FALO' DI FERRAGOSTO - Storiella intorno al fuoco di un 9 crazie traditore
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C'è stata un'epoca in cui la notte di ferragosto - il passaggio dal 14 al 15 - era segnata da un appuntamento fisso: il falò sulla spiaggia, a Giardini Naxos.
I preparativi iniziavano intorno alle 7 di sera, e la festa si concludeva al sorgere del sole: un capodanno estivo, se così vogliamo dire, ma infinitamente più divertente, per il luogo e il clima, per il bagno di mezzanotte e il mescolarsi dei vari gruppi sulla spiaggia, e per tante altre cose che persino la più povera delle immaginazioni può evocare da sé.
"Sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronde, che per poco m'illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso il quale vedo ancora mia madre" - fa dire Pirandello a uno dei suoi personaggi, con cui è a colloquio - "Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira: Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle".
Sento anch'io - oggi, 14 agosto 2025 - un fruscio lungo e continuo, simile allo sciabordio di quel mare sulla cui riva si delinea la figura di mia madre, che mi sussurra la stessa lezione del personaggio pirandelliano, ma con parole tutte sue: "la vita è l'arte di rispettare gli appuntamenti".
E i miei appuntamenti col falò di ferragosto - a esser onesti - non sono stati così ben fasati: ho iniziato tardi (a 17 anni, quando di regola si comincia a 14) e l'ho tirata un po' troppo in là (sino a 25 anni, quando dopo i 20, o al massimo i 22, si trova di meglio da fare).
"La vita è l'arte di rispettare gli appuntamenti" - ripeteva mia madre - e però m'invitava anche a non rammaricarmi per un appuntamento mancato, perché - diceva - "la vita non smette mai di darti nuovi appuntamenti".
L'errore più grave e frequente - da cui tentò di mettermi in guardia - è voler ripristinare a forza bruta un appuntamento saltato, nell'illusione che anche ora (che è ormai alle spalle) possa emozionarti come allora (quando l'avresti dovuto rispettare e invece l'hai mancato). Che abbaglio! Ostinarsi a partecipare ai falò sino a 25 anni non ti ridarà indietro le sensazioni dei tempi andati, quelli tra i 14 e i 17 anni, ma ti farà solo perdere le belle cose che potresti fare dopo i 22, e che invece ti scivolano via, aggrappato come sei a una realtà che non è più la tua (e di fatto, adesso, per te, non esiste più).
Imparare dai propri errori, mettere a frutto l'esperienza - come saggezza vuole - acquista allora un significato preciso: vuol dire riconoscere gli appuntamenti mancati, accettare di averli perduti e non provare a ripristinarli - ché si finirebbe solo col mancare anche quelli in arrivo - e utilizzare piuttosto tutto ciò che è accaduto per riconoscere quel che la vita può ancora offrire, in rapporto alle nuove situazioni, per assaporarne il bello sino in fondo.

Ho ricominciato a collezionare sul finire del 2011 (trovate qui la storia del mio ritorno di fiamma, se volete i dettagli).
Dico ri-cominciare, che alla lettera vuol dire cominciare di nuovo, un'altra volta, ma più propriamente dovrei dire iniziare dal principio, da zero, vuoi perché il periodo dai 12 ai 25 anni era stato poco più che un warm-up, vuoi perché nel 2011 il world wide web - internet, insomma - era una realtà ormai consolidata che aveva soppiantato il piccolo mondo antico (in filatelia e non solo).
(Ri)cominicare a collezionare nel 2011 voleva dire - come vuol dire oggi, anno 2025 - andare su internet e mettersi a cercare: commercianti, case d'aste, piattaforme di scambio, siti specialistici, luoghi d'incontro virtuali con altri collezionisti, e via così, con la foga e l'ingenuità tipiche del neofita.
S'immagazzina così una gran quantità d'informazioni, in un tempo piuttosto breve, e fatalmente si finisce vittime del cosiddetto effetto Dunning-Kruger.

Come reagisce il nostro cervello di
fronte al progressivo apprendimento
di un nuovo argomento? Quali stati d'animo attraversiamo man mano che
impariamo? Per essere chiari: quale relazione sussiste tra ciò che
conosciamo a un dato momento e la fiducia in noi stessi indotta da
quella conoscenza? O in altro modo: che relazione c'è tra ciò che
sappiamo effettivamente e ciò che crediamo di sapere?
Si può pensare che tutte queste domande - che sono poi versioni diverse di uno stesso interrogativo - ammettano una risposta ovvia: la fiducia in sé stessi è lo specchio della conoscenza, cresce di pari passo con la conoscenza via via acquisita, e a ogni momento ciò che effettivamente sappiamo non può essere troppo discosto da ciò che riteniamo di sapere, o se preferite, a ogni momento abbiamo una sostanziale consapevolezza di ciò che sappiamo e di ciò che ignoriamo.
Proprio qui sta il punto scivoloso: il nostro cervello non è una mappa su cui si possa tracciare una linea di confine netta tra ciò che conosciamo e ciò che ignoriamo, perché ignorare qualcosa non significa semplicemente non conoscerla, ma spesso vuol dire non saperne neppure immaginare l'esistenza, cosicché quella cosa scompare dai radar.
Possiamo allora identificare tre livelli di conoscenza-ignoranza:
Si può pensare che tutte queste domande - che sono poi versioni diverse di uno stesso interrogativo - ammettano una risposta ovvia: la fiducia in sé stessi è lo specchio della conoscenza, cresce di pari passo con la conoscenza via via acquisita, e a ogni momento ciò che effettivamente sappiamo non può essere troppo discosto da ciò che riteniamo di sapere, o se preferite, a ogni momento abbiamo una sostanziale consapevolezza di ciò che sappiamo e di ciò che ignoriamo.
Proprio qui sta il punto scivoloso: il nostro cervello non è una mappa su cui si possa tracciare una linea di confine netta tra ciò che conosciamo e ciò che ignoriamo, perché ignorare qualcosa non significa semplicemente non conoscerla, ma spesso vuol dire non saperne neppure immaginare l'esistenza, cosicché quella cosa scompare dai radar.
Possiamo allora identificare tre livelli di conoscenza-ignoranza:
- ciò che sappiamo di sapere (know-know);
- ciò che sappiamo di non sapere (know-unknow);
- ciò che non sappiamo di non sapere (unknow-unknow);
e proprio lo sconosciuto-sconosciuto è il livello più esteso, ma anche - per sua natura - il più trascurato.
Accade così che di fronte all'apprendimento delle prime nozioni di un argomento si maturi la convinzione che quelle nozioni esauriscano tutto ciò che ci sia da sapere: sappiamo poco, ma pensiamo di sapere praticamente tutto, e per ogni unità di conoscenza aggiuntiva ecco che la fiducia in noi stessi aumenta di un multiplo, e si accresce il divario tra ciò che sappiamo realmente e ciò che crediamo di sapere.
Siamo nel tratto iniziale della curva di Dunning-Kruger, una salita ripida che esprime la gran velocità con cui aumenta la fiducia in noi stessi a seguito della conoscenza delle prime nozioni dell’argomento.
L'euforia ci porta ben presto sul "picco della sovrastima", che alcuni chiamano "dell'impostore" per stigmatizzare la situazione: sappiamo veramente poco (abbiamo fatto poco strada sull'asse orizzontale della conoscenza) ma crediamo di sapere praticamente tutto (ci troviamo parecchio in alto sull'asse verticale della fiducia in noi stessi).
Questa sproporzione - tra ciò che sappiamo e ciò che crediamo di sapere - ci rende ora vulnerabili, e il rischio di incappare in errori gravi è così elevato da potersi considerare una certezza.
Prima o poi, inevitabilmente, accade un evento che ci sbatte in faccia la nostra ignoranza, che ci fa capire che non sapevamo tutto, e anzi sapevamo ben poco, quasi nulla: sprofondiamo allora nella "valle dell'umiltà", che alcuni chiamano "della disperazione", per dar risalto allo scombussolamento emotivo in cui ci si viene a trovare.
Se prima pensavamo di sapere tutto, ora crediamo di non sapere nulla. Curioso: in realtà ne sappiamo più di prima, perché l'errore ci ha comunque insegnato qualcosa, forse molto più di ciò che crediamo, e di sicuro ci ha consentito di fare dei passi in avanti sull'asse orizzontale della conoscenza; eppure non ce ne rendiamo conto, e diventiamo timorosi su tutto, anche su ciò che conosciamo effettivamente; la fiducia in noi stessi è crollata, sull'asse verticale.
E ora?
Ora si deve riacquistare quel minimo di lucidità necessaria ad avviare un riequilibrio interiore: prima pensavamo di sapere tutto, e in realtà non sapevamo quasi nulla; poi pensavamo di non sapere nulla, e in realtà ne sapevamo molto di più; e ora serve riallineare i due livelli - di conoscenza e fiducia in noi stessi - per dirigerli verso il cosiddetto "altopiano della saggezza", quella situazione in cui "sappiamo di non sapere", in cui ogni acquisizione di una nuova conoscenza ci dà una percezione sempre più chiara dell'infinito ancora sconosciuto - "più potenti sono i nostri telescopi, più vediamo cieli strani e inaspettati; più guardiamo i dettagli minuti della materia, più scopriamo strutture profonde", per dirlo con Carlo Rovelli - e perciò diventiamo più prudenti - più saggi - nell'accrescere la fiducia in noi stessi; ci stabilizziamo così su un equilibro di conoscenza e fiducia rispettoso dell'ignoto, che a volte lo abbraccia, a volte lo attraversa e a volte lo elude, ma accettandolo in ogni caso come una costante della vita.
Dopodiché, sempre incontreremo persone situate sul picco dell'impostore quando noi siamo arrivati sull'altopiano della saggezza: "il problema dell'umanità è che gli stupidi sono molto sicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi" - aveva già annotato Bertrand Russel, ben prima di Dunning e Kruger.

"Se mi chiedete quale sia la singola caratteristica che renda una persona soggetta a questo autoinganno, io direi che è respirare".
David Dunning ci prospetta una realtà impietosa: nessuno sfugge all'effetto Dunning-Kruger.
Se respiri - se esisti - andrai sempre incontro all'effetto Dunning-Kruger, perché si tratta di una dinamica connaturata ai meccanismi di funzionamento del cervello, e serve obbligatoriamente saperne parecchio, per realizzare di non saperne realmente abbastanza.
E' vero in generale, e figurarsi in filatelia, dove tutti si sentono pronti per una cattedra, una volta lasciati i banchi di una scuola rapida e incerta, ma nessuno gradisce ricevere lezioni, fossero anche semplici pareri, neanche quando quei pareri sono stati sollecitati (a meno che non coincidano con i propri pregiudizi, in modo da convalidarli).







Mia madre era una donna di una dolcezza infinita,
ma di quando in quando rivelava un lato di sottile perfidia.
"Vedi, cucciolo mio, non c'è nulla di più delizioso del saper fare una cosa,
vederla fare ad altri in modo sbagliato... e rimanere in silenzio".
Ma sì, ma sì: fingete pure che "Tesori di Carta" non esista,
continuate ad alimentare la confusione sul concetto di qualità,
come se oggi non fosse disponibile un preciso standard di misurazione,
(con esempi d'applicazione particolarmente utili proprio per capire gli annulli),
come se le modalità di lettura del Sassone non fossero state ripetutamente spiegate
Atteggiatevi pure come quel Cremonini, contenporaneo di Galileo,
di cui malignamente si narrava l'ostinato rifiuto a guardare nel cannocchiale,
per non dover cambiare le proprie convinzioni sulla struttura del cosmo.

E però, almeno una volta, guardateci dentro il cannocchiale!
Anziché difendere il sistema tolemaico per mera convenienza personale
- con l'invocazione di autorità inesistenti ("uno dei grandi di questo forum, Benjamin")
e l'esibizione di titoli buffi e pittoreschi ("sono iscritto al forum da 20 anni") -
documentatevi a fondo sui migliori riferimenti disponibili,
da cui sono ripresi questi esemplari sciolti del 20 grana IV tipo
(e volendo se ne potrebbero mostare pure su lettera).
La vedete o no - ora - la differenza abissale?
Lo capite - o no - che l'annullo stravolge tutto?
Non ho voglia di fare nomi e cognomi, di fornire indirizzi e codici fiscali, ché servirebbero solo a soddisfare sciocche curiosità, senza aggiungere nulla di significativo e importante.
Diciamo semplicemente che il mio girovagare per il word wide web mi portò a contatto con una figura d'apparente, apprezzabile, sensibilità. Ricordo ad esempio una sua argomentazione intransigente e raffinata sui margini di un "Marzocco": non basta che siano chiaramente bianchi su tutti i lati - diceva - ma devono anche essere regolari, non devono cioè "andare a scendere" (e il punto di vista mi piacque così tanto che l'ho poi fatto mio nel settaggio degli standard per la misurazione della qualità filatelica).
Questa figura apparteneva alla stirpe del Giano Bifronte, che sin dai primordi ha spopolato nel web filatelico: un po' collezionista, un po' commerciante, mezzo l'uno e mezzo l'altro, e in realtà nessuno dei due, bensì un'oscura e indecifrabile entità in sovrapposizione di stati, simile all'inquietante gatto di Schrödinger, vivo e morto allo stesso tempo.
Con una certa regolarità mi proponeva francobolli toscani "di gran lusso" - così li presentava - che il più delle volte ben si accordavano col mio gusto ancora acerbo (monopolizzato dai margini, dall'importanza di averli non solo grandi, ma anche con parte dei vicini) per il quale ricevevo complimenti in abbondanza, dopo ogni acquisto.
Un'acquisizione dopo l'altra, francobollo dopo francobollo, arrivai a formare un piccolo insieme che razionalmente mi appariva di qualità superiore, e però...
In ogni storia c'è sempre un "però", spesso difficile da raccontare in tutte le sue sfaccettature.
Proviamo così.
Negli anni '20 del secolo scorso il Duca de Broglie ebbe una visione folle: ogni oggetto materiale - una sedia, una penna, un bicchiere e, perché no, un francobollo - vibra, oscilla, ondeggia, è portatore di una frequenza, come lo sono un'onda del mare e la nota musicale di una chitarra.
Da lì a poco si capì che non era follia, ma fisica delle particelle elementari: le cose, gli oggetti, vibrano, anche se a noi non sembra ("l'immagine del mondo nitida e solida è un'illusione", ci dice oggi Rovelli).
Forse qualsiasi collezionista ci sarebbe potuto arrivare, perché collezionare - al fondo - non significa altro che vibrare insieme alla propria collezione, alla stessa frequenza degli oggetti da cui è formata, e percepire nitidamente la frequenza risultante dal loro comporsi in un'unica entità, la collezione appunto.
Ebbene: quei francobolli - acquistati del Giano Bifronte - saranno pur stati "di gran lusso", come diceva lui, ma non vibravano con me, io non sentivo nulla di ciò che avrei sperimentato più tardi - a distanza di anni - con "Aquile e Gigli" e "Al di qua del Faro".
"Innanzitutto l'emozione! Solo dopo la comprensione" è l'insegnamento del pittore Paul Gauguin, che dovrebbe diventare un punto fermo nell'educazione di un collezionista: il valore emozionale, prima d'ogni altra cosa - altro che quotazioni di catalogo, prezzi di aggiudicazione delle aste e balle varie - perché senza un coinvolgimento emotivo profondo, esteso e intenso, tutto il resto si riduce a uno sterile circo di acrobazie verbali.
Mi ripetevo - per auto-convincermi - che l'assenza di vibrazioni fosse imputabile al numero esiguo di oggetti, ancora troppo basso per produrre frequenze significative, e tutto sarebbe cambiato - per magia - non appena avessi raggiunto una massa critica sufficiente. Oggi mi sento insuperabilmente stupido ad aver pensato una cosa simile, tanto quanto a ricordare la mia convinzione infantile che si sarebbe scoperto un antidoto per la morte, prima che io diventassi adulto. Ma sul momento credevo tanto una cosa quanto l'altra: la scienza avrebbe ben presto scovato un vaccino contro la morte, l'album avrebbe iniziato a vibrare non appena avesse accolto abbastanza pezzi.
Passarono i giorni, che portarono via le settimane, e con le settimane andarono via i mesi. L'album cresceva goccia a goccia, per lo più con acquisti dal Giano Bifronte, ma di vibrare - accidenti! - non ne voleva sapere.
♫Senti che ci manca qualcosa, che c'è sempre una scusa, che la gioia si è
offesa, che non c'è la scintilla, che si è spenta la stella♬ - cantavo sconsolato, con Arisa - ♫ma una
colpa non c'è♬.
Ma io una colpa la dovevo trovare, e arrivai a darla... all'album!
Era il "Quick" della Bolaffi, un piccolo e sottile raccoglitore nero (con copertina in cartoncino flessibile e pagine plastificate) che mi trascinavo dietro dall'inizio degli anni '90 del secolo scorso, dalla mia prima esperienza collezionistica, se così vogliamo definirla.

Non solo il "Quick" della Bolaffi non è più in produzione,
ma persino Google ha problemi a rintracciarlo tra le sue immagini.
Sì, era colpa del "Quick": i miei gioielli non risplendevano perché oscurati da quell'insulso raccoglitore indegno di ospitarli.
Stavo valutando l'acquisto di un album consono ai miei diamanti - ridete pure, se volete: ne avete diritto e facoltà - quando sulla mailbox arrivò una nuova proposta di vendita del Giano Bifronte: un 9 crazie di lusso, pazzesco, ineguagliabile, mai visto prima, che non lo trovi neppure sulla luna. Così mi veniva presentato.
Cliccai sul file allegato e lo schermo del pc venne monopolizzato da questa immagine.

Ricordo ancora lo shock: un tremendo vuoto d'aria, un'improvvisa sberla sulla nuca, uno spiazzamento in stile "portiere da una parte, pallone dall'altra".
C'era qualcosa di anomalo, con tutta evidenza: i margini erano sì spettacolari - lusso, pazzeschi, ineguagliabili, mai visti prima, che non li trovi neppure sulla luna - ma l'annullo... oh, santo cielo, l'annullo!
Ridete pure, se volete - ne avete diritto e facoltà - ma fu soltanto allora, davanti a questo 9 crazie traditore, che compresi che i francobolli usati portavano addosso un annullo, che l'annullo era importante quanto i margini, e che a nulla valeva avere esemplari ultra-marginati se poi l'annullo li penalizzava, perché il contrasto tra margini eccezionali e annullo scadente, non solo non dava luogo a compensazioni, ma spesso creava una sproporzione che rendeva il francobollo un abominevole freak (a maggior ragione per i pezzi ordinari, le cosiddette "craziette", i valori da 1, 2, 4 e 9 crazie con filigrana "a corone").
Per la prima volta - nella mia vita di collezionista - vedevo l'annullo. Non che in precedenza i miei occhi fossero ciechi. L'immagine s'imprimeva sulla retina, ovvio, ma poi il cervello sembrava incapace di processarla. Ora - invece - vedevo. Il cervello - ora, finalmente - capiva.


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"E' indegno del nome di uomo" - sosteneva Platone -
"chi non sa che la diagonale di un quadrato è incommensurabile col suo lato".
E' indegno di definirsi collezionista - dico io, più modestamente -
chi non capisce che questi due esemplari da 9 crazie sono tra loro incommesurabili:
non si può dire che quello a destra sia 10, 100, 1.000 volte più bello di quello a sinistra,
- e aggiungete pure tutti gli zeri che volete, a vostro piacere, senza limiti -
perché, appunto, i due francobolli sono incommensurabili,
non c'è proporzione di gusto che li possa tenere assieme,
nessuna misura di raffinatezza in grado di ragguagliare l'uno all'altro
(anche se poi, ovviamente, si potranno sempre fissare dei prezzi,
tanto per l'uno quanto per l'altro, e calcolarne un rapporto numerico,
ma non tutto è numero, in filatelia, con buona pace di Pitagora).
♫Senti che ci manca qualcosa, che la gioia si è
offesa♬. Cominciai a capire cos'è che potesse offendere la mia
gioia di collezionista, il motivo per cui la mia "Toscana" non vibrava
con me.
Così come, in Meccanica Quantistica, non sono tanto le dimensioni degli oggetti in sé a far appaire o sparire le proprietà ondulatorie, quanto il loro trovarsi in sistemi ben isolati o altamente interconnessi, allo stesso modo lo scarso numero di pezzi aveva un peso marginale (e non ne aveva nessuno il "Quick", ovviamente) nel determinare la frequenza emozionale della collezione.
I miei "Marzocchi" - rectius: del Giano Bifronte - non vibravano perché qualcosa glielo impediva, o comunque ostacolava l'allineamento tra le loro frequenze e la mia sensibilità più sottile e autentica.
Deglutire significò inghiottire un sasso, e la saliva scese giù al pari di una lama affilata. Il cuore accelerò, sino a rimbombarmi nelle orecchie. Righe di sudore iniziarono a inumidirmi la fronte. Ogni tentativo di ripristinare la regolarità del respirò si rivelò fallimentare.
La mano tremava, nel prendere il "Quick" dallo scaffale della libreria. Cosa si nascondeva lì dentro, che sino a quel momento non avevo visto, ma che ora sarei stato in grado di rilevare? Cosa avevo acquistato, esattamente?
Inspirai col naso quanta più aria possibile, la buttai fuori dalla bocca in un colpo solo, sperando di scacciar via anche i cattivi pensieri, e girai la copertina nera: ciò che vidi mi fece sentire stupido, maledettamente stupido, la stupidità di chi anziché lavarsi con acqua e sapone prende la cacca del gatto dalla lettiera e se la strofina addosso, a secco.
Non tutti i francobolli erano da scartare - un paio si salvavano, e sarebbero poi confluiti nella "Marzocco" - ma per la maggior parte non vi era salvezza: avevano tutti margini stratosferici, sì, ma pure annulli sbavati, deturpanti o malamente ripetuti, e anche se non così devastanti come quello sul 9 crazie, comunque sgradevoli e fastidiosi, come ora mi si rivelavano sulla scia di un'improvvisa consapevolezza; e poi - ora che vedevo bene - anche la freschezza lasciava spesso a desiderare, i 150 anni e passa di molti esemplari li vedevo, eccome se ora li vedevo, al punto da farmi brontolare - con Anna Karenina - che se tutti i francobolli belli si assomigliano, quelli brutti lo sono invece ognuno a modo suo.
"Non rammaricarti mai di un acquisto sbagliato: la lezione che ne hai tratto vale molto di più" è uno dei mantra del collezionismo (filatelico).
"Non rammaricarti mai degli appuntamenti mancati: la vita ne ha in serbo tanti altri ancora" era l'invito di mia madre a saper stare al mondo.
Avevo sbagliato gli acquisti, avevo mancato gli appuntamenti - ero uscito con donne facili, per così dire - e ora dovevo decidere cosa fare: se provare ad azzerare gli effetti dell'errore, col rischio di accrescere lo squilibrio emotivo, oppure accettare l'errore per quel che era, e cioè una lezione su come rispettare gli appuntamenti, che andava pagata e da cui trarre insegnamento per vivere appieno la bellezza degli appuntamenti futuri.
Non avrei più dato spazio all'ingenuità, non mi sarei più ostinato a partecipare ai falò a 23, 24 e 25 anni, nel patetico tentativo di recupere ciò che non avevo vissuto tra i 14 e i 17.
Non tutto era perduto, in fondo. Alcuni pezzi - dicevo - erano validi, e li tirai fuori dal "Quick" nero. Gli altri - i figli zoppicanti del mio entusiasmo incontrollato - li lasciai là dentro, con l'idea di consegnare tutto - raccoglitore e francobolli - al miglior mercante su piazza, per proporgli una permuta a un tasso di cambio da rimettere al suo buon cuore, trovando una così ampia disponibilità e così tanta paterna comprensione, da farmi commuovere sino alle lacrime.
Ma questa è un'altra storia, che magari vi racconterò un'altra volta.

Non voglio auto-assolvermi contro ogni evidente colpevole mancanza, anche perché quando ho detto che in filatelia ci sentiamo tutti pronti per una cattedra, non appena lasciamo i banchi di scuola, stavo parlando anche di me, ovviamente.
Per altro verso, però, anche le neuroscienze parlano chiaro: siamo esposti all'effetto Dunning-Kruger per il semplice fatto di respirare.
D'accordo, va bene tutto. Cosa fatta capo ha - così si dice, a voler significare che una
"cosa fatta" non si può disfare e ha i suoi effetti, il suo "capo", che
rappresenta l'inizio di nuovi avvenimenti, i soli che si possono
controllare, o almeno indirizzare, forti dell'esperienza acquisita.
Ma ora vogliamo dire qualcosa anche sul Giano Bifronte?

Io subivo l'effetto Dunning-Kruger, e va bene, ma lui era consapevole di condurre i suoi affari sulla mia ignoranza e presunzione, oppure no?
E - se ne era cosciente - cosa credeva, esattamente? Che sarei rimasto ignorante per sempre?
O forse si accontentava di sfruttare la mia ignoranza fin quando poteva, per poi trovare un altro ignorante con cui riavviare lo stesso meccanismo, per la serie "al mercato vacci e stacci, che gli scecchi vanno e vengono"?
O magari - chissà - era in buona fede, davvero convinto di intermediare pezzi eccezionali, e allora non vi sarebbe stata possibilità di salvezza, ché dalla malafede ci si può ancora redimere, ma se invece si è convinti di stare nel giusto, allora si persevererà (nell'errore) sino alla fine.
Non c'era comunque da stare allegri, qualsiasi fossero le giustificazioni o gli intenti.
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Non mi aspetto che tutti i commercianti moderni abbiano la finezza di ragionamento di un Giulio Bolaffi, e non m'illudo sulla loro capacità di vivere la filatelia alla stregua di una passione erotica, come arrivò a capire all'epoca il figlio Alberto, che a distanza di anni, nel presentare la "Pedemonte", poteva fare un vanto di famiglia l'aver seguito "una vocazione in
netta contrapposizione a quanto è generalmente la norma nel commercio [...] rinunciando al facile guadagno quasi sempre sinonimo di facile qualità".
Però ogni commerciante dovrebbe almeno intuire - nel suo stesso interesse - che la compravendita di francobolli non può risolversi in formulette stereotipate del tipo "acquistare a poco, vendere a tanto" oppure "acquistare qualsiasi cosa, venderla purchessia", che il mercanteggiare quotidiano va sì reso profittevole - ça va sans dire - ma sullo sfondo di un obiettivo di medio-lungo termine più generale: creare un collezionista.
Perché - Monsieur de la Palice mettiti in un angolo e impara come si fa - sarà solo col progressivo formarsi del miglior collezionista possibile che il mercante accrescerà e consoliderà i suoi guadagni, all'interno di un rapporto commerciale che in filigrana mostrerà la preparazione tecnica, la correttezza professionale, la soddisfazione reciproca, che di là di ogni retorica rappresentano il miglior capitale disponibile, per chi voglia restare sul mercato senza apparire uno zimbello.
Giocare ai bordi dell'etica, sul confine tra il lecito e il deontologicamente censurabile, coprirsi dietro la clausola "visto e piaciuto" (e venduto senza possibilità di restituzione, anche solo per scambio con altri pezzi), condurre il proprio business sul campo scivoloso dell'equivoco (di ciò che sul momento sfugge al collezionista, per imperizia o inesperienza) porterà prima o poi a calcare la mano, a oltrepassare il limite: come accadde al Giano Bifronte, che dopo avermi rifilato tanti pezzi dagli annulli squalificanti, non resistette alla tentazione di provarci anche con uno dall'annullo terrificante (con un 9 crazie che lo tradì) risvegliandomi dal torpore (suo malgrado, a suo danno).
Commerciare in francobolli - a livello più nobile - significa guadagnare denaro realizzando i sogni dei collezionisti, saper condurre i propri affari su quel filo teso per aria che a un estremo ha la matematica e all'altro l'anima.
Chi è interessato al guadagno e solo al guadagno - al denaro e a null'altro - dovrebbe valutare seriamente una o più tra le numerose alternative imprenditoriali disponibili, di gran lunga meno rischiose e più profittevoli, anzitutto nel suo interesse, e per ricaduta a beneficio della sostenibilità dell'ecosistema filatelico.
Nessuno pretende che altri sappiano realizzare i nostri sogni di collezionisti, e non penso neppure che tutta questa storia possa rappresentare una lezione universale, perché lo stile non si può insegnare a chi non ce l'ha a portata di mano.
Ciò che vi chiediamo è solo di rispettarci, di non mortificare i nostri desideri, di avere - tutti - un approccio ippocratico alla filatelia: primum non nŏcēre.

Il falò si è ormai spento e sull'orizzonte di un mare placido si stagliano le prime luci dell'alba, che rischiarano il volo dei gabbiani.
Visi assonnati e sbadigli rumorosi, occhi socchiusi ma scintillanti, e l'umidità della sabbia sotto i piedi che si propaga a tutto il corpo, avvolto in un asciugamano sgualcito.
La brezza porta con sé il profumo dei cornetti appena sfornati dal bar che affaccia sulla spiaggia: mi passo la lingua sulle labbra ancora salate, per addolcirle con l'idea del miele che mi aspetta; colazione, sì, ma lungo il viottolo verso il bancone già mi vedo spalmato sul letto di casa, e chissà a quale ora mi risveglierò.
Un'altra notte di ferragosto è andata...
♫Se i giorni ti han chiamato,
tu hai risposto da svogliato,
il sorriso degli specchi è già finito...♬
il sorriso degli specchi è già finito...♬
(Francesco Guccini)
C’è un’obiezione che mi sono sentito rivolgere spesso, in sette anni di Blog: ognuno è libero di collezionare quel che vuole, e se per qualcuno quegli annulli sul 9 crazie non sono un problema, chi sei tu per affermare il contrario?
RispondiEliminaLa domanda sembra legittima solo perché la si isola artatamente da qualsiasi contesto; peccato che ogni formulazione testuale – affermazione, domanda o risposta che sia – necessita di uno sfondo d’ambientazione, per capirne e soppesarne il significato.
Muovo da un punto sinora rimasto implicito – ché tanto mi sembrava ovvio – ma che forse, adesso, è il caso di precisare: “Tesori di Carta” ha un pubblico di riferimento, un suo target, che ne condiziona stile e contenuti. Mettendola in negativo: “Tesori di Carta” non ha la pretesa di parlare a tutti, indistintamente, senza curarsi dell’estrazione sociale e culturale dei lettori, del loro vissuto, dei loro obiettivi.
“Tesori di Carta” si rivolge a persone per cui il collezionismo gioca un ruolo rilevante nella vita, non già un semplice passatemo o un hobby fra i tanti, ma una via privilegiata per capire meglio sé stessi, per raffinarsi, per instaurare e sviluppare e rapporti d’amicizia, in un circolo virtuoso di condivisione, di conoscenze ed esperienze, a beneficio di tutti.
In “Tesori di Carta” non c’è alcun intento di proselitismo – non c’è mai stato, mai ci sarà – ma solo la volontà di “fare e diffondere cultura” (filatelica e non solo) presso chi desidera migliorarsi costantemente nel suo collezionare (e per questa via nel saper vivere e stare al mondo) nell’idea che collezionare – citando Alberto Bolaffi – è, per l’appunto, “uno stadio dell’evoluzione”.
Il desiderio di migliorarsi condurrà per sua natura a diventare più precisi e scrupoli, più attenti, maggiormente consapevoli, e quindi più esigenti, sino a imporsi standard che – visti da fuori – potranno sembrare intransingenti.
Qui, comunque, non si vuole convincere nessuno, ma semplicemente mettere in guardia e alzare la guardia, perché il collezionismo ha già le sue numerose incertezze strutturali, ineliminabili, per aggiungerne altre fittizie o inesistenti. La “avoidable ignorance” va evitata, a ogni costo, con ogni mezzo.
Di regola la piena consapevolezza potrà venire solo con la pratica sul campo, ma talvolta se ne possono creare i presupposti di massima.
Parecchi anni fa – ad esempio – mi fu sconsigliato di acquistare lettere con affrancature non ben interpretabili secondo le tariffe postali dell’epoca, anche quando di qualità eccezionale. Perché – così mi fu detto – ora magari sei attratto dalla qualità e solo dalla qualità, ma col tempo, col raffinarsi della tua cultura e sensibilità, pretenderai una collezione fatta solo di oggetti cristallini sotto il profilo storico-postale, e ritrovartene uno che non lo è – acquistato quando badavi alla qualità e solo alla qualità – ti farà sentire piuttosto stupido.
Con lo stesso spirito, “Tesori di Carta” vuol suggerire accorgimenti e precauzioni, e all’occorrenza artifici e stratagemmi, per non sentirsi stupidi una volta percorsi due metri di strada con le proprie gambe, per evitare da subito – appunto – l’ignoranza evitabile.
Perché, qui, in questo Blog, si parla solo a chi ha deciso di seguire virtù e conoscenza, pur sempre nel rispetto – e i più sentiti auguri di tanta fortuna – verso chi preferisce vivere come un bruto (a cui si chiede solo la cortesia di non trascinare anche gli altri nella brutalità).
Ancora due parole, visto che ormai siamo sulla china delle ovvietà.
RispondiEliminaIl francobollo antico è un oggetto complesso, e avrei voglia di dire multdimensionale, se guardiano alle innumerevoli prospettive da cui è possibile osservarlo (e collezionarlo).
Ha interesse in sé, come oggetto “stand-alone”, quando se ne vogliono studiare le peculiarità dovute all’artigianato di produzione, suscettibile di creare una varietà di situazioni di notevole interesse tecnico (si guardi, da ultimo, al lavoro mastodontico svolto da Tiziano Nocentini sui francobolli toscani).
Ha interesse in relazione al suo scopo, all’uso postale, e vengono allora in rilievo le tipologie di spedizione (lettere, circolari, giornali), le tariffe dell’epoca per ogni casistica (lettere semplici, assicurate, porti multipli, etc.), le combinazioni di valori con cui venivano assolte, le destinazioni, i tragitti e i cammini, i timbri e le tassazioni (e a voler dilatare il perimetro anche i mittenti e i destinatari, e – perché no – il contenuto della spedizione –il testo della lettera, ad esempio – nel caso fosse giunto sino a noi).
Ha un interesse storico, nel caso italiano esaltato da una coincidenza eccezionale: i francobolli (degli Antichi Stati Italiani) appaiono sulla scena all’inizio del cosiddetto “decennio di preparazione” (all’unità nazionale) e si rivelano pertanto testimoni e cronisti dei fatti dell’epoca, con i loro stemmi e le effigi, gli annulli e i colori, aprono uno scorcio su luoghi, personaggi e episodi del passato, scandiscono l’incalzare di eventi avvincenti e drammatici.
E – “last but non least” – i francobolli hanno pure un valore artistico, se si pensa che dietro la loro produzione troviamo invariabilmente le figure più raffinate dell’ambiente dell’epoca (un nome su tutti: Tommaso Aloysio Juvara per i francobolli siciliani, unanimamente riconosciuti “i più belli del mondo”) cosicché si può essere animati dal desiderio di valorizzare il più possibile la dimensione estetica, puntando sull’alta qualità.
Ognuno rimane libero di assecondare la linea d’interesse che desidera – e così abbiamo detto anche questa banalità – e ogni linea imporrà i suoi standard qualitativi (un esempio su tutti: lo stile di Vittorio Morani deve di necessità ricalibrare verso il basso il concetto di qualità) ma deve essere chiaro a tutti che, in senso inverso, è sempre e solo la qualità a imporre il prezzo degli oggetti (o comunque è la qualità a rappresentare la componente principale del prezzo) e perciò, sì, ognuno può anche essere libero di comprare ciò che vuole (persino il 9 crazie traditore, se lo desidera) a condizione – per l’amor del cielo! – di prestare estrema attenzione a prezzo corrisposto, per non ritrovarsi nello stato d’animo del proprietario del falso d’epoca del IV tipo di Napoli, quando si viene messi di fronte ai dati di fatto.
Il “9 crazie traditore” – da leggersi come “il 9 crazie che tradì il Giano Bifronte” (rivelandomi ciò che sino a quel momento mi era ignoto) – è un caso di scuola per capire la qualità.
RispondiEliminaRichiamo – in sintesi – i passi operativi del processo di valutazione: ognugno dei tre parametri qualitativi (margini, freschezza, annullo) si valuta numericamente sulla scala [0, 33], avendo come metrica il cosiddetto “miglior esemplare noto”; un esemplare che raggiungesse il massimo in ogni profilo (margini, freschezza, annullo) totalizerebbe 99 punti (il punteggio 100 spetta d’ufficio al “miglore noto”); la “soglia di collezionabilità” è fissata a 50, nel senso che, sotto il 50, si entra in un’area di mediocrità dove il cosiddetto “rapporto qualità-prezzo” patisce una serie di distorsioni che ne rendono oltremodo complessa la formalizzazione (detto semplice: i prezzi subiscono dei crolli imprevedibili, sotto il punteggio qualitativo 50); giusto per completezza, il Catalogo Sassone quota una qualità collocata intorno al punteggio 80-85 (in altri termini, il Sassone considera “normale” un punteggio in area 80-85; il punteggio 80-85 è lo standard del Sassone).
E ora applichiamo la procedura al “9 crazie traditore”: se pure volessimo valutare al massimo i margini e la freschezza (e la valutazione, per quanto ragionevole, resterebbe un filo generosa) l’annullo si collocherebbe sul punteggio minimo.
Avremmo quindi (con leggera sovrastima): margini, 33; freschezza 33; annullo 0; punteggio complessivo 66. Che di per sé sembrerebbe comunicare una situazione di piena sufficienza, un 6½ a scuola, se così vogliamo dire.
Vi è però pure un’argomento più sfumato, non-quantitativo, giacché dietro uno stesso punteggio vi è una molteplicità di configurazioni possibili, nel senso che diverse valutazioni di profilo possono dar luogo a uno stesso totale: il punteggio 66 può venir fuori da 33+33+0 (come in questo caso) ma anche da 50+10+6, o da 20+39+7, e divertitevi pure a scovare tutte le altre terne di interi positivi che sommano a 66.
E come si dice nel testo del post, non tutto è numero in filatelia, nella valutazione della qualità. Non tutte le terne che sommano a 66 hanno lo stesso valore, lo stesso peso. C’è in particolare una terna privilegiata, e precisamente (22, 22, 22), in cui i tre profili sono massimamente in armonia tra loro (dato il vincolo di sommare a 66) e che funziona “da riferimento” per tutte le altre: se il totale è 66, allora le terne che orbitano in un intorno di (22, 22, 22) – ad esempio (22, 23, 21) oppure (21, 24, 21) e così via – sono da preferire nettamente a quelle che ne sono discoste.
Capire la qualità significa avventurarsi in questo genere di finezze, dove il calcolo artimetico – sia chiaro – ha lo scopo di allenare le proprie capacità su una base chiara, ben comunicabile, che permetta di dialogare costruttivamete, liberi dalla retorica.
Quindi – in conclusione – il “9 crazie traditore” è un francobollo mediocre (tenuto conto, tra l’altro, che è un 9 crazie, non un 2 soldi o un 60 crazie) e tentare di venderlo a prezzo pieno di catalogo (in stile “al mercato vacci e stacci, che gli scecchi vanno e vengono”) rivela la totale mancanza di etica, di deontologia, e forse anche di conoscenze e competenze.