione della gente strillando le notizie più importanti.
 
Se c'è la Trinacria non c'è lo strillone, e se c'è lo strillone allora la Trinacria non serve. Quale sarebbe quindi il nesso tra la Trinacria e lo strillone? Semplicemente non c'è.
 
Ma allentiamo pure la logica, rendiamola meno stringente, e diciamo pure che la Trinacria e gli strilloni, pur escludendosi l'un l'altro, sono accomunati dall'elemento giornale. D'accordo: la Trinacria e gli strilloni ruotano intorno ai giornali, anche se su orbite diverse e non intersecate.
 
Ma l'autore ha verificato se gli strilloni esistevano nella Napoli dell'800? Se potessimo viaggiare nel tempo, e tornare tra le strade di Napoli sul finire del 1860, noi vedremmo dei ragazzini con un fascio di giornali in mano a strillare le imprese del Dittatore Garibaldi?
 
Le indicazioni iniziali - raccolte sul primo volume dell'opera "La Fine di un Regno", di Raffaele de Cesare - sono di segno contrario.
 
 
Sotto i Borbone, dunque, gli strilloni sicuramente non esistevano (e d'altra parte cosa ti vuoi strillare, in un mondo dove la stampa è sottoposta a rigidi controlli pubblici?). Sbucarono fuori con l'arrivo di Garibaldi? Non lo so, andrebbe verificato.

Certo è che la cosa suona strana. Gli strilloni sono un fenomeno americano e, sì, dalla metà dell'800 ai primi del 900 furono - negli Stati Uniti - i principali distributori di giornali. L'ingaggio era peraltro massimamente tutelante per gli editori. Gli strilloni non erano alle dipendenze dirette del giornale, semplicemente compravano in blocco una gran quantità di copie, per rivenderle poi a un prezzo leggermente superiore; e - all'inizio - non avevano il beneficio del reso degli invenduti, per cui la loro giornata lavorativa si concludeva solo quando tutto le copie erano state smerciate.
 
Sembra ben strano che nella Napoli garibaldina possa essere sorta all'improvviso una simile "classe imprenditoriale". E, se pure fosse, perché gli editori avrebbero letteralmente implorato Garibaldi di ridurre il porto dei giornali, se avevano a disposizione un'alternativa così allettante per distribuire le copie? E' tutto parecchio confuso.

Persino le ricerche in internet - ormai ammesse come strumento preliminare di verifica, utile per farsi un'idea di massima - non aiutano a far chiarezza, falliscono nel dare anche solo le coordinate spazio-temporali del fenomeno degli strilloni in Italia; si racimolano al più brandelli di informazione, che sembrano comunque collocare il tutto ben oltre il 1860.
 
Un riferimento ricorrente - a esempio - è al 5 marzo 1876, quando gli strilloni attirano la curiosità dei milanesi dediti alla passeggiata del dopocena, sventolando un nuovo giornale: "Il Corriere della Sera".
 
  
Troviamo poi il dipinto "Lo Strillone" di Giovanni Boldini, datato intorno al 1880, emblematico della sua fase realista centrata su soggetti del mondo cittadino, che a giudizio dei critici simboleggerebbe nientemeno che la modernità.
 

E - giusto per chiudere - su eBay troviamo un oggetto d'epoca, collegato ai costumi napoletani, in cui lo strillone è collocato nel 1908.
 

 
Chiariamoci: io non lo so se gli strilloni esistevano o no, nella Napoli garibaldina; ma non sono io a doverlo sapere; è l'autore di "Naples" a dovercelo dire, perché è lui che ha piazzato l'immagine di uno strillone in una delle pagine della Trinacria; io - da editor - ho solo osservato che l'abbinamento, a pelle, sembra temporalmente sfasato, col rischio di indurre un senso di straniamento in chi lo osserva (un po' come la salsa cruda di peperoni di Umberto Eco).
 
Se invece il collezionista avesse eseguito tutte le verifiche necessarie, con cui ha accertato la presenza degli strilloni nella Napoli garibaldina, gli sarò grato se vorrà indicarmi le fonti su cui si è documentato, affinché anch'io possa imparare qualcosa in più. Perché il line editing nasce sì come un test sull'opera, ma rimane un processo a doppio senso, in cui anche l'editor può imparare molto dalle eventuali controrepliche dell'autore.
 

Vi mostro la pagina 114 di "Naples", la più criptica e indecifrabile della Collezione.
 
 
Tre UFO sono atterrati su "Naples" e hanno sbalzato lo spettatore fuori dal mondo narrativo.
 
In che modo tre francobolli falsi, prodotti da un signore nato a Pisa il 14 ottobre 1884 e deceduto a Aix-les-Bains il 27 aprile 1957, concorrono a ricreare il clima della Napoli ottocentesca all'interno delle pagine della Collezione? Quale mai sarebbe la liason filatelica tra la Crocetta annullata a Teramo e i falsi De Sperati? In che modo i pezzi della pagina dialogano tra loro? Cosa ha voluto comunicare il collezionista, nell'accostarli?
 
L'effetto straniante - stile salsa cruda di peperoni nel Medioevo - si fa particolarmente forte e sgradevole.
 
Non dubito che il Dottor Melone possa dare delle giustificazione, imbastire delle risposte dalle apparenze anche ragionevoli, ma il punto non è dare risposte dopo che qualcuno le ha sollecitate, ché sempre si troverà il modo di giustificare ciò che si è fatto (e il primo impulso, anzi, è proprio la difesa della propria creatura); il punto capitale è nel porsi domande prima di fare le cose, per avere piena consapevolezza di cosa si sta facendo e perché.
 
Questa pagina di "Naples" è - e rimane - un pasticcio brutto, perché introduce oggetti spuri rispetto allo scopo della collezione (in che modo i De Sperati ci parlano di Napoli, dei "many changes over its long history", se sono nati decine d'anni dopo la caduta del Regno, e per di più con obiettivi che nulla hanno a che fare con la filatelia?) e l'introduzione di una componente spuria inevitabilmente inquina (toglie pregio) a tutto ciò a cui la si accosta (in primis la Crocetta usata a Teramo).
 
Qualunque cosa voleva realizzare il collezionista quando ha messo su questa pagina, in qualunque modo la volesse giustificare, la mia controreplica, da editor, sarebbe la stessa: it doesn't work.
 

Cosa dovrebbe venire dopo?

La collezione è un ecosistema: alterarne una parte, anche minima, con aggiunte o sottrazioni, significa spezzarne l'equilibrio, e avviare un processo di riconfigurazione, di varia estensione e intensità, per stabilirne uno nuovo.
 
Buona parte del mio editing è fortunatamente a impatto minimo, perché agisce su elementi di contesto o di presentazione, e gli aggiustamenti non si propagano molto oltre il luogo in cui sono realizzati (in alcuni casi - addirittura - l'impatto è davvero nullo: bisogna solo limare alcune frasi).
 
L'intervento sulla pagina dell'1 grano II tavola ha invece conseguenze di non poco momento; segnala un problema di struttura, di pagine con un'espressività subottimale rispetto al potenziale comunicativo implicito nei pezzi a disposizione; suggerisce che problemi simili potrebbero aversi anche in altre pagine, nelle pagine di altri esemplari.
 
Qui - nel mio ruolo di editor - non posso che richiamare in sintesi ciò che è evidente, ma che il collezionista forse non riesce più a vedere per l'eccessiva familiarità con le pagine (che lo priva della necessaria sensibilità) o per l'attaccamento emotivo alla collezione (che lo porta a giustificare a oltranza le proprie scelte) oppure per il desiderio di mostrare quanti più pezzi possibili (che mette in sordina un mantra della forza comunicativa: "less is more").
 
Collezionare è un'operazione comunicativa; il suo risultato - la collezione - è un oggetto comunicativo; quindi - prima di ogni azione materiale sulle pagine - serve chiarire a sé stessi cosa si vuole comunicare con quelle pagine e quali siano i pezzi migliori per farlo, i pezzi cioè che meglio degli altri trasmettono il messaggio con immediatezza e lo rendono emozionante per chi lo riceve.
 
E questo è tutto.

Terza prefazione a "On Writing - Autobiografia di un mestiere", di Stephen King.

Non è mai facile, per nessuno, sottoporre la propria opera a un line editing.
 
Da un lato si vorrebbe sapere se e dove si è sbagliato, dall'altro si spera sempre in osservazioni minimali, recepibili senza sforzo. Il primo impulso - in ogni caso - è proteggere ciò che si è fatto, giustificarlo, motivarlo, spiegarlo all'editor, perché - così si pensa - è lui, l'editor, a non aver capito.
 
Ma l'editor non sta lì per capire le ragioni per cui l'autore ritiene di aver fatto giusto (e chi, d'altra parte, fa qualcosa pensando sia sbagliata?). L'editor sta lì per segnalare ciò che evidente, e ostinarsi a rifiutare l'evidenza - persino dopo che è stata fatta notare - è il modo migliore per auto-sabotarsi, di impedirsi di apprendere, di migliorare.
 
Nessun autore dovrebbe mai giustificare i suoi errori, ma solo prenderne atto - se non vuole auto-sabotarsi - proprio come nessuno scolaro dovrebbe industriarsi a spiegare all'insegnate i milleuno motivi (sbagliati) per cui ha scritto 7-7=1, ma semplicemente essere interessato a capire l'unico motivo (giusto) per cui bisognava scrivere 7-7=0.
  
Noi vorremmo per lo più applausi e apprezzamenti, anche se per pudore teniamo per noi questa aspettativa, non la confessiamo mai apertamente; ma applausi e apprezzamenti sono gratificazioni istantanee, che impongono di essere rinnovate di continuo e a dosi crescenti, per preservare la stessa sensazione di apparente benessere; e non offrendo stimoli, suggestioni o nuovi punti di presa, alimentano la pigrizia, giustificano la permanenza nella propria zona di conforto.
 
L'editing diventa allora una secchiata d'acqua ghiacciata, sgradevole quanto si vuole, ma salutare; l'editing ristabilisce le esatte gerarchie tra i valori in gioco, tra apprezzamenti e critiche; l'editing ti ricorda che se un applauso è un doblone, una critica è la mappa del tesoro.

Commenti

  1. L’esempio del bambino che difende il suo calcolo errato (7-7=1) è tratto da un caso reale: il mio.

    All’inizio della prima elementare – e ricordo quel giorno nei suoi dettagli più minuti – la maestra ci diede dieci operazioni: cinque addizioni, scritte sulla colonna di destra del quaderno, e cinque sottrazioni, scritte a sinistra.

    Una delle sottrazioni era appunto 7-7. Ricordo che alzai sette dita, e poi le abbassai una a una, man mano che sottraevo. Mi ritrovai – ovviamente – con entrambe le mani chiuse, senza più dita alzate. Ricordo ancora la sensazione di stupore. Com’era possibile? Ripetei l’operazione: sette dita alzate, da abbassare una alla volta, via via che sottraevo. Pugni chiusi, ancora una volta. Che diavolo stava succedendo? Com’era possibile che una sottrazione tra due numeri desse origine a… “nessun numero”? Evidentemente c’era qualcosa che mi sfuggiva. E così scrissi 7-7=1, il risultato più vicino a quello 0 che percepivo senza senso.

    Quando la maestra ci riconsegnò i quaderni con le operazioni corrette, l’unico mio sbaglio era proprio quel 7-7, che aveva una “x” rossa sopra l’1 e accanto, sempre in rosso, lo 0.

    La cosa mi lascio perplesso: ma quindi lo zero era un numero come tutti gli altri, anche se non quantificava nulla? Faticavo a capirlo, ma poi, a distanza di decenni, studiando la storia della matematica, scoprii che le mie remore da bambino avevano accompagnato a lungo anche alcuni grandi matematici del passato, che la civiltà umana aveva faticato molto prima di introdurre lo zero, e, una volta introdotto, lo aveva considerato a lungo come un semplice “segna posto”, non come un numero (e sarebbe servito ancora del tempo, per conferirgli lo status di tutti gli altri numeri).

    La morale però rimane intatta: non difendete mai i vostri errori, quando vi vengono fatti notare; non date spiegazioni sui motivi per cui ritenete di aver fatto giusto, ché nessuno fa le cose pensando che siano sbagliate; sforzatevi di capire perché avete sbagliato, soprattutto quando vi vengono segnalati errori… elementari (dato il nostro livello di conoscenze).

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  2. Ho la presunzione di sapere cosa frulli nella testa di alcuni lettori del post.

    “Ma chi sei tu, anonimo blogger, senza titoli, né arte né parte, per criticare una collezione che ha totalizzato ben 92 punti in una delle più prestigiose competizioni internazionali?”.

    In questa domanda riecheggia lo stesso equivoco che accompagna la difesa di libri di grande successo commerciale davanti a chi muove critiche tecniche, giusto per continuare col parallelo tra scrittura e collezionismo.

    Lascio la replica ad Ansen Dibell, alle parole estrapolate dal suo libro “Plot”, che ognuno può traslare e riadattare da sé, al caso in discussione.

    “La cattiva scrittura, qualunque criterio si adotti per definirla, qualche volta raggiunge la pagina stampata. La pubblicazione non santifica la cattiva scrittura. Nel corso degli anni mi è capitato di leggere narrativa scritta in maniera davvero schifosa, e non sempre si trattava di libri trovati su qualche bancarella, con i bordi delle pagine arricciati e copertine pacchiane. E a voi è mai capitato? Ma anche gli scrittori competenti ogni tanto sbagliano. In molti casi, quando un errore vistoso arriva fino alla pubblicazione, è perché la storia risplende come un gioiello, difetti compresi, e una svista è oscurata dalla qualità dell’insieme. Qualche strafalcione è concesso ai grandi scrittori. Una tecnica ridicolmente scarsa è spesso tollerata in scrittori molto popolari. Ma noi siamo interessati alla buona scrittura, siamo interessati a conoscere le alternative e vogliamo compiere scelte consapevoli. Se non vi interessasse la buona scrittura, non stareste leggendo questo libro. Perciò non vi metterete a citare gli errori degli altri per giustificare i vostri, giusto?”.

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